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n. 9-2009 - © copyright

 

MARIA CRISTINA CAVALLARO

Clausola di buona amministrazione e risarcimento del danno


Giornate di studio sulla giustizia amministrativa
dedicate ad E. Cannada Bartoli su
LA TUTELA GIURISDIZIONALE NEI CONFRONTI DEL POTERE AMMINISTRATIVO
E “LE RAGIONI” DELL’INTERESSE PUBBLICO
Siena, Certosa di Pontignano
12 - 13 giugno 2009



L’idea del presente lavoro è quella di analizzare, sia pure sinteticamente, la clausola di buona amministrazione, intesa come principio riferito all’attività e all’organizzazione amministrativa, per cercare di coglierne le possibili connessioni con i profili legati al risarcimento del danno.

La buona amministrazione tra ordinamento comunitario e diritto interno
La nozione di buona amministrazione è senz’altro presente nell’ordinamento comunitario.
La previsione del diritto ad una buona amministrazione è contenuta per la prima volta nella Carta europea dei diritti proclamata a Nizza nel 2000, art 41; il testo è poi confluito con qualche modifica nel Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa, art. II-101[1]. Nel percorso che ha condotto a sancire il diritto in oggetto nella Costituzione europea ha avuto un ruolo rilevante la figura del Mediatore europeo[2], che ha individuato la nozione di “cattiva amministrazione”, e l’elaborazione giurisprudenziale della CGCE[3], che ha ancorato il diritto a una buona amministrazione al dovere di diligenza cui le amministrazioni pubbliche devono conformarsi.
Ci si è chiesti se la buona amministrazione sia un diverso modo di definire il principio di buon andamento di cui all’art. 97 Cost., ovvero se le declinazioni della buona amministrazione abbiano una portata più ampia o più ridotta. Ad esempio, l’art. 41 della CED implica, per diritto alla buona amministrazione, il diritto ad un’amministrazione equa: qui il concetto di equità può essere interpretato sia come equità proporzionale (ma in tal caso la norma si limiterebbe a richiamare il principio di proporzionalità); ovvero può essere inteso come «regola che impone all’amministrazione di scendere sul terreno della parità, del dialogo con il privato, del consenso e dell’accordo di natura privatistica con il medesimo, tutte le volte che ciò sia possibile, relegando l’esercizio del potere in una zona residuale»[4].
Certo è che, nell’ordinamento comunitario, il diritto ad una buona amministrazione ricomprende il diritto ad un’amministrazione, appunto, equa, imparziale, che svolge un’azione proporzionata, che garantisca l’accesso ai documenti, che assicuri «le garanzie di natura essenzialmente procedimentale nei confronti della pubblica amministrazione»[5].
Sotto tale profilo, è stata interpretata come non corrispondente all’esigenza di assicurare il “diritto ad una buona amministrazione” la previsione dell’art. 21 octies della l. 241 del 1990, nella parte in cui prevede la non annullabilità del provvedimento per mancato rispetto di una garanzia procedimentale, qual è la comunicazione di avvio del procedimento[6].
Se l’ordinamento comunitario conosce il diritto ad una buona amministrazione, nel nostro ordinamento prevale la concezione della buona amministrazione come principio[7].
In tal senso, il richiamo immediato com’è evidente è all’art. 97 della Costituzione, che sancisce i principi di imparzialità e di buon andamento[8]. In realtà, si deve segnalare una certa difficoltà nel distinguere tra buon andamento (e imparzialità) della pubblica amministrazione e buona amministrazione: la stessa Corte Costituzionale spesso usa indifferentemente il principio di buon andamento, di buona amministrazione e di giusto procedimento[9]. Pur riconoscendosi che la buona amministrazione è principio costituzionale (e in tal senso è intesa quale sinonimo di amministrazione efficiente, che deve perseguire l’interesse pubblico[10]), le posizioni in argomento sono differenziate tra chi ritiene che la buona amministrazione sia un corollario o un diverso modo di intendere il buon andamento[11] e chi invece, al contrario, riconduce sia l’imparzialità che il buon andamento al principio di buona amministrazione. Come se il principio di buona amministrazione fosse insito nell’ordinamento giuridico, anzi preesistesse ad esso[12].
In ogni caso, come correttamente è stato osservato, la vera forza dell’art. 97 non consiste nell’avere semplicemente previsto il principio del buon andamento, poiché «anche se il predetto principio non risultasse testualmente sancito, dovrebbe considerarsi egualmente vigente, essendo inconcepibile pensare che … esistesse una sorta di facoltà di scelta tra la “buona” e la “cattiva” amministrazione». Viceversa, l’importanza dell’art. 97 consiste «nel modo realistico in cui quest’ultimo è stato strutturato»[13].
E, proprio nella strutturazione del principio di buon andamento, un ruolo rilevante è stato svolto dalla Corte Costituzionale, la quale, se inizialmente ha ritenuto che la clausola di buon andamento non avesse valore giuridico, ha, in un secondo momento, mutato il proprio orientamento, sicché i criteri dell’efficienza e dell’efficacia dell’azione e organizzazione amministrativa hanno cominciato ad essere assunti come indicatori del principio del buon andamento, in quanto principio applicato (almeno inizialmente) per lo più alla gestione delle risorse umane[14].
Oggi, per buon andamento si intende, più in generale, «l’efficienza della azione amministrativa, ossia la sua rispondenza all’interesse pubblico»[15].
La principale novità legata all’interpretazione del buon andamento come espressione dell’efficienza e dell’efficacia dell’azione amministrativa consiste nel fatto che tali categorie (buon andamento, efficienza ed efficacia) sono divenute, nell’interpretazione della Corte Costituzionale, parametro di legittimità delle leggi.
Più in generale, le stesse categorie sono divenute «parametri giuridici» alla stregua dei quali procedere alla riforma della pubblica amministrazione[16]. D’altra parte, l’art. 97 della Costituzione, nel disporre che i pubblici uffici devono essere organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione, rinvia alla legge il compito di dare contenuto ai principi suddetti.
Così, infatti, può essere letta la tendenza legislativa degli ultimi anni: si pensi alla privatizzazione di taluni apparati amministrativi (come la c.d. aziendalizzazione delle ASL o la trasformazione in SPA degli enti pubblici economici) e del pubblico impiego in generale; ma si pensi altresì alla riforma della dirigenza (con la previsione della distinzione tra politica e amministrazione) e all’introduzione del sistema di verifica dei relativi risultati; nonché alla riforma del sistema dei controlli, che ha valorizzato il controllo sull’attività dell’amministrazione, piuttosto che sul singolo atto. Si tratta di una serie di riforme che hanno travolto interi settori delle amministrazioni pubbliche, al fine di assicurare l’efficienza, l’efficacia e l’economicità dell’azione amministrativa[17].
Analogamente a quanto avviene per il principio dell’imparzialità dell’amministrazione, per il quale la dottrina e la giurisprudenza costituzionale hanno evidenziato la duplice portata, nel senso che può essere riferito tanto all’attività dell’amministrazione quanto all’organizzazione, anche il principio del buon andamento e, con esso, il principio della buona amministrazione possono essere intesi quale predicato dell’azione amministrativa e della sua organizzazione.
Sicché, s’è visto, la buona amministrazione rileva per lo più come principio idoneo ad assicurare e a dotare la pubblica amministrazione di un apparato organizzativo efficiente. E anche applicato all’attività amministrativa, il principio in esame diviene sinonimo di amministrazione efficiente: è l’art. 1 della legge 241 del 1990 che per la prima volta dispone che l’azione amministrativa deve conformarsi ai principi di efficienza (intesa come relazione tra risorse e obiettivi), di efficacia (che è invece la relazione tra risultati conseguiti e obiettivi prestabiliti) e di economicità, dando così contenuto alla nozione costituzionale del buon andamento[18].
L’amministrazione efficiente è l’amministrazione capace di realizzare l’interesse pubblico, e l’amministrazione può realizzare l’interesse pubblico se riesce a conseguire un certo risultato. Sotto tale profilo, la buona amministrazione, in quanto sinonimo di amministrazione efficiente, rimanda alla nozione di amministrazione di risultato.
Si tratta di una nozione relativamente recente: la sua rilevanza sul piano giuridico è legata, ancora una volta, alle previsioni contenute nella l. 241 del 1990 (in particolare al «noto incipit dell’art. 1»[19]), nonché alle vicende del rapporto tra politica e amministrazione (per cui il dirigente è oggi responsabile nei confronti del vertice politico, in caso di mancato raggiungimento degli obiettivi prestabiliti[20]) e in generale all’intero processo di riforma che ha investito l’organizzazione e l’attività amministrativa, che ha consentito di attribuire un «rilievo diretto, sul piano giuridico dell’azione e dell’organizzazione amministrativa, al risultato»[21].
«L’amministrazione di risultato è una costruzione dottrinale, destinata a concorrere all’opera di riconduzione a diritto e a ragione della realtà sociale in una fase storica complessa e caotica e al tempo stesso fa parte del diritto vigente, fondandosi su una entità effettiva e reale, il risultato, appunto, che è emerso dal piano esistenziale suo proprio e dalla sfera interna dell’amministrazione acquistando rilevanza giuridica»[22].
Il risultato dell’azione amministrativa acquista cioè rilevanza attraverso un percorso che tenta di prelevare un “elemento” della realtà concreta, qual è appunto il risultato materiale dell’agire amministrativo, per ricondurlo alla realtà giuridica, per modo che la realizzazione di un dato risultato diviene parametro di legittimità dell’azione amministrativa.

La rilevanza giuridica del principio di buona amministrazione: la violazione della buona amministrazione ai fini della illegittimità dell’atto amministrativo e il problema del risarcimento.
È possibile, dunque, instaurare una relazione secondo la quale se la buona amministrazione è l’amministrazione efficiente e l’amministrazione è efficiente in quanto capace di realizzare un dato risultato, ove il risultato non venga conseguito risulta violata la regola della buona amministrazione. Sicché, secondo tale lettura, la violazione del principio di buona amministrazione è rilevante ai fini della validità dell’atto amministrativo.
D’altra parte, nell’evoluzione della nozione di eccesso di potere la dottrina ha di recente sottolineato come, mentre il vizio di violazione di legge deriva, nel suo significato letterale, dalla violazione di specifiche disposizioni normative, il vizio di eccesso di potere può dirsi scaturente dalla violazione dei principi che conformano l’agire amministrativo. L’eccesso di potere non viene più considerato un vizio «ad accertamento sintomatico» e dunque ad accertamento indiretto, ma, in quanto vizio che riguarda le modalità di esercizio del potere, il suo accertamento può avvenire direttamente e in modo simmetrico a quanto accade per il vizio di violazione di legge. Solo che in tal caso si assume violata una data norma, mentre in caso di eccesso di potere si palesa la violazione di un dato principio dell’ordinamento[23]: principio di ragionevolezza, proporzionalità, ma anche principio di buona amministrazione.
La qualificazione della buona amministrazione come principio/clausola generale ha una prima rilevante implicazione ai fini della connessione che intercorre tra buona amministrazione e tutela risarcitoria che scaturisce dall’illegittimo esercizio della funzione amministrativa: se cioè l’atto amministrativo lesivo del principio di buona amministrazione è illegittimo, lo stesso, ove produttivo di danno, obbliga l’amministrazione al relativo risarcimento.
Ma quando l’atto amministrativo può ritenersi illegittimo per violazione della buona amministrazione? Quando non assicura adeguate garanzie procedimentali o quando non realizza il risultato sperato?
Sotto questo profilo, il tema della buona amministrazione si presta a due letture sostanzialmente opposte. Si può ritenere che la buona amministrazione, intesa come amministrazione efficiente capace di conseguire un risultato utile e apprezzabile, implichi una dequotazione dei vizi di forma dell’atto amministrativo, sul modello di quanto previsto dall’art. 21 octies della l. 241/90[24]. Per contro si può sostenere che la buona amministrazione, intesa come diritto ad un’amministrazione efficiente, equa, imparziale (secondo la prospettiva comunitaria), valorizzi «le garanzie di natura essenzialmente procedimentale nei confronti della pubblica amministrazione»[25], sicché, contrariamente a quanto sopra rilevato, la previsione dell’art. 21 octies appare stavolta contrastante con l’esigenza di assicurare le tutele connesse al diritto ad una buona amministrazione.
Ciò, ovviamente, non vuol dire che, ove si intenda valorizzare il risultato dell’azione amministrativa, non vengano assicurate le garanzie del procedimentali proprie del diritto alla buona amministrazione: la garanzia di tale diritto, infatti, può essere recuperata attraverso il principio del giusto procedimento[26]. Si tratta, semmai, di individuare il giusto equilibrio tra le garanzie procedimentali e l’esigenza di assicurare un risultato apprezzabile.
Il punto cruciale, ancora una volta, consiste nella necessità di «fare emergere in sede giudiziaria la c.d. legalità di risultato», attraverso quello che è stato definito come «un controllo giurisdizionale sulla congruità del provvedimento a perseguire il risultato previsto»[27].
Sul rapporto tra principio di legalità e risultato dell’azione amministrativa le posizioni sono differenziate. Secondo un certo orientamento, il risultato ha una dimensione essenzialmente pratica e non può acquistare rilevanza giuridica: la rilevanza del risultato sul provvedimento sarebbe solo indiretta[28], e il mancato raggiungimento del risultato non sarebbe di per sé sindacabile, in quanto attiene al merito dell’azione amministrativa. Diversa la posizione di chi invece ritiene che il risultato, attraverso quel processo di sussunzione della realtà concreta alla sfera giuridica (di cui s’è detto), coincide con l’oggetto del provvedimento e diviene pertanto incorporato in uno degli elementi essenziali del provvedimento[29].
La giurisprudenza da tempo adotta il principio di buona amministrazione come parametro alla stregua del quale giudicare della illegittimità del provvedimento o, al contrario, salvarne la legittimità. Così, è illegittima, perché lesiva del principio di buona amministrazione, la revoca di una gara pubblica disposta dalla stazione appaltante in assenza di documentate e obiettive esigenze di interesse pubblico. Esigenze, cioè, idonee a dimostrare che la trattativa privata, che la stazione appaltante avrebbe voluto avviare in luogo della pubblica gara, avrebbe garantito una maggiore efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa, tali per cui percorrere la via della trattativa privata sarebbe stata una scelta di buona amministrazione[30]. Viceversa, si è ritenuta legittima la delibera di un Comune del meridione con la quale si decideva di non rinnovare la concessione del servizio di gestione delle contravvenzioni alle violazioni del Codice della Strada e dei verbali per le violazioni amministrative ad una società privata, per procedere invece all’internalizzazione del servizio medesimo. Osservano i giudici d’appello che tale scelta è sicuramente coerente con l’esigenza di risanamento della situazione economica del Comune, che si trova in stato di dissesto finanziario, e la delibera impugnata appare conforme al principio di buona amministrazione, in quanto consente di non aggravare la posizione debitoria e mantenere la coerenza con l’ipotesi di bilancio riequilibrato predisposta dallo stesso[31].
Va da sé che, nel primo caso, la pronuncia di illegittimità della revoca della pubblica gara, per violazione del principio di buona amministrazione, apre la via del risarcimento del danno, ove ricorrano i requisiti dell’illecito; nel secondo caso, invece, la tutela risarcitoria è naturalmente esclusa, in quanto la buona amministrazione non è stata violata ed il provvedimento è giudicato legittimo.

La nozione di buona amministrazione ai fini della prova della colpa della p.a. nell’azione per il risarcimento danni
È però possibile cogliere un’altra relazione tra violazione della buona amministrazione e risarcimento del danno, che merita una apposita riflessione.
Il principio di buona amministrazione ha assunto, infatti, un diverso ruolo nella giurisprudenza (ordinaria e amministrativa), che l’ha riferito essenzialmente alla pubblica amministrazione come apparato organizzativo. Nel senso che la violazione del principio/clausola di buona amministrazione da parte dell’amministrazione intesa come apparato è divenuta decisiva ai fini della prova della colpa della p.a. nell’azione per il risarcimento danni da illegittimo esercizio della funzione amministrativa.
Il riferimento è alla nota sentenza della Corte di Cassazione n. 500/99 che ha abbandonato il criterio della colpa in re ipsa (desumibile cioè, con presunzione assoluta, dall’illegittimità del provvedimento) e ha richiesto che fosse il privato danneggiato a dover provare la colpa dell’amministrazione, intesa come apparato, che ha agito in violazione delle regole della «buona amministrazione, imparzialità e correttezza»[32].
Com’è noto, a partire dalla l. 205 del 2000, il giudice amministrativo è divenuto l’unico giudice chiamato a pronunciarsi sulle questioni inerenti il risarcimento dei danni scaturenti da illegittimo esercizio della funzione amministrativa[33] e, in questa veste, ha inizialmente tentato di alleggerire l’onere probatorio del privato, il quale ai sensi dell’art. 2697 c.c. avrebbe dovuto provare la sussistenza di tutti i presupposti dell’illecito e, tra questi, anche l’elemento soggettivo (una volta abbandonato il criterio della colpa in re ipsa).
Così può essere spiegato il tentativo di ricondurre la responsabilità risarcitoria conseguente all’adozione di un provvedimento illegittimo al paradigma della responsabilità da inadempimento dell’obbligazione, attraverso la qualificazione del rapporto che si genera tra amministrazione e privato con l’avvio del procedimento amministrativo come contatto sociale qualificato.
Lo scopo, dichiarato nella nota sentenza del Consiglio di Stato n. 4239 del 2001[34], era quello di applicare, ai soli fini della prova dell’elemento soggettivo, il principio di cui all’art. 1218 c.c., che prevede l’inversione dell’onere della prova nella responsabilità contrattuale (sicché è il debitore a dovere dimostrare l’impossibilità sopravvenuta della prestazione per causa a lui non imputabile). L’effetto è stato quello di delineare un modello di responsabilità aquiliana con inversione dell’onere della prova dell’elemento soggettivo. In altre parole, la giurisprudenza amministrativa non si è mai spinta ad ipotizzare che l’amministrazione potesse rispondere dei danni conseguenti all’illegittimità dei propri provvedimenti a titolo di responsabilità contrattuale, o responsabilità da contatto[35]; ma ha affermato che il paradigma della responsabilità resta l’art. 2043 del c.c., nel quale viene innestato il principio dell’art. 1218 (in tema di inversione dell’onere probatorio), ai soli fini della prova dell’elemento soggettivo, con la conseguenza che deve essere l’amministrazione a dimostrare di avere agito senza colpa.
Questo orientamento giurisprudenziale, in parte ripreso dalla Corte di Cassazione[36], è stato poi abbandonato, poiché si è preferito aderire integralmente alla tesi che ricostruisce la responsabilità conseguente all’adozione di un provvedimento illegittimo secondo il paradigma della responsabilità aquiliana[37]. Permane, tuttavia, la rinuncia al criterio della “culpa in re ipsa”, giustificata probabilmente dal fatto che la giurisprudenza ha individuato, nella prova della colpa dell’amministrazione che il danneggiato deve fornire attraverso la dimostrazione che la stessa ha agito violando il principio di buona amministrazione, la nuova “rete di contenimento” del risarcimento dell’interesse legittimo, capace cioè di contenere e ridurre le pretese risarcitorie dei cittadini danneggiati.
E tuttavia, il Consiglio di Stato ha preso le distanze anche dalla c.d. colpa d’apparato perché questa si traduce in una sorta di “probatio diabolica” a carico del danneggiato e perché si finisce con l’imputare uno stato psicologico, che è proprio di una persona fisica, ad una struttura organizzativa che non solo non è facilmente individuabile, ma che, in quanto soggetto impersonale, non si presta ad una qualificazione in termini psicologici[38].
La conseguenza, secondo i recenti orientamenti della giurisprudenza amministrativa, è che sul privato grava comunque l’onere di provare che l’amministrazione abbia violato le regole di buona amministrazione, ma tale prova non deve essere piena, essendo piuttosto sufficiente individuare una serie di elementi indiziari (c.d. presunzioni semplici, di cui all’art. 2729 c.c., alla stregua del quale «le presunzioni non stabilite dalla legge sono lasciate alla prudenza del giudice, il quale non deve ammettere che presunzioni gravi precise e concordanti»). L’amministrazione, a sua volta, può invocare a propria discolpa l’art. 2236 c.c., che, in tema di colpa professionale, dispone che «se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave»[39].
In altre parole, tramontata la presunzione assoluta della negligenza dell’amministrazione che ha adottato un atto illegittimo, la prova della colpa può essere fornita secondo elementi indiziari, rispetto ai quali è ammessa la prova contraria da parte della p.a., che può dimostrare l’assenza di colpa attraverso il richiamo all’art. 2236 c.c.
Qui si innesta, tuttavia, un rilievo critico. L’art. 2236 c.c. trova applicazione nell’ambito della responsabilità contrattuale, ma non in tema di responsabilità extracontrattuale, posto che l’art. 2043 non prevede alcuna gradazione dell’elemento soggettivo, ma espone l’autore di qualunque fatto doloso o colposo al risarcimento del danno ingiusto. La norma, semmai, potrebbe operare a favore del funzionario agente che può far valere la lieve negligenza per liberarsi da responsabilità nei riguardi dell’amministrazione. Il rapporto tra amministrazione e funzionario, infatti, è riconducibile allo schema contrattuale, sicché la responsabilità amministrativa può essere inquadrata, con tutte le deroghe previste dalla legge, nel genus della responsabilità contrattuale[40]. Da qui l’applicazione del 2236 c.c., secondo un principio già noto nel nostro ordinamento, quello della gradazione della colpa del funzionario agente, tale per cui lo stesso non risponde (a titolo di responsabilità amministrativa) per colpa lieve, ma solo per dolo o colpa grave (art. 1 l. 14/01/1994, n. 20). Ma la colpa lieve del funzionario non può esonerare anche l’amministrazione dall’obbligo di risarcire il danno da questi prodotto ai terzi, a titolo di responsabilità civile: ne deriverebbe una violazione dell’art. 28 della Costituzione.

La prova della colpa dell’amministrazione come nuova “rete di contenimento” per il risarcimento del danno da lesione di interessi legittimi: critica
In sintesi, come già si è avuto modo di sottolineare, una volta aperta la via della risarcibilità del danno conseguente alla lesione dell’interesse legittimo, la prova della colpa dell’amministrazione, attraverso la dimostrazione che la stessa ha violato la buona amministrazione, è divenuta la nuova rete di contenimento del risarcimento dell’interesse legittimo.
La buona amministrazione, cioè, nell’impianto dell’azione risarcitoria per lesione di interesse legittimo, è divenuta sinonimo di amministrazione diligente: se è violata la buona amministrazione, la condotta della p.a è una condotta negligente, dunque colposa.
Permane tuttavia la difficoltà di inquadrare sul piano teorico la questione dell’elemento soggettivo nell’illecito civile dell’amministrazione. Non v’è dubbio, infatti, che nonostante gli sforzi di rinunciare alla nozione di colpa d’apparato, gli indici presuntivi della colpa continuano ad essere riferiti all’amministrazione, e non al singolo agente; a questi tuttavia viene necessariamente riferita, eventualmente, la lieve negligenza che esonera anche l’amministrazione dalla responsabilità verso terzi, con evidente discrasia sul piano concettuale: ancora una volta, la colpa è dell’amministrazione o del suo organo?[41] Senza contare la difficoltà di applicare l’art. 2236 c.c., che riguarda l’esonero per colpa lieve della responsabilità contrattuale del professionista nelle prestazioni d’opera professionale, al paradigma della responsabilità extracontrattuale.
In questo quadro, deve segnalarsi il tentativo, più condivisibile, di delineare una nozione c.d. oggettiva di colpa, mitigata dall’errore scusabile: la “colpevolezza” dell’amministrazione deve ritenersi sussistente quando la violazione commessa dall’amministrazione sia grave e «se essa matura in un contesto in cui all’indirizzo dell’amministrazione sono formulati addebiti ragionevoli» tali da evidenziare «la negligenza e l’imperizia dell’organo nell’assunzione del provvedimento viziato»; la stessa colpevolezza è, viceversa, negata laddove sia riscontrabile l’esistenza di un errore scusabile[42]. Deve trattarsi, cioè, di un error iuris che può essere considerato «eccezionalmente scusabile solo se imputabile ad una oggettiva oscurità (attestata, eventualmente, da persistenti contrasti interpretativi) della norma violata, o se altrimenti inevitabile alla stregua delle indicazioni fornite dalla Corte Costituzionale (sent. n. 384 del 1988 e altre)»[43].
La prospettiva è rovesciata: mentre secondo l’orientamento che invoca l’applicabilità dell’art. 2236 c.c. l’amministrazione risponde solo in caso di dolo o colpa grave, secondo il citato orientamento l’amministrazione risponde comunque dei danni arrecati, salvo che l’illegittimità del provvedimento non sia legata ad una oggettiva difficoltà di interpretare il quadro normativo, complesso e contraddittorio. Non c’è qui gradazione dell’elemento soggettivo, nel senso che non rileva la gravità della negligenza, quanto piuttosto la complessità dell’intreccio normativo che l’amministrazione deve districare[44].
Parte della nostra giurisprudenza amministrativa, cioè, ha recepito un orientamento proveniente dalla giurisprudenza comunitaria, che utilizza, a fini risarcitori, il criterio della manifesta e grave violazione del diritto comunitario, che altro non è se non un diverso modo di definire la colpa in re ipsa: la tutela risarcitoria scatta se l’atto presenta una manifesta e grave violazione del diritto comunitario, desunta, a contrario, da quegli stessi elementi che nel nostro ordinamento sono utilizzati per la configurabilità dell’errore scusabile[45]. Il Consiglio di Stato ha, così, ritenuto che, nel caso in cui ci si trovi in presenza di un complesso intreccio delle disposizioni normative, cui si aggiunge una declaratoria di illegittimità costituzionale, l’illegittimità dell’atto può essere legata alla difficoltà di interpretare correttamente il dato normativo da applicare alla fattispecie concreta: in tal caso l’errore nel quale è incorsa l’amministrazione, in quanto simile ad un error iuris, deve ritenersi scusabile[46].
La giurisprudenza comunitaria, in realtà, è andata oltre, ritenendo che la normativa di uno stato membro che «subordina alla prova della colpa o del dolo la concessione del risarcimento danni alle persone lese da una violazione del diritto comunitario sugli appalti pubblici o delle norme nazionali che lo recepiscono, è incompatibile con quanto stabilito dagli artt. 1, n. 1, e 2, n. 1, lett. c), della direttiva del Consiglio 21 dicembre 1989, 89/665/CEE, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori»[47]. Ciò perché, prosegue la Corte di Giustizia, «la difficoltà di provare che gli atti illeciti dello Stato o degli enti pubblici sono stati posti in essere colposamente o dolosamente può condurre, nella pratica, a che i ricorsi presentati dai soggetti lesi al fine di ottenere l’indennizzo per i danni subiti siano lenti e, molto probabilmente, inefficaci. Una situazione simile può mettere in discussione l’effetto utile del disposto dell’art. 1, n. 1, della direttiva, cioè la necessità che esistano ricorsi efficaci e rapidi che consentano di indennizzare i soggetti lesi da violazioni del diritto comunitario in materia di appalti pubblici e delle norme nazionali che traspongono tale diritto»[48].

Il recupero della colpa in re ipsa. La necessità della prova del danno
Quanto sin qui osservato pone una questione, così sintetizzabile: perché rinunciare al criterio della colpa in re ipsa per richiedere invece la prova della colpa dell’amministrazione, attraverso la dimostrazione della violazione della regola di buona amministrazione?
È opinione di chi scrive che la prova della colpa dell’amministrazione non deve essere fornita dal danneggiato, poiché essa è implicita nella stessa illegittimità del provvedimento amministrativo. Ai sensi dell’art. 43 c.p., la colpa, quale condotta negligente, si traduce nella «consapevole violazione di leggi, regolamenti o norme di condotta non scritte». Sicché è del tutto evidente che l’adozione di un provvedimento illegittimo, in quanto non conforme a legge o regolamenti, integra gli estremi della condotta negligente, quindi colposa[49].
Si aggiunga che, poiché si tratta di risarcimento di danni conseguenti all’adozione di un provvedimento amministrativo illegittimo, l’amministrazione si muove nell’ambito di una attività che è retta dal principio di legalità: con la conseguenza che l’illegittimità dell’atto è già espressione di una violazione del principio di legalità. Non c’è altro che il privato deve dimostrare ai fini della prova di una condotta negligente.
In altri termini, ai fini della tutela risarcitoria, il danneggiato non deve provare la sussistenza della colpa dell’amministrazione, poiché essa è, secondo il criterio della colpa in re ipsa, incorporata nella illegittimità del provvedimento (tranne, eventualmente, che non si versi in ipotesi di “error iuris”, per ciò stesso scusabile).
La tesi della colpa in re ipsa è stata abbandonata, a partire dalla pronuncia della Cassazione n. 500 del 1999, non perché inidonea a provare la colpa dell’amministrazione, ma perché, al contrario, provava troppo, in quanto introduceva una forma di responsabilità oggettiva a carico dell’amministrazione, non conforme alle esigenze di una responsabilità “personale” propria di uno Stato di diritto. In altri termini, la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha cercato di far cadere la presunzione assoluta di colpa, attraverso il ricorso al regime delle presunzioni semplici di cui all’art. 2729 c.c., ma non ha escluso che l’illegittimità dell’atto fosse un elemento indiziario dal quale ricavare presuntivamente la sussistenza di una condotta colposa della p.a.
Deve però osservarsi che la colpa in re ipsa non implica che l’amministrazione risponda del danno prodotto a titolo di responsabilità oggettiva, poiché essa è chiamata a rispondere del danno causato da un proprio provvedimento illegittimo, il che significa che ha tenuto una condotta negligente; mentre lo schema della responsabilità oggettiva ricorre quando l’agente risponde dei danni causati ai terzi dalla propria attività, a prescindere dalla sussistenza o meno di una condotta colposa. Secondo il criterio della colpa in re ipsa, la colpa non è irrilevante, è presunta[50].
Il recupero della colpa in re ipsa, pertanto, non si traduce in un automatismo, tale per cui annullato l’atto l’amministrazione è tenuta al risarcimento. Perché, comunque, ciò che il privato deve dimostrare è la sussistenza di un danno ingiusto, quale conseguenza immediata e diretta della condotta negligente dell’amministrazione.
In altre parole, il fondamento della responsabilità risarcitoria, di tutti i soggetti dell’ordinamento e, quindi, anche della pubblica amministrazione, consiste nell’avere adottato un comportamento doloso o colposo causativo di un danno ingiusto. Se il danno c’è, nel senso che è provato, va risarcito; altrimenti, si può avere l’ipotesi di un provvedimento illegittimo (espressione di una condotta negligente), ma che non ha prodotto un danno[51].
Nel codice civile del 1865 prevaleva senz’altro la funzione sanzionatoria della responsabilità civile, che presupponeva necessariamente la sussistenza di una condotta colposa (sicché, si diceva, nessuna responsabilità senza colpa). Nel codice civile del ’42, invece, la trasformazione economica della società lascia spazio all’idea che la responsabilità civile assolva ad una nuova funzione: la distribuzione delle perdite, in una con l’allocazione dei costi[52]. Vale la pena di ricordare quanto lucidamente osservato da Orlando: «il diritto moderno tende verso una radicale trasformazione dell’istituto della responsabilità per cui questo finirà col rendersi indipendente dal vecchio elemento della colpa, per fondarsi su più larga base, e comprendere anche il principio che chiunque esercita un’industria o imprende un servigio qualsiasi, risponde dei rischi e dei danni che tale intrapresa può altrui produrre, quantunque a carico dell’intraprenditore non possa, in concreto, addebitarsi alcuna negligenza o imprevidenza»[53]. Ecco allora il passaggio dalla colpa al rischio, dalla sanzione inferta nei confronti di colui che ha prodotto il danno, all’attenzione che l’ordinamento indirizza nei confronti del danneggiato.
È l’art. 2043 c.c. che, nel porre il requisito dell’ingiustizia del danno ai fini del risarcimento, ridimensiona l’aspetto sanzionatorio della responsabilità, per accentuare invece il fatto obbiettivo della lesione, «dando così forma tecnica allo spostamento di attenzione dall’agente alla vittima»[54].
Se così stanno le cose, non c’è necessità di far ricadere sul danneggiato l’onere di provare la colpa dell’amministrazione, al fine di “contenere” le pretese risarcitorie dei privati, poiché i presupposti della tutela risarcitoria sono tutti nel sistema: c’è un’amministrazione che ha adottato un atto illegittimo e c’è un soggetto destinatario dell’atto che lamenta un pregiudizio.
A maggior ragione, se sono vere le osservazioni svolte in precedenza: se, cioè, come s’è tentato di dimostrare, l’atto amministrativo che viola il principio di buona amministrazione è illegittimo, la prova della colpa della stessa amministrazione è già ampiamente contenuta nell’illegittimità dell’atto medesimo.
In altri termini, ove l’illegittimità dell’atto derivi dalla violazione del principio di buona amministrazione, il privato dovrebbe prima dimostrare la violazione della buona amministrazione ai fini della illegittimità del provvedimento e poi nuovamente provare la stessa violazione per fornire quegli indici indiziari utili ai fini della colpa della stessa amministrazione.
Per questa via, si potrebbe sostenere che tutte le volte in cui l’amministrazione adotta un atto amministrativo illegittimo, essa viola la regola di buona amministrazione. E, ancora una volta, la prova della colpa, intesa come violazione della regola di buona amministrazione, ai fini della tutela risarcitoria risulterebbe superflua.
Per concludere: la prova che il danneggiato deve fornire, in uno schema di responsabilità aquiliana applicato all’esercizio illegittimo del potere amministrativo, non riguarda l’elemento soggettivo (poiché esso è già provato dall’esistenza di un atto illegittimo), ma riguarda la produzione del danno come conseguenza immediata e diretta della condotta della p.a. Sicché, se proprio si vuole continuare ad usare la categoria della rete di contenimento, essa va identificata con l’onere della prova del danno che comunque grava sulla parte privata.
Per riprendere le osservazioni svolte da autorevole dottrina, secondo cui «se è risarcibile è perché è diritto soggettivo»[55], verrebbe da aggiungere: se è risarcibile è perché c’è un danno ingiusto.

 

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[1] D. U. Galetta, Il diritto ad una buona amministrazione europea come fonte di essenziali garanzie procedimentali nei confronti della pubblica amministrazione, in Riv. It. Dir. Pubbl. Com. 2005, 819.
[2] M. P. Chiti, Il mediatore europeo e la buona amministrazione comunitaria, in Riv. It. Dir. Pubbl. Com. 2000, 303.
[3] A. Serio, Il principio di buona amministrazione nella giurisprudenza comunitaria, in Riv. It. Dir. Pubbl. Com. 2008, 237.
[4] A. Zito, Il “diritto ad una buona amministrazione” nella carta dei diritti fondamentali dell'unione europea e nell'ordinamento interno, in in Riv. It. Dir. Pubbl. Com. 2002, 425, secondo il quale sul versante della tutela giurisdizionale del privato, ulteriore implicazione della buona amministrazione dovrebbe essere quella della rinuncia alla pregiudizialità, per non gravare l’azione risarcitoria di un termine decadenziale.
[5] D. U. Galetta, op. cit.
[6] D. U. Galetta, op. cit.
[7] Inquadra la “buona amministrazione” tra i principi generali dell’azione amministrativa, A. Massera, I principi generali dell’azione amministrativa tra ordinamento nazionale e ordinamento comunitario, in Dir. amm. 2005, 707, secondo il quale il principio in esame è idoneo «a sprigionare un intenso contenuto valoriale, da vero e proprio principio generale del diritto amministrativo».
[8] Si veda A. Police, Principi e azione amministrativa, in F.G. Scoca (a cura di) Diritto Amministrativo, Torino 2008, che osserva come «il principio di buona amministrazione è stato avvertito in Italia già prima dell’avvento dell’ordinamento giuridico fascista, così come è stato codificato in ordinamenti diversi dal nostro». «Si tratta» prosegue l’A. «di una esigenza insita in ogni ordinamento giuridico statale … che si pone come uno dei principi giuridici essenziali tra quelli che regolano l’attività delle persone giuridiche pubbliche. Non si parla quindi di principi di buona amministrazione ma, al singolare, di principio di buon andamento. Ed è in questo senso che il principio è stato assunto nella Carta costituzionale che all’art. 97 dispone che siano assicurati nell’Amministrazione il buon andamento e l’imparzialità», p. 210.
[9] V. al riguardo Corte Cost. n. 62/2009, 390/2008 e 156/2007 ove la Corte individua una “buona amministrazione” che è corollario del buon andamento e incorpora le garanzie del principio del giusto procedimento.
[10] La posizione di chi definisce la buona amministrazione come principio generale dell’ordinamento di cui all’art. 12 delle preleggi sembra oggi minoritaria. Sul punto si veda ancora A. Police, Principi e azione amministrativa, cit. per gli opportuni riferimenti bibliografici.
[11] Così ad esempio F. Salvia, La buona amministrazione e i suoi miti, in Dir. soc. 2004, 551.
[12] In tal senso A. Police, Principi e azione amministrativa, cit.
[13] F. Salvia, La buona amministrazione e i suoi miti, cit. …
[14] Si tratta di un processo il cui inizio può essere datato intorno alla fine degli anni ottanta: si veda a titolo esemplificativo Corte Cost. 28 aprile 1989, n. 242; Corte Cost. 30 luglio 1993, n. 359. Su tali questioni v. più diffusamente, G. Corso, Manuale di diritto amministrativo, Torino 2008, p. 45.
[15] v. G. Corso, op. cit., p. 45; nonché G. Corso, Amministrazione di risultati, in Annuario AIPDA 2002, Milano 2003, p. 127. In argomento, si veda altresì A. Police, Principi e azione amministrativa, cit. p. 211.
[16] Così G. Corso, Manuale …, cit.
[17] Ancora G. Corso, Manuale …, cit. p. 47.
[18] Si veda al riguardo M. Cammelli, Amministrazione di risultato, in Annuario AIPDA 2002, cit., 107. Più in generale, sulla rilevanza del principio di efficacia dell’azione amministrativa si veda M. Immordino, Revoca degli atti amministrativi e tutela dell’affidamento, Torino 1999.
[19] L’espressione è di M. Cammelli, op. cit., p. 109.
[20] Art. 21 del d. lgs. 30 marzo 2001, n. 165, sulla c.d. responsabilità dirigenziale.
[21] Così ancora M. Cammelli, op. ult. cit., p. 109.
[22] L. Iannotta, Merito, discrezionalità e risultato nelle decisioni amministrative, in M. Immordino – A. Police (a cura di), Principio di legalità e amministrazioni di risultato, Torino 2003, 431
[23] F.G. Scoca - M. D’Orsogna, L’invalidità del provvedimento amministrativo, in F.G. Scoca (a cura di) Diritto Amministrativo, cit. p. 311.
[24] F. Salvia, op. cit.
[25] D. U. Galetta, op. cit.
[26] In tal senso si veda Corte Cost. n. 62/2009, 390/2008 e 156/2007: sembra prendere corpo, cioè, nella giurisprudenza della Corte Costituzionale l’idea di una “buona amministrazione”, corollario del buon andamento, che incorpora le garanzie del principio del giusto procedimento. Anche se, va ricordato, la rilevanza costituzionale del giusto procedimento, come principio capace di escludere la legittimità costituzionale delle leggi provvedimento è stata più volte negata: cfr. Corte Cost. n. 241/2008. Sul rapporto tra invalidità del provvedimento e risultato si veda M. D’Orsogna, Teoria dell’invalidità e risultato, in M. Immordino – A. Police (a cura di), Principio di legalità e amministrazioni di risultato, cit. p. 75-76
[27] Cfr. ancora F. Salvia, La buona amministrazione e i suoi miti, cit. p. 553; sulla stessa questione, V. Cerulli Irelli, Invalidità e risultato amministrativo, in M. Immordino – A. Police (a cura di), Principio di legalità e amministrazioni di risultato, cit. p. 81.
[28] S. Perongini, Principio di legalità e risultato amministrativo, in M. Immordino – A. Police (a cura di), Principio di legalità e amministrazioni di risultato, cit., p. 47.
[29] L. Iannotta, Merito, discrezionalità e risultato nelle decisioni amministrative, in M. Immordino – A. Police (a cura di), Principio di legalità e amministrazioni di risultato, cit.
[30] In tal senso Cons. Stato sez. V, 11 maggio 2009, n. 2882, che di fatto, ancorando la revoca di un provvedimento all’esigenza di garantire l’efficacia dell’azione amministrativa, aderisce all’orientamento espresso già da tempo in dottrina: M. Immordino, Revoca degli atti amministrativi e tutela dell’affidamento, cit.
[31] Cons. Stato sez. V, 29 aprile 2009, n. 2735: sembra potersi osservare che, ove il risultato inseguito dall’amministrazione consista in un risparmio di spesa, si tratta sempre di un risultato utile ai fini della legittimità dei relativi provvedimenti.
[32] Si tratta di una delle sentenze più annotate, sia dalla dottrina amministrativistica, sia da quella civilistica: a titolo puramente esemplificativo si possono citare G. Abbamonte, L’affermazione legislativa e giurisprudenziale della risarcibilità del danno derivante dall’esercizio illegittimo della funzione amministrativa. Profili sostanziali e processuali, in Cons. Stato 2000, II, 743, G. Alpa, Sulla sentenza n. 500 del 1999 delle Sezioni Unite della Cassazione relativa alla risarcibilità della lesione degli interessi legittimi, in Giust. Civ., 1999, II, 427, F.D. Busnelli, Dopo la sentenza n. 500. La responsabilità civile oltre il «muro» degli interessi legittimi, in Riv. Dir. Civ. 2000, 335, R. Caranta, La pubblica amministrazione nell’età della responsabilità, in Foro it., 1999, I, 3201, C. Castronovo, L’interesse legittimo varca la frontiera della responsabilità civile, in Europa e diritto privato 1999, p. 1262, F. Fracchia, Dalla negazione della responsabilità degli interessi legittimi all’affermazione della risarcibilità di quelli giuridicamente rilevanti: la svolta della Suprema corte lascia aperti alcuni interrogativi, in Foro it., 1999, I, 3212, G. Greco, Interesse legittimo e risarcimento dei danni, crollo di un pregiudizio sotto la pressione della normativa europea e dei contributi della dottrina, in Riv. It. Dir. Pubbl. Com. 1999, 1126, A Luminoso, Danno ingiusto e responsabilità della p.a. per lesione di interessi legittimi nella sentenza n. 500/1999 della Cassazione, in Dir. Pubbl. 2000, 55, A. Orsi Battaglini- C. Marzuoli, La Cassazione sul risarcimento del danno arrecato dalla pubblica amministrazione: trasfigurazione e morte dell’interesse legittimo, in Dir. Pubbl. 1999, 488, A. Romano, Sono risarcibili; ma perché devono essere legittimi?, in Foro it., 1999, I, 3222, F. Satta, La sentenza n. 500 del 1999: dagli interessi legittimi ai diritti fondamentali, in Giur. Cost. 2000, 3244, F.G. Scoca, Risarcibilità e interesse legittimo, in Dir. Pubbl. 2000, 13.
[33] Sulle novità introdotte dalla l. 205 del 2000 la bibliografia è assai ampia; tra i più recenti si veda anche per la bibliografia riportata E. Picozza, Il processo amministrativo, Milano 2008; meritano di essere segnalate inoltre le lucide osservazioni svolte da E. Cannada Bartoli, Osservazioni minime sul cumulo di azioni nella l. 21 luglio 2000, n. 205, in Giur. It. 2001, 1513.
[34] Cons. Stato, sez. V, 6 luglio 2001, n. 4239, in Riv. Giur. Ed. 2002, I, 909, con nota di M.C. Cavallaro, Atto amministrativo illegittimo: un caso di responsabilità contrattuale?
[35] Sul tema della responsabilità dell’amministrazione per l’illegittimo esercizio della funzione come responsabilità da inadempimento dell’obbligazione si rinvia a quanto sostenuto in M.C. Cavallaro, Potere amministrativo e responsabilità civile, Torino 2004.
[36] Cass. Sez. I, 10 gennaio 2003, n. 157, ove la Corte ha affermato che «il fenomeno, tradizionalmente noto come lesione dell’interesse legittimo, costituisce in realtà inadempimento alle regole di svolgimento dell’azione amministrativa, ed integra una responsabilità che è molto più vicina alla responsabilità contrattuale nella misura in cui si rivela insoddisfacente, e inadatto a risolvere con coerenza i problemi applicativi dopo la Cassazione 500/99/SU, il modello, finora utilizzato, che fa capo all’art. 2043 c.c., con le relative conseguenze di accertamento della colpa».
[37] L’inquadramento della responsabilità dell’amministrazione per illegittimo esercizio della funzione nel paradigma della responsabilità aquiliana è oggi prevalente, anche se non mancano alcuni rilievi critici. Si veda ad esempio F. Francario, Inapplicabilità del provvedimento amministrativo ed azione risarcitoria, in Dir. amm. 2002, 23.
[38] In tal senso Cons. Stato sez. V, 10 gennaio 2005, n. 32, in Nuove Aut. 2005, 741, con nota di M.C. Cavallaro, La rilevanza dell’elemento soggettivo nella struttura dell’illecito della pubblica amministrazione: un ulteriore chiarimento del Consiglio di Stato.
[39] Secondo Cons. Stato sez. V, 10 gennaio 2005, n. 32 «appaiono condivisibili i riferimenti, da più parti suggeriti, al criterio di imputazione soggettiva della responsabilità del professionista di cui all’art. 2236 c.c. che, riconnettendo il grado di colpevolezza richiesto per la costituzione dell’obbligazione risarcitoria alla difficoltà dei problemi tecnici affrontati nell’esecuzione dell’opera, introduce un parametro di iscrizione del danno che tiene conto del grado di complessità delle questioni implicate dall’esecuzione della prestazione e che attenua la responsabilità del prestatore d’opera quando il livello di difficoltà risulti rilevante. […] A fronte, infatti, di una situazione connotata da apprezzabili profili di complessità, può, in particolare, ritenersi giustificata, in analogia con la disciplina della responsabilità del prestatore d’opera intellettuale, un’attenuazione [della responsabilità] dell’amministrazione che la circoscriva alle sole ipotesi di colpa grave». In tal senso, cfr. altresì Cons. Stato sez. VI, 9 novembre 2006, n. 6607, in Foro amm. CDS 2007, 243 con nota di R. Papania, Alcune considerazioni in tema di presunzioni di colpevolezza nel giudizio risarcitorio davanti al giudice amministrativo. Più di recente, Cons. Stato sez. VI, n. 347 del 2009; sez. V, n. 122 del 2009 e sez. IV n. 6538 del 2008.
[40] In realtà, sul punto la dottrina non è unanime: si rinvia in argomento a F. Merusi, Pubblico e privato nell'istituto della responsabilità amministrativa ovvero la riforma incompiuta, in Dir. Amm. 2006,1; nonché a D. Sorace, La responsabilità amministrativa di fronte all'evoluzione della pubblica amministrazione: compatibilità, adattabilità o esaurimento del ruolo?, in Dir. Amm. 2006, 249.
[41] In argomento si veda quanto osservato da F. Trimarchi Banfi, L’elemento soggettivo nell’illecito provvedi mentale, in Dir. amm. 2008, 67. Il tema dell’elemento soggettivo nell’illecito della p.a. è stato ampiamente trattato da S. Cimini, La colpa nella responsabilità civile delle amministrazioni pubbliche, Torino 2008; si veda altresì F. Fracchia, L’elemento soggettivo nella responsabilità dell’amministrazione, in Dir. Pubbl. 2008, 445.
[42] Cons. Stato n. 3169 del 2001. Sull’errore scusabile, in giurisprudenza si veda Cons. Stato VI, 18 dicembre 2001, n. 6281, in Foro amm. 2001, 3210; Cons. Stato sez. VI, 19 luglio 2002, n. 4007, in Foro amm. CDS 2002, 1808; Cons. Stato, sez. VI, 4 novembre 2002, n. 6000, in Foro amm. CDS 2002, 2942.
[43] Cass. sez. III, 9 febbraio 2004, n. 2424, Giur. It. 2005, 275.
[44] In effetti la differenza tra i due orientamenti è difficile da cogliere e spesso la stessa giurisprudenza ha cumulato le due prospettive, soprattutto perché, assai spesso, la lieve negligenza viene considerata errore scusabile: un tentativo di chiarezza si deve a Cons. Stato sez. VI, 9 marzo 2007, n. 1114, secondo cui l’errore scusabile è «configurabile in caso di contrasti giurisprudenziali sull’interpretazione di una norma, di formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore, di rilevante complessità del fatto, di influenza determinante di comportamenti di altri soggetti, di illegittimità derivante da una successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata. Si deve, peraltro, tenere presente che molte delle questioni rilevanti ai fini della scusabilità dell’errore sono questioni di interpretazione ed applicazione delle norme giuridiche, inerenti la difficoltà interpretativa che ha causato la violazione; in simili casi il profilo probatorio resta in larga parte assorbito dalla questio iuris, che il giudice risolve autonomamente con i propri strumenti di cognizione in base al principio iura novit curia».
[45] Si veda al riguardo Corte Giust. CE, 5 marzo 1996, C- 46 e 48/93, Brasserie du Pecheur, in cui, al punto 78, viene riconosciuto che alcuni degli elementi indicati per valutare se vi sia violazione manifesta e grave sono riconducibili alla nozione di colpa nell’ambito degli ordinamenti giuridici nazionali.
[46] Così, ancora, Cons. Stato sez. VI, 9 marzo 2007, n. 1114.
[47] v. Corte giust., Commissione c. Portogallo del 2004, c. C-275/03.
[48] Su tali questioni, si veda in termini generali M. A. Sandulli, Diritto europeo e processo amministrativo, in Riv. It. Dir. Pubbl. Com. 2008, 37; D. Sorace, Il risarcimento dei danni da provvedimenti amministrativi lesivi di «interessi legittimi», comparando, in Il diritto amministrativo dei Paesi europei tra omogeneizzazione e diversità culturali, a cura di G.D. Falcon, Padova, 2005, p. 227 ss. Cfr. inoltre A. Bartolini, Il risarcimento del danno tra giudice comunitario e giudice amministrativo. La nuova tutela del c.d. interesse legittimo, Torino, 2005.
[49] La questione in realtà non è così semplice, se ne è consapevoli. Si rinvia sul punto a F. Trimarchi Banfi, L’elemento soggettivo nell’illecito provvedi mentale, cit.
[50] Sul punto, cfr. G. Alpa, La responsabilità civile, Milano 1999, p. 139.
[51] Ed in tal senso arrivano i primi segnali da parte della giurisprudenza, secondo la quale, ad esempio, l’annullamento di un diniego di concessione edilizia, determinato da un difetto di motivazione, in astratto lascia integro il potere dell’amministrazione di provvedere nuovamente sulla domanda di concessione edilizia e pertanto non ammette una tutela risarcitoria; tuttavia, precisa il Consiglio di Stato «allorquando tale diniego è stato annullato (sentenza n. 364 del 10 settembre 1996), era ormai in vigore una disciplina urbanistica, di piano di regolatore generale e di piano di recupero del centro storico, che non consentivano più alcun intervento edilizio nella zona in cui insiste l'area di proprietà degli appellanti», sicché «l’amministrazione comunale in concreto non poteva in alcun modo provvedere nuovamente sulla richiesta di concessione edilizia che fosse stata riproposta dagli interessati: di conseguenza, non solo non è stato in alcun modo possibile rimuovere il vizio di difetto di motivazione che inficiava il precedente diniego di rilascio di concessione edilizia, ma, per quanto qui interessa, è diventato definitivo il vulnus ingiustificato inferto alle ragioni dei richiedenti e dei loro eredi. In altri termini, è stato ad essi definitivamente negato ingiustamente il bene della vita cui aspiravano (l’edificazione di un immobile sull'area di loro proprietà) e la tutela di annullamento non è assolutamente sufficiente, adeguata ed idonea ad assicurare la reintegrazione della loro situazione giuridica proprio a causa della sopravvenuta disciplina urbanistica: si è verificato pertanto un danno ingiusto, direttamente conseguente all’accertata illegittimità del provvedimento di diniego», Cons. Stato, sez. IV, 24 dicembre 2008, n. 6538. Sulla rilevanza del danno nell’illecito delle amministrazioni pubbliche si rinvia a A. Zito, Il danno da illegittimo esercizio della funzione amministrativa, Napoli 2003.
[52] Su tali questioni si rinvia a M.C. Cavallaro, Potere amministrativo e responsabilità civile, Torino 2004, p. 18 ss.
[53] V.E. Orlando, Principii di diritto amministrativo, Ed. Barbèra, Firenze 1891, p. 369. Ed infatti, è stato osservato dai civilisti come «distribuzione dei rischi e allocazione dei costi sono esito di un processo culturale che – dalla dimensione individualistica incentrata sul problema di reagire al danno provocato da un soggetto ad un altro soggetto […] – si apre ad una prospettiva per così dire “sociale”», G. Alpa, La responsabilità civile, cit., p. 132.
[54] S. Rodotà, Il problema della responsabilità civile, Milano 1967. Parallelamente, si modificano i criteri di imputazione del danno stesso, nel senso che si vanno progressivamente ampliando le ipotesi di responsabilità oggettiva, o responsabilità senza colpa, fondate sui rischi oggettivi «connessi all’esercizio di attività dannose »: così G. Alpa, La responsabilità civile, cit., p. 136. In altre parole, l’impianto del nuovo codice civile, nel suo complesso, con le numerose ipotesi di responsabilità oggettiva in esso contenute, consente di affermare il superamento del vecchio principio «nessuna responsabilità senza colpa».
[55] Il riferimento è a quanto sostenuto da A. Romano, Sono risarcibili; ma perché devono essere legittimi?, cit.

 

(pubblicato l'8.9.2009)

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