La specialità del Giudice
Amministrativo
Il riferimento alla «specialità» del
Giudice Amministrativo non ha un intento provocatorio rispetto al
generale rifiuto e/o superamento di tale definizione, ma ha una
dignità sua propria, che sarebbe grave errore smarrire per
strada.
Subito un punto fermo. Non v’è contrasto, e non può
esservi, nell’affermazione del superamento dell’antica concezione
dell’interesse legittimo quale mera situazione processuale e nel suo
riconoscimento come situazione giuridica sostanziale, meritevole di
tutela al pari del diritto soggettivo. Non v’è contrasto, né può
esservi, sul riconoscimento della pari dignità del Giudice
Amministrativo e del Giudice Ordinario e nella sostanziale unità
delle giurisdizioni. Non v’è contrasto, né può esservi, nella
considerazione che nel giudizio amministrativo, al pari del giudizio
civile e penale, la stella polare sia rappresentata dalla regola del
giusto processo e, quindi, della parità delle parti e della terzietà
del Giudice. Infine, non v’è contrasto, né vi può essere, sulla
definizione del G.A. come il Giudice della funzione pubblica, o, se
si vuole, delle molteplici e mutevoli forme dell’esercizio del
potere.
Ciò detto. Vi sono però peculiarità proprie del giudizio
amministrativo nel contesto ordinamentale delle istituzioni del
Paese, in relazione proprio alle trasformazioni ed alle modalità di
esercizio del potere pubblico e delle sue manifestazioni, che
suggeriscono alcune riflessioni, anche per comprendere se il nuovo
Codice del processo ne abbia tenuto conto o se invece sia stato
«costruito» secondo una visione dommatica di tipo
tradizionale.
Una prima riflessione, che non è in contraddizione
con la premessa: nel giudizio civile si confrontano diritti dei
singoli (persone fisiche o persone giuridiche) aventi eguale
definizione e spessore, salvo particolari e circoscritte eccezioni
(soprattutto in tema di diritto di proprietà e nel diritto
societario). Nel giudizio amministrativo, l’interesse legittimo
della parte ricorrente si confronta e si scontra con il concreto
esercizio o il mancato esercizio del potere pubblico, che ha come
finalizzazione l’interesse generale.
Il Giudice è indubbiamente
terzo, le parti nel rito processuale sono in posizione paritaria. E’
il quadro normativo di riferimento che è diverso e che trae linfa e
ispirazione nei principi della Carta Costituzionale. Nei rapporti
tra pretesa individuale ed esercizio della funzione pubblica non
viene in considerazione soltanto o esclusivamente il rispetto dei
diritti inviolabili dei singoli, bensì il rispetto «dei doveri
inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale».
La
qual cosa sta a significare che le leggi applicabili nelle singole
fattispecie di diritto pubblico si fanno carico (o dovrebbero farsi
carico) del contemperamento di siffatti principi. Con l’ulteriore
sottolineatura che in una visione di rete degli ordinamenti
giuridici nazionali, l’ordinamento giuridico italiano deve
conformarsi alle norme ed ai principi di diritto internazionale
riconosciuti. E’ in questo contesto che anche diritti soggettivi
assoluti, (i «beni principali» li chiama Rawls), costituzionalmente
irrinunciabili, possono trovarsi in conflitto tra loro ed
abbisognano di una mediazione legislativa e di un intervento
giurisdizionale non del Giudice dei diritti, bensì del Giudice
Amministrativo; anche sub specie di giurisdizione esclusiva,
con la sua peculiare capacità e sensibilità per cogliere e
giudicare, accanto al rispetto delle regole formali e
procedimentali, la suscettibilità di un condizionamento anche di
tali diritti attraverso l’intervento dell’amministrazione.
Si
pensi ai problemi attuali del confronto e dei conflitti tra diritto
alla salute ed all’ambiente salubre, alla tutela del lavoro, alla
salvaguardia del bene paesaggio, ma altresì ai diritti dell’economia
in termini di localizzazione di impianti produttivi e di smaltimento
dei rifiuti. Si consideri il tema dell’energia, alla vigilia di
quella che si annuncia la nuova grande battaglia sulla
localizzazione delle centrali nucleari, o a quella attuale degli
impianti di energia alternativa (pale eoliche e fotovoltaico), le
cui procedure di localizzazione, oltre a coprire fisicamente il
territorio nazionale, stanno occupando le aule dei tribunali
amministrativi regionali in un difficile confronto sulla
applicazione delle molteplici leggi. Leggi di produzione statale e
regionale che dovrebbero riuscire a contemperare le esigenze del
paesaggio (inteso come identità culturale di un luogo), i bisogni di
un settore primario dell’economia, come l’agricoltura, ma altresì il
perseguimento dell’autosufficienza di fonti energetiche alternative,
indispensabili per uno sviluppo a misura d’uomo.
Rimane sullo
sfondo, ma torna prepotentemente in primo piano, l’enunciato
dell’art. 41 della Costituzione, secondo cui l’economia privata è
libera, ma non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in
modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità della
persona. Il legislatore è chiamato a «determinare i programmi ed i
controlli perché l’attività pubblica e privata sia indirizzata e
coordinata ai fini sociali». Ma è il Giudice della funzione pubblica
e del concreto esercizio del potere a decidere se, ed in quale
misura, queste leggi siano rispettate. Conflitti di non semplice
soluzione, se, a fronte del primato della libera concorrenza, si
avverte l’insufficienza di una legislazione nazionale e si auspica,
da qualcuno, una Autorità sovranazionale mondiale, con la intrinseca
contraddizione di un deficit di democrazia decisionale. Idea non
nuova. E’ il laico sogno kantiano di uno ius cosmopoliticum,
ma altresì la conseguenza delle analisi di John Maynard
Keynes.
V’è poi il tema della sacralità del diritto di proprietà
e della sua funzione sociale, e del problema delle forme, delle
modalità e dei limiti dell’espropriazione per pubblica utilità, in
cui il Giudice Amministrativo – e non solo – deve sopperire alle
incertezze delle leggi, sottoposte alla verifica di coerenza con
l’ordinamento sovranazionale, ed alla inefficienza della pubblica
amministrazione, ossia al non corretto esercizio del potere. Per non
dimenticare un’altra tipicità del regime proprietario nel nostro
Paese, che, da un lato contempla lo ius aedificandi tra le
facoltà inerenti il diritto dominicale, e, dall’altro, attribuisce
al potere pubblico modi, forme e tempi per rimuovere i limiti -
funzionali all’interesse generale - per il concreto esercizio di
detta facoltà. Giudice esclusivo degli interessi del singolo, in
relazione all’esercizio in concreto della potestà pianificatoria e
provvedimentale della P.A., nella cornice dell’attività legislativa
ai vari livelli e nella concorrenza di ulteriori molteplici
interessi, è per l’appunto il Giudice Amministrativo.
In questo
complesso scenario, non sempre facilmente leggibile nelle
oscillazioni del diritto positivo, dominano, nel contenzioso innanzi
al Giudice Amministrativo, per un verso, l’esatta individuazione dei
limiti di compatibilità dei diritti e dei doveri pubblici, definiti
dal legislatore, secondo l’ispirazione di quella visione
solidaristica, che fa della Carta Costituzionale del nostro Paese un unicum nel panorama europeo (le premesse di un rivoluzione
futura, secondo il giudizio ingeneroso di Calamandrei); per altro
verso, la verifica, sempre da parte del Giudice Amministrativo, del
rispetto delle regole formali e procedimentali nell’esercizio della
funzione, secondo i principi del buon andamento ed imparzialità
dell’Amministrazione.
Il discorso potrebbe ulteriormente
continuare attraverso molteplici esemplificazioni per tutti i
settori della vita comunitaria di ogni giorno avuto riguardo ad una
realtà fenomenica che coinvolge la idea stessa della democrazia
liberale, e che sembra contraddire i canoni tradizionali della
concezione liberista. Non si realizza il principio di reciprocità,
che è l’anima della libertà, nelle sue molteplici espressioni
individuali e collettive, senza divieti e comandi, e cioè senza quel
«gioco delle regole» che richiedono però una buona amministrazione
ed un Giudice capace di verificarne la corretta
applicazione.
Ecco quindi che nel processo amministrativo non
vale il semplice accertamento di ciò che è mio e di ciò che è tuo,
bensì la verifica che l’interesse o il diritto del singolo,
giuridicamente riconosciuto dall’ordinamento nei limiti di una
compatibilità con l’interesse della comunità, sia stato rispettato o
illegittimamente violato dal titolare del potere pubblico, cui è
demandato il perseguimento dell’interesse generale.
Non è cosa da
poco conto, tant’è che v’è unanime convergenza nella definizione del
Giudice Amministrativo come il Giudice della complessità. Ma è
proprio per questo che deve essere rivendicata la «specialità» del
Giudice Amministrativo. E’ indiscutibile che il Codice del processo,
la legge sul procedimento amministrativo, la legge sulla funzione di
regolazione delle Autorità indipendenti, molte regole del diritto
urbanistico hanno un unico antecedente: la giurisprudenza pretoria
del Giudice Amministrativo che «ha migliorato intensità e qualità
della tutela giurisdizionale … ha elaborato tecniche giuridiche di
tutela più raffinate», e in una parola, «ha dato prova di tensione
ideale» (S. Baccarini).
I conflitti dei pubblici
poteri
Una seconda riflessione attiene alla
trasformazione del Giudice Amministrativo da Giudice del potere a
Giudice «dei pubblici poteri» (secondo la definizione di Pasquale de
Lise, nel discorso di insediamento alla presidenza del Consiglio di
Stato) o – se si vuole – della funzione pubblica. La giustizia
amministrativa è nata, con l’affermarsi dello Stato di diritto, come
strumento di tutela delle posizioni soggettive dei cittadini nei
confronti della pubblica amministrazione. Sino alla istituzione nel
1889 della IV Sezione del Consiglio di Stato, l’unico rimedio
giurisdizionale avverso gli «atti di imperio», come ricordano
Bachelet e Cannada Bartoli, era il ricorso straordinario, normato
dapprima con la legge del Regno di Sardegna n. 3707 del 1859 e,
quindi, con la legge n. 2248 del 1865, all. D, che ebbe grande
importanza tra il 1865 ed il 1889.
La successiva evoluzione della
giustizia amministrativa, con la piena operatività ed affermazione
del Consiglio di Stato, e, quindi, con l’avvento della Costituzione
repubblicana, consacrò i principi fondamentali della moderna
giurisdizione amministrativa, proclamando la generalità della tutela
degli interessi legittimi nei confronti degli atti della pubblica
amministrazione, senza distinzione o limitazione.
Nella
travagliata, ma esaltante diffusione della giustizia amministrativa,
non era immaginabile che quel Giudice, nato per difendere il
cittadino contro il potere, e le sue prevaricazioni, dovesse
assumere il ruolo di un «arbitro» per dirimere le controversie
all’interno dell’ordinamento, nei conflitti tra i pubblici poteri.
Ruolo che imporrebbe comunque una rivisitazione ed un coordinamento
con la funzione tradizionale della Corte Costituzionale sui
conflitti di attribuzione tra poteri.
E’ questa la ulteriore
dimostrazione della duttilità di un Giudice davvero speciale, che sa
ben interpretare il proprio ruolo e la propria funzione in relazione
alle trasformazioni del potere pubblico, delle sue manifestazioni e
del suo collegamento con la realtà sociale.
Accade così che, di
fronte alla evoluzione di uno Stato accentrato come ordinamento e
con un’anima dirigista in economia, in termini autonomistici e con
la liberalizzazione del mercato secondo le regole comunitarie della
libera concorrenza, i nuovi conflitti abbiano assunto una diversa
connotazione.
Protagonisti nelle aule della giustizia
amministrativa sono sempre più i soggetti pubblici, nel mentre il
cittadino come singolo e come espressione della comunità di
appartenenza rimane sullo sfondo.
Il nuovo contenzioso è
all’interno della res publica tra Stato, Regioni, Province,
Comuni o nei riguardi degli altri Enti pubblici, titolari di una
qualche funzione pubblica, e, persino, con la partecipazione di
quelle Autorità indipendenti, inventate ed invocate per prevenire o
evitare i conflitti. Alla base di tali controversie v’è la
rivendicazione della reciproca autonomia istituzionale, ma altresì
l’incidenza delle competenze e della capacità decisionale, sulla
base del principio di rappresentanza, nelle scelte dello sviluppo
economico sociale del Paese. E’ l’emersione di un nuovo pluralismo,
in funzione di un più equilibrato assetto degli interessi, che
dovrebbe essere al servizio delle utilità del cittadino. In realtà,
spesso, il cittadino rimane spettatore e guarda attonito ad una
diffusa conflittualità, non si riconosce in essa, e non si spiega
perché l’ordinamento non riesca a ritrovare la sua unitarietà,
legittimandosi soprattutto nella conflittualità e nella
rivendicazione. Per molti, l’esperienza che vive la moderna
giurisdizione amministrativa è la diretta conseguenza di una riforma
affrettata ed incompleta della Costituzione, il cui segno distintivo
si rinviene nella definizione dell’ordinamento nazionale attraverso
una forma di governo - la Repubblica - quale contenitore di realtà
istituzionali, ciascuna delle quali si muove secondo una sua propria
sfera d’autonomia costituzionalmente protetta.
Al Giudice dei
poteri è quindi affidata la soluzione di siffatti
conflitti.
Compito arduo e di grande spessore, sol che si
consideri che l’intera prima parte della Costituzione nei suoi
principi fondamentali affida alla “Repubblica” compiti di promozione
e di garanzia, secondo quella visione solidaristica in precedenza
richiamata. Ma se la Repubblica è in conflitto in se stessa, sia
come apparato che come ordinamento, viene meno la possibilità di
adempiere ai propri compiti.
Ed è singolare che lo “Stato”
finisca per essere una componente all’interno di quel contenitore,
in un ordine che lo vede in posizione ultima rispetto ai Comuni,
alle Province, alle Città metropolitane ed alle Regioni.
E’ ovvio
come non fosse sufficiente rimettere in un certo ordine le varie
autonomie per riformare in senso pluralista o federale lo Stato.
Occorreva un disegno riformatore organico e funzionale alla
esaltazione ed alla salvaguardia dell’unità dell’ordinamento
statuale.
Ecco allora il nuovo e difficile compito affidato al
Giudice Amministrativo della modernità, arbitrare i conflitti tra i
protagonisti della Repubblica, ma garantire, al contempo, il
pluralismo dei poteri decisionali.
Molteplici i conflitti
giurisdizionali tra Regioni e Stato, tra Comuni e Province, tra
Province, Comuni, Regioni e Stato, senza la partecipazione del
cittadino.
Il tema più attuale è, ad esempio, quello della
realizzazione delle infrastrutture, degli impianti di interesse
generale, degli insediamenti produttivi. Cioè di tutta quella
ossatura che dovrebbe tonificare e modernizzare il Paese.
Occorre
riconoscere che la legislazione in materia ha previsto rimedi di
risoluzione delle controversie e delle rivendicazioni tra i vari
livelli delle autonomie territoriali. Si pensi, ad esempio, alle
opere strategiche di interesse nazionale, per le quali la
composizione dei conflitti è disciplinata all’interno
dell’ordinamento. E, tuttavia, il ricorso alla giustizia
amministrativa appare quasi come un rimedio ineluttabile. Sicchè,
anche e soprattutto in questa difficile composizione, il Giudice
Amministrativo è chiamato, come recita la disposizione che investe
la sua competenza, «a tener conto di tutti gli interessi che possono
essere lesi», nonché «del preminente interesse nazionale alla
sollecita realizzazione dell’opera».
Ancora una volta viene in
soccorso la «specialità» del Giudice Amministrativo.
La «moviola» nel processo
amministrativo
Nel giudizio amministrativo non esiste la
moviola. Non esiste cioè la possibilità, come accade sovente nel
giudizio civile e penale, di un riscontro obiettivo a posteriori della congruità di una decisione.
Questa impossibilità deriva
in larga misura dai contenuti delle norme e degli istituti che
regolano i rapporti di diritto pubblico, molto diversi dalla
staticità e stratificazione delle norme civili e penali. Si tratta,
molto spesso, di disposizioni a maglie larghe, che si fanno norma
con l’applicazione e l’adattamento giurisprudenziale e che traggono
origine da uno sforzo del legislatore di mediazione e di
compromesso, poiché ineriscono sempre al contemperamento dei
pluralismi interni, tra loro sovente confliggenti, ed al
soddisfacimento di esigenze inderogabili, tra le quali quelle di
natura economico finanziaria. Ed è condivisibile l’affermazione che
il diritto giurisprudenziale non è più complementare, ma assume
quella funzione ordinatrice che il legislatore non è più capace di
svolgere, con un arretramento, quindi, del diritto legislativo ed un
avanzamento del diritto giurisprudenziale (L. Torchia). Per altro
verso, a rendere difficilmente applicabile il ricorso ad una
ipotetica moviola, v’è la natura stessa della interpretazione
giurisprudenziale di tipo pretorio, che il sistema attribuisce e
riconosce al Giudice Amministrativo.
Significativa la
valutazione sull’eccesso di potere, che può cambiare da collegio a
collegio, specie in relazione al principio di proporzionalità.
Si
pensi al ruolo della tutela cautelare ed ai poteri che il codice
affida al Giudice Amministrativo nella scelta dei rimedi da
adottare. Si tratta di un ruolo centrale nel processo
amministrativo, «che spesso risolve proprio in quest’ultima la
propria essenza». Questo ruolo, definito come il «centro di gravità»
dell’azione processuale (S. Raimondi), è destinato ad aumentare in
relazione all’espressa rilevanza riconosciuta dall’art. 30 del
Codice al comportamento della parte lesa ai fini del risarcimento
del danno, tale per cui il giudice «esclude il risarcimento dei
danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza
anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti»
(M. A. Sandulli).
La centralità della tutela cautelare fa sì che
essa possa addirittura definire la controversia senza che si
pervenga necessariamente ad una decisione di merito, o, per altro
verso, che si instauri nella fase cautelare quel dialogo con
l’Amministrazione, tale da indurre la stessa a orientare l’attività
discrezionale nella direzione indicata in un provvedimento cautelare
atipico. Ed in questa direzione può assumere un rilievo particolare
la tutela cautelare ante causam, con la possibilità quindi di
un autonomo adeguamento conformativo dell’Amministrazione, senza,
quindi, il successivo riscontro in termini di giudizio di
merito.
Ma al di là di questo aspetto peculiare del giudizio
amministrativo, vi sono i poteri ed i criteri di giudizio affidati
al Giudice, le cui valutazioni, in termini di adeguatezza di
motivazione del provvedimento, di corretto esercizio della
discrezionalità amministrativa, di proporzionalità dei rimedi e
delle soluzioni nei conflitti intersoggettivi, della valutazione del
requisito dell’urgenza, e così via, non facilmente soggiacciono ad
un riscontro di conformità a parametri differenti da quelli adottati
nel caso deciso.
A tutto ciò v’è da aggiungere i nuovi poteri che
i riti speciali hanno conferito, in un quadro di compatibilità
comunitaria, al Giudice del potere pubblico. In particolare, alle
determinazioni tipicamente amministrative che il codice ha
attribuito al Giudice per dichiarare in tutto o in parte
l’inefficacia dei contratti nelle procedure di affidamento di
pubblici lavori, servizi e forniture, attraverso una valutazione di
merito degli interessi economici da salvaguardare, in conformità con
la pretesa della parte ricorrente. Poteri ancor più pregnanti nelle
controversie relative alle infrastrutture strategiche, per le quali
l’art. 125 del Codice esclude la caducazione del contratto già
stipulato, ed impone al Giudice, in sede di pronuncia del
provvedimento cautelare, di tener conto «delle probabili conseguenze
del provvedimento stesso per tutti gli interessi che possono essere
lesi». Formulazione che obbliga il Giudice dei poteri pubblici a
farsi carico di un onere motivazionale, ma che, come si può
riscontrare nella più recente giurisprudenza, attribuisce a quel
Giudice ampia potestà discrezionale, non suscettibile di verifica di
congruità.
Anche per questo viene ad essere esaltata la
«specialità» del Giudice Amministrativo, che si coniuga con la
particolare responsabilità del Giudice dei poteri pubblici e con la
sua sensibilità giuridica. Egli è chiamato a sciogliere i nodi
intricati di una giustizia distributiva, effettiva e non formale,
finalizzata a ripristinare la legalità sostanziale dell’agire
amministrativo, per garantire quella «buona amministrazione», che
rappresenta la massima aspirazione del cittadino, e che, prima di
essere codificato come un principio di diritto comunitario, è il
postulato naturale dell’art. 97 della Carta
Costituzionale.
Conclusivamente, se un rilievo può farsi al pur
egregio, e per molti aspetti storico, lavoro svolto nella redazione
del Codice del processo, è quello di aver coltivato la
preoccupazione di un definitivo superamento della collocazione e
qualificazione in termini riduttivi del giudice amministrativo come
un giudice speciale, ai margini dell’ordinamento giurisdizionale.
Sarebbe stato più producente ribaltare la questione, rivendicando e
difendendo la «specialità» della giustizia amministrativa, nel senso
illustrato della sua centralità, e secondo la definizione della
Corte Costituzionale, come «Giudice naturale della funzione
pubblica».
Si sarebbe forse superata la maliziosa obiezione dei
processualcivilisti, secondo cui, il rinvio, ancorchè «esterno» alle
norme del Codice di procedura civile implicherebbe «il
riconoscimento della prevalenza della elaborazione teorica
processualcivilistica» (G. Costantino). E l’ulteriore rilievo di una
incapacità di adattamento del Codice del processo amministrativo.
Rilievo al quale è agevole replicare, che, proprio per la sua
«specialità» e la molteplicità dei suoi riti, il C.P.A. non è «un
testo chiuso e compiuto», ma è l’espressione della modernità di un
sistema, nel quale la codificazione è insieme ordine normativo e
«punto di partenza» per futuri approdi giurisprudenziali (P. de
Lise), funzionali all’effettività della tutela secondo le regole di
appartenenza alla comunità, e per la convivenza civile.