Giustizia Amministrativa - on line
 
Articoli e Note
n. 9 -2010 - © copyright

 

PETRA GAY

“La diretta applicabilità della CEDU nell’ordinamento italiano: un percorso ancora work in progress (in margine alla sentenza n. 3760/2010 del Consiglio di Stato)”


1. Nell’affrontare il delicato tema della considerazione da attribuire ai vincoli familiari nell’ambito del diniego o della revoca del permesso di soggiorno, il Consiglio di Stato ritorna al quanto mai attuale dibattito sull’applicabilità della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) nel nostro ordinamento.
In materia di permesso di soggiorno, per quanto in questa sede interessa, vengono in rilievo l’art. 5 comma 5 d. lgs. 286/1998 (Testo Unico sull’Immigrazione) e l’art. 8 CEDU. Il primo prevede che, nell’adottare il provvedimento di rifiuto del rilascio, di revoca o di diniego di rinnovo del permesso di soggiorno dello straniero che ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare ovvero del familiare ricongiunto, si debba tenere conto della natura e dell’effettività dei vincoli familiari dell’interessato. In questo modo, la legislazione interna limita dunque la rilevanza dei vincoli familiari alle sole ipotesi di straniero che abbia esercitato il diritto al ricongiungimento e di familiare ricongiunto. Più ampia, invece, è la previsione convenzionale, laddove l’art. 8 CEDU prevede in capo ad ogni persona il diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, stabilendo che un’ingerenza della pubblica autorità non solo deve essere prevista dalla legge, ma deve anche costituire una misura che, in una società democratica, è necessaria per la sicurezza nazionale, l’ordine pubblico, il benessere economico del paese, la prevenzione dei reati, la protezione della salute o della morale, o la protezione dei diritti e delle libertà altrui.
Ebbene, di fronte a tale conflitto normativo il Consiglio di Stato si è attenuto alle direttive fornite nel corso degli anni dalla giurisprudenza costituzionale in materia di applicazione della CEDU, dando un’interpretazione estensiva della norma interna alla luce della Convenzione europea.
In tal modo è stato possibile tutelare in capo alla ricorrente il diritto al rispetto della vita familiare, dando rilevanza alla sua qualità di coniugata con un cittadino italiano, anche se non aveva esercitato il diritto al ricongiungimento né rientrava nella categoria dei familiari ricongiunti.
Dal punto di vista del dibattito giuridico sull’efficacia della CEDU nell’ordinamento italiano, con la sentenza 3670/2010, la Sesta sezione del Consiglio di Stato ha aderito alla costante giurisprudenza costituzionale[1] che ha riconosciuto in capo al giudice comune il compito di procedere all’interpretazione convenzionalmente orientata della norma interna e, solo ove ciò non si riveli possibile, di investire la Corte costituzionale della questione di legittimità costituzionale con riferimento all’art. 117 comma 1 Cost.[2].

2. La posizione assunta dal Consiglio di Stato appare del tutto condivisibile. Le norme convenzionali della CEDU, infatti, hanno natura di norme parametro interposte nel giudizio di legittimità costituzionale poiché devono essere ricondotte all’inciso “obblighi internazionali” contenuto nel primo comma dell’art. 117 cost.
Allo stato appare ancora prematuro spingersi oltre, teorizzando per la CEDU, o meglio per la sua legge di esecuzione, un’efficacia interna diretta. A tutto voler concedere, è possibile rilevare che la CEDU sta percorrendo un cammino di affermazione negli ordinamenti degli Stati membri che ripercorre le tappe compiute a suo tempo dalle fonti comunitarie, ma ancora decisamente work in progress. A tal proposito è interessante ricordare l’esperienza comunitaria italiana. Il nostro Paese non è nato sic et simpliciter europeo, né tantomeno con l’ingresso nell’Unione le fonti comunitarie sono approdate automaticamente nell’ordinamento giuridico al posto che occupano oggi. Tutt’altro. Esse hanno dovuto “scalare” la nostra piramide di kelsen, conquistando la vetta gradino dopo gradino attraverso un percorso di integrazione normativa lento e complesso. Solo a partire dagli anni ’80 la Corte costituzionale ha riconosciuto prima la loro prevalenza sulle leggi interne e successivamente anche su quelle di rango costituzionale. Così, nel consentire ai giudici la disapplicazione delle leggi interne in conflitto con il diritto comunitario, si è di fatto arrivati a modificare il sistema di controllo sulle leggi, che invece era stato configurato sul modello accentrato. In un momento ancora successivo, la riforma costituzionale ha assorbito gli avanzamenti della giurisprudenza ed oggi il legislatore italiano è costituzionalmente assoggettato al rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario ai sensi del primo comma del nuovo art. 117 cost.
Nel processo di integrazione normativa all’interno dell’ordinamento italiano la CEDU oggi si trova allo stesso punto in cui si trovava il diritto comunitario negli anni Settanta, quando la Corte costituzionale, con la sentenza n. 232 del 1975, stabiliva che “il riconoscimento della diretta ed immediata efficacia dei regolamenti C.e.e., allorché fra questi e le norme interne si frapponga una legge dello Stato non autorizza il giudice a disapplicare tali norme”[3]. Con ogni evidenza, la stessa situazione si può rinvenire nella più recente sentenza 348 del 2007, questa volta in tema di Convenzione europea: “Il giudice comune non ha, dunque, il potere di disapplicare la norma legislativa ordinaria ritenuta in contrasto con una norma CEDU, poiché l’asserita incompatibilità tra le due si presenta come una questione di legittimità costituzionale, per eventuale violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., di esclusiva competenza del giudice delle leggi[4]”.
Così come fino agli anni Settanta il diritto comunitario ha integrato il parametro dell’art. 11 cost.[5], oggi la CEDU si configura come norma interposta che integra il parametro dell’art. 117 primo comma Cost.[6] e in caso di contrasto tra norme interne e convenzionali deve applicarsi lo schema della illegittimità costituzionale per violazione di norma interposta.
Né l’avvento del Trattato di Lisbona e del nuovo art. 6 ha modificato questo quadro. Certamente, è un importante passo nel processo di comunitarizzazione della CEDU; un passo, peraltro, con un potenziale non discutibile. Tuttavia, la strada perché questo potenziale si possa esprimere è ancora lunga.
Gli stessi contributi pubblicati su questa rivista[7] nell’ambito del dibattito sulla diretta applicabilità della CEDU[8] hanno evidenziato aspetti fondamentali sul tema. Forse basterebbe constatare la differenza di trattamento che il nuovo art. 6 riserva alla Carta di Nizza e alla Convenzione europea per comprendere che soltanto la prima è stata realmente comunitarizzata attraverso l’espresso riconoscimento dei diritti, delle libertà e dei principi in essa sanciti. Diverso il discorso per la CEDU, alla quale l’Unione “aderisce”, utilizzando una forma verbale che effettivamente crea problemi interpretativi poiché non è chiaro se voglia essere un’esortazione, un’autorizzazione, una dichiarazione programmatica, un auspicio o semplicemente un caso di lost in translation. Non sembra, comunque, che possa riconoscersi all’inciso un valore costitutivo in re ipsa. A tal proposito, viene infatti in rilievo la complessa procedura per l’adesione. Per cominciare sarà necessario nominare un negoziatore, stabilendo anche le direttive negoziali; quest’ultimo dovrà trattare con le Alte Parti della CEDU l’accordo di adesione e presentarne la bozza al Consiglio. Secondo la previsione normativa dell’art. 218 TFUE, previa approvazione del Parlamento europeo, il Consiglio dovrà adottare all’unanimità la decisione di conclusione dell’accordo che entrerà in vigore dopo l’ulteriore approvazione da parte degli Stati membri. A ciò si aggiunga che i singoli Stati, il Parlamento europeo, il Consiglio o la Commissione potranno domandare il parere della Corte di giustizia sulla compatibilità dell’accordo con i trattati e in caso di parere negativo l’accordo non potrà entrare in vigore, salvo modifiche dello stesso o revisione dei trattati. Come è stato giustamente evidenziato, dunque, l’inciso “aderisce” dell’art. 6 non esaudisce di per sè il procedimento di adesione.
Non è tutto: anche solo per stabilire la composizione, le modalità di finanziamento e le rappresentanze europee per gli organi previsti dalla Convenzione saranno necessari ulteriori dibattiti, appesantiti dal fatto che in questo caso è una realtà comunitaria come l’Unione europea che deve essere inserita nel contesto internazionale multilaterale della CEDU, non uno stato, con tutti i problemi che ne derivano. Si pensi anche solo agli esempi di attrito tra sistema europeo e sistema convenzionale riportati nei contributi di questa rivista cui si è fatto cenno: dall’osservanza o meno del principio di rappresentanza democratica nell’elezione del legislativo, al rapporto tra il divieto di non discriminazione e le agevolazioni dell’area Schengen per i cittadini comunitari, al rischio di sovra-rappresentazione degli Stati membri dell’Ue all’interno della Corte di Strasburgo. Come è stato correttamente affermato, dunque, il nuovo art. 6 offre soltanto la base legale per un’adesione che deve ancora avvenire.

3. In un panorama normativo in piena evoluzione come quello descritto, diventano comprensibili interventi discordanti dei giudici comuni[9], confusi tra diritto comunitario e CEDU, tra disapplicazione e interpretazione adeguatrice.
Allo stato attuale, sembra ancora prematuro riconoscere alla CEDU una diretta applicabilità nell’ordinamento italiano. Da un lato, la Convenzione europea non può considerarsi direttamente applicabile nella sua veste di normativa convenzionale. Peraltro, sotto questo profilo la sua posizione nel nostro sistema delle fonti resterà tale fino a quando la Corte costituzionale non sdoganerà la disapplicazione della norma interna in conflitto ad opera dei giudici italiani, superando così il sistema della prevalenza mediante questione di legittimità costituzionale. Dall’atro lato, la CEDU non può neanche considerarsi direttamente applicabile riconoscendole la natura di fonte comunitaria, perché il processo di comunitarizzazione, nonostante i recenti sviluppi, non può ancora considerarsi compiuto.
In questo quadro, dunque, appare del tutto condivisibile la posizione assunta dal Consiglio di Stato nella sentenza 3670/2010; nondimeno, sul tema dell’applicabilità della CEDU nell’ordinamento italiano ancora non può certo mettersi la parola “fine”.

 

______________________________

[1] Cfr ex aliis Cort. Cost., sentt. n. 348 e 349 del 2007 - c.d. sentenze gemelle -, sentt. n. 239, 311 e 317 del 2009 e sent. n. 93 del 2010.

[2] cfr in particolare il paragrafo 9.2, sent. n. 3760/2010 Consiglio di Stato.

[3] Cort. cost. sent. n. 232 del 1975, paragrafo 7 - in diritto,.

[4] Cort. cost. 348 del 2007, paragrafo 4.3 – in diritto.

[5] Cfr Cort. Cost. sent. n. 183 del 1973 e Cort. Cost. sent. n. 232 del 1975.

[6] Cfr nota 2.

[7] Lisena F., L’Unione europea “aderisce” alla CEDU: quando le parole non servono a “fare cose”; Guarnier T., Verso il superamento delle differenze? Spunti di riflessione sul dibattito intorno alla prospettiva di “comunitarizzazione” della CEDU.

[8] Si fa riferimento al dibattito scaturito dal contributo di Celotto A., Il Trattato di Lisbona ha reso la CEDU direttamente applicabile nell’ordinamento italiano? (in margine alla sentenza n. 1220/2010 del Consiglio di Stato), cui ha seguito l’intervento di R. Sestini, Il Trattato di Lisbona ha reso la CEDU direttamente applicabile nell’ordinamento italiano? (in margine alla nota del Prof. Alfonso Celotto sulla sentenza n. 1220/2010 del Consiglio di Stato).

[9] Si pensi alla diversa posizione assunta dal Consiglio di Stato stesso nella sentenza in commento e nella sent. n. 1220/2010, che definisce gli artt. 6 e 13 della CEDU “divenuti direttamente applicabili nel sistema nazionale a seguito della modifica dell’art. 6 del Trattato”.

 

(pubblicato il 23.9.2010)

Clicca qui per segnalare la pagina ad un amico Stampa il documento