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TOMMASO EDOARDO FROSINI

Sui rapporti fra la Corte Edu e la Costituzione italiana*


SOMMARIO: 1.- Espansione dei diritti fondamentali e tutela davanti alla Corte Edu; 2.- La Cedu nel sistema delle fonti: problemi e soluzioni; 3.- Sui rapporti fra Corte Edu e Corte costituzionale; 4.- La svolta delle sentenze della Corte costituzionale n. 348 e n. 349 del 2007: una nuova epoca nei rapporti con la Cedu; 5.- Gli effetti delle decisioni della Corte Edu e la vicenda degli interna corporis parlamentari.


1. Espansione dei diritti fondamentali e tutela davanti alla Corte Edu
Per iniziare un discorso relativo al rapporto fra la Cedu e la sua Corte e la Costituzione italiana, conviene partire dal riconoscimento della espansione dei diritti, che si manifesta attraverso il c.d. “multilevel protection”: da ciò ne discende che la tutela degli stessi va cercata per trovarla a vari livelli ordinamentali: statali, europei, internazionali; e quindi, «una costante potenziale sovrapposizione di norme originate in “ambienti” culturali diversi»[1]. La tutela multilivello dei diritti si declina attraverso una sorta di sistema integrato di protezione dei diritti fondamentali, che in Europa coinvolge il livello internazionale (Cedu), il livello sovranazionale (Carta dei diritti UE e giurisprudenza della Corte di giustizia), il livello nazionale (Costituzione). Questo certamente determina una maggiore garanzia ma crea alcuni problemi, che sono stati così evidenziati: «a) lo stesso diritto fondamentale non sempre è regolato alla stessa maniera, o non sempre esprime lo stesso contenuto oggettivo; b) taluni diritti sono contemplati in un livello e non in un altro; c) i contenuti tipici dei diritti possono essere interpretati in maniera diversa. Così, ad es., le divergenze tra Corte di Giustizia e Corte europea dei diritti dell’uomo sono ripetute e oggetto di numerose segnalazioni; d) i bilanciamenti vengono fatti in maniera diversa e/o sulla base di standards diversi; e) si può determinare una deriva verso il controllo diffuso, attraverso la coniugazione tra diretta vigenza anche dei principi comunitari -in primis, per la sua forza espansiva e per il suo contenuto a largo spettro, quello di non discriminazione- e non applicazione del diritto interno in caso di non compatibilità con il diritto comunitario»[2].
C’è da dire, che la Corte Edu, specialmente dopo l’entrata in vigore del Protocollo n. 11 (avvenuta il 1° novembre 1998), e quindi la formalizzazione di un vero e proprio ricorso individuale alla Corte, è diventata il giudice ultimo in materia di diritti negati nell’ambito del continente europeo. Basti pensare che nel 2008 la Corte ha emesso 1543 sentenze, e che i casi pendenti davanti a essa erano 79.400 nel 2007 per diventare ben 97.300 nel 2008, quindi con un incremento del 23% da un anno all’altro. Con particolare riguardo all’ordinamento italiano, la Corte di Strasburgo sembra potere rappresentare una vera e propria giurisdizione sussidiaria delle libertà, i cui effetti l’ordinamento nazionale è chiamato ad “ascoltare” per renderli efficaci[3]. Al 31 dicembre 2008 i casi pendenti davanti alla Corte che riguardavano l’Italia erano 4.200 (il 4,3% del totale), mentre l’anno precedente erano 2.900; le sentenze emesse contro l’Italia nel 2008 sono state 82, di cui 72 di condanna: 57 di queste hanno riguardato la violazione dell’art. 6 Cedu sul giusto processo e la durata ragionevole dello stesso. C’è da dire, a proposito dell’art. 6 Cedu, che la norma ha una particolare carica precettiva, perché viene a costituire una doppia, corrispettiva, posizione soggettiva: passiva, a carico dello Stato rispetto all’osservanza del dovere (di uniformarsi a uno svolgimento dei processi entro un termine ragionevole), attiva, a favore del cittadino parte in causa[4]. Ancora, e sempre con riferimento all’art. 6 Cedu, non può sottolinearsi quanto recentemente affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 129 del 2008: e cioè «di non potersi esimere dal rivolgere al legislatore un pressante invito ad adottare i provvedimenti ritenuti più idonei, per consentire all’ordinamento di adeguarsi alle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo che abbiano riscontrato, nei processi penali, violazioni ai principi sanciti dall’art. 6 della CEDU»; altrimenti, come emerge dal tenore della sentenza, la Corte adombra la possibilità di un proprio successivo intervento, allorché il legislatore non dovesse intervenire e la questione venisse risollevata in riferimento all’art. 117, comma primo e in modo diverso[5].
Obiettivo di questo mio scritto è quello di fare il punto sui rapporti fra la Corte europea dei diritti dell’uomo e l’ordinamento costituzionale italiano, alla luce delle innovazioni che si sono avute, e che si potranno avere, verso la configurazione di un unitario sistema ordinamentale a vocazione circolare, dove cioè regole e principi di provenienza diversa si completano, si immedesimano e si integrano attraverso un processo sempre più crescente di internazionalizzazione del diritto costituzionale, ovvero – se piace di più – di costituzionalizzazione del diritto internazionale.

2. La Cedu nel sistema delle fonti: problemi e soluzioni
Occorre tratteggiare – inizialmente – la collocazione della Cedu nel sistema italiano delle fonti del diritto. Certo, la Cedu ha ricevuto esecuzione con legge ordinaria (n. 848 del 4 agosto 1955), e pertanto era ritenuta idonea ad abrogare le leggi anteriori con essa incompatibili, ma non a resistere all’abrogazione da parte di leggi successive con essa contrastanti. Questa impostazione portava evidentemente a minimizzare il rango della Cedu all’interno del nostro ordinamento; e per molti anni, quindi, è parso che la sua portata fosse relativamente secondaria, nonostante il suo valore assiologico. Problematica, poi, appariva la sua copertura costituzionale. La questione è stata lungamente dibattuta in dottrina: si sono contrapposte tesi volte a valorizzare l’art. 10 Cost., ovvero l’art. 11 Cost. e anche l’art. 2 Cost., come “clausola aperta” per i diritti emergenti e proclamati in documenti internazionali; successivamente sono state valorizzate le novelle costituzionali dell’art. 111 e, soprattutto, dell’art. 117, comma primo, Cost.[6]
Vado con ordine e faccio il riassunto: una parte della dottrina ha sostenuto che la Cedu conterrebbe alcune disposizioni, che codificano consuetudini internazionali o principi internazionali generalmente riconosciuti; da ciò ne discende che le disposizioni convenzionali, che costituiscono codificazione di tali principi, debbono rientrare nell’ambito di applicazione dall’art. 10, comma primo, della Costituzione ed essere soggette all’adattamento automatico di livello costituzionale da esso previsto. E’ una tesi che si avvale di una linea argomentativa talvolta sposata anche dalla Corte costituzionale, a esempio nella sentenza n. 48 del 1979 a proposito delle immunità diplomatiche. Emerge però qualche problema di disomogeneità riguardo al valore giuridico della Convenzione europea: infatti, la stessa Convenzione conterrebbe in alcuni casi norme di rango costituzionale, in quanto riproduttive di principi consuetudinari del diritto internazionale, mentre altre disposizioni della Convenzione dovrebbero godere soltanto del rango di fonte primaria o legislativa, dal momento che si tratterebbe puramente e semplicemente di fonti di diritto internazionale pattizio.
Altra tesi dottrinale è quella riferita all’art. 11 Cost.: al pari dei trattati istitutivi delle Comunità e dell’Unione europee, anche la Convenzione europea dei diritti dell’uomo rientrerebbe tra i trattati attraverso i quali la Repubblica italiana consente alle limitazioni di sovranità per favorire la nascita di un ordine internazionale basato sulla pace e la giustizia fra i popoli. Se così fosse però anche alla Cedu dovrebbe applicarsi tutta la giurisprudenza costituzionale sul primato delle norme comunitarie, nonché la dottrina dei controlimiti elaborata dalla Corte costituzionale.
C’è poi la tesi, avanzata in dottrina, dell’art. 2 della Costituzione come norma a fattispecie aperta dei principi generali sui diritti inviolabili. Tesi che, dopo essere stata poco seguita anche dalla giurisprudenza costituzionale, ha oggi – da parte della dottrina, della giurisprudenza ordinaria e in parte anche della giurisprudenza costituzionale – avuto significativi segni di disponibilità al riconoscimento di “nuovi diritti inviolabili” non scritti in Costituzione. Certo, aprendo la Costituzione italiana al riconoscimento di nuovi diritti tramite l’art. 2 Cost. integrato dalle Carte internazionali, si finisce per delegare a giudici esterni – sia alla Corte di Strasburgo che alla Corte di Lussemburgo – la determinazione dei contenuti dei nuovi diritti, alterando contemporaneamente i bilanciamenti tracciati dalla Costituzione italiana. E allora, per limitare la creatività dei giudici nazionali e della Corte costituzionale italiana si fa spazio, in realtà, all’attivismo delle Corti europee.
La novella dell’art. 111 Cost. è emblematica di un chiaro influsso dell’art 6 della Cedu (sul giusto processo e la ragionevole durata dello stesso) e delle interpretazioni che di esso ha sviluppato la Corte di Strasburgo, cosicché tale disposizione costituzionale potrebbe essere considerata come una clausola che “importa” automaticamente nell’ordinamento italiano non solo i principi della Convenzione, ma anche le interpretazioni della Corte di Strasburgo in proposito.
Infine, la modifica dell’art. 117, comma primo, Cost., che ora recita: «La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali». Quindi, la norma adesso, in modo esplicito, offre a tutti i trattati internazionali la copertura costituzionale determinandone una capacità di resistenza all’abrogazione, cosicché il legislatore successivo deve sempre rispettare i trattati internazionali sottoscritti e regolarmente recepiti in Italia. E’ l’internazionalizzazione del diritto costituzionale, ovvero la costituzionalizzazione del diritto internazionale. Il diritto internazionale, quindi, non è più “altro” rispetto al sistema ordinamentale applicabile dal giudice nazionale, ma entra a farne parte. Si viene così a esaurire la prospettiva “statocentrica” esaltando una nuova configurazione della teoria delle fonti del diritto e – soprattutto – della teoria dell’interpretazione: prassi e convenzioni internazionali e norme comunitarie vengono quindi a comporre il sistema ordinamentale al quale il giudice si deve sentire sottoposto sulla base del principio di legalità, che significa osservanza e applicazione delle leggi e di qualsiasi norma che compone il diritto oggettivo[7].
L’interpretazione della norma costituzionale (art. 117 Cost.), e proprio con riferimento alla collocazione e significato costituzionale della Cedu, è stata data dalla Corte costituzionale nelle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, che segnano l’inizio di una nuova epoca nei rapporti con la Cedu. Conviene soffermarsi su queste decisioni, che assumono un punto di riferimento fondamentale; prima, però, mi sia concesso offrire un breve quadro di riferimento sui rapporti fra Corte costituzionale e Corte Edu[8].

3. Sui rapporti fra Corte Edu e Corte costituzionale
Come si è già detto, l’integrazione normativa fra la Cedu e l’ordinamento italiano si muove nell’ambito della legislazione ordinaria, in quanto sono le leggi ordinarie che hanno autorizzato la ratifica e dato esecuzione alla Convenzione e ai successivi Protocolli. Pertanto, nell’ambito del sistema delle fonti, le norme Cedu non potrebbero prevalere rispetto alle norme costituzionali. Va da sé che questa situazione ha condizionato anche i rapporti fra Corte costituzionale e Corte europea dei diritti dell’uomo, quale “garante costituzionale di un ordine pubblico europeo” (come si è autodefinita nella sentenza Loizidou del 1995). Certo, anche per via di questo ruolo di garante costituzionale si riconosce in capo alla Corte di Strasburgo un “tono costituzionale” più elevato rispetto alla Corte di Lussemburgo, come emerge peraltro dalle stesse sentenze che vengono emesse, come per esempio quella, famosa, sulla eutanasia nella forma del suicidio assistito nel caso Pretty del 2002. Peraltro, la Corte di Strasburgo si è sempre presentata in maniera “muscolare” nei confronti degli Stati, delle Costituzioni degli stessi e delle loro corti costituzionali. Ne sa qualche cosa la Corte costituzionale italiana, che si è vista bacchettare – nelle sentenze: Cordova del 2003, De Jorio del 2004, Ielo del 2006 e Cofferati del 2009 – per l’uso assai dilatato dell’insindacabilità dei parlamentari, al punto da potere vanificare la tutela dei diritti delle persone da questi offese. C’è da dire, peraltro, che le sentenze Cordova hanno avuto significative ripercussioni sulla giurisprudenza costituzionale, che ha così modificato il suo orientamento relativamente alla preclusione per i terzi offesi a spiegare l’intervento nei giudizi sui conflitti fra poteri aventi a oggetto le immunità degli organi costituzionali, e specialmente nei giudizi sui conflitti promossi dai giudici contro la Camera che ha deliberato la insindacabilità. Aver consentito al terzo offeso la possibilità di intervenire sul conflitto è stata una scelta che la Corte costituzionale ha assunto anche come seguito delle decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo (le cui decisioni sono esplicitamente richiamate dalla giurisprudenza costituzionale: v. sentenze n. 76 del 2001 e n. 154 del 2004). Tuttavia, la questione non può dirsi risolta. Sarebbe opportuno porsi il problema di un adattamento del modello procedurale italiano ai parametri europei. Occorrerebbe, altresì, ripensare la sequenza procedurale ex art. 3 della l. n. 140 del 2003, al fine di introdurre schemi che possano garantire un più efficace bilanciamento tra le esigenze di tutela dell’esercizio delle funzioni parlamentari e il diritto dei singoli alla tutela giurisdizionale dei propri diritti. La proposta è quella per cui l’onere del sollevamento del conflitto dovrebbe spostarsi in capo alle Camere, superando così l’efficacia inibitoria delle delibera di insindacabilità[9].
Torniamo al rapporto fra la Corte costituzionale e la Cedu – considerata quale diritto pattizio, fatta eccezione per un isolata presa di posizione nella sentenza n. 10 del 1993 –, che è fondato sull’uso che la Corte fa della Convenzione, al fine di interpretare meglio le norme costituzionali e integrare così il parametro dell’art. 2 Cost. Quando si tratta di pronunciarsi in materia di diritti, la Corte costituzionale preferisce senz’altro fare appello, in funzione ermeneutica, alle norme della Cedu. Questo può essere dovuto al fatto che per la Corte il richiamo alla Cedu significa esclusivamente riconoscerne la fondamentale portata assiologica e la straordinaria capacità di esprimere “valori metalegislativi comuni”[10]. In altri termini, poiché la Corte ha sempre – o quasi – sostenuto che, nella gerarchia delle fonti, la Cedu occupa lo stesso rango della legge ordinaria che la ha resa esecutiva, il fatto di utilizzare le norme della Cedu per argomentare le proprie decisioni non ha alcuna conseguenza giuridicamente rilevante nell’ordinamento interno, se non quella di orientare l’interpretazione dei disposti costituzionali in materia di diritti (tanto è vero che la stessa Corte non ha esitato ad affermare che i diritti e le libertà garantite dalla Cedu «trovano espressione e non meno intensa garanzia» nella Costituzione italiana). Caso emblematico è quello, notissimo, che si riferisce al diritto alla ragionevole durata del processo: mentre, nella sentenza n. 202 del 1985, la Corte costituzionale aveva affermato esplicitamente che «la problematica dei tempi processuali, recepita all’interno della Cedu […] non trova eco nella Carta costituzionale»; nella sentenza n. 388 del 1999, effettuando così un improvviso revirement, ha sostenuto che il diritto a una durata ragionevole del processo si evince dall’art. 24 Cost. in relazione con l’art. 6 Cedu, perché «al di là della coincidenza nei cataloghi di tali diritti, le diverse formule che li esprimono si integrano, completandosi reciprocamente nella interpretazione». Certo, non è da escludere che sul cambiamento di indirizzo giurisprudenziale sulla ragionevole durata del processo abbia concorso anche la riforma dell’art. 111 Cost., che proprio in quei giorni si stava per concretizzare.
Dell’utilizzo che la Corte costituzionale fa della Cedu, sia pure ai fini dell’integrazione del parametro costituzionale, ne discendono alcuni aspetti, che si riferiscono alla «collocazione della Cedu nell’ambito delle fonti del diritto interno», come ebbe a dire la Corte di cassazione a Sezioni Unite nel 2004 (sentenza n. 1339). Un aspetto è dato dal novellato art. 117, comma primo, Cost. – poi confermato dalla legge n. 131 del 2003, attuativa della norma costituzionale – che avrebbe fatto elevare la disciplina della Cedu a una efficacia vincolante nei confronti della legge ordinaria, tale da renderla idonea a operare come “norma interposta” nel giudizio di costituzionalità delle leggi. Si era cioè auspicato, da parte della dottrina, che la Corte costituzionale giungesse a configurare le norme della CEDU come norme direttamente integratrici della Costituzione, quindi utilizzabili come parametri dei giudizi di costituzionalità: considerandole, cioè, alla stregua di norme di diritto internazionali generalmente riconosciute ex art. 10, comma 1, Cost., ovvero attraverso un largo uso dell’art. 11 Cost.[11]. Da qui, poi la considerazione del fatto che il rapporto fra la Corte costituzionale e Corte dei diritti dell’uomo «non può non condurre ad un processo di avvicinamento e di omogeneizzazione […] Un dialogo sempre più fitto fra le due Corti non solo è inevitabile, ma è molto utile [perché] in ogni ordinamento giuridico, e così anche nel nostro, vi sono delle vischiosità dovute a tradizioni giuridiche nazionali, che una giurisdizione nazionale, pure se mediamente attenta alle esigenze di tutela dei diritti, può essere meno in grado di superare»[12].
La svolta è avvenuta nel 2007 con le sentenze “gemelle”, di cui ora diremo, che abbandona definitivamente il postulato dualista della rigida separazione tra le fonti internazionali e quelle nazionali in favore della prevalenza del modello della reciproca integrazione.

4. La svolta delle sentenze della Corte costituzionale n. 348 e n. 349 del 2007: una nuova epoca nei rapporti con la Cedu
E veniamo alle sentenze della Corte costituzionale n. 348 e n. 349 del 2007[13]. Le questioni sottoposte alla Corte avevano a oggetto la disciplina italiana in materia di “accessione invertita” e di indennità di esproprio, che era stata dichiarata dal giudice di Strasburgo incompatibile con l’art. 6 Cedu (in quanto l’applicazione di tale disciplina ai procedimenti in corso, che avrebbero dovuto essere definiti sulla base della previgente normativa che prevedeva un indennizzo commisurato al valore venale del bene, ha violato i principi in materia di “giusto processo”) e con l’art. 1 del suo Protocollo addizionale n. 1 (in quanto tale disciplina prevede un indennizzo non adeguato al sacrificio subito dal proprietario per effetto della perdita del bene). Le ordinanze di rimessione avevano impugnato la disciplina in materia di esproprio e di indennità di occupazione non con riguardo all’art. 42 Cost., ma con riferimento all’art. 117, comma 1, Cost. integrato, quali norme interposte, dall’art. 6 Cedu e dall’art. 1 del suo primo Protocollo addizionale. Il ragionamento era il seguente: il nuovo articolo 117, comma 1, Cost., imponendo al legislatore di rispettare i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali, deve essere interpretato come fonte di una “copertura costituzionale” per tutti i trattati internazionali, e quindi anche per la Cedu. Poiché la Corte di Strasburgo aveva deciso che la disciplina impugnata contrasta con l’art. 6 e con il primo protocollo addizionale della Cedu, argomentavano i giudici a quo, da ciò discende una indiretta violazione dell’art. 117 Cost.
La Corte ha precisato innanzi tutto che i giudici comuni non possono disapplicare le norme interne ritenute in contrasto con la Cedu, neppure quando tale contrasto sia stato accertato dalla Corte di Strasburgo. La Corte dimostra l’impossibilità di assimilare la Cedu al diritto comunitario, e specialmente l’impossibilità di attribuire alle norme convenzionali l’effetto diretto «nel senso e con le implicazioni proprie delle norme comunitarie provviste di tale effetto». In particolare, la Corte ha evidenziato le profonde differenze tra l’ordinamento comunitario, l’adesione al quale trova fondamento costituzionale nell’art. 11 Cost., e la Cedu, che «non crea un ordinamento giuridico sopranazionale e non produce quindi norme giuridiche direttamente applicabili negli Stati contraenti». Essenziali i riferimenti, invece, per dimostrare che la disapplicazione delle norme interne non può essere giustificata dal carattere “speciale” della Cedu: sul punto la sentenza n. 349 del 2007 si limita a dare atto che l’obiter dictum contenuto nella sentenza n. 10 del 1993 «è rimasto senza seguito». Escluso che la Cedu rientri nel campo di applicazione dell’art. 11 Cost., e che quindi possa ipotizzarsi una “cessione di sovranità” nel campo dei diritti fondamentali, la Corte osserva che la Cedu, come gli altri trattati internazionali, rientra nel campo di applicazione dell’art. 117, comma 1, Cost. Tale norma, imponendo al legislatore ordinario l’obbligo di rispettare gli “obblighi internazionali”, implica che la norma nazionale incompatibile con la Cedu «viola per ciò stesso tale parametro costituzionale». Le norme interne di adattamento alla Cedu vantano dunque un «rango subordinato alla Costituzione, ma intermedio tra questa e la legge ordinaria», tanto da poter essere qualificate come “norme interposte”. Da questa “copertura costituzionale” discende che il giudice comune, in presenza di un contrasto tra la norma interna e la disposizione convenzionale “interposta”, che non possa essere risolto in via interpretativa, deve sollevare la questione di costituzionalità della legge interna rispetto al parametro dell’art. 117, comma 1, Cost. Spetta quindi alla Corte costituzionale applicare il parametro “interposto” nei giudizi di costituzionalità, che sarà stato assunto dalle decisioni della Corte di Strasburgo. Ciò non significa, ha tuttavia precisato la Corte, «che le norme della Cedu, quali interpretate dalla Corte di Strasburgo, acquistano la forza delle norme costituzionali e sono perciò immuni dal controllo di legittimità costituzionale di questa Corte» dal momento che, collocandosi “ad un livello sub-costituzionale” devono comunque risultare conformi alla Costituzione. Nell’ipotesi di una norma interposta contraria alla Costituzione, «[la] Corte ha il dovere di dichiarare l’inidoneità della stessa ad integrare il parametro, provvedendo, nei modi rituali, ad espungerla dall’ordinamento giuridico italiano».
Sulla base di quanto sostenuto nelle sentenze della Corte, allora, i giudici comuni, quando la legge ordinaria presenta profili di contrasto con un diritto fondamentale, possono: interpretare la norma interna in modo conforme alla norma internazionale, ovviamente come ricostruita attraverso la giurisprudenza europea; ovvero, sollevarne la questione di legittimità costituzionale invocando come parametro di giudizio sia le disposizioni costituzionali in materia di diritti sia le corrispondenti disposizioni della Cedu, come interpretate dalla Corte di Strasburgo. La scelta di quale parametro invocare (se una norma della Cedu, la corrispondente norma della Costituzione o entrambe) finirà per dipendere dagli orientamenti giurisprudenziali che saranno maturati al riguardo. La sentenze di Strasburgo sono destinate quindi ad acquisire un sempre maggiore rilievo anche ai fini della definizione dei giudizi interni. Questo potrebbe portare a dover affrontare (e risolvere) un problema riferito all’interpretazione di una disposizione della Cedu fornita dalla Corte europea nell’ambito di una decisione resa nei confronti di altri Stati, possa assumere carattere vincolante per il nostro legislatore. In effetti, un conto è una pronuncia resa in un giudizio di cui l’Italia è stata parte, e nell’ambito del quale è stato possibile evidenziare le peculiarità del nostro ordinamento giuridico e i principi del nostro sistema costituzionale. Completamente diverso è invece lo scenario relativo ad un procedimento nei confronti di un altro Stato, magari caratterizzato da un sistema giuridico assai diverso dal nostro. Sul punto, però, trovo persuasivo quanto sostenuto da Marta Cartabia: «le decisioni della Corte europea hanno sicuramente effetti che superano il confine dello Stato verso cui sono rivolte. Tuttavia si tratta, come è stato detto, di un’autorevolezza di natura persuasiva, di autorità di cosa interpretata – autorité de chose interpretée – da valutare, a parere di chi scrive, tenendo conto che la Corte europea decide sempre alla luce della dottrina del margine di apprezzamento degli Stati membri. E’ solo con molta cautela che si possono trasporre in un contesto diverso i principi affermati in riferimento a un caso concreto, situato in un preciso ordinamento giuridico, perché non è affatto detto che lo standard richiesto, per esemplificare, alla Polonia o alla Russia o alla Turchia o a qualunque altro dei 47 Stati membri sia applicabile anche in casi analoghi provenienti dall’ordinamento italiano»[14].

5. Gli effetti delle decisioni della Corte Edu e la vicenda degli interna corporis parlamentari
Infine, qualche parola sugli effetti delle sentenze della Corte Edu nell’ordinamento italiano, dopo le decisioni della Corte costituzionale già ricordate. Sul tema degli effetti, occorre innanzitutto evidenziare quanto finora fatto. Mi riferisco, in particolare, alla sentenza della Corte di cassazione n. 32678 del 2006, sul caso Somogyi, che ha riconosciuto la forza vincolante delle sentenze di condanna della Corte Edu nell’ordinamento nazionale ex art. 46 Cedu (“Forza vincolante ed esecuzione delle sentenze”). Come ha sostenuto il giudice di legittimità, formulando il seguente principio di diritto: «nel pronunciare su una richiesta di restituzione nel termine per appellare proposta da un condannato dopo che il suo ricorso è stato accolto dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, il giudice è tenuto a conformarsi alla decisione di detta Corte, con cui è stato riconosciuto che il processo celebrato “in absentia” è stato non equo: di talché il diritto al nuovo processo non può essere negato escludendo la violazione dell'art. 6 della Convenzione europea, [...] né invocando l’autorità del pregresso giudicato formatosi in ordine alla ritualità del giudizio contumaciale in base alla normativa del codice di procedura penale». Si tratta, quindi, di un principio che instaura un collegamento diretto tra il giudizio di Strasburgo e quello dinanzi al giudice italiano, quasi a configurare un vero e proprio quarto grado di giudizio, dotato della forza di vincolare il giudice nazionale successivamente investito della stessa questione, che risulta altresì essere vincolato anche alla valutazione in concreto svolta dai giudici di Strasburgo.
Dopo la sentenza della Cassazione ricordata, e forse anche per via di quella sentenza, il legislatore è intervenuto con legge n. 12 del 2006 (trattasi di una disposizione ad hoc all’interno della legge n. 400 del 1988), in materia di esecuzione delle pronunce della Corte di Strasburgo, che si prefigge lo scopo di favorire una più rapida esecuzione delle sentenze, stabilendo che il Governo è tenuto a presentare alle Camere le sentenze emanate nei confronti dello Stato italiano, affinché siano esaminate dalle Commissioni parlamentari competenti, e la relazione annuale sullo stato di esecuzione di tali pronunce. Va altresì ricordato il d.P.R. 28 novembre 2005, n. 289, che ha introdotto nel nostro ordinamento l’iscrizione nel casellario giudiziale nazionale delle decisioni definitive della Corte di Strasburgo sui provvedimenti giudiziali e amministrativi definitivi emessi dalle autorità nazionali.
Qui si vuole citare soltanto un recente caso, che potrebbe incidere significativamente sulla c.d. giurisdizione domestica della Camera dei deputati, e concorrere così al crollo dello “antico feticcio” degli interna corporis (relativamente alla sindacabilità degli atti e regolamenti parlamentari). Mi riferisco al caso Savino et autres v. Italy dell’aprile 2009[15]. Brevemente, la vicenda: la Corte Edu ha stabilito all’unanimità, che la normativa sulla giustizia domestica della Camera dei deputati italiana viola l’art. 6, par. 1 della Cedu, in quanto non rispettosa dei principi di indipendenza e di imparzialità della giurisdizione. La Corte si è pronunciata riunendo in un’unica causa tre differenti ricorsi proposti, due, da dipendenti dell’amministrazione della Camera e, uno, da quattro cittadini italiani che avevano partecipato al concorso per la carriera di assistenti parlamentari presso la stessa Camera. Sebbene oggetto di contestazione in ambito nazionale fossero, per i dipendenti, la mancata corresponsione di un incentivo di progettazione (in base alla legge n. 109 dell’11 febbraio 1994 e al successivo d.P.R. n. 554 del 21 dicembre 1999), e per i candidati, invece, il criterio di attribuzione del punteggio della prova scritta, tutti i ricorrenti lamentavano la violazione dell’art. 6, par. 1 della Cedu, in particolare laddove garantisce il diritto a che una «causa sia esaminata equamente […] da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge». Nell’ordinamento italiano la vicenda processuale si era esaurita all’interno della Camera, in base all’art. 12, comma terzo, lett. d) e f), reg. Camera e dei cd. regolamenti minori sui ricorsi contro gli atti amministrativi della Camera.
Attraverso il caso Savino la Corte Edu si è pronunciata per la prima volta sul rispetto del diritto all’equo processo da parte del sistema di giustizia domestica istituito presso un Parlamento, e nonostante il sindacato è ancora precluso in sede nazionale dalla Corte costituzionale (sentenza n. 154 del 1985). Soltanto dal 1999 (a partire dalla decisione dell’8 dicembre 1999, caso Pellegrin v. France), la Corte Edu ha iniziato a considerare come rientranti nel campo di applicazione della Cedu «le questioni concernenti il reclutamento, la carriera, e la cessazione di attività di pubblici funzionari» riconoscendo anche a essi il diritto ad avanzare pretese patrimoniali – civilistiche. Ormai sono numerose, invece, le sentenze (di condanna per violazione dell’art. 6 della Cedu) emesse dalla Corte di Strasburgo con riferimento a un’altra delle prerogative parlamentari: l’insindacabilità ex art. 68, comma primo, Cost., decidendo da ultimo in aperto contrasto con quanto affermato dalla Corte costituzionale sul medesimo caso, C.G.I.L and Cofferati v. Italy. Più specificatamente, in questo caso, la Corte di Strasburgo ha rilevato la violazione, da parte dell’Italia, dell’art. 6 Cedu, in quanto il “modello processuale”, ritenuto impeditivo di una decisione sul merito, contraddice il «il principio della preminenza del diritto in una società democratica», e che si sotanzia nel godimento da parte di ciascun soggetto giuridico «della possibilità chiara e concreta di contestare un atto lesivo dei propri diritti». Le prerogative dei parlamentari ex art. 68 Cost. hanno uno scopo legittimo, in quanto garantiscono l’indipendenza del libero mandato parlamentare, ma debbono essere comunque rispettose del principio di proporzionalità, e quindi «il giusto equilibrio che deve regnare in materia tra le esigenze dell’interesse generale della comunità e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo»[16].
L’intervento della Corte Edu su questioni tradizionalmente considerate di pertinenza degli interna corporis delle Camere induce a riflettere sulle conseguenze “potenzialmente rivoluzionarie” che queste ultime sentenze possono determinare sul grado di autonomia riconosciuto al Parlamento italiano.
Per quanto concerne, in particolare, gli effetti che la sentenza resa sul caso Savino è suscettibile di produrre, essi non sembrano potenzialmente dirompenti, anche se “l’attacco” nei confronti del sistema di giustizia domestica della Camera potrebbe “contagiare” altre tradizionali prerogative parlamentari come il monopolio del giudizio sulla verifica dei poteri (art. 66 Cost.), l’insindacabilità e l’inviolabilità (art. 68 Cost.). L’attività di un “giudice in causa propria” contrasta con la necessità di tutelare diritti e interessi di soggetti terzi. In ogni caso, però, sulla scorta della giurisprudenza di Strasburgo vi è un obbligo di conformarsi alla decisione assunta modificando l’attuale disciplina dell’autodichia, almeno presso la Camera; obbligo già onorato in parte (mancano ancora le modifiche dei regolamenti minori) dopo poco più di due mesi dalla sentenza, con la revoca all’Ufficio di Presidenza il potere di decidere in via definitiva sui ricorsi riguardanti il rapporto di lavoro con i dipendenti e su quelli contro gli atti di amministrazione della Camera; si prevede altresì l’incompatibilità tra la carica di membro dei “tribunali camerali” e quella di componente dell’Ufficio di Presidenza (art. 12, comma 6, Regolamento Camera).
In conclusione, va evidenziato come il “feticcio” degli interna corporis dopo avere resistito alle riforme regolamentari delle Camere e alla giurisprudenza della Corte costituzionale, che si è sempre dichiarata incompetente, sta ora cadendo (finalmente, è proprio il caso di dire!) grazie all’intervento di un organo facente parte addirittura di un altro ordinamento[17]. Ciò dimostra come attualmente il sistema multilivello di tutela dei diritti impone nuove priorità, anche a dispetto delle ragioni che hanno favorito l’introduzione dell’autodichia all’epoca dello Stato liberale[18].

 

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* Destinato agli Studi in onore di Alessandro Pace
[1] Così A. PACE, La limitata incidenza della C.e.d.u. sulle libertà politiche e civili in Italia, in Diritto Pubblico, n. 1, 2001, 32
[2] Cfr. G. MORBIDELLI, Corte costituzionale e Corti europee: la tutela dei diritti (dal punto di vista della Corte di Lussemburgo), nel sito web: www.giustamm.it; v. anche S.P. PANUNZIO, I diritti fondamentali e le Corti in Europa, nel vol. I diritti fondamentali e le Corti in Europa, a cura di S.P. Panunzio, Napoli 2005, 5 ss.
[3] Sul punto, D. TEGA, La Cedu e l’ordinamento italiano, nel vol. I diritti in azione. Universalità e pluralismo dei diritti fondamentali nelle Corti europee, a cura di M. Cartabia, Bologna, 2007, 71; A. RUGGERI, Ancora in tema di rapporti tra CEDU e Costituzione: profili teorici e questioni pratiche, nel sito web: www.associazionedeicostituzionalisti.it
[4] V. M. SERIO, Il danno da irragionevole durata del processo. Raffronto tra esperienze nazionali, Napoli, 2009
[5] Cfr. V. SCIARABBA, Tra fonti e Corti. Diritti e principi fondamentali in Europa: profili costituzionali e comparati degli sviluppi sovranazionali, Padova, 2008, 343 ss.
[6] Per una panoramica delle varie posizioni dottrinarie, v. M. CARTABIA, La CEDU e l’ordinamento italiano: rapporti tra fonti, rapporti tra giurisdizioni, nel vol. All’incrocio fra Costituzione e Cedu. Il rango delle norme della Convenzione e l’efficacia interna delle sentenze di Strasburgo, a cura di R. Bin-G. Brunelli-A. Pugiotto-P. Veronesi, Torino, 2007, 10 ss.
[7] Sul punto, v. P. PERLINGIERI, La leale collaborazione tra Corte costituzionale e Corti europee. Per un unitario sistema ordinamentale, Napoli, 2008, specc. 14 ss.
[8] Su cui v. già T.E. FROSINI, Brevi note sul problematico rapporto fra la Corte costituzionale e le Corti europee, nel vol. Corti nazionali e Corti europee, a cura di G.F. Ferrari, Napoli, 2006, 365 ss.
[9] E’ quanto suggerito da A. PACE, Giurisdizione e insindacabilità parlamentare nei conflitti costituzionali, in Quaderni costituzionali, n. 2, 2000, 310 ss. (ora in ID., I limiti del potere, Napoli, 2008, 109 ss.); v. altresì ID., L’insindacabilità parlamentare e la sent. n. 1150 del 1988: un modello di risoluzione dei conflitti da ripensare, perché viola la Costituzione e la C.e.d.u., in Scritti per Giovanni Grottanelli de’ Santi, vol. II, Milano, 2007, 521 ss. (ora in ID., I limiti del potere, cit., 157 ss.). Da ultimo, sulla questione, E. MALFATTI, Immunità parlamentari e terzi “offesi”: “l’accerchiamento” del modello di giudizio della Corte italiana è davvero completo?, in Quaderni costituzionali, n. 4, 2009, 966 ss.
[10] Cfr. F. SALMONI, La Corte costituzionale e la Corte di giustizia delle Comunità europee, in Diritto Pubblico, n. 2, 2002, 491 ss.; v. altresì, A. PERTICI, La Corte costituzionale e la Corte europea dei diritti dell’uomo, nel vol. La Corte costituzionale e le Corti d’Europa, a cura di P. Falzea-A. Spadaro-L. Ventura, Torino, 2003; D. TEGA, La CEDU nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in Quaderni costituzionali, n. 2, 2007, 431 ss.
[11] V. A. BARBERA, Le tre Corti e la tutela multilivello dei diritti e V. ONIDA, La tutela dei diritti davanti alla Corte costituzionale e il rapporto con le corti sopranazionali, entrambi nel vol. La tutela multilivello dei diritti. Punti di crisi, problemi aperti e momenti di stabilizzazione, a cura di P. Bilancia e E. De Marco, Milano, 2004, 97 ss. e 109 ss.
[12] Così V. ONIDA, op.ult.cit., 110. Sul dialogo fra le Corti, e in particolare fra la Corte di Strasburgo e i giudici nazionali, v. J.P. COSTA, La Cour européenne des droits de l’Homme et le dialogue des juges, nel vol. Le dialogue entre les juges européens et nationaux: incantation ou réalité?, a cura di F. Lichere-L. Potvin Solis-A. Raynouard, Bruxelles, 2004, 153 ss.
[13] Numerosi i commenti alle due sentenze “gemelle”; da ultimo, v. il contributo di F. SORRENTINO, Apologia delle “sentenze gemelle” (brevi note a margine delle sentenze nn. 348 e 349/2007 della Corte costituzionale), in Diritto e Società, n. 2, 2009, 213 ss.
[14] Così M. CARTABIA, L’universalità dei diritti umani nell’età dei “nuovi diritti”, in Quaderni costituzionali, n. 3, 2009, 543. Per un confronto con l’esperienza degli altri Paesi, v. G. GUIDI, La Corte europea dei diritti dell’uomo tra libertà e autorità, in Percorsi costituzionali, n. 1, 2008, 109 ss.; N. KRISCH, The Open Architecture of European Human Rights Law, in The Modern Law Review, 2008, 183 ss.
[15] Su cui, v. ora i contributi di E. FASONE, L’autodichia delle Camere dopo il caso Savino. Una condanna (lieve) da parte della Corte di Strasburgo, in Diritto pubblico comparato ed europeo, n. 3, 2009, 1074 ss. e di G. PELELLA, Si consolida l’autodichia parlamentare dopo il vaglio della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Rassegna Parlamentare, n. 4, 2009, 1077 ss.
[16] Sul punto, v. N. PURIFICATI, L’insindacabilità dei parlamentari tra Roma e Strasburgo, in Quaderni costituzionali, n. 2, 2007, specc. 322 ss.
[17] Dell’avviso che la sentenza Savino della Corte Edu «costituirà una nuova “pietra miliare” a sostegno dell’autodichia parlamentare» è G. PELELLA, op. cit., 1094 ss.
[18] V. G.G. FLORIDIA e F. SORRENTINO, Interna corporis, in Enciclopedia giuridica Treccani, vol. XXVI, Roma, 1991.

 

(pubblicato il 12.3.2010)

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