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n. 1-2010 - © copyright |
GINEVRA CERRINA FERONI
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Crisi finanziaria e intervento pubblico a sostegno del sistema creditizio
1. La crisi finanziaria ed economica mondiale, che trae origine negli Stati Uniti dal progressivo deterioramento a partire dal 2006 della qualità dei c.d. mutui subprime, in un contesto che ne ha consentito la diffusione di tossicità come una vera e propria metastasi, è sicuramente una crisi che, se si eccettua la Grande Depressione, non ha precedenti. Essa ha messo in luce, da un lato, come uno shock che trae origine da una parte pur rilevante del sistema finanziario possa rapidamente propagarsi su scala internazionale divenendo globale e contagiando poi le economie reali e, dall’altro, che detto shock si è sviluppato in un quadro di regole internazionali, assolutamente inadeguato a cogliere tempestivamente i rischi di stabilità e liquidità del sistema[1]. Della crisi che ha investito i mercati finanziari colpisce infatti non solo la sua entità, ma anche l’evidenza dei limiti e delle insufficienze della governance dell’economia, divenuta globale - quando i sistemi normativi restavano invece nazionali - e stratificata in singole misure sempre contingenti, spesso inadeguate, e comunque prive di qualsiasi visione internazionale dei fenomeni economici e finanziari oltre che basate sulla cultura dominante della salvifica e alla fine equa regolazione del mercato e delle sue forze. Gli ultimi due decenni si sono infatti poggiati su questi capisaldi: a) liberalizzazione dei mercati nazionali e integrazione del mercato internazionale; b) diretto intervento statale nell’economia confinato a casi marginali e mera tutela delle fasce più deboli della popolazione.
La crisi ha messo in evidenza non solo l’ingenuità di una cultura che riteneva l’economia definitivamente svincolata e liberata dall’intervento pubblico (come una Nemesi l’intervento statuale ha invece scongiurato, sia pur ancora non del tutto, una crisi che poteva essere catastrofica e con conseguente possibile depressione), ma anche la contraddizione tra mercato ed economia globali, da un lato, e ordinamenti locali, dall’altro. O - ordinamenti[D1] [D2] quest’ultimi che si sono rivelati, quando non scopertamente tolleranti degli egoismi nazionali, quantomeno incapaci di darsi e dare regole sovranazionali e garantirne il rispetto.
Ciò è avvenuto non per una qualche ideologia antimercato, come d’altronde è storicamente avvenuto nella grande crisi del ’29, quanto per la evidente inadeguatezza degli strumenti codificati nella cultura, ma anche negli ordinamenti, atti a fronteggiare l’emergenza e a disegnare nuove e più solide prospettive di sviluppo. Si consideri in proposito l’affievolimento nei fatti di uno dei principi costitutivi della economia di mercato, ovvero la necessità del fallimento delle società insolventi: ne sono prova le ripetute operazioni di salvataggio statale di intermediari che non si possono lasciare fallire perché il loro fallimento avrebbe effetti destabilizzanti sull’intero settore finanziario e di conseguenza economico internazionale, come appunto ha dimostrato drammaticamente il caso Lehman Brothers.
Tuttavia, a differenza di quanto avvenuto nel ’29, l’internazionalizzazione che ha favorito la diffusione della crisi è stata al tempo stesso la condizione per affrontarla, mettendo in luce i limiti, ma anche le potenzialità della cooperazione internazionale. Questo contesto pone oggi la necessità di una riflessione critica su quale debba essere il ruolo dello Stato, rectius dei sistemi pubblici, nel rapporto con il credito.
2. La crisi ha mostrato inequivocabilmente la necessità di una maggiore presenza dello Stato, facendo giustizia di ingenuità da liberalismo ottocentesco e favorendo sospette e repentine conversioni neo stataliste. Qui però sta il primo paradosso: quanto maggiore sembra essere la necessità della presenza dello Stato, tanto minore è la sua discrezionalità nella adozione delle misure necessarie per affrontare la crisifronteggiare l’emergenza. Basti considerare i rigidi confini nei quali l’Unione Europea ormai circoscrive le politiche dei Governi in materia economica. Confini oggi dati da: a) una politica monetaria che non rientra più nella sovranità dei Governi ma che è affidata alla Banca centrale europea (BCE). Perdere la sovranità monetaria - come ci ricorda Guarino[2] - significa avere perso sia il potere di emissione della moneta, dal momento che la BCE ha il diritto esclusivo di autorizzare l’emissione di banconote all’interno della Comunità; sia il c.d. “governo della liquidità”, che significa potere di fissazione dei tassi di cambio; sia il potere di stabilire i tassi di interesse; sia infine il diritto a promuovere manovre di svalutazione monetaria in funzione di crescita dell’economia; b) la necessità di rispettare i vincoli comunitari e, in particolare, il principio di libera e leale concorrenza all’interno della Unione Europea (il che implica la necessità di disciplinare rigidamente i c.d. aiuti di Stato, ovvero gli interventi di un'autorità pubblica nazionale, regionale o locale, effettuati con risorse pubbliche, per sostenere specifiche imprese o attività produttive); c) la impossibilità per i Governi di adottare politiche individuali e isolate in una economia sempre più globale (G8, G20). A ciò si aggiunge, per quanto riguarda l’Italia, l’elevatissimo debito pubblico che è il più alto tra i Paesi della Unione Europea (secondo le ultime rilevazioni di Banca d'Italia il debito pubblico italiano ha toccato un nuovo record superando i 1.800 miliardi di euro) ed è destinato ancora a salire nel 2010 raggiungendo il 112% del PIL (il 110,5% nel 2009 e il 105,9% nel 2008).
Eppure il problema di fondo dell’Europa non è tanto nei limiti posti agli Stati nazionali, quanto nell’incapacità di farsi altro da sé e della mera, defatigante mediazione tra Stati membri: la crisi e le risposte sostanzialmente “nazionali” alla crisi ne sono testimonianza ma anche, e ancor più, occasione drammaticamente perduta.
Ecco Qui sta un punto cruciale: non si può restare eternamente crisalide, senza maturare verso una forma più evoluta o, all’opposto, regredire verso l’origine primitiva. Non solo. La crisi sembra riproporre - qui sta il secondo paradosso - un ritorno al passato, ovvero la presenza di uno Stato che da mero regolatore diviene uno “Stato padrone”, se non addirittura - come è stato provocatoriamente definito - “Stato discarica”, ripercorrendo strade già percorse antiche e sbagliate[3]. Stato padrone a fronte di casi sempre più ricorrenti, come ad esempio sta avvenendo nel Regno Unito, dove la nazionalizzazione del sistema bancario - ovvero l'acquisizione del controllo di una società da parte del Governo di un Paese per evitarne il fallimento - è stata la misura adottata per aiutare i principali istituti bancari a fronteggiare la crisi. Si tratta di un intervento dell'ordine di 37 miliardi di sterline (circa 48 miliardi di euro) teso a ricapitalizzare le principali banche del Paese particolarmente colpite dalla vicendacrisi dei mutui subprime: dalla Royal Bank of Scotland alla Halifax Bank of Scotland, al Lloyd Banking Group (anche se non è una ricapitalizzazione per così dire “a costo zero” per le Banche, potendosi essendo realizzareta ad una serie di condizioni come il fatto che queste non paghino ai dirigenti esecutivi super bonus in contanti, che il Governo abbia diritto alla nomina dei vertici e alle decisioni sull'eventuale pagamento dei dividendi, che i beneficiari degli aiuti debbano sottostare a più severe regole di Governance e si impegnino ad una forte riduzione dei dividendi, ecc.). “Stato discarica” se pensiamo ai titoli tossici che vengono acquistati e non digeriti dal settore pubblico e che dovranno poi essere smaltiti. Sotto questo profilo ad esempio, il piano messo a punto dal nuovo Ministro del Tesoro statunitense Tim Geithner (piano di una certa rilevanza considerato che il suo costo potrà variare da 500 a 1000 miliardi di dollari) contempla infatti, tra le altre misure, la costituzione di un fondo che fornirà capitali pubblici e finanziamenti al capitale privato per comprare gli asset tossici in modo da liberare i bilanci delle banche e lasciare al settore privato la determinazione del prezzo degli asset illiquidi.
3. In Italia - sia chiaro - la situazione è stata parzialmente diversa rispetto ad altri Paesi, relativamente al modello dello “Stato salvatore” , sia per quel che riguarda gli strumenti di intervento, sia per quanto concerne la cornice istituzionale[4]. Da noi gli effetti della crisi hanno reso necessaria l’adozione di una serie di misure d’urgenza (poi convertite in leggi) da parte del Governo volte a perseguire tre diversi obiettivi e con diversa intensità: sostegno del sistema creditizio per impedire che la crisi finanziaria si trasmettesse per intero all’economia reale, ammortizzatori sociali per impedire che la crisi economica si trasformasse in crisi sociale,; sostegno limitato alle imprese. Pare insomma che le linee guida del Ministro dell’Economia, non senza qualche contraddizione in seno al Governo e alle forze sociali, ma comunque da valutare più che positivamente, siano state principalmente rivolte ad evitare la trasmissione della crisi dalla finanza all’economia, sostenere il reddito delle famiglie e confidare in una autonoma capacità selettiva e dinamica delle imprese. Occorre aggiungere che la situazione relativamente migliore dell’Italia rispetto a quella di altri Paesi è stata fortemente radicata nella nostra struttura economica e sociale e nel grado assai minore di finanziarizzazione: minor indebitamento di famiglie e imprese, nessuna bolla speculativa nel mercato immobiliare, Welfare familiare unitamente a quello pubblico. In particolare, quanto al primo obiettivo, il sostegno si è concretizzato in due decreti legge, d.l. 9 ottobre 2008, n. 155 (convertito in l. 4 dicembre 2008, n. 190) e ulteriore d.l. 13 ottobre 2008, n. 15 (il decreto non è stato convertito, ma gli atti e i provvedimenti adottati sulla base di esso sono stati fatti salvi ex art. 1, co. 2 della l. 190/2008). Con tali decreti si è inteso sia garantire la stabilità del sistema finanziario, sia dare liquidità al mercato anche al fine di assicurare la continuità nell’erogazione del credito alle imprese e ai consumatori, sia ripristinare la fiducia dei risparmiatori. A tal fine, nel primo provvedimento, il Ministero dell’economia e delle finanze è stato autorizzato, anche in deroga alle norme di contabilità di Stato, a sottoscrivere o garantire aumenti di capitale deliberati da banche italiane che presentassero una situazione di inadeguatezza patrimoniale accertata dalla Banca d’Italia. Si è disposto che tale sottoscrizione possa essere effettuata a condizione che l’aumento di capitale non sia stato ancora perfezionato alla data di entrata in vigore del decreto e che vi sia un programma di stabilizzazione della banca interessata. Inoltre si è previsto che la sottoscrizione ministeriale sia effettuata sulla base della valutazione da parte della Banca d’Italia di una serie di elementi tra i quali: la sussistenza delle condizioni di inadeguatezza patrimoniale; la adeguatezza del piano di stabilizzazione della banca presentato per la deliberazione dell’aumento di capitale; una politica dei dividendi approvata dall’assemblea della banca richiedente per il periodo di durata del programma di stabilizzazione. La normativa ha chiarito altresì che le azioni detenute dal Ministero, dalla data di sottoscrizione fino alla data della eventuale cessione, siano da considerarsi privilegiate nella distribuzione dei dividendi rispetto a tutte le altre categorie di azioni. Ne è conseguito che il Ministero non possa esercitare alcun diritto di voto negli organi sociali. Tuttavia il Ministero ha acquisito due importanti poteri di intervento nella gestione e nella governance bancaria. In primo luogo, fino alla data di cessione delle azioni sottoscritte dalla mano pubblica, le variazioni sostanziali al programma di stabilizzazione sono soggette alla preventiva approvazione del Ministero, sentita la Banca d’Italia. In secondo luogo, in presenza di una situazione di grave crisi di banche italiane, anche di liquidità, che possa recare pregiudizio alla stabilità del sistema finanziario, il Ministero, su proposta della Banca d’Italia, può disporre lo scioglimento degli organi secondo le procedure stabilite dal testo unico bancario. All’intervento diretto nel capitale azionario delle banche si è accompagnata l’adozione di forme di garanzia pubblica. Innanzi tutto, qualora al fine di soddisfare esigenze di liquidità, la Banca d’Italia abbia erogato finanziamenti garantiti mediante pegno o cessione di credito, la garanzia si può intendere prestata, con effetto nei confronti del debitore e dei terzi aventi causa, all’atto della sottoscrizione del contratto di garanzia finanziaria. Il Ministero, a sua volta, può rilasciare la garanzia statale su finanziamenti erogati dalla Banca d’Italia alle banche italiane e alle succursali di banche estere in Italia per fronteggiare gravi crisi di liquidità. Inoltre, il Ministero dell’economia e delle finanze è stato autorizzato a rilasciare la garanzia statale a favore dei depositanti delle banche italiane, ad integrazione dello schema assicurativo del fondo interbancario.
Il secondo decreto legge ha esteso l’ambito delle garanzie che potevano essere rilasciate dal Ministero fino al 31 dicembre 2009. Quest’ultimo infatti è stato autorizzato a concedere la garanzia dello Stato, a condizioni di mercato, sulle passività delle banche italiane, con scadenza fino a cinque anni. Inoltre gli si è data la possibilità di effettuare operazioni temporanee di scambio tra titoli di Stato e strumenti finanziari detenuti dalle banche italiane o passività delle banche italiane controparti aventi scadenza fino a cinque anni. Si è disposto che le emissioni di titoli di Stato relative a tali operazioni possano essere effettuate in deroga ai limiti previsti dalla legislazione vigente. L’onere di tali operazioni per le banche è stato definito tenuto conto delle condizioni di mercato. Il Ministero, infine, è stato autorizzato a concedere la garanzia dello Stato, sempre a condizioni di mercato, sulle operazioni stipulate da banche italiane, allo scopo di ottenere la temporanea disponibilità di titoli utilizzabili per operazioni di rifinanziamento. Si è previsto che i crediti del Ministero derivanti dalle operazioni in esame fossero assistiti da privilegio generale sui beni mobili ed immobili. Tali operazioni sono state effettuate sulla base della valutazione da parte della Banca d’Italia dell’adeguatezza del patrimonio della banca richiedente e della sua capacità di fare fronte alle obbligazioni assunte. Al Ministero è stata concessa la possibilità di effettuare le operazioni anche nei confronti delle banche delle quali ha sottoscritto aumenti di capitale. Quanto al secondo obiettivo, peraltro, strettamente collegato al primo, si è trattato di una serie di misure eterogenee contemplate nel d.l. 29 novembre 2008, n. 185 convertito in l. 29 gennaio 2009, n. 2. Fra le tante merita ricordare l’art. 12 del decreto che ha contemplato il “Finanziamento dell'economia attraverso la sottoscrizione pubblica di obbligazioni bancarie speciali e relativi controlli parlamentari e territoriali” prevedendo la disciplina dei c.d. “Tremonti-bond” (ovvero strumenti finanziari senza diritto di voto emessi da banche). Va menzionato in merito l’accordo del 25 marzo 2009 fra il Ministero dell’Economia e l’Associazione Bancaria italiana volto a garantire che i finanziamenti operati tramite la sottoscrizione dei c.d. “Tremonti bond” siano utilizzati al fine di finanziare prevalentemente le famiglie e le piccole e medie imprese. Con questo accordo, fra l’altro, l’ABI ha assunto degli importanti impegni in relazione alle politiche bancarie relative a famiglie e lavoratori (e, in particolare, le banche si impegnano a sospendere per almeno dodici mesi le rate dei mutui contratti da lavoratori che, nel frattempo, hanno perso il posto di lavoro). Infine, le banche si sono obbligate a ispirare a criteri di eticità e trasparenza le remunerazioni dei vertici aziendali e degli operatori di mercato e, in generale, ad adottare politiche di remunerazioni coerenti con i principi di prudente gestione del rischio.
4. Esiste un modello italiano di risposta alla crisi? O esiste un modello che deve essere valorizzato? Mi pare che la soluzione più corretta non sia né quella del liberismo puro, né quella del keynesismo puro, ma sia invece quella delle democrazie mature ed avanzate, che adottano i principi della c.d. “social market economy”, ovvero di quel sistema di sviluppo dell’economia volto a garantire, da un lato, la libertà del mercato e, dall’altro, la giustizia sociale armonizzandole tra loro. Principi cardine di tale sistema sono: il principio della libertà individuale, che implica la garanzia della libera iniziativa, della libertà di impresa, della libertà di mercato e della proprietà privata; il principio della solidarietà, che si basa sulla constatazione che le libertà individuali da sole non possano garantire la realizzazione della totalità degli individui e che quindi sia necessario un certo intervento da parte dello Stato al fine di garantire una adeguata giustizia sociale; infine il principio della sussidiarietà, che è presupposto indispensabile per l’armonizzazione tra libertà individuali e solidarietà. Tale principio, che si radica nel pensiero cattolico liberale, prevede che «una società, un’organizzazione o un’istituzione di ordine superiore a un’altra, non debba interferire nell’attività di quest’ultima, a essa inferiore, limitandola nelle sue competenze, ma deve piuttosto sostenerla in caso di necessità, e aiutarla a coordinare la sua azione con quella delle altre componenti sociali, in vista del bene comune»[5]. Nell’economia sociale di mercato tale principio implica che l’intervento regolatorio dello Stato deve aver luogo solo se strettamente necessario, ovvero solo laddove la libera azione individuale non garantisca il normale andamento del processo economico producendo distorsioni nel mercato o nella concorrenza e provocando un eccessivo disequilibrio sociale.
Applicato alla realtà creditizia italiana il principio della sussidiarietà assume poi una particolare rilevanza in quanto il sistema italiano non è una realtà omogenea bensì pluralistica e diversificata, nella quale – lo ha dimostrato la crisi – le piccole banche, le casse locali, i crediti cooperativi hanno rappresentato la rete sociale di protezione che non ha necessitato dell’intervento dello Stato. Si tratta di realtà fortemente radicate sul territorio, straordinariamente vive e solide che vanno decisamente favorite e sostenute. Ecco dunque la necessità di un intervento statale che sia sempre mirato e mai omnicomprensivo e che si realizzi solo nel caso in cui i singoli istituti non siano in grado di far fronte a eventuali situazioni di crisi o di prevenirle.
Semmai il problema è un altro ed è l’ambiguità di fondo nella quale il sistema del credito si è finora mosso, come è brutalmente emerso durante la crisi. Da un lato c’è la necessità che le Banche si muovano prudenzialmente nella erogazione del credito e, più in generale, nella gestione e pianificazione delle proprie risorse patrimoniali: ciò perché una dotazione patrimoniale congrua consente di fronteggiare meglio eventuali inattese perdite; dall’altro, l’irrigidimento dei criteri adottati per l'erogazione dei crediti alle imprese, unite ad un significativo aumento del livello delle sofferenze, pone concretamente il rischio che la crisi finanziaria già in atto peggiori ulteriormente le prospettive di crescita dell’economia reale. Se il sistema bancario italiano può a ben ragione considerarsi nel suo complesso virtuoso, grazie soprattutto ad una struttura equilibrata dei bilanci e ad una minore esposizione agli strumenti e mercati più interessati dalle turbolenze, il problema della contrazione del credito alle imprese è indubbiamente aumentato. Una economia il cui tessuto produttivo appare concentrato su uno standard di piccole e medie imprese, con strutture finanziarie fragili, tendenzialmente sottocapitalizzate, esposte alla variabilità dei tassi a breve e alle fluttuazioni del ciclo economico, sostenute in larghissima misura dal sistema bancario (per le piccole e medie imprese oltre un terzo delle passività complessive è rappresentata dai debiti finanziari verso le banche). Finanziamento inoltre che per la piccola e media impresa è dato dalla prevalenza del debito bancario a breve termine (che rappresenta oltre i tre quarti del debito bancario complessivo). Ma il ricorso in questa entità al credito a breve denota anche che il ruolo delle banche si è tendenzialmente assestato - e non è poco - ad assicurare la continuità nel tempo del sostegno finanziario alla gestione ordinaria delle imprese. Ma è mancata probabilmente una visione di prospettiva, accompagnata alla creazione di percorsi strategici di crescita e di sviluppo delle imprese attraverso interventi di finanziamento a medio-lungo termine.
Perché ciò è avvenuto? Nel nostro Paese il rapporto fra banche e imprese, specialmente quelle piccole e medie, si è tradizionalmente fondato su un sistema di tipo fortemente localistico in cui la relazione tra finanziatore e prenditore si è basata più che sull’analisi puntuale di indicatori economico-finanziari, su informazioni per così dire “non codificate”. Questo sistema si è giustificato con la necessità di ovviare alla sostanziale frammentarietà e mancanza di chiarezza dell’informazione fornita da larga parte delle imprese affidate che può essere ricondotta non solo a scelte deliberate volte ad allargare la provvista (si pensi al ricorso sistematico al multiaffidamento), ma anche ad altre circostanze quali, ad esempio, la ricerca di una compressione degli oneri fiscali, come pure l’esistenza di limiti sul piano delle competenze tecnico-manageriali presenti in azienda. Sta di fatto che in questo contesto il rapporto banca - impresa in Italia ha avuto come capisaldi: la creazione di una trama di conoscenze personali di lungo periodo dell’imprenditore e dell’azienda da parte della banca e il tendenziale ricorso alle garanzie reali ed a quelle personali fornite dall’imprenditore e da eventuali suoi garanti. Questo modello è stato messo in discussione dalla crisi oltreché da una serie di profonde trasformazioni intervenute nel mondo del credito e della finanza a livello nazionale ed internazionale: dai processi di cambiamento interno al sistema bancario, legati alla aggregazione e internazionalizzazione dei principali operatori del credito, alla definizione di nuove metodologie e di nuovi standards nella valutazione del rischio di credito[6].
Non è il caso di ripercorrere le ben note regole di “Basilea II”, ovvero il sistema di ponderazione del rischio definito con il secondo accordo internazionale sui ratios patrimoniali delle banche. Di certo, nonostante la crisi, Basilea II ha rappresentato una “pietra miliare” nel cammino verso la stabilità e la solidità finanziaria e verso una normativa bancaria armonizzata a livello internazionale. Ed invero l’impatto di Basilea sulle piccole e medie imprese è di grande rilievo non tanto e non solo per i più elevati livelli di capitale richiesto, quanto per il cambiamento qualitativo dei processi di valutazione del credito (del resto già in atto nel mercato), processi che Basilea II ratifica e contribuisce a diffondere ulteriormente. Si pone tuttavia già oggi la necessità di rivedere e ripensare dette regole (si parla infatti di “Basilea III”), apportando modifiche che consentano di introdurre forme di maggiore trasparenza dei metodi utilizzati dalle agenzie di rating e che consentano, altresì, un processo di recupero di credibilità di tali agenzie, oggi ai minimi storici. Soprattutto emerge la necessità di riforme in punto di automatismi nell’utilizzo dei rating delle agenzie da parte degli intermediari, poiché in molti casi siamo di fronte ad una disciplina strutturata sulla misura delle grandi imprese e che pertanto risulta, sovente, sovrabbondante, inutilmente burocratica e alla fine non funzionale per le imprese di minori dimensioni, che poi rappresentano il tessuto fondante e peculiare della nostra economia.
Emerge infine da questa crisi la consapevolezza che la globalizzazione dell’economia richiede con urgenza una disciplina giuridica pubblica anch’essa globale. Occorrono regole di diritto certe e controlli severi sul loro rispetto. Il che non mette di per sé al riparo dalla crisi, ma è comunque un passaggio necessario, poiché le crisi, come quella che stiamo vivendo, non si possono più affrontare solo né con misure di carattere meramente economico, néo con misure solo interne ai singoli Stati. Si può partire con piccole ma efficaci misure, ad esempio riducendo con coraggio le sconcertanti remunerazioni dei managers, spesso legate a bilanci drogati delle società. E’ un primo rimedio per la stabilizzazione dei mercati e la certezza dei risparmiatori.
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*Il saggio è destinato alla pubblicazione nel numero monografico 3/2009 della Rivista “Percorsi costituzionali” dedicato a “La Costituzione economica, oggi (a cura di A. Chiappetti e R. Perna).
[1] E. Barucci-M. Messori, Oltre lo shock: dal caos alla stabilità dei mercati finanziari, Egea Editrice, Milano, 2009.
[2] G. Guarino, Eurosistema. Analisi e prospettive, Giuffrè, Milano, 2006.
[3] Entrambe le definizioni sono contenute in F. Cavazzuti, Nuovi confini per lo Stato assicuratore?, 2009, disponibile sul sito: http://www.astrid-online.it/rassegna/25-02-2009/CAVAZZUTI_Stato-assicuratore_DEF.pdf.
[4] G. Napolitano, Il nuovo Stato salvatore: strumenti di intervento e assetti istituzionali, in Giornale di diritto amministrativo, 11, 2008, 1083 ss.
[5] T. E. Frosini, Sussidiarità (principio di), in Enciclopedia del diritto, Annali II, Tomo II, Giuffrè, Milano, 2008.
[6] Su questi temi sia consentito rinviare ai saggi di G. Cerrina Feroni, Il rapporto banca e impresa: questioni aperte, e G. Morbidelli, Basilea II: prime considerazioni, in G. Morbidelli-G. Cerrina Feroni (a cura di), Banca e Impresa. Nuovi scenari, nuove prospettive, Giappichelli, Torino, 2008.
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(pubblicto il 26.1.2010)
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