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n. 4 -2010 - © copyright

 

GABRIELE PEPE

Atti politici, atti di alta amministrazione, leggi-provvedimento: forme di controllo e tutela del cittadino.


1.Premessa.
2.Atto politico e legge: l’insindacabilità.
3.Atti di alta amministrazione e casistica giurisprudenziale: una actio finium regundorum con gli atti politici.
4.Leggi-provvedimento. Dal giudice amministrativo alla Corte costituzionale: un vulnus alla tutela del civis ?
5.Conclusioni.




1.Premessa.



Il fil rouge che lega atti politici, atti di alta amministrazione, leggi-provvedimento va ricercato in una particolare caratteristica dei medesimi, ossia nella insofferenza al controllo giurisdizionale che si traduce per i primi nell’ insindacabilità, per i secondi in una verifica giurisdizionale attenuata e per i terzi in una cognizione sui generis dinanzi ad un particolare plesso giudicante. Si tratta, quindi, di fattispecie eterogenee che hanno in comune una vis, sia pure di diversa intensità, potenzialmente lesiva dei principi di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale ( artt. 24, 111, 113 Cost.), talora impedendo talaltra aggravando l’accesso del cittadino alla giustizia e dunque alla protezione delle proprie posizioni soggettive. Certamente tali atti giuridici non sono riconducibili a scelte politico-normative arbitrarie, bensì si ispirano ad una idea di fondo che, nel coniugare autorità e libertà, mira a bilanciare l’ esigenza di funzionamento dei pubblici poteri con la tutela dei diritti individuali. Con il presente scritto si cercherà di misurare, alla luce dei criteri di proporzionalità e ragionevolezza, l’adeguatezza delle soluzioni adottate, come chiarite dagli innumerevoli contributi dottrinali e giurisprudenziali, in relazione alla natura e ai caratteri dei suddetti atti e all’apparato rimediale azionabile avverso gli stessi. In una prospettiva diacronica di analisi degli elementi qualificanti e dell’ambito applicativo delle figure in esame, si illustreranno, in particolare, gli strumenti di controllo ( giurisdizionale e politico) ideati dal sistema a protezione delle sfere soggettive individuali suscettibili di incisione in via diretta o riflessa. Procedendo lungo questa direttrice si intenderà vagliare la tenuta e l’applicazione, caso per caso, del principio di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale nel bilanciamento con interessi costituzionali confliggenti.



2. Atto politico e legge: l’insindacabilità


Il dibattito sulla natura e sulle caratteristiche dell’atto politico nasce in Francia nella prima metà del XIX[1], per poi migrare in Italia nella discussione parlamentare del disegno Crispi[2] relativa all’istituzione della IV sez. del Consiglio di Stato[3]. Dagli atti preparatori emerge l’idea che l’attività del Governo non risulti vincolata al controllo giurisdizionale in quanto gli atti politici “ essendo essenzialmente diretti a tutelare, sì nell’indirizzo degli affari interni che nelle relazioni coi potentati stranieri, gli interessi e le necessità dello stato, hanno con gli interessi privati dei rapporti meramente occasionali o non ne hanno alcuno”. Inoltre essendo “ carente un interesse privato direttamente offeso, manca la materia del giudizio, manca la persona cui possa riconoscersi l’azione per promuoverlo”[4].
In questa relazione, dall’attualità sconcertante, sono chiaramente enunciati tutti i nodi problematici dell’atto politico che da quel momento in poi saranno oggetto di attenzione della dottrina e della giurisprudenza.
Infatti gli enunciati della legge Crispi[5] saranno in seguito recepiti integralmente prima nel R.D. 638/1907 infine nel T.U. 1054/1924 tuttora vigente.
Da quel momento in poi la giustificazione normativa della insindacabilità degli atti politici si rinviene nell’art. 31 del R.D. 1054/1924 ( T.U. del C. d. s.) secondo il quale “ il ricorso al Consiglio di stato in sede giurisdizionale non è ammesso se trattasi di atti o provvedimenti emanati dal governo nell’esercizio del potere politico”.
Dalla lettura della disposizione in esame si evince la necessità di chiarire il concetto di atto politico, allo scopo sia di delimitare l’ambito applicativo della norma, sia di tracciare una linea di confine con gli atti amministrativi in genere e in particolare con quelli di alta amministrazione.
La dottrina europea ( in particolare quella francese e tedesca)[6], sin dai primi del Novecento, ha elaborato varie teorie dell’atto politico, ciascuna delle quali pone l’accento su alcuni requisiti del medesimo, sulla voluntas legis, sulla discrezionalità politica ecc..,senza però fornirne una nozione completa ed unitaria.
Si tratta di concezioni sicuramente pregevoli, anche se alle volte frammentarie e parziali, che hanno avuto il merito di influenzare, con spunti interessanti, il pensiero giuridico italiano nell’approccio alla tematica. Infatti, nei primi anni Trenta del XX sec. si afferma in Italia la teoria della causa oggettiva[7] che si fonda sull’idea che l’atto politico assolva alla funzione di cura dell’interesse generale che si compendia nei supremi ed unitari interessi statali, in una prospettiva volta a garantire il libero funzionamento dei pubblici poteri.
A riscuotere i maggiori successi e le adesioni della dottrina è successivamente la tesi che attribuisce natura politica agli atti in presenza di due elementi, l’uno oggettivo, consistente nell’esercizio di un potere politico di rilievo costituzionale e libero nel fine , l’altro soggettivo caratterizzato dalla provenienza dell’atto da un organo costituzionale o di governo[8]. Muovendo dal R.D. del 1924 questa scuola di pensiero considera politici gli atti emanati da un organo statale sulla base di particolari ragioni di opportunità e, pertanto, non essendo riconducibili a parametri giuridici, tali atti non sono sindacabili dal giudice in quanto vanno considerati legittimi ex se.
I supremi interessi della cosa pubblica plasmerebbero, dunque, l’atto ponendolo su di un piano superiore alla legge, di talchè il giudice, sfornito di criteri di riferimento, verrebbe a trovarsi nella impossibilità di vagliarne la legittimità.
L’atto politico, adottato da organi politici o di governo, è libero nel fine e, a differenza degli atti amministrativi, realizza interessi generali e non settoriali.
Prima del 1948 la categoria degli atti politici trova, in via generale, il proprio fondamento essenzialmente nella “ragion di Stato”, indipendentemente dai motivi specifici che in concreto ne caratterizzano l’adozione[9]. Con l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana la discussione intorno all’atto politico[10] si arricchisce del problema della compatibilità del medesimo con i principi di indefettibilità, pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale dei destinatari. La giurisprudenza[11], nel corso degli anni, ha cercato di circoscrivere il più possibile la categoria dell’atto politico alla luce dell’art. 113 Cost.[12], ampliando al contempo l’area degli atti di alta amministrazione[13]. La distinzione tra i due tipi di atti è, alle volte, assai complessa in quanto entrambi possono caratterizzarsi sia per un elevato tasso di politicità-fiduciarietà, sia per l’essere espressione di una funzione lato sensu amministrativa. Nell’individuazione dei caratteri essenziali dell’atto politico[14], può dirsi oggi pacifica la tesi basata sui due requisiti, l’uno soggettivo della provenienza da un organo costituzionale, l’altro oggettivo della natura generale degli interessi perseguiti e della libertà nel fine dell’organo politico. Queste caratteristiche fanno sì che l’atto politico sia connaturato allo supreme funzioni di uno Stato democratico nell’ambito, ad esempio, delle relazioni internazionali o nei rapporti tra organi costituzionali, le quali per esplicarsi al meglio necessitano di una sfera di libertà. Per preservare l’indipendenza e l’autonomia degli organi politico-costituzionali[15] da indebite ingerenze dei giudici, l’ordinamento considera gli atti politici insindacabili[16] sia in ambito giustiziale che in sede giurisdizionale[17], essendo gli stessi passibili di un controllo meramente politico[18].
Ma il vero argumentum principis a sostegno della insindacabilità sembra essere la mancanza di parametri giuridici alla stregua dei quali poter verificare gli atti politici. Le uniche limitazioni cui l’atto politico soggiace sono costituite dall’osservanza dei precetti costituzionali, la cui violazione può giustificare un sindacato della Corte costituzionale di legittimità sulle leggi e gli atti aventi forza di legge[19] o in sede di conflitto di attribuzione[20] su qualsivoglia atto lesivo di competenze costituzionalmente garantite. Esaminando poi l’atto politico dal versante processuale, risulta evidente come un problema di tutela del cittadino, in linea di massima, non si ponga in quanto l’atto politico ben difficilmente si presenta immediatamente lesivo di un interesse individuale[21].
Il potere politico si esprime, infatti, attraverso direttive a carattere generale che non incidono immediatamente sulle posizione giuridiche dei destinatari, i quali pertanto non risultano titolari di un interesse ad agire in sede giurisdizionale. La protezione dell’ordinamento è accordata al civis sul successivo ed eventuale atto esecutivo dell’atto politico, il quale ove lesivo, potrà essere sì censurato dinanzi ad un giudice.
Vi sono una serie di atti della cui politicità- con annessa insindacabilità- nessuno dubita. A titolo esemplificativo si possono enunciare: la legge e gli atti aventi forza di legge; la nomina dei senatori a vita e dei giudici costituzionali; gli atti di concessione di grazia e di commutazione delle pene; le pronunce della Corte costituzionale; l’ elezione del presidente della Repubblica, dei giudici costituzionali e dei membri del C. s. m.; la presentazione di disegni di legge; lo scioglimento delle Camere; la promulgazione delle leggi; la nomina dei ministri; la firma dei trattati; le mozione di fiducia e di sfiducia delle Camere al Governo; gli atti di sindacato ispettivo. E’ chiaro che tali fattispecie, afferendo ai rapporti internazionali o alle relazioni politiche tra organi costituzionali, investono interessi e funzioni prioritari della Repubblica, con la conseguenza che un assoggettamento degli atti che li esprimono al controllo giurisdizionale minerebbe alla base le stesse dinamiche democratiche e l’operatività dei pubblici poteri. Tra quelli sopra citati, la legge[22] simboleggia l’atto politico per eccellenza.
Le leggi ( e gli atti ad esse equiparati),oltre ad avere tutti i requisiti della politicità, offrono, in più, la garanzia di essere passibili di una duplicità di controlli: il sindacato di legittimità della Corte costituzionale ( art. 134 Cost.) e il referendum abrogativo ( art. 75 Cost.).
In virtù dei requisiti propri dell’atto politico, la legge si presenta come atto insindacabile dinanzi ad un giudice ( salvo per profili di incostituzionalità dinanzi alla Consulta). Da ciò discende come corollario l’impossibilità per un giudice di accertarne profili di illegittimità/ illiceità e di dichiarare una responsabilità del Parlamento ( e quindi dello Stato) foriera di condanne risarcitorie[23].
Supponiamo che una legge pur nella sua generalità e astrattezza rechi un danno al privato. Questi non potrà certo agire in giudizio contro lo Stato per una serie di ragioni : 1) il disposto dell’art. 68 Cost.[24]; 2) la necessità di garantire il libero esercizio della funzione legislativa delle Camere dall’invasione del potere giudiziario; 3) l’assenza di una condotta antigiuridica accertabile per mancanza di idonei parametri; 4) la carenza di un interesse diretto, concreto e attuale del singolo alla impugnativa giurisdizionale. Infatti, se il cittadino, pur lamentando un danno, non è titolare di una posizione giuridica differenziata rispetto alla collettività contemplata dalla norma, appalesandosi, invece, come quisque de populo, egli difetterà dell’interesse ad agire, e, in virtù della selettività del nostro sistema di accesso al processo, non potrà ricevere giustizia da alcun giudice.
Alla luce delle considerazioni fin qui esposte, la non sindacabilità dell’atto politico, e in particolare della legge (generale e astratta), non sembra produrre strappi al sistema costituzionale né al diritto alla tutela giurisdizionale del cittadino, bensì appare coerente con un sistema efficiente e democratico teso a privilegiare la funzionalità dei pubblici poteri. Va rilevato inoltre come, in un sistema di checks and balances, all’insindacabilità delle leggi ( e degli atti equiparati) faccia da contrappeso la presenza di controlli di tipo politico che si traducono, in particolare, nel vincolo di responsabilità che unisce il Governo alle Camere, ferma restando l’applicabilità degli strumenti del referendum abrogativo e del giudizio di legittimità costituzionale. Non si dimentichi, infine, il ruolo esercitato dai mass media e dall’opinione pubblica che oggi, a pieno titolo, possono considerarsi un quarto potere, idoneo a incidere sulla funzione di indirizzo politico e a “sanzionare”, a volte meglio dei giudici, comportamenti poco virtuosi della classe politica.
La questione, però, si complica allorchè la legge assuma un contenuto provvedimentale ossia concreto e specifico. Come si vedrà più avanti, nei casi di leggi- provvedimento il contatto tra l’atto legislativo e le posizioni individuali ha una potenzialità lesiva capace di fa sorgere nel destinatario/controinteressato inciso un interesse a ricorrere . Nel prosieguo della trattazione, si illustreranno i rimedi che l’ordinamento predispone in favore di tali soggetti.



3. Atti di alta amministrazione e casistica giurisprudenziale: una actio finium regundorum con gli atti politici.


L’attività di alta amministrazione può definirsi come l’ “attività amministrativa immediatamente esecutiva dell’indirizzo politico”[25] e pertanto essa si caratterizza come anello di congiunzione tra la fase della programmazione politica e l’ attività di gestione amministrativa. La funzione di alta amministrazione[26] presenta mobili frontiere a causa di criteri identificativi spesso equivoci, per cui non sempre risulta agevole individuare gli atti che ne sono espressione. Sottile appare, infatti, la linea di demarcazione con gli atti politici. La questione qualificatoria riveste certamente un ruolo decisivo ai fini del regime applicabile e della possibilità per il cittadino di attivare o meno la tutela giurisdizionale.
Prima di affrontare i nodi gordiani sul tappeto, è necessario illustrare, sia pur sommariamente, i caratteri e la disciplina dell’atto di alta amministrazione[27], nel tentativo di segnarne i confini con l’ atto politico.
L’atto di alta amministrazione, di regola adottato dall’organo politico in un clima di “fiduciarietà”, è il primo momento attuativo, anche se per linee generali, dell’indirizzo politico a livello amministrativo. A differenza dell’atto politico, esso esprime una potestas vincolata nel fine e soggetta al principio di legalità[28]. Gli atti di alta amministrazione sono una species del più ampio genus degli atti amministrativi e soggiacciono pertanto al relativo regime giuridico - ivi compreso il sindacato giurisdizionale-, sia pure con talune peculiarità connesse alla natura spiccatamente discrezionale degli stessi. Infatti il controllo del giudice non è della stessa ampiezza di quello esercitato in relazione ad un qualsiasi atto amministrativo, ma si appalesa meno intenso e circoscritto alla rilevazione di manifeste illogicità formali e procedurali.
La stessa motivazione assume connotati di semplicità e il sindacato del giudice risulta complessivamente meno intenso ed incisivo.
Attività politica e attività di alta amministrazione sono intrecciate e non sempre distinguibili, essendo entrambe connotate da un alto tasso di fiduciarietà.
Un’autorevole dottrina[29] negli anni Sessanta del XX sec. tenta una classificazione degli atti di alta amministrazione statali ( ossia di competenza del Consiglio dei ministri) individuandoli nel: a) la nomina degli alti funzionari dello Stato ( ambasciatori e ministri plenipotenziari, presidenti e consiglieri del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, prefetti, comandanti di corpo d’armata e di divisione e in genere tutti gli impiegati civili con qualifiche pari o superiori a direttore generale, gli amministratori di vari enti pubblici), b) la risoluzione dei conflitti di competenza tra ministri, l’annullamento straordinario da parte dell’esecutivo di atti amministrativi illegittimi.
A fronte di alcuni atti considerati senza dubbio di alta amministrazione , ve ne sono tanti altri borderline, vicini alla categoria degli atti politici e da questi difficilmente distinguibili. La giurisprudenza ha tentato di restringere la categoria dell’atto politico, conferendo, al contempo, i caratteri dell’ alta amministrazione agli atti di provvista di personale ( nomine e revoche statali[30] tra cui quelle dirigenziali[31] ), non venendo in rilevo supremi ed unitari compiti statali, bensì interessi puntuali e contingenti. L’ ampliamento dell’area dell’alta amministrazione è volto ad estendere il numero degli atti sindacabili dal giudice e dunque a garantire la tutela giurisdizionale delle situazioni soggettive coinvolte.
La casistica degli ultimi anni[32], comunque, è ricca di fattispecie complesse che hanno sollevato nuovi e antichi problemi: dai casi “Petroni”[33] e “Speciale”[34] fino alle controversie “Dal Molin”[35] e “Sgarbi”[36], ipotesi tra loro diverse e dalle distinte peculiarità ma che rinvengono un minimo comun denominatore nelle difficoltà qualificatorie dell’atto, a causa dell’assenza di univoci criteri selettivi idonei a distinguere l’atto politico dall’atto di alta amministrazione.
Nei casi Speciale e Petroni il giudice amministrativo afferma la natura di atto di alta amministrazione del provvedimento/direttiva di sostituzione, il quale pertanto va motivato e soggiace al controllo giurisdizionale. Non vi è dubbio che l’ampia discrezionalità amministrativa che connota tali atti, limiti e attenui il sindacato del giudice il quale si limiterà alla rilevazione dei vizi formali e al riscontro dei presupposti procedurali e della congruità, logicità e ragionevolezza della motivazione.
Si tratta, quindi, di un controllo ab externo circoscritto a vizi palesi ed evidenti.
Nel caso Dal Molin il giudice ha qualificato come politico l’atto di consenso del Governo all’ampliamento della base militare americana, in quanto teleologicamente orientato allo sviluppo delle relazioni internazionali e, dunque, al perseguimento dei supremi interessi della Repubblica.
Più spinoso e intricato è, poi, il caso Sgarbi, sia per la peculiarità della vicenda che investe la nuova collocazione degli enti locali dopo la riforma del titolo V Cost., sia per le conclusioni difformi cui sono giunti il Tar Milano e il C. d. s..
La vicenda processuale ha origine dall’annullamento, da parte del Tar Milano[37], dell’atto di revoca delle deleghe dell’assessore Sgarbi , per mancata comunicazione di avvio del procedimento e assenza di idonea motivazione. La pronuncia in esame muove dalla premessa che l’atto di revoca dell’assessore comunale debba considerarsi non già un atto politico bensì un atto di alta amministrazione, sindacabile tout court dal g. a.. Il comune di Milano propone appello avverso la sentenza dinanzi al C. d. s, il quale riforma[38] la pronuncia del Tar sostenendo che, essendo la revoca dell’assessore comunale un atto politico e non un atto di alta amministrazione, la stessa non è impugnabile dinanzi ad alcun giudice. Inoltre, trattandosi di atto politico, non trovano applicazione le regole e il regime tipici degli atti amministrativi, in particolare gli obblighi di comunicazione di avvio del procedimento e di motivazione. Come sottolineato dal Collegio, la motivazione sussisterebbe in re ipsa, ossia nel venir meno del rapporto fiduciario. Quella che sembrava una qualificazione giuridica ormai assodata viene smentita, a distanza di pochi mesi, dallo stesso C. d. s.[39], che con un inatteso revirement, qualifica questa volta l’atto di revoca dell’assessore comunale come atto di alta amministrazione che deve essere motivato ed è soggetto, sia pure entro certi limiti, al vaglio del giudice amministrativo[40]. La fattispecie in esame, alla luce delle contrastanti sentenze del C. d. S., induce ad un approfondimento delle problematiche ad essa sottese.
La revoca dell’assessore comunale va inquadrata nella più ampia tematica del ruolo del Comune e degli enti locali nel nuovo assetto costituzionale delineato dalla riforma del titolo V. In particolare ci si deve domandare se il concetto di atto politico sia estensibile anche agli atti degli organi degli enti locali.
In passato una parte della dottrina[41] riteneva che questi enti territoriali non potessero compiere atti politici, essendo privi di autonomia politica e funzione di indirizzo costituzionalmente garantite. Infatti, poichè gli indici della politicità sono individuabili nella libertà del fine e nella diretta legittimazione costituzionale, gli enti locali, non avendo potestà legislativa ed essendo vincolati alle leggi, statali e regionali, operano- si diceva- in uno spazio non costituzionale ma amministrativo. Pertanto, essendo titolari di un indirizzo esclusivamente amministrativo, comuni e province hanno il potere di compiere solo atti amministrativi e non atti politici. In più occasioni, infatti, la giurisprudenza[42] ha considerato la revoca dell’assessore comunale in termini di atto di alta amministrazione, muovendo dall’idea che il sindaco non è organo di rilievo costituzionale, che la giunta non è organo di direzione al massimo livello dell’ente locale e che la revoca non è libera nella scelta dei fini essendo funzionale al miglioramento della compagine governativa. Inoltre –ribadisce questo orientamento che-, avendo lo Stato competenza legislativa esclusiva in materia di “legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali dei comuni” gli atti compiuti dagli organi comunali hanno natura amministrativa in quanto attuativi degli obiettivi stabiliti dalla legge statale[43].
Una simile impostazione, oggetto di critiche in dottrina[44] , appare oggi del tutto anacronistica e non più accettabile a seguito delle riforme legislative degli anni Novanta[45] e del nuovo modello costituzionale del titolo V ( l. cost. 3/2001)[46] che impongono l’ estensione della categoria degli atti politici. Il novellato art. 114 Cost.[47], ponendo su un piano di tendenziale parità tutti gli enti costituitivi della Repubblica ( ivi compresi i comuni), vuole conferire a tali soggetti pari dignità che si traduce nel riconoscimento di una autonomia politica costituzionalmente garantita. Per queste ragioni anche gli organi comunali possono compiere atti politici e tra questi rientra a pieno titolo la revoca dell’assessore [48], la quale si inserisce nell’alveo dei rapporti tra sindaco, consiglio e giunta. La revoca rappresenta uno strumento politico dell’azione del sindaco, il quale ove ritenga non più sussistente, il rapporto fiduciario con i suoi assessori, ha la libertà di revocarli, in vista di una migliore governabilità dell’ente. Tale comportamento è soggetto al controllo politico del consiglio comunale che può sanzionarlo mediante l’ approvazione di una mozione di sfiducia. D’altronde si tratta degli stessi meccanismi previsti a livello regionale e, sia pure con alcuni accorgimenti a livello nazionale, per cui la politicità dell’atto di revoca appare fuor di dubbio.


4. Leggi-provvedimento. Dal giudice amministrativo alla Corte costituzionale: un vulnus alla tutela del civis ?

La tematica delle leggi provvedimento è stata oggetto di interessanti studi dottrinali[49] per l’ anomalia teorica della figura ma soprattutto per le ricadute pratiche in ordine alla tutela giurisdizionale del cittadino leso nella propria sfera giuridica.
L’espressione legge provvedimento fu coniata agli inizi del XX sec. per indicare quell’atto idoneo a costituire un rapporto giuridico singolo e puntuale ossia a porre la norma del caso concreto[50]. E’ solo, però, con l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana che si accende il dibattito sulla compatibilità di questa categoria di leggi con i principi costituzionali e in particolare con le norme poste a garanzia dell’effettività e della pienezza della tutela giurisdizionale.
La legge-provvedimento è un istituto ibrido che ammanta con la veste ( e la forza giuridica) dell’ atto legislativo un contenuto di natura provvedimentale. Si tratterebbe, quindi, di una legge solo formale, avendo la stessa il contenuto puntuale e concreto degli atti amministrativi. Per la comprensione della natura e delle caratteristiche della- legge provvedimento, è d’obbligo principiare dalla decodificazione dei contenuti che la legge può assumere.
Sulla scia dei principi liberali della Rivoluzione francese[51], la legge viene concepita, nel pensiero giuridico occidentale, come atto normativo generale, astratto e innovativo.
Nel nostro paese la discussione sulla natura della legge (come norma o come provvedimento) si anima dopo l’entrata in vigore della Costituzione ( 1948).
Una parte della dottrina italiana[52] sostiene che la legge debba limitarsi al “prevedere” i fenomeni in via generale e astratta, mentre la funzione del “provvedere” caso per caso le sarebbe preclusa, in quanto affidata al potere esecutivo in virtù di una riserva di amministrazione ispirata al principio di separazione dei poteri.
Questa tesi è, però, smentita dall’orientamento dottrinale maggioritario[53] secondo il quale “la legge è tale indipendentemente dal suo contenuto” con ciò sottolineando l’ammissibilità di leggi a contenuto puntuale e concreto[54]. L’ atto legislativo è, infatti, qualificabile per il suo profilo formale[55] da cui riceve valore e forza di legge.
Il legislatore, nell’esercizio di un’ ampia discrezionalità politica, che incontra tuttavia limiti nell’osservanza dei valori costituzionali, può fare tantissime cose: obbligare, vietare, permettere, conferire un potere giuridico, sicchè la legge può assumere i contenuti più vari tra cui anche un contenuto amministrativo. Così facendo il legislatore persegue obiettivi concreti[56], intervenendo con soluzioni sì differenziate e diseguali[57] ma nel pieno rispetto- e in attuazione- dei valori costituzionali[58].
La funzione legislativa, anche ove si esplichi in concreto, è sempre una funzione aperta, libera nel fine, nell’an, nel quando,nel quid, vincolata solo all’osservanza dei limiti procedurali e formali che la Costituzione impone al suo esercizio[59]. Ciononostante taluni, a fronte del dilagare del fenomeno delle leggi-provvedimento, denunciano una” crisi della legge”[60] e una fuga dalla amministrazione verso la sede legislativa.
Le leggi- provvedimento hanno efficacia costitutiva[61] poiché incidono sulle posizioni soggettive individuali alla stregua dei provvedimenti amministrativi avendo in più la forza di legge.
Quanto poi alla ratio e alla funzione concreta della legge-provvedimento, si può dire che essa è idonea a soddisfare varie esigenze: 1) sottrarre a responsabilità giuridiche organi amministrativi e di governo ponendoli al riparo da azioni risarcitorie; 2) evitare il controllo della Corte dei Conti; 3) velocizzare l’iter di formazione dell’atto amministrativo[62]; 4) dare stabilità agli effetti un provvedimento precludendo annullamenti ( d’ufficio e ope iudicis ).
La Corte costituzionale[63] ha, sin dagli albori, affermato l’ammissibilità delle leggi provvedimento e la loro compatibilità con l’assetto costituzionale e con il principio di separazione dei poteri. Non sarebbe, infatti, prescritto dalla Costituzione alcun vincolo contenutistico alla legge, per cui la stessa può assumere qualsivoglia oggetto, declinandosi in previsioni anche singolari, puntuali e concrete. Inoltre – secondo la Corte[64]-non è rinvenibile nella Grundnorm alcuna “riserva di amministrazione” da cui far discendere il divieto per il Parlamento di regolare con legge situazioni a contenuto amministrativo, di talchè il legislatore è abilitato a sostituirsi alla pubblica amministrazione[65].
Vi è, però, chi [66] asserisce che nel sistema, pur essendo carente una riserva di amministrazione, sia comunque rinvenibile una “riserva di atto amministrativo”, in virtù della quale la regolamentazione di talune materie o rapporti potrebbe avvenire solo attraverso determinazioni amministrative adottate da una p.a. ( e non con leggi-provvedimento emanate dal legislatore). Questa tesi, tuttavia, non ha riscosso grandi consensi, in quanto priva di un fondamento costituzionale.
Considerate ammissibili le leggi provvedimento, si deve ora delimitarne l’ambito applicativo. Queste leggi hanno un’estensione operativa generale, potendo essere adottate in ogni settore, ad esclusione della materia penale e dell’area dei diritti di libertà ove è la stessa Costituzione ad imporre alla legge un contenuto generale ed astratto[67]. Secondo la Corte[68] le leggi aventi un contenuto concreto e particolare incontrano un limite ulteriore nel rispetto della funzione giurisdizionale ossia le stesse non devono tradursi in forme di elusione del giudicato.
Da un punto di vista classificatorio[69] è possibile, in primo luogo, distinguere le leggi provvedimento statali da quelle regionali. Proseguendo, poi, nell’ opera di catalogazione sono rinvenibili leggi provvedimento: a) innovative, b) esecutive ( o in luogo di provvedimento), c) autoapplicative, d) di valutazione discrezionale amministrativa,e) di approvazione,f) di sanatoria, g) di interpretazione autentica,h) personali o individuali.
Al di là delle specificità proprie di ciascuna categoria, appare necessario individuare un filo conduttore che sveli gli elementi strutturali e le problematiche comuni alle diverse tipologie di leggi. In via generale va detto che la legge-provvedimento interviene ad espropriare sia la pubblica amministrazione che il giudice amministrativo delle rispettive funzioni, nel primo caso attraendo alla discrezionalità del legislatore i compiti del provvedere, nel secondo sottraendo alla cognizione dell’organo di giustizia amministrativa il sindacato sull’esercizio del potere. Un quadro del genere non può che generare nodi problematici che nel prosieguo si tenterà di sciogliere muovendo dalle soluzioni giurisprudenziali dei casi concreti. Per semplificare il discorso ai fini che in questa sede interessano, una valida summa divisio può essere quella tra leggi che recepiscono un atto amministrativo già adottato e leggi in sostituzione di provvedimento.
Tra le prime si segnalano le leggi di approvazione[70] le quali, sovrapponendosi all’ atto amministrativo, ne assorbono i vizi procedurali e provvedimentali[71].
Nella elaborazione della tematica in esame un ruolo decisivo viene svolto dal Giudice delle leggi, il quale è chiamato a pronunciarsi sull’annosa questione dei rimedi e dell’ambito di tutela dei destinatari e dei controinteressati di una legge-provvedimento.
La Corte costituzionale[72] ha sempre ritenuto che i destinatari di una legge-provvedimento non siano sprovvisti di protezione giurisdizionale, bensì che la loro tutela transiti “dalla giurisdizione amministrativa alla giustizia costituzionale secondo il controllo proprio del provvedimento normativo”. Infatti la legge-provvedimento è sottoposta ad uno scrutinio di legittimità costituzionale, sotto il profilo della non irragionevolezza e non arbitrarietà, diretto ad accertare violazioni del principio di uguaglianza[73] o un eccesso di potere legislativo[74].
La stessa giurisprudenza amministrativa[75] tende a spogliarsi della giurisdizione in presenza di una legge di recepimento di una determinazione amministrativa, poiché l’assorbimento nell’atto legislativo radica il sindacato giurisdizionale in capo alla Consulta quale giudice naturale degli atti con forza e valore di legge.
Sulla scia dell’orientamento costituzionale si è collocato recentemente anche il Tar Lazio[76] il quale ha statuito, in relazione alle leggi-provvedimento, che la tutela de cittadino, lungi dall’essere affievolita, ne esce anzi rafforzata. Infatti il “ sindacato costituzionale di ragionevolezza della legge” è “ ancor più incisivo di quello giurisdizionale sull’eccesso di potere” di guisa che si riconosce “al privato, seppure nella forma indiretta della rimessione della questione da parte del giudice amministrativo, una forma di protezione ed una occasione di difesa pari ( se non maggiore) di quella offerta dal sindacato giurisdizionale”.
Da ultimo sulla tematica de qua è nuovamente tornato nel 2009 il Giudice delle leggi[77], il quale per porre un argine alla proliferazione delle leggi provvedimento, ha posto dei paletti al legislatore ( statale e regionale). Questi, qualora adotti leggi a contenuto provvedimentale, deve rispettare con rigore il canone della ragionevolezza, affinché il ricorso a tale tipo di legislazione non si risolva in una modalità per aggirare i principi di eguaglianza (art. 3 ) ed imparzialità ( art. 97). In altri termini, - “ qualora il legislatore ponga in essere un'attività a contenuto particolare e concreto, devono risultare i criteri ai quali sono ispirate le scelte e le relative modalità di attuazione”. La stessa Consulta, nel valutare la legittimità costituzionale delle leggi-provvedimento, non può prescindere dall’accertamento circa l’esistenza di uno scopo razionale, congruo e proporzionato rispetto al fine perseguito, in considerazione della violazione delle situazioni soggettive coinvolte. Se la giurisprudenza costituzionale si è sempre occupata delle leggi-provvedimento considerandole essenzialmente da un punto di vista contenutistico, nella pronuncia in esame, per la prima volta, la Corte sembra prenderne in considerazione anche l’aspetto funzionale, per ponderare il profilo dell’irragionevolezza e dell’arbitrarietà della legge dalla visuale della razionalità del procedimento seguito per la sua adozione. In altri termini la Consulta vuole impedire che l’atto legislativo travalichi, con eccessiva frequenza, i propri argini naturali, segnati dalla generalità, astrattezza e innovatività, abusando della propria funzione, con previsioni troppo spesso particolareggiate, in danno di destinatari e controinteressati.
Anche se una parte della dottrina[78] ha riconosciuto nel processo costituzionale una garanzia superiore a quella offerta dalla giustizia comune, il favor nei confronti della giustizia costituzionale non pare condivisibile, in quanto il Giudice delle leggi offre al ricorrente una tutela deficitaria e incompleta. Per comprendere appieno questo aspetto è necessario esaminare l’ipotesi di
una legge-provvedimento che sopraggiunga nelle more di un giudizio avverso un atto amministrativo illegittimo. Il ricorrente, che abbia ad esempio censurato il provvedimento per eccesso di potere, vedrà paralizzata la propria azione, in quanto l’opera di legificazione sposta la giurisdizione dal g. a.,- giudice naturale della funzione amministrativa-, alla Corte costituzionale. Già questa deroga di giurisdizione suscita perplessità. Inoltre nel percorso di accesso alla tutela costituzionale è rinvenibile un vulnus ai diritti del cittadino. Infatti nel nostro ordinamento il meccanismo con cui il singolo si rivolge alla Consulta ha natura incidentale, poiché postula sia un giudizio pendente sia l’intermediazione necessaria del giudice a quo ( nel caso di specie il g. a.) chiamato a valutare sia la rilevanza che la non manifesta infondatezza della questione di legittimità . Siamo al cospetto, quindi, di un filtro che si esplica in una prognosi dagli esiti incerti. E’ ad esempio possibile che il giudice a quo decida di non rimettere la questione alla Consulta, sicchè il privato risulterebbe sfornito di tutele, non potendo né contestare il provvedimento dinanzi al g. a. per difetto di giurisdizione , né rivolgersi alla Corte per la natura incidentale del giudizio. Per colmare tale deficit di tutela sarebbe auspicabile, in un’ottica de iure condendo, l’introduzione di una forma di accesso diretto[79] al giudice costituzionale limitatamente al caso delle leggi-provvedimento.
Illustrate le modalità di accesso, va affrontata, ora, la questione dell’ ampiezza del sindacato e dei poteri della Consulta, tematica questa che si ripercuote sul grado di satisfattività della richiesta di giustizia del ricorrente.
A dispetto della giurisprudenza maggioritaria, si evidenzia come il controllo del g. a. sull’ eccesso di potere sia, di gran lunga, più intenso dello scrutinio di non irragionevolezza e non arbitrarietà della Consulta. Ciò per due ordini di motivi: a) la maggior familiarità del g. a. a scandagliare l’esercizio della funzione amministrativa abbinato ad una vasta gamma di poteri cognitivi ed istruttori; b) il ristretto ambito sindacatorio della Consulta circoscritto alle sole ipotesi di irragionevolezza e arbitrarietà dell’atto legislativo.
Quanto al primo profilo è chiaro che l’elaborazione e gli studi intorno al vizio di eccesso di potere hanno spinto il g. a. verso una analisi approfondita della funzione amministrativa cui si ricollega un potere-pieno e diretto- di accesso al fatto.
In relazione al secondo aspetto, si fa notare che il giudizio di legittimità costituzionale di un atto legislativo, oltre ad avere una sfera ridotta, si esplicita in valutazioni poco penetranti idonee a sanzionare casi-limite. E ciò per il timore che la Consulta ha di invadere l’area della discrezionalità politica[80]. Inoltre la stessa Corte ha poteri cognitivi ridotti quanto all’ accesso al fatto[81] e utilizza uno strumentario istruttorio assai scarno.
Un altro nodo da sciogliere, con riferimento ai casi di leggi in luogo di provvedimento, è quello della elusione delle garanzie procedimentali[82]. Il legislatore si surroga all’ amministrazione esercitandone le funzioni senza, però, osservare il regime giuridico degli atti amministrativi e nel solo rispetto della procedura di cui agli artt.70 e ss. Cost.[83].
In tali ipotesi vengono a confliggere due principi: la libertà della funzione legislativa con i diritti partecipativi del privato. La scelta dell’ordinamento è nel senso di dare prevalenza alla sovranità politica. Ma così facendo si violano i principi di imparzialità e buon andamento ( art. 97 Cost.) di cui gli istituti partecipativi, consacrati dalla l. 241/1990 , rappresentano il momento attuativo.
Sulla questione ha avuto modo di pronunciarsi la Corte costituzionale[84], la quale ha sì riconosciuto l’esistenza dei principi del giusto procedimento, senza però conferirgli dignità costituzionale nemmeno in via riflessa, di talchè nel bilanciamento con il valore della funzione legislativa( artt. 70 e ss.) i diritti partecipativi risultano soccombenti.
Il procedimento legislativo ha, per sua natura, caratteristiche che non consentono una partecipazione concreta, effettiva e giuridicamente sanzionabile[85] degli interessati, da cui deriva come conseguenza l’obliterazione di qualsiasi garanzia partecipativa[86].
Un’ evidente lacuna, con grave danno per il destinatario, è rinvenibile, in particolare, nella assenza di motivazione delle leggi-provvedimento.
Vero è che le leggi non devono essere motivate, a differenze dei provvedimenti amministrativi, ma ciò si giustifica alla luce dei requisiti di generalità e astrattezza che caratterizzando, di regola, la legge renderebbero la motivazione una evanescente formula di stile.
Se però la legge viene ad assumere caratteristiche di concretezza e specificità, alla stregua di un atto amministrativo, risulta allora imprescindibile una spiegazione del percorso logico che ha condotto alla scelta legislativa, poiché, diversamente opinando, si impedirebbe al destinatario inciso di conoscere il “perché” dell’ atto[87], con ripercussioni sulla efficacia della tutela giurisdizionale.
A ciò potrebbe obiettarsi che per le leggi-provvedimento la motivazione è superflua, non potendo il giudice amministrativo sindacare l’atto né la funzione legislativa che lo ha prodotto. Ma è anche vero che la presenza di una motivazione ( carente, illogica, contraddittoria) potrebbe rappresentare, pur sempre, un sintomo ulteriore della arbitrarietà e irragionevolezza dell’atto, conducendo più agevolmente ad una declaratoria di illegittimità costituzionale dinanzi al Giudice delle leggi.
Oggigiorno i principi di pienezza ed effettività della tutela, per la caratura nazionale e comunitaria, non vanno svalutati, bensì attuati nel processo attraverso regole idonee allo scopo.


 

5. Conclusioni.


In definitiva vanno ricapitolati e chiariti alcuni punti essenziali: gli atti politici costituiscono una categoria ristretta a quegli atti statali, regionali e locali, liberi nel fine, che esprimono interessi generali ed unitari. Inoltre ciò che caratterizza l’ atto politico è la tendenziale inidoneità ad incidere su posizioni individuali e, anche ove ciò avvenga, la valenza politica e generale, in un bilanciamento di interessi, trascende la sfera del singolo, prevalendo. L’insindacabilità dell’atto politico, tuttavia, si mostra in sintonia con i valori costituzionali e
non sembra ledere né conculcare i diritti di difesa del cittadino, il quale potrà sempre impugnare gli eventuali atti esecutivi. Quanto agli atti alta amministrazione, essi rappresentano la cerniera tra indirizzo politico e funzione amministrativa, collocandosi in una terra di mezzo dai confini non sempre chiari. Ecco perché la giurisprudenza è investita di una delicata opera qualificatoria e distintiva rispetto agli atti politici da calibrare sulle specificità dei casi concreti.
Il sindacato giurisdizionale avverso tali atti è ammesso, ma risulta attenuato data l’ ampia discrezionalità del potere esercitato. Ciononostante non sembrano rinvenibili strappi ai valori di effettività e pienezza della protezione giurisdizionale del cittadino, trattandosi di una scelta ragionevole e coerente con i principi dell’azione amministrativa.
Dove, invece, si assiste ad un sacrificio dei diritti difensivi del civis è nell’ambito delle leggi provvedimento, ove l’onnipotenza del legislatore, invadendo l’area amministrativa, comprime i diritti degli interessati in sede sia procedimentale ( assenza di garanzie partecipative) che processuale (sottrazione delle controversie al giudice- naturale- amministrativo).
Inoltre il sindacato della Corte costituzionale, quale giudice delle leggi-provvedimento, offre una tutela di scarsa intensità, apparendo timido verso la funzione legislativa. E’ evidente,infatti, come l’annullamento di atto amministrativo comporti conseguenze meno devastanti rispetto alla declaratoria di incostituzionalità di una legge, tenendo anche in considerazione la centralità che la funzione legislativa assume nel sistema. Pertanto le resistenze della Consulta ad una cognizione penetrante sulla legge-provvedimento, pur se stigmatizzabili dalla prospettiva dei destinatari o controinteressati, appaiono coerenti con l’idea di preservare, senza intrusioni, il merito delle scelte politiche.
L’unico modo, in realtà, per assicurare il diritto alla pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale sembra essere quello di limitare a monte la discrezionalità politica del legislatore, riportandola nel proprio alveo naturale,con l’introduzione di una riserva di amministrazione per taluni atti e/o situazioni, in linea con il principio di separazione dei poteri.

 

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[1] Siamo nel periodo della Restaurazione subito dopo la fase del cesarismo napoleonico. E’ nella giurisprudenza del Consiglio di stato francese che emerge per la prima volta la nozione di atto politico. Il tema è stato ben affrontato da Le Courtois, Des actes de gouvernement, Paris, 1899.
[2] Negli anni 1887-1888 le Camere discutono dell’istituzione di un giudice cui affidare la tutela degli interessi legittimi fino a quel momento circoscritta alla esperibilità dei soli rimedi giustiziali presso le singole amministrazioni. Nella definizione dei limiti del potere sindacatorio del C. d. s., emerse subito la volontà di preservare dal controllo dell’organo di giustizia amministrativa il Governo, rendendo quest’ultimo responsabile dei propri atti esclusivamente dinanzi al Parlamento e al corpo elettorale. [3] Per una precisa ricostruzione storica della vicenda, E. Cheli, Atto politico e funzione di indirizzo politico, Milano, 1961. L’ autore osserva che “ la nozione di atto politico non preesiste, se non come nozione approssimativa e informe, alla istituzione di un sistema di giustizia amministrativa, ma nasce con esso quale conseguenza di una particolare esigenza di ordine pratico che è quella di identificare l’oggetto, precisandone i limiti, di una nuova forma di controllo giurisdizionale”.
[4] Relazione sen. Costa, Atti Senato, Leg. XVI, sess. II, 1887-1888.
[5] Legge 31 marzo 1889 n. 5992: l’art. 24 prevede che “ il ricorso non è ammesso se trattasi di atti o provvedimenti emanati dal governo nell’esercizio del potere politico”, riaffermando così i principi emersi nella discussione parlamentare e in particolare nella relazione Costa.[6] Principali teorie : 1) del movente o causa soggettiva; 2) della natura dell’atto; 3) dell’esecuzione della Costituzione; 4) della discrezionalità assoluta; 5) empirica; 6) negativa.
[7] O. Ranelletti, Le guarentigie della giustizia nella pubblica amministrazione, Milano, 1937. A questa teoria si ispirerà anche A. M. Sandulli, Atto politico ed eccesso di potere, in Giur. Compl. Cass. Civ., 1946, XXII, II, 521, e una parte della giurisprudenza: ex plurimis Cass. Sez. Un. n. 256/1947, in Foro amm., 1947, II. Cons. Stato n. 171/1954, in Foro it., 1954, Cons. Stato n. 362/1951, in Foro amm., 1951.
[8] E. Guicciardi, L’atto politico, in Arch. di dir. Pubbl., 1937.
[9] Cons. stato, sez. IV, n. 351/1946, in Foro amm., 1946.
[10] Sulla natura e sulle caratteristiche dell’atto politico si sono scritti fiumi di inchiostro. A titolo esemplificativo si vedano O. Ragozzino, Brevi riflessioni in tema di criteri identificativi dell’atto politico alla luce della recente giurisprudenza amministrativa, pubblicato in data 15/02/2010 sul sito www.giustamm.it. D. Perugini, Sul cd. Atto politico come atto non impugnabile, in Invalidità amministrativa, a cura di V. Cerulli Irelli e L. De Lucia, Giappichelli ,Torino, 2009. V. Cerulli Irelli, Politica e amministrazione tra atti politici e atti di alta amministrazione, in Dir. Pubbl., 2009 n. 1, pp. 101 e ss.. D. Vaiano, “Gli atti politici” , in G. Morbidelli,( a cura di ), Codice della giustizia amministrativa, Milano, 2005. A. M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1989. G.B. Garrone, voce Atto politico (disciplina amministrativa), in Dig. disc. pubbl., vol. I, 1987, pp. 544 ss.. M. Dogliani, Indirizzo politico. Riflessioni su regole e regolarità nel diritto costituzionale, Jovene, Napoli, 1985. C. Dell’Acqua, Atto politico ed esercizio di poteri sovrani, Profili di teoria generale, Padova , 1983. E. Cheli, Atto politico e funzione di indirizzo politico, Milano, 1961. S. Pertenato, Appunti intorno agli atti politici, Funzione amministrativa, 1960, pp. 549 e ss.. P. Barile, Atto di governo (e atto politico), in Enc. dir., vol. IV, Milano, Giuffrè, 1959. [11] Negli ultimi anni, Cons. stato, sez. V, n. 209/2007, Tar Puglia-Lecce, sez. I, n. 12/2008 e Tar Sicilia, sez. I, n. 765/2007 in www.giustizia-amministrativa.it. Si tratta di pronunce che si ispirano a consolidati orientamenti del passato.
[12] Ai sensi dell’art. 113 Cost. “Contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa. Tale tutela giurisdizionale non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti.”
[13] Come ha avuto modo di chiarire la giurisprudenza, ex plurimis Cons. stato, sez. IV, n. 340/2001,in www.giustamm.it e Cass. sez. Un., n. 1170/2000, in www.cortedicassazione.it, gli atti politici sono espressione della libertà politica che la Costituzione riconosce ai supremi organi dello Stato per adempiere a compiti unitari e indivisibili. Elemento caratterizzante gli atti politici è la libertà nel fine, cioè nella scelta degli scopi generali della azione pubblica, a differenza degli atti amministrativi, i quali sono sempre vincolati al perseguimento degli obiettivi stabiliti dalla legge in base al principio di legalità. In ciò si sostanzierebbe la differenza tra discrezionalità politica e discrezionalità amministrativa.
[14] E. Cheli, op. cit. ben esprime la dimensione e la sfera operativa della politicità: “ il punto d’arrivo della politicità come libertà nella scelta dei fini s’ individua nella legge ordinaria: al di sotto della legge ordinaria non esiste per i poteri pubblici una dimensione politica, non esiste cioè la possibilità di una scelta libera dei fini da perseguire, ma solo una dimensione amministrativa ( o discrezionale) caratterizzata da una libertà più o meno ampia, nella scelta dei mezzi relazionati ai fini che la funzione di indirizzo è giunta a consolidare in particolari norme giuridiche”.
[15] L’azione politica viene svolta da organi superiorem non recognoscentes che pertanto si sottraggono al controllo dei plessi giurisdizionali e alle azioni dei cives.
[16] Contra P. Virga, Diritto Amministrativo, II, Milano, 2001 il quale considera, invece, ammissibile un sindacato del giudice ordinario sull’atto politico.
[17] G. Palatiello, Il concetto di atto politico “giustiziabile”, in Rassegna avvocatura dello Stato n. 4/2008. Secondo l’autore l’insindacabilità degli atti politici, ai sensi dell’art. 31 del T. u. delle leggi del C. d. s., avrebbe valore assoluto manifestandosi sia nei confronti del giudice amministrativo che nei riguardi del giudice ordinario.
[18] Il concetto di controllo politico ha una latitudine assai ampia che va dal giudizio del corpo elettorale, in sede di voto, passando per il rapporto fiduciario Parlamento-Governo fino al controllo esercitato dall’opinione pubblica e dai mass media.
[19] L’ accoglimento della eccezione di costituzionalità comporta per lo Stato l’obbligo di ripristino della situazione pregressa o il risarcimento del danno.
[20] Il conflitto di attribuzioni nasce come strumento di difesa di prerogative, costituzionalmente garantite, da parte di taluni poteri o soggetti dell’ordinamento esperibile avverso qualunque atto lesivo che non abbia natura legislativa. Ciò in base all’evidente considerazione che per la censura delle leggi e degli atti aventi forza di legge la Costituzione riconosce lo specifico rimedio della questione di legittimità costituzionale. Dal 2001, però, l’acuirsi della conflittualità tra Stato e Regioni, in virtù di un sistema elastico di riparto di competenze legislative, ha condotto ad una sovrapposizione tra i due strumenti, sicchè è ammissibile la proposizione del conflitto di attribuzioni anche avverso atti legislativi lesivi dell’art. 117 Cost., quale norma cardine di riparto delle funzioni tra Stato e Regioni.
[21] Idea questa che si ispira alla nota relazione Costa nell’ambito della discussione del disegno di legge Crispi.
[22] La legge è espressione della centralità del Parlamento nel sistema, manifestazione della sovranità popolare, e baluardo dei diritti e delle libertà individuali. Infatti lo strumento legislativo mette tendenzialmente al riparo il civis dall’abuso dei pubblici poteri attraverso statuizioni preventive, generali ed uniformi. Oggigiorno nella nuova Repubblica delle autonomie il discorso in parola non può limitarsi al Parlamento nazionale ma deve estendersi anche ai Consigli regionali, quale espressione diretta delle comunità territoriali.
[23] Di avviso diverso E. Ondei, La responsabilità dello Stato per gli atti politici, in Foro padano, 1954, IV, pp. 130 e ss.
[24] Ai sensi dell’art. 68 Cost. “ i membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni”. Dall’interpretazione della disposizione è possibile estendere la guarentigia della irresponsabilità anche alle Camere, unitariamente intese, in relazione a quell’atto ( la legge) che risulta il prodotto dell’attività parlamentare che l’art. 68 Cost. vuole tutelare nella sua libertà e indipendenza.
[25] M. S. Giannini, Lezioni di diritto amministrativo,Milano, 1950.
[26] Sulla tematica C. Cugurra, L’attività di alta amministrazione, Cedam, 1973.
[27] Si vedano sull’argomento i contributi dottrinali di E. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2009 R. Galli, Corso di diritto amministrativo, Cedam, 2004 e F. Caringella, Il diritto amministrativo, Vol. I, Napoli, 2003.
[28] L’amministrazione opera con i poteri e per le finalità stabilite dalla legge nel più ampio quadro dei principi costituzionali di imparzialità e buon andamento i quali sono deputati ad orientare ogni forma di attività amministrativa.
[29] E. Cheli, op. cit.
[30] Per una casistica giurisprudenziale completa, D. Perugini, op. cit.
[31] Da ultimo la natura di atto di alta amministrazione della revoca degli incarichi dirigenziali è stata ribadita da Corte cost., 5 marzo 2010, n. 81, in www.giustamm.it.
[32]Per un’ attenta e puntuale analisi dei principali casi giurisprudenziali, O. Ragozzino, op. cit. e C. Caruso, I casi “Speciale”, “Petroni”, “Sgarbi”: sindacabilità dell’atto politico? in Quad. Cost. 2009 n. 2.
[33] Tar Lazio, sez. III, n. 11271 del 2007, in www.giustizia-amministrativa.it. La controversia ha origine dalla impugnativa della direttiva – e di tutti gli altri atti che hanno formato oggetto della procedura con essa attivata – impartita dal Ministro dell’Economia e delle Finanze al Consiglio di Amministrazione RAI, intesa a revocare il dott. Petroni dall’incarico di amministratore della società.
[34] Tar Lazio, sez. II, n. 13361del 2007, in www.giustizia-amministrativa.it. Il caso nasce dalla impugnativa, da parte del Comandante generale della Guardia di Finanza, generale Speciale, del Decreto presidenziale, controfirmato dai Ministri dell’Economia e della Difesa, di nomina del generale D’Arrigo, che lo sostituisce nell’incarico.
[35] Cons. di Stato, sez. IV, ord. caut. n. 3992/2008. Il collegio inquadra nella categoria dell’atto politico il consenso governativo all’allargamento della base militare americana Dal Molin, in quanto afferente all’ ambito della politica estera e delle relazione internazionali e, dunque, agli interessi unitari e generali dello Stato.
[36] La controversia concerne la revoca dell’assessore comunale Sgarbi da parte del Sindaco di Milano Moratti.
[37] Tar Milano, sez. I, n. 3045/2008, in www.giustizia-amministrativa.it
[38] Cons. stato, sez. V, n. 280/2009, in www.giustizia-amministrativa.it
[39] Cons. stato, sez. V, n. 6253/2009, in www.giustizia-amministrativa.it
[40] il Supremo Consesso sottolinea le peculiarità di tale atto in ragione del contesto in cui si colloca. Infatti ai sensi dell’art. 46 del d.lgs. 267/2000 “Il sindaco e il presidente della provincia possono revocare uno o più assessori, dandone motivata comunicazione”. Il destinatario della comunicazione è, però, il consiglio comunale e non l’assessore revocato verso il quale non sussiste alcun obbligo di comunicazione di avvio del procedimento di revoca. Inoltre la stessa comunicazione ha una valenza politica, inserendosi nella dinamica tra gli organi dell’ente, e non giuridica cioè a tutela dei diritti/interessi dell’assessore. Ciò si spiega anche considerando che un’eventuale partecipazione dell’interessato risulterebbe del tutto ininfluente, in quanto nella vicenda in esame gli interessi privati non hanno la forza di incidere sul risultato finale, essendo la revoca rimessa ad una valutazione politico-discrezionale del sindaco.
[41] E. Cheli, op. cit.. Secondo l’autore “l’azione dei comuni e delle province, enti amministrativi non costituzionali, si risolve, infatti, interamente nell’ambito della esecuzione della legge ordinaria, senza sconfinare nell’ambito dell’esecuzione diretta e immediata della Costituzione, con la conseguenza che i poteri relativi investono l’area della discrezionalità, non quella della politicità”.
[42] Cons. stato, sez. V, n. 209/2007 e n. 832 del 2005, in www.giustizia-amministrativa.it
[43] Agli organi degli enti locali residua esclusivamente una potestas discrezionale amministrativa da esplicarsi nell’alveo dei fini posti dalla legge.
[44] M. S. Giannini, op. cit.. Secondo l’autore comuni e province, in quanto enti che perseguono fini generali ,sia pure in ambito locale, sarebbero titolari di una funzione di indirizzo politico e quindi avrebbero la capacità di adottare atti politici.
[45] La l. 81/1993 muta i rapporti tra gli organi comunali : il Sindaco, non più eletto dal consiglio ma investito, a suffragio universale e diretto, dal corpo elettorale, diviene titolare del potere di nomina e revoca degli assessori, con l’unico vincolo della comunicazione di tali atti al consiglio. La riforma legislativa si ispira a due obiettivi: da un lato assicurare coesione e unità di indirizzo politico alla giunta quale organo esecutivo dell’ente locale; dall’altro conferire al sindaco strumenti di governabilità in vista dell’ attuazione del programma politico.
[46] Come sottolineato da recente giurisprudenza ( cfr. Cass. sez. Un. n. 12868/2005), dal 2001 esiste “un sistema istituzionale costituito da una pluralità di ordinamenti giuridici integrati, ma autonomi, nel quale le esigenze unitarie si coordinano con il riconoscimento e la valorizzazione delle istituzioni locali”.
[47] Il vigente art. 114 Cost. così recita: “ La Repubblica è costituita dai comuni, dalle province, dalle città metropolitane, dalle regioni e dallo Stato. I comuni, le province, le città metropolitane e le regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione”.
[48] In tal senso Tar Liguria, sez. I, sent. 1600 del 2004, in www.giustizia-amministrativa.it che considera elemento decisivo per la connotazione in senso politico dell’atto di revoca dell’assessore comunale la riforma del Titolo V della Costituzione che avrebbe mutato i rapporti tra gli enti costitutivi della Repubblica. Infatti dal 2001 “l’evoluzione della normativa in tema di individuazione e composizione degli organi di governo dell’ente locale assume un ulteriore spiccato rilievo in ordine alla natura prevalentemente politica, anche degli atti di nomina e dei connessi provvedimenti di revoca dei componenti della Giunta; questi ultimi infatti si trovano ad operare, nell’ambito del rapporto fiduciario con il Sindaco e Presidente della Provincia, quali componenti dell’organo che deve individuare ed attuare gli obiettivi politici sulla scorta di un rapporto avente i caratteri sopra evidenziati. Invero, nel contesto dell’equiparazione dei livelli di governo di cui all’art. 114 Cost., va incidentalmente evidenziato come non siano mai stati sollevati dubbi di sorta in ordine alla natura degli atti di nomina e di sostituzione di un Ministro. Quindi anche l’atto di revoca ai sensi dell’art. 46 co. 4 T.U. enti locali appare ormai emesso nell’esercizio di funzioni di indirizzo politico. Nell’ottica gianniniana tale potestà verrebbe ad assumere i connotati di ulteriore peculiare caratteristica dell’autonomia politica del comune e della provincia”.
[49] R. Soldati, Leggi provvedimento: nozione,caratteristiche e mezzi di tutela, nota a Tar Lazio, sez. I, 21 aprile 2008, n. 3356, in rivista amministrativa della repubblica italiana n. 9-10 del 2008, pp. 539 e ss.. S. Spuntarelli, L’ amministrazione per legge, Giuffrè, 2007. G.U. Rescigno, Leggi- provvedimento costituzionalmente ammesse e leggi- provedimento costituzionalmente illegittime, in Atti del 53 esimo Convegno di studi amministrativi di Varenna, 22 settembre 2007. P. Falletta, Leggi- provvedimento e tutela giurisdizionale, in Giur. Cost. 2002, Commento alla sentenza della Corte costituzionale n. 429 del 2002. F. Cintioli, Posizioni giuridicamente tutelate nella formazione della legge provvedimento e valore di legge, relazione al 46° Convegno di studi amministrativi ( Varenna, 21-23 settembre 2000), Milano, 2001, pp. 122 ss.R. Dickmann, La legge in luogo di provvedimento, in Riv. Trim. dir. Pubbl., 1999, p. 915 e ss.. A. M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Jovene, Napoli, 1989. A. Franco, Leggi provvedimento, principi generali dell’ordinamento, principio del giusto procedimento, in Giur. Cost. 1989. L. Carlassare, Garanzia dei diritti e leggi-provvedimento, in Giur. Cost., I, 1986, pp. 1488 e ss.. V. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale, Le fonti del diritto, II ed., Padova, Cedam, 1984. F. Modugno, Legge in generale, in Enc. Dir. XXIII, Milano, 1973. C. Mortati, Le leggi- provvedimento, Giuffrè, Milano, 1968. V. Crisafulli, Principio di legalità e “giusto procedimento”, in Giur. Cost., 1962, pp. 130 e ss.. M.S. Giannini, Il potere discrezionale della pubblica amministrazione. Concetto e problemi, Milano, Giuffrè, 1939. F. Cammeo, Della manifestazione di volontà dello Stato nel campo del diritto amministrativo, in Primo trattato completo di diritto amministrativo, a cura di V. E. Orlando, Milano, società editrice libraria, III, 1907.
[50] L’espressione fu usata per la prima volta da F. Cammeo, Della manifestazione di volontà dello Stato nel campo del diritto amministrativo, in Primo trattato completo di diritto amministrativo, a cura di V. E. Orlando, Milano, società editrice libraria, III, 1907. Secondo Cammeo si tratterebbe di ”leggi nella forma sebbene nella sostanza non siano atti di funzione legislativa perché non contengono norme giuridiche generali, ma atti amministrativi, in quanto provvedono a costituire un concreto e singolo rapporto giuridico”.
[51] Secondo J. J. Rousseau, Du contract social ou principes dui droit politique, ( 1762),trad. it., Il contratto sociale, Milano, biblioteca universale Rizzoli, 2001., la legge è espressione della volontà generale e di tale requisito essa partecipa. Inoltre la legge è espressione del popolo ed è diretta al popolo intero quale strumento di garanzia dei diritti individuali dall’arbitrio del sovrano. La legge mira proprio a tutelare i cives da discriminazioni e da interventi abusivi.
[52] V. Crisafulli, Atto normativo, in Enc. Dir., vol. IV, Milano, Giuffrè, 1959. Ad avviso dell’autore il discrimen tra potere legislativo e potere esecutivo è identificabile nella distinzione tra il “prevedere” e il successivo “provvedere” che caratterizza gli ordinamenti moderni fondati sulla separazione dei poteri.
[53] A. M. Sandulli, Legge (diritto costituzionale), in Noviss. Dig. it., vol. IX, Torino, Utet, 1963.
[54] H. Kelsen, Problemi fondamentali della dottrina del diritto pubblico, a cura di A. Carrino, Napoli, 1991.
[55] G. U. Rescigno, l’atto normativo, Bologna, Zanichelli, 1998.
[56] G.U. Rescigno, Corso di diritto pubblico, 2005/2006, Bologna, Zanichelli, 2005.
[57] G.U. Rescigno, op. cit.: “La stragrande maggioranza delle leggi di oggi non sono nè generali nè astratte ( e dunque eguali) ma concrete e perciò diseguali”.
[58] F. Modugno, Appunti dalle lezioni sulle fonti del diritto,Torino, Giappichelli, 2005.
[59] In ciò risiede la differenza con la funzione amministrativa la quale, invece, si mostra chiusa e soggetta ad un penetrante principio di legalità: infatti l’ amministrazione svolge un’attività teleologicamente imposta nei limiti delle attribuzioni legislative.
[60] F. Modugno, A mò di introduzione. Considerazioni sulla “crisi” della legge, in Trasformazioni della funzione legislativa, II, Crisi della legge e sistema delle fonti, a cura di F. Modugno, Milano, Giuffrè, 2000. G. Ciaurro, La crisi della legge, in Rass. Parl.,1989. Per crisi della legge si intende quel fenomeno di degenerazione della funzione legislativa che conduce, sempre più, alla adozione di leggi a contenuto provvedimentale, tradendo al contempo i caratteri della generalità e astrattezza propri della legge. Questa tesi, sostenuta da una parte minoritaria della dottrina, è smentita dalla Corte costituzionale la quale, in un’accezione di tipo formalistico, qualifica in senso legislativo l’atto che abbia una certa forma e segua un dato iter costituzionalmente imposto a prescindere dal suo contenuto. Ciò, infatti, è ritenuto sufficiente per il riconoscimento del valore e della forza di legge.
[61] A. Falzea, Efficacia giuridica, in Enc. dir., XIV, Milano, Giuffrè, 1956.
[62] Con le leggi provvedimento il Parlamento si surroga alla p.a. provvedendo lui stesso e direttamente alla cura di interessi collettivi nell’ambito di un sistema in cui lo Stato si fa carico sempre più di compiti sociali.
[63]La prime pronunce furono: C. cost., n. 50 e 60 del 1957, in Giur. cost., 1957. La Consulta dichiara una volta per tutte la natura legislativa delle leggi provvedimento, le quali, nonostante un contenuto provvedimentale, sono sottoposte al sindacato di legittimità costituzionale proprio per la veste formale di legge che le ricopre.
[64] Si segnalano, inoltre, le pronunce della Corte cost., n. 288/2008 e n. 347/1995, in www.cortecostituzionale.it
[65] Nel nostro ordinamento il principio di separazione dei poteri gode di una certa elasticità; in particolare le intense relazioni tra potere legislativo ed esecutivo possono legittimare il Parlamento ad intervenire nell’area tipicamente amministrativa.
[66] G. U. Rescigno, op. cit.
[67] Disposizioni espresse e specifiche al riguardo sono rintracciabili, ad esempio, negli artt. 16 e 21 Cost..
[68] Corte cost. n. 492/1995, in Le Regioni, 1996, con nota di F. Rigano, Scrutinio stretto di ragionevolezza sulle leggi provvedimento e riserva d’amministrazione.
[69] S. Spuntarelli, op. cit.
[70] Ad esempio legge approvazione di uno strumento urbanistico o di un piano sanitario regionale.
[71] Cons. stato, sez. IV, n. 1559/2004, in Giur. it., 2005. La pronuncia ritiene che tra l’atto legislativo e il provvedimento amministrativo approvato si instauri un “vincolo funzionale” che fa sì che vi sia un “ concorso della volontà legislativa con quella amministrativa nella definizione del contenuto dispositivo sostanziale definitivamente descritto nella legge”. Inoltre vi sarebbe “ quanto al rapporto degli effetti prodotti dai due atti un assorbimento dell’atto approvato nella legge che lo approva, della quale acquista il valore e la forza formali e sostanziali”.
[72] Ex plurimis Corte cost., n. 288/2008, n. 205/1996, n. 62/1993, in www.cortecostituzionale.it
[73] A. M. Sandulli, Il principio di ragionevolezza nella giurisprudenza costituzionale,in dir. e soc., 1975.
[74] A. Celotto, Corte costituzionale ed “ eccesso di potere legislativo”, in Giur. cost. 1995 e A. Simoncini, La legge “senza valore” (ovvero della necessità di un giudizio sulla ragionevolezza delle scelte normative). L’autore configura un caso esemplare di eccesso di potere legislativo nell’ipotesi in cui la legge abbia approvato un piano territoriale la cui adozione sia stata annullata in sede amministrativa.
[75] Tra le molte pronunce al riguardo, Cons. stato n. 1559/2004, in www.giustizia-amministrativa.it. Il Supremo Consesso, infatti, ritiene che “ a fronte dell’assorbimento del disposto di un atto amministrativo in un provvedimento avente forma e valore di legge, resta precluso al giudice ogni possibilità di sindacato diretto sull’atto impugnato dinanzi a sé, che si risolverebbe, diversamente opinando, in una sottrazione alla Corte costituzionale della sua esclusiva competenza nello scrutinio di legittimità degli atti aventi forza di legge”.
[76] Tar Lazio, sez. I, decisione n. 3356/2008, in www.giustizia-amministrativa.it
[77] Corte cost. n. 137/2009, in www.cortecostituzionale.it. secondo la Corte “la mancata previsione costituzionale di una riserva di amministrazione e la conseguente possibilità per il legislatore di svolgere un'attività a contenuto amministrativo, non può giungere fino a violare l'eguaglianza tra i cittadini”.
[78] Il primo fu C. Mortati, op. cit., secondo l’autore le leggi provvedimento, lungi dall’attenuare le possibilità di difesa del ricorrente, addirittura le esaltano.
[79] Sulla falsariga dell’ amparo spagnolo. A riguardo M. Carducci, Ipotesi di accesso diretto alla Corte costituzionale, in Quad. cost. 1998, pp. 320 e ss. , A. Sarandrea op. cit., F. Cintioli, Posizioni giuridicamente tutelate nella formazione della legge-provvedimento e valore di legge, relazione al 46° Convegno di studi amministrativi (Varenna, 21-23 settembre 2000), Milano, 2001,pp. 122 ss.
[80] Ai sensi dell’art. 28 l. cost. 87/1953 la Corte non può sindacare il merito della scelta del legislatore, stante l’intangibilità oltre certi limiti della discrezionalità che si concretizzi in scelte di natura politica.
[81] Corte cost. n. 66/1992, in Giur. Cost., 1992: “il giudizio di legittimità costituzionale non può spingersi fino a considerare la consistenza degli elementi di fatto posti a base della scelta medesima e non può esorbitare, anche in tal caso, dai limiti di un esame sulla palese irragionevolezza della scelta compiuta dal legislatore”.
[82] F. Cintioli, op. cit.
[83] Trattandosi di una legge( sia pure a contenuto provvedi mentale) vanno rispettate esclusivamente le regole della funzione legislativa per cui il privato non ha diritto a : 1) comunicazione di avvio del procedimento; 2) valutazione degli atti e dei documenti prodotti ; 3) preavviso di rigetto; 4) provvedimento finale motivato.
[84] Corte cost. n. 234/1985, in Giur. cost. 1985.
[85] Vero è che le Camere così come i Consigli regionali, di regola, tendono a coinvolgere i destinatari delle norme attraverso audizioni e indagini conoscitive, ma è altrettanto vero che non siamo al cospetto di un obbligo giuridico, coercibile. I privati, infatti, non sono titolari di diritti partecipativi, bensì di interessi di mero fatto.
[86] C. Mortati, op. cit., per risolvere la questione propose una modifica dei regolamenti parlamentari che garantisse al destinatario della legge provvedimento la possibilità di offrire un contributo nell’iter di approvazione della legge. Questa idea fu bocciata in base all’assunto dell’unicità del procedimento legislativo a prescindere dai contenuti ( generali, astratti, specifici o puntuali ) della legge.
[87] C. Mortati, op. cit.. Anche in questo caso l’autore propose una soluzione al problema: introdurre un obbligo di motivazione delle leggi- provvedimento e ciò anche in vista di un miglior controllo di legittimità costituzionale. Questa tesi non fu accolta in quanto priva di qualsivoglia fondamento positivo, non prevedendo la Carta costituzionale alcun obbligo in tal senso. Inoltre la struttura della legge rimane identica nonostante le diverse tipologie contenutistiche che tendono a caratterizzarla.

 

(pubblicato il 20.4.2010)

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