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n. 2-2011 - © copyright |
SALVATORE CASU
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La tutela del privato in materia
edilizia: Dal permesso a costruire alla Segnalazione certificata di inizio
attività
SOMMARIO: Premessa; 1.1 La denuncia
di inizio attività:natura giuridica e legittimità della denuncia di
inizio attività; 1.2 Il problema della tutela del terzo
controinteressato; 2 Dalla D.I.A alla S.C.I.A; 3. Natura giuridica e
tutela giurisdizionale del permesso a costruire; 4. L’autotutela in
materia edilizia; 5. L’annullamento regionale del permesso a
costruire; 6. L’inerzia della P.a nel rilascio del permesso a
costruire: Il rimedio del silenzio rifiuto e l’intervento
sostitutivo regionale; 7. La tutela risarcitoria: il danno da
ritardo.
Premessa.
La tutela del privato in
materia edilizia si atteggia in maniera distinta in considerazione
della tipologia di intervento per cui si richiede il rilascio del
titolo abilitativo: se si tratti quindi di opere soggette a denuncia
di inizio attività ( ora Segnalazione certificata di inizio di
attività ) o permesso a costruire . Rileva inoltre se la tutela sia
rivolta contro un provvedimento, un comportamento della pubblica
amministrazione oppure avverso la sua inerzia in relazione ad una
istanza presentata dal privato.
Occorre premettere che la
legittimità dei provvedimenti rilasciati dalla P.A in materia
edilizia è condizionata dalla natura giuridica che a tali
provvedimenti viene riconosciuta dalla dottrina e dalla
giurisprudenza. A tale riguardo è necessario rilevare che è ormai
pacifico che il permesso a costruire ha natura di provvedimento a
carattere ampliativo (autorizzazione) . La natura della denuncia di
inizio attività (da ora D.I.A) ora sostituita dalla Segnalazione
certificata di inizio attività ( da ora S.C.I.A) è invece
contrastata. Il discrimine tra i due moduli provvedimentali è
costituito dalla diversa tipologia di interventi assentibili.
Infatti sono sottoposti a permesso di costruire gli interventi come
definiti negli articoli 10 del D.P.R. n. 380/2001, mentre ne sono
esclusi quelli ivi non rientranti. Il testo unico dell’edilizia
distingue quindi due tipologie di titoli abilitati, la prima, il
permesso a costruire, relativa ad interventi più importanti per cui
si richiede il rilascio di un provvedimento espresso della P.a; la
seconda, la denuncia di inizio attività , per interventi di minor
impatto territoriale, realizzabile senza il rilascio di un
provvedimento espresso dopo che sono trascorsi 30 giorni dalla
denuncia degli stessi fatta all’amministrazione con una relazione
tecnica del progettista incaricato. A complicare il quadro normativo
sommariamente indicato è intervenuta la legge 30 luglio 2010, n 122,
che ha introdotto la Segnalazione certificata di inizio attività che
sostituisce la D.I.A per tutte le ipotesi in cui questa era
prevista. Allo stato però sussitono molte incertezze in merito a
natura ed ambito applicativo della S.C.I.A oltre che ai rapporti tra
questa e la D.I.A edilizia specialmente con riguardo alle diverse
normative regionali in materia di D.I.A edilizia .
Si tratta in
sostanza di un quadro normativo complesso e di difficile
lettura.
1.1 . La denuncia di inizio attività:
natura giuridica e legittimità della Denuncia di inizio
attività.
Sulla natura giuridica della D.I.A
in dottrina e giurisprudenza sono state proposte varie tesi
interpretative[1]. Il dibattito si è fatto particolarmente acceso
dopo le modifiche apportate al modello generale di D.I.A, contenuto
nell’art. 19 della legge n. 241/1990, dalla legge n. 15/2005 che,
prevedendo la possibilità di annullamento d’ufficio della denuncia
di inizio attività, ne avrebbe secondo alcuni sancito implicitamente
la natura provvedimentale: Si rileva infatti che la previsione dell’
annullamento d’ufficio, in quanto istituto relativo alla attività
amministrativa di secondo grado con la quale la P.A elimina o
conserva un proprio precedente provvedimento, sembra testimoniare la
natura provvedimentale della D.I.A.
Prima del citato intervento
normativo era prevalente la tesi della D.I.A. intesa quale atto
soggettivamente e oggettivamente privato, Secondo tale impostazione
la D.I.A rappresenta uno strumento non solo di semplificazione ma di
vera e propria liberalizzazione di determinate attività private il
cui esercizio è riconosciuto senza che sia richiesto il preventivo
vaglio della pubblica amministrazione. La D.I.A è quindi un atto
privato che non sostituisce giuridicamente alcun provvedimento[2].
Ciò differenzia la DIA dal silenzio assenso che è invece un
meccanismo di semplificazione procedimentale diretto sempre ad
ottenere un provvedimento seppure tacito. La DIA invece consente al
privato di intraprendere l’esercizio di alcune attività sulla base
di un atto che lo stesso privato formula e presenta
all’amministrazione senza attendere un pronunciamento costitutivo da
parte dell’amministrazione che non ha il potere di esprimere un
assenso preventivo all’attività ma solo il potere di inibire
l’esercizio. Secondo questa impostazione il terzo leso dall’attività
esercitata dal privato ed in assenza di intervento inibitorio da
parte della P.A è legittimato a richiedere all’amministrazione di
porre in essere i provvedimenti di autotutela previsti e in caso di
inerzia, può attivare il rimedio del silenzio inadempimento[3] pur
se esistono orientamenti giurisprudenziali che affermano la
possibilità di agire in giudizio per ottenere una sentenza di
accertamento dell’inadempimento[4] (sul punto vedi amplius oltre ). Altra impostazione sostiene che il terzo che sostenga di
aver subito una lesione possa chiedere che la PA assuma
provvedimenti sanzionatori-repressivi dell’abuso, come tali non
soggetti a valutazione discrezionale.
Per un secondo
orientamento invece la D.I.A è una fattispecie a formazione
progressiva configurabile come atto amministrativo tacito destinato
a formarsi in presenza di alcuni presupposti formali e sostanziali e
per effetto del decorso del termine assegnato alla amministrazione
per esercitare il potere inibitorio (trenta giorni). In base a tale
impostazione il terzo può tutelarsi rispetto alla lesione subita
mediante l’impugnazione del provvedimento tacito.[5]
1.2 Il problema della tutela del terzo controinteressato.
Non
sussistono delle particolari questioni relativamente alla tutela dei
diritti del denunciante che si esercita con gli ordinari strumenti
per richiedere l’annullamento in seguito ad una formale
provvedimento inibitorio dell’inizio della preannunciata attività.
Più problematiche sono invece le modalità di tutela giurisdizionale
del terzo che discendono come visto, dalla natura giuridica che si
riconosce alla denuncia di inizio di attività , di atto privatistico
o di provvedimento tacito.
Un pronunciamento esemplare, che,
ripercorrendo l’evoluzione normativa di tale istituto, sembrava (!)
aver posto dei punti fermi in merito alla ricostruzione giuridica
dello stesso e alle correlate forme di tutela del terzo , è
costituito dalla sentenza del Consiglio di Stato sez. VI, n. 717
09.02.2009 che si segnala per la originalità della forma di tutela
prospettata (azione di accertamento) e per la completezza nella
ricostruzione dell’istituto giuridico in argomento.
In tale
pronunciamento il giudice amministrativo svaluta il riferimento
all’annullamento d’ufficio contenuto nell’art. 19 l n 241/1990 . A
giudizio del giudice di secondo grado il legislatore, evocando
l’autotutela (e, in particolare, l’annullamento d’ufficio), più che
prendere posizione sulla natura giuridica dell’istituto, ha voluto
solo chiarire che, anche dopo la scadenza del termine perentorio di
trenta giorni per l’esercizio del potere inibitorio, la P.A.
conserva un potere residuale di autotutela, da intendere, però, come
“potere sui generis”, che si differenzia dalla consueta
autotutela decisoria proprio perché non implica un’attività di
secondo grado insistente su un procedente provvedimento
amministrativo. La D.I.A. deve quindi essere considerata un
atto di un soggetto privato non costituente esplicazione di una
potestà pubblicistica.
Il problema della tutela del terzo
controinteressato viene in questo quadro analizzato sulla base
della evoluzione normativa e giurisprudenziale dell’ultimo
decennio che ha determinato il superamento di una rigida chiusura
all’azione di accertamento del processo amministrativo, offrendo, al
contempo, numerosi argomenti che depongono a favore di una diversa
soluzione. In primo luogo, le Sezioni Unite della Corte di
Cassazione con la nota sentenza 23 dicembre 2008, n. 30254, hanno
rilevato che : “Sono ormai definitivamente tramontate precedenti
ricostruzioni della figura dell’interesse legittimo e della
giurisdizione amministrativa, che il primo configuravano come
situazione funzionale a rendere possibile l’intervento degli organi
della giustizia amministrativa, e della seconda predicavano la
natura di giurisdizione di tipo oggettivo, e dunque di mezzo
direttamente volto a rendere possibile, attraverso una nuova
determinazione amministrativa, il ripristino della legalità violata
e solo indirettamente a realizzare l’interesse del privato”. In
relazione alla D.I.A, la nozione di interesse legittimo
(diversamente da quanto accadeva in origine, allorché serviva per
contrassegnare situazioni sostanziali che non raggiungevano la
soglia di tutela propria del diritto soggettivo) attualmente
contrassegna il nucleo di facoltà che, all'interno del diritto
soggettivo, possono essere esercitate solo a seguito del positivo
esercizio da parte della p.a. dal suo potere conformativo: in questi
casi, ferma restando la giurisdizione del giudice ordinario sulla
titolarità del diritto, quello amministrativo giudica del suo
contenuto, del suo grado di tutela, a seconda che venga o meno in
conflitto con interessi di rilevanza pubblicistica (urbanistica,
ambiente, paesaggio ecc.). A giudizio del Consiglio di Stato è
quindi doveroso ammettere la possibilità di una azione di
accertamento atipica[6] che si pone nel senso di garantire una
efficace tutela giurisdizionale che invece non sarebbe garantita
dallo strumento del silenzio rifiuto in virtù della quale, secondo
un orientamento dottrinale e giurisprudenziale, il terzo, decorso il
termine per l’esercizio del potere inibitorio senza che la P.A. sia
intervenuta, sarebbe legittimato a richiedere all’Amministrazione di
porre in essere i provvedimenti di “autotutela” previsti, attivando
in caso di inerzia il rimedio di cui all’art. 21-bis l. n.
1034/1971. Una soluzione non condivisibile, perché finisce per
compromettere notevolmente la possibilità di tutela del terzo. Il
potere di autotutela, infatti, è ampiamente discrezionale in quanto
l’Amministrazione, prima di intervenire, deve valutare gli interessi
in conflitto (tenendo conto anche dell’affidamento ingeneratosi in
capo al denunciante) e la sussistenza di un interesse pubblico
concreto e attuale, che non coincide con il mero ripristino della
legalità violata. Nell’eventuale giudizio avverso il
silenzio-rifiuto, quindi, il G.A. non potrebbe che limitarsi ad una
mera declaratoria dell’obbligo di provvedere, senza poter
predeterminare il contenuto del provvedimento da adottare (Cons.
Stat., sez. V, 9 ottobre 2007, n. 5271), e tutto ciò renderebbe
ancor più lunga e faticosa la tutela del terzo. La effettività della
tutela giurisdizionale è invece assicurata dall'azione di
accertamento autonomo che lo stesso può esperire innanzi al G.A. per
sentire pronunciare che non sussistevano i presupposti per svolgere
l'attività sulla base di una semplice denuncia di inizio di
attività. L'azione di accertamento deve proporsi nel termine
decadenziale di sessanta giorni decorrente dal momento in cui il
terzo è venuto a conoscenza della D.I.A. e della lesività
dell'intervento edilizio realizzato sulla base della stessa. Emanata
la sentenza di accertamento, graverà sull'Amministrazione l’obbligo
di ordinare la rimozione degli effetti della condotta posta in
essere dal privato, sulla base dei presupposti che il giudice ha
ritenuto mancanti.
L’ammissibilità dell’azione atipica di
accertamento nel processo amministrativo è stata anche sostenuta da
chi ha rilevato che : “Le formule previste dalla legge per le
disposizioni che il giudice amministrativo può emettere , non
possono essere invocate per limitare i poteri cognitori né quelli
decisori, ma sono moduli aggiuntivi che non impediscono particolari
tipi di pronunce da parte del giudice amministrativo, tanto che
nello stesso ordinamento processuale amministrativo non mancano
norme che hanno escluso espressamente l’esame di determinate
question”i[7] .
E’ stato poi evidenziato che una lettura
costituzionalmente orientata delle disposizioni vigenti impone
l’ammissibilità dell’azione atipica di accertamento[8]. L’art 113
Cost prescrivendo che la tutela giurisdizionale del privato
cittadino non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di
impugnazione o per determinate categorie di atti, esclude che il
diverso mezzo d impugnazione concesso dal legislatore possa
intaccare la pienezza ed effettività della tutela del cittadino.
Principio di pienezza ed effettività della tutela ricavabile anche
dall’art 24 Cost secondo cui : “Tutti possono agire in giudizio
per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi”. Pertanto se l’art 103 Cost. affida al giudice amministrativo la
tutela degli interessi legittimi è di palese evidenza che una tutela
piena ed effettiva degli interessi legittimi richiede che il
cittadino debba potersi adeguatamente tutelare anche quando un
provvedimento vero e proprio non sia stato emesso. Si pone quindi la
necessità di ammettere l’azione di accertamento nel processo
amministrativo anche nelle ipotesi non previste specificatamente dal
legislatore.
La sentenza Consiglio di Stato sez. VI, n. 717
09.02.2009 non ha posto fine alle incertezze giurisprudenziali sul
tema tanto che tale orientamento giurisprudenziale è stato subito
sconfessato da successiva giurisprudenza amministrativa che ha
ribadito la natura provvedimentale della D.I.A[9] .
La necessità
di chiarire un quadro giurisprudenziale ancora ben lontano da una
compiuta definizione ha così portato il Consiglio di Stato , SEZ. IV
–ordinanza 5 gennaio 2011 n. 14[10], a rimettere all’Adunanza
Plenaria del Consiglio di Stato la questione riguardante la tutela
del terzo avverso la denuncia di inizio di attività,, allo scopo di
assicurare univoci orientamenti giurisprudenziali ai sensi dell’art.
99 del Codice del processo amministrativo, approvato con decreto
legislativo 2 luglio 2010, n. 104, --. il quale prevede che la
Sezione cui è assegnato il ricorso, se rileva che il punto di
diritto – nella specie, rimedi e tutela del terzo avverso la DIA
-sottoposto al suo esame ha dato luogo o possa dare luogo a
contrasti giurisprudenziali, con ordinanza emanata su richiesta
delle parti o di ufficio può rimettere il ricorso all’esame
dell’Adunanza plenaria.
La Sezione rileva che almeno tre sono le
tesi che si pongono in campo riguardo ai rimedi giurisdizionali a
favore del terzo dinanzi al G.A. avverso la denuncia (o
dichiarazione) di inizio attività: 1) la prima è la tesi
provvedimentale, della impugnativa tesa all’annullamento
giurisdizionale del titolo abilitativo implicito, assimilando tale
fattispecie all’atto espresso, quale il permesso di costruire, o il
silenzio-assenso, con termine decorrente dal completamento della
fattispecie o dalla sua conoscenza e che si esplica a mezzo di una
pronuncia di tipo demolitorio-annullatorio sul modello dell’art. 29
CPA; 2) la seconda, che privilegia la consistenza di atto del
privato, fa riferimento ad una azione di accertamento autonomo
(negativo) della inesistenza dei presupposti per ritenere completata
la fattispecie, con effetti che trovano nel momento conformativo il
potere e il dovere (da parte dell’amministrazione) di rimuovere gli
effetti eventualmente verificatisi; 3) la terza tesi, invece, che
pure parte dalla natura privata dell’atto, imporrebbe al terzo, che
intenda opporsi all’intervento assentito, una volta decorsi i
termini senza l’esercizio del potere inibitorio, di presentare
istanza formale e eventualmente impugnare il successivo atto
negativo dell’amministrazione o di agire avverso la successiva
inerzia amministrativa (silenzio-rifiuto), sul modello del rimedio
previsto attualmente dall’art. 31 CPA.
La questione rimessa alla
Adunanza plenaria concerne quindi i seguenti profili: “A) la
qualificazione giuridica sostanziale dell’istituto e quindi natura
privata oppure provvedimentale della fattispecie realizzata a mezzo
della denuncia di inizio di attività, tenendo presente che il testo
unico dell’edilizia la ricomprende tra i titoli abilitativi, anche
se atto del denunciante privato; B) risolta la qualificazione di
natura sostanziale, involgente sia i poteri di inibizione che di
autotutela successiva (autotutela fatta salva anche nell’istituto
recente della s.c.i.a.), conseguente è il problema delle tecniche di
tutela, dei risvolti processuali e dei rimedi giurisdizionali ai
quali può ricorrere il terzo; quale che sia il rimedio esperibile,
in ogni caso, però, per esigenze di certezza dei rapporti, deve
sgomberarsi il campo dai dubbi sulla applicabilità alla fattispecie
del termine decadenziale (piuttosto che prescrizionale),
individuando il momento dal quale tale termine debba essere fatto
decorrere (conoscenza del completamento della fattispecie), sia che
si abbracci la tesi della impugnativa demolitoria che quella
dell’accertamento autonomo; C) sulla base della soluzione adottata
nella ricostruzione sostanziale dell’istituto, il rimedio
giurisdizionale effettivo, comprende anche la eventuale
ammissibilità, in tale fattispecie ma anche più in generale, della
azione di accertamento da parte del terzo dinanzi a fattispecie che
modificano i confini tra pubblico e privato e che esigono, a fini di
liberalizzazione esemplificazione, un intervento solo eventuale e
successivo dell’amministrazione pubblica nel rapporto tra autorità e
libertà”.
La decisione dell’Adunanza Plenaria dovrebbe porre
quindi fine ad un contrasto giurisprudenziale che rischia di
aggravarsi con l’introduzione di strumenti di liberalizzazione che ,
consentendo immediatamente la attività (la c.d .S.C.I.A.) a seguito
della presentazione della segnalazione certificata di inizio
attività (art. 19 comma 2 l n 241/1990, a seguito delle modifiche
apportate dal D.L. 78 del 31 maggio 2010 come convertito dalla legge
di conversione n.122 del 30 luglio 2010); sono volti a garantire una
maggiore celerità nell’avvio della attività che si intende svolgere
concedendo un minore spazio alla pubblica amministrazione. La
S.C.I.A infatti, di cui non è ancora chiara allo stato la ampiezza
di applicazione in materia edilizia, se enfatizza (in nome di una
ulteriore liberalizzazione e semplificazione) ancora di più la
natura privatistica dell’atto per converso non può smentire la
permanenza della potestà pubblica, che è naturalmente fatta salva in
via di autotutela e di divieto di prosecuzione della attività
riproponendo le stesse problematiche esaminate in merito alla natura
della D.I.A ora anche aggravate dalla complicata qualificazione dei
rapporti tra i due istituti[11].
2 . Dalla D.I. A alla
S.C.I.A.
L’art 49, comma 4, del d.l 31 maggio 2010, n 78
“Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di
competitività economica”,convertito con modificazioni dalla legge 30
luglio 2010, n 122, ha riscritto l’art 19 l n 241/1990 sostituendo
la dichiarazione di inizio attività con la segnalazione certificata
di inizio attività ( da ora S.C.I.A)[12] attraverso la quale non è
più necessario attendere 30 giorni per dare avvio alle attività
private che possono essere iniziate contestualmente alla
proposizione della segnalazione certificata di inizio attività. In
tal modo si è generalizzata la possibilità di dare immediata
attuazione alle attività prima “denunciate” ed ora “segnalate” . E’
stata quindi generalizzata la possibilità di dare immediata
realizzazione alle attività segnalate prima prevista come dal D.lgs
59/2010 per le sole dichiarazioni aventi ad oggetto l’esercizio di
attività di impianti produttivi di beni e servizi, ovvero di
prestazioni di servizi di cui alla direttiva 2006/123/C.E.
L’amministrazione competente in caso di accertata carenza dei
requisiti, nel termine di 60 giorni ( e non più di 30 giorni come
previsto in precedenza),potrà adottare motivati provvedimenti di
divieto alla prosecuzione dell’attività e di rimozione degli effetti
nel frattempo intercorsi. Decorso il termine dei 60 giorni per
l’adozione dei provvedimenti , all’amministrazione è consentito
intervenire soltanto qualora sussista una pericolo di un danno al
patrimonio artistico e culturale , per l’ambiente, per la salute,per
la sicurezza pubblica o la difesa nazionale . Al riguardo in
dottrina si è ritenuto che in seguito al decorso del termine di 30
giorni si realizzi la “incontestabilità amministrativa” [13],
situazione che però rileva solo entro la sfera interna del potere
amministrativo in quanto comporta una preclusione all’esercizio del
potere di controllo non dando però origine ad alcun
“consolidamento”, o sanatoria della posizione del privato..
Rimarrebbe dunque aperta la possibilità per la P.a di esercitare
anche in termini successivi altre tipologie di controlli previsti da
normative settoriali, ad esempio dalla normativa edilizia e del
commercio, che mantengono l’ordinario carattere della
inesauribilità.
Viene comunque mantenuta una tutela rafforzata
per gli interessi “sensibili” che sono ritenuti non sacrificabili in
nome di esigenze di stabilità e certezza dei rapporti giuridici sia
pure condizionando ad ogni modo la possibilità di un intervento
successivo alla sussistenza di un concreto e attuale pericolo di
danno ai predetti interessi.
Sebbene la l n.122/2010 preveda
espressamente che la S.C.I.A sostituisca integralmente la D.I.A
recata da ogni norma statale e regionale vi sono molti dubbi in
dottrina in merito all’ambito applicativo della norma e alla natura
dell’istituto. Ci si chiede se la S.C.I.A possa riferirsi anche alle
autorizzazioni espressioni di discrezionalità tecnica[14]. E’
contestata anche l’automatica sostituzione della disciplina
regionale in materia di D.I.A edilizia con la S.C.I.A in quanto
relativa alla materia del governo del territorio su cui vi è
legislazione concorrente tra Stato e Regioni.[15] . Sussistono poi
dei dubbi in merito alla natura di tale istituto, di
liberalizzazione o di semplificazione, che ripropongono le
problematiche già viste in riferimento alla qualificazione della
D.I.A anche se la possibilità di dare immediata attuazione alle
attività fa ora propendere più decisamente per la considerazione
favorevole all’istituto di liberalizzazione dato che l’immediata
possibilità di realizzare l’attività pare presupporre che la
legittimazione a realizzare l’attività discenda direttamente dalla
legge non essendo più contemplato un arco temporale trascorso il
quale si possa teorizzare la sussistenza di un provvedimento tacito
di assenso
I dubbi sulla natura della S.C.I.A si riflettono come
per la D.I.A sulle problematiche afferenti alla tutela giuridica del
terzo rispetto alla quale rimangono aperte tutte le questioni di
tutela piena ed effettiva dei terzi lesi che già abbiamo visto con
riguardo alla D.I.A.
Allo stesso modo che con la D.IA le tecniche
di tutela divergono a seconda che la S.C.I.A. venga considerata un
modulo di liberalizzazione o di silenzio assenso. Nel secondo caso
il terzo leso potrà impugnare il silenzio assenso nel termine di 60
giorni della relativa piena conoscenza ( senza poter prendere
l’autotutela in caso di silenzio inoppugnabile); nel primo caso
invece potrà attivare la procedura dl silenzio rifiuto qualora la
P:A non risponda alla propria istanza di inibizione o proibizione
presentabile senza specifici limiti temporali, oppure, secondo
l’orientamento giurisprudenziale più recente chiedere direttamente
l’accertamento dell’illiceità dell’attività e la successiva attività
dell’amministrazione volta ad intervenire per rimuovere le
conseguenze pregiudizievoli dell’attività invalidamente avviata
[16]. Al riguardo però vi è chi ha sottolineato[17] come il codice
del processo amministrativo non ha aperto nuovi spazi allo schema
dell’azione di accertamento tanto che la possibilità di azioni di
accertamento atipiche sembra incompatibile con la natura ancora
prevalentemente impugnatoria del processo amministrativo su
interessi legittimi volta all’eliminazione del provvedimento
illegittimo.
Ad ogni modo le controversie in materia sono
sottoposte alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo
ai sensi dell’art 133, comma 1, lett a n 3. l n 104/2010. Previsione
legislativa la cui legittimità costituzionale si può ricavare anche
dalla sentenza della Corte costituzionale n 204 che legittima la
giurisdizione esclusiva del G.A in riferimento anche a comportamenti
espressione di un potere amministrativo.
3. Natura
giuridica e tutela giurisdizionale del permesso a costruire.
Il D.P.R n 380/2001 non indica esplicitamente quale sia la
natura giuridica del permesso a costruire ma in dottrina vi è
concordia nel riconoscere al permesso a costruire la medesima natura
della concessione edilizia. A tale riguardo si deve quindi
richiamare la giurisprudenza costituzionale inerente il rapporto tra
i vincoli urbanistici e il diritto di proprietà da cui deriva la
previsione legislativa della concessione edilizia in sostituzione
della licenza edilizia.
Il legislatore del 1942 aveva considerato
il piano regolatore come un piano generale contenente delle
direttive da realizzarsi però con il piano attuativo
particolareggiato; in sostanza quindi il piano regolatore generale
non doveva prevedere dei limiti alla proprietà privata in quanto
solo con il piano particolareggiato si innescava la procedura
espropriativa per l’acquisizione delle aree di interesse pubblico al
fine di realizzare le opere di urbanizzazione primaria e secondaria
oltre che le opere pubbliche. In realtà anche il piano regolatore
generale prevedeva esso stesso dei vincoli alla proprietà nel
momento in cui localizzando delle aree per realizzare spazi pubblici
o di interesse pubblico, ne determinava l’inedificabilità a tempo
indeterminato anche in mancanza di un piano attuativo . Da qui il
problema della legittimità costituzionale della legge urbanistica
nella parte in cui consentiva ai piani urbanistici di prevedere dei
vincoli di inedificabilità limitativi della facoltà di edificare a
tempo indeterminato e senza indennizzo.
La Corte costituzionale
fu quindi chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale
di quelle norme della legge urbanistica che, determinando il
contenuto dei piani regolatori, prevedevano sia norme dirette a
limitare la facoltà di edificare ( altezze massime, distanze tra le
costruzioni, limiti di densità fondiaria), sia vincoli su singole
aree di inedificabilità assoluta o preordinati all’espropriazione (
vincolo a verde privato, o destinazione di area a sede di strade,
piazze o impianti pubblici) senza obbligo di indennizzo e a tempo
indeterminato. Con la nota sentenza 9-29 maggio 1968, n 55 la Corte
Costituzionale dichiarò così l’illegittimità delle norme della legge
urbanistica che, tramite i piani regolatori e i programmi di
fabbricazione , imponevano vincoli di inedificabilità assoluta a
tempo indeterminato e senza previsione di indennizzo in quanto in
tali ipotesi si realizzava una vera e propria “espropriazione
sostanziale”.
In seguito al pronunciamento della Corte
Costituzionale le soluzioni adottate dal legislatore furono di due
tipi: in via immediata provvide a limitare l’efficacia temporale dei
vincoli a cinque anni con la legge 19 novembre 1187, che entrò in
vigore il 30 novembre di quell’anno. Inoltre ( ed è questo il punto
che preme sottolineare in questa sede) venne modificato in via
generale il regime dei suoli con la Legge 28 gennaio 1977 n 10 ( c.d
legge Bucalossi o legge suoli) che, modificando le precedenti
disposizioni delle legge urbanistica, trasforma l’originaria “licenza” di costruzione in “concessione edilizia” operando un tentativo di trasferimento della titolarità del
“diritto di edificare” dal privato alla mano pubblica. In
realtà la Legge 28 gennaio 1977 n 10 ( c.d legge Bucalossi o legge
suoli) non risolse i problemi di legittimità costituzionale aperti
dalla sentenza della Corte del 1968 in quanto la Corte
costituzionale ( 5 maggio 1983, n 127) ritenne che l’istituto della
concessione edilizia , introdotto dalla legge 10/1997, non aveva
dissociato la facoltà di edificare dal diritto di proprietà del
suolo, ma aveva solo stabilito limiti all’esercizio di quel diritto,
in relazione a preminenti interessi pubblici; la differenza
consiste nel fatto che il rilascio della concessione a costruire
diviene oneroso in quanto subordinato al pagamento di due
contributi: uno commisurato all’incidenza degli oneri di
urbanizzazione primaria e secondaria ed un altro determinato in
ragione di un dato costo di costruzione, in una percentuale
variabile dal 4 al 10%.
La concessione edilizia, ora permesso a
costruire, rientra quindi nell’ambito dei provvedimenti
autorizzativi volti a rimuovere l’esercizio di un diritto in capo al
proprietario a seguito della positiva verifica relativa alla
rispondenza dell’intervento proposto con la normativa urbanistico
edilizia.
La natura vincolata del permesso a costruire è
stata più volte affermata dalla giurisprudenza che ne ha fatto
derivare l’impossibilità di revoca del permesso a costruire e la non
configurabilità del vizio dell’ eccesso di potere[18] in quanto
evocabili solo in presenza dell’esercizio di discrezionalità
amministrativa. Il rilascio del permesso a costruire deve quindi
essere condizionato alla sola verifica della conformità
dell’intervento alla normativa urbanistico edilizia con la
conseguente illegittimità di dinieghi al rilascio della concessione
edilizia per motivi estranei alla conformità della disciplina
urbanistica ed edilizia.
Nella materia vige la giurisdizione
esclusiva dl giudice amministrativo che ricopre tutti gli atti e
provvedimenti espressione di poteri autoritativi . Rientrano invece
nella giurisdizione ordinaria i meri comportamenti e gli atti
privati della pubblica amministrazione e quindi l’adempimento di
obbligazioni liberamente convenute nel settore dell’edilizia e
dell’urbanistica.
Ai fini della proponibilità del ricorso
giurisdizionale è necessario che il ricorrente fornisca la prova di
un interesse qualificato. In particolare il ricorrente deve
dimostrare la sussistenza di un stabile collegamento tra lo stesso e
la zona interessata dall’intervento ( ad esempio rapporto di
vicinato). Viene così ammessa la tutela giurisdizionale delle
associazioni ambientaliste ogni qual volta prospettino la tutela di
un interesse diffuso alla qualità della vita di una comunità
localizzata.
Il termine per ricorrere decorre dalla data di
piena conoscenza dell’esistenza delle violazioni urbanistiche che,
la giurisprudenza, utilizzando un criterio garantistico, fa
coincidere con la data di ultimazione dei lavori [19] escludendo in
genere che rilevi la semplice conoscenza o notizia de rilascio, la
pubblicità a mezzo stampa o anche la conoscenza del parere della
commissione edilizia oppure l’affissione degli estremi della licenza
nel cantiere. Tale orientamento è giustificato dalla considerazione
che solo in seguito alla ultimazione dei lavori si può realmente
essere a conoscenza della portata lesiva del permesso a costruire.
Non mancano però pronunciamenti giurisprudenziali di segno opposto
qualora tale lesività sia manifesta già prima dalla ultimazione dei
lavori.[20]
Il diniego al rilascio del permesso a costruire deve
essere congruamente motivato e basato sulla contrarietà alla
normativa urbanistico- .edilizia[21]. Si è però ritenuto non
annullabile il permesso a costruire per mancanza di motivazione
qualora il provvedimento abbia natura vincolata in caso in cui, ad
esempio, la destinazione d’uso dell’edifico non sia ad ogni modo
incompatibile con le destinazioni d’uso del piano regolatore
L’annullamento giurisdizionale del permesso a costruire comporta
la demolizione delle opere con esso realizzato o la sanzione
pecuniaria quantificata dalla Agenzia del territorio, solo se, in
virtù di una valutazione tecnica, non sia possibile la demolizione.
Nel caso il comune non provveda entro un dato termine è possibile
richiedere la nomina di un “commissario ad acta “ in sede di
giudizio di ottemperanza.
Nell’ipotesi invece in cui sia stata
sancita l’illegittimità del diniego la giurisprudenza ha ritenuto
che rimangano salvi gli ulteriori provvedimenti comunali nel senso
che il dirigente o il responsabile del servizio può respingere la
domanda per ragioni diverse da quelle ritenute illegittime dal
giudice[22].
Un punto controverso è costituito dal rapporto tra
giudicato amministrativo e “ius variandi” dello strumento
urbanistico della P:A.. Si pensi all’ipotesi in cui la P.A in
seguito ad un pronunciamento giurisdizionale che annulli un permesso
a costruire modifichi il proprio strumento urbanistico consentendo
l’intervento proposto, prima non realizzabile. Si tratta di
contemperare l’interesse alla attuazione del giudicato con il
diritto della P.A di potere variare il suo strumento urbanistico. Un
punto di equilibrio tra queste due opposte esigenze, è stato
rintracciato nella immodificabilità del giudicato dopo la notifica
della sentenza, o per meglio dire, nella irrilevanza per il
ricorrente di eventuali modifiche dello strumento urbanistico
successive alla notifica della sentenza. [23]
4.
L’autotutela in materia edilizia.
La possibilità di attivare
l’autotutela per la tutela del privato in materia edilizia assume
diverse modalità a seconda che si tratti di permesso a costruire o
denuncia di inizio attività.
Il permesso di costruire è
irrevocabile come previsto dall’art. 11 del D.P.R 380/2001 in quanto
si tratta di un provvedimento autorizzatorio privo di
discrezionalità amministrativa.
Pur se irrevocabile, il permesso
di costruire è annullabile secondo la disciplina generale contenuta
negli titolo IV della legge 241/90 e pertanto in presenza dei vizi
di violazione di legge ed incompetenza e della sussistenza di un
interesse pubblico all’annullamento. In merito alla annullabilità
d’ufficio per eccesso di potere si devono richiamare le
considerazioni fatte in tema di tutela giurisdizionale sulla non
annullabilità per tale vizio di legittimità in quanto caratteristico
dell’esercizio della discrezionalità amministrativa, che non è
presente nel rilascio del permesso a costruire, provvedimento
vincolato. In conformità alla disciplina generale in materia di
annullamento d’ufficio non è sufficiente il contrasto con la
normativa urbanistica vigente al momento del rilascio ma è
necessario che sussista un interesse concreto ed attuale alla
rimozione del provvedimento che deve risultare nella motivazione del
provvedimento in particolar modo quando, in ragione di un
considerevole lasso di tempo, sia ingenerata una posizione di
affidamento del privato [24].
In merito al procedimento di
annullamento d’ufficio è necessaria la comunicazione di avvio del
procedimento e il provvedimento deve essere adottato con la stessa
forma con cui a suo tempo è stato adottato l’atto annullato.
Gli
effetti dell’annullamento variano a seconda che sia dovuto a vizi
formali o sostanziali,. Per i primi, in ottemperanza a quanto
previsto dall’art 21, nonies, secondo comma l n 241/1990, è
possibile sanare il vizio[25] . I secondi, allo stesso modo
dell’annullamento giurisdizionale, comportano invece l’obbligo dalla
riduzione in pristino delle opere e, se non possibile per ragioni
tecniche, l ’applicazione di una sanzione pecuniaria pari al valore
venale delle opere abusive valutato dall’Agenzia del
territorio.
Per quanto invece concerne la D.I.A, la concreta
identificazione dei poteri di autotutela esercitabili non può
prescindere dall’inquadramento teorico dell’istituto.
Chi fa
propria la tesi della D.I.A come provvedimento soggettivamente e
oggettivamente privato riconosce in capo alla PA l’esercizio di soli
poteri inibitori, prima del decorso del termine di 30 gg, e di soli
poteri sanzionatori successivamente a tale decorso. Per questa
impostazione non sarebbe possibile esercitare veri e propri poteri
di autotutela in assenza di un provvedimento da rimuovere.
La
novella che ha introdotto il riferimento ai poteri di autotutela
potrebbe essere interpretata:
- come autotutela avente ad oggetto
il pregresso esercizio dei poteri inibitori (interdizione, invito
alla conformazione, etc.. ) esercitabile anche dopo che è scaduto il
termine perentorio per emettere i provvedimenti inibitori;
- come
autotutela da non identificarsi necessariamente con la revoca e
l’annullamento quanto piuttosto nel generico potere di riesame
dell’attività e nel potere di inibirla anche trascorso il termine
iniziale di trenta giorni ma con necessaria ponderazione
dell’interesse pubblico.
- come estensione delle regole sulla
autotutela (in primis la ponderazione dell’interesse pubblico) anche
all’esercizio dei poteri sanzionatori che non sarebbero più doverosi
e vincolanti (Cfr. Cons. Stat., sent. 3916 del 2005).
Secondo
invece la opposta tesi che equipara la D.I.A ad un provvedimento
amministrativo tacito, tesi dominante a seguito della novella
intervenuta sull’art. 19 della legge 241/90 ad opera della legge
15/2005 , è ammissibile o l’annullabilità e la revocabilità in via
di autotutela del provvedimento tacito con la precisazione che,
trattandosi di provvedimento dove non vi è espressione di
discrezionalità amministrativa, si ritiene, alla stesa stregua del
permesso a costruire, che anche per la D.I.A. non sia possibile la
revoca almeno non per sopravvenuto interesse pubblico o modifica di
valutazione dell’interesse pubblico.
Ad ogni modo – con
riferimento particolare alla materia edilizia e alla normativa
vigente anteriormente alle modifiche legislative dell'istituto
recentemente intervenute (v. art. 3 d.l. 14 marzo 2005 n. 35, conv.
dalla l. 14 maggio 2005 n. 80) - è necessario distinguere tra due
distinti rapporti: quello tra denunciante e amministrazione e quello
che riguarda i contro interessati all'intervento.
Nei rapporti
tra denunciante e p.a., la d.i.a. si pone come atto di parte, che,
pur in assenza di un quadro normativo di vera e propria
liberalizzazione dell'attività, consente al privato di intraprendere
un'attività in correlazione all'inutile decorso di un termine, cui è
legato, a pena di decadenza, il potere dell'amministrazione di
inibire l'attività (a nulla rilevando, sul piano pratico, che in
forza di un'inversione procedimentale la fattispecie dia luogo, con
la scadenza del termine, a un titolo abilitativo tacito o al
consolidarsi, per volontà legislativa, degli effetti di un atto di
iniziativa di parte).
Una volta decorso il termine per
l'esercizio del potere inibitorio dell'attività iniziata a seguito
di denuncia di inizio attività e, nella persistenza, generalmente
ritenuta, del generale potere repressivo degli abusi edilizi, colui
che si oppone all'intervento, essendosi consolidata la fattispecie
complessa che abilita ex lege o ex actu, il privato a
costruire, sarà legittimato a chiedere al Comune di porre in essere
i provvedimenti sanzionatori previsti facendo ricorso, in caso di
inerzia, alla procedura del silenzio, che pertanto, non avrà né
potrebbe avere, come riferimento il potere inibitorio
dell'Amministrazione - essendo decorso il relativo termine bensì il
generale potere sanzionatorio, salvo poi stabilire se tale potere
abbia carattere vincolato o sia comunque esercitabile alla stregua
dei principi dell'autotutela.
5. L’annullamento regionale
del permesso a costruire.
L’art 39 T.U edilizia prevede che
la Regione può annullare il permesso a costruire per violazione
della normativa urbanistica. Tale potestà è circoscritta al periodo
temporale di 10 anni a decorrere dalla data di emanazione del
provvedimento.
L’esercizio di tale potere di annullamento è
subordinato, oltre che all’accertata violazione di legge, alla
sussistenza dell’interesse pubblico avente una rilevanza tale da non
consentire la conservazione dell’opera abusiva.
L’annullamento
regionale ha dei presupposti diversi rispetto a quello esercitato
dal comune in via di autotutela. Tale annullamento rappresenta
infatti una forma di controllo e di garanzia del tutto
eccezionale. Vi è quindi una differente valutazione
dell’interesse pubblico che giustifica l’annullamento; mentre
l’annullamento comunale si basa su una valutazione discrezionale e
postula l’impossibilità di conservare per la gravità d incidenza del
caso, nell’interesse generale, la situazione esistente, il secondo è
giustificato dal solo pregiudizio che l’atto invalido determina a
carico dell’ambito di intervento.[26] Ai fini della
legittimità del potere di annullamento regionale , secondo
l’indirizzo giurisprudenziale sopra riportato, non necessita quindi
una motivata ponderazione tra interesse pubblico e privato ma
risulta sufficiente verificare il pregiudizio arrecato dall’atto
comunale nell’ ambito di intervento interessato. Il potere di
annullamento regionale è sorretto da una particolare
discrezionalità; in considerazione della sua natura eccezionale deve
essere comunque giustificato con una puntuale ed idonea
motivazione.
Le fasi del procedimento per
l’annullamento regionale sono le seguenti :
1) accertamento di
ufficio o su denuncia di determinate violazioni;
2) contestazioni
delle violazioni al titolare, al proprietario se diverso, al
progettista ed all’Amministrazione comunale, con l’invito a
presentare osservazioni entro un termine all’uopo prefissato;
3)
eventuale emanazione del provvedimento di annullamento entro 18 mesi
dal momento in cui è stata accertata la violazione commessa, che
coincide sostanzialmente con la data della relazione tecnica al
riguardo rassegnata dal funzionario regionale ( in tal senso Cons di
Stato- sez.V.15.2.1986, n 539 e 29.10.1992, n 1082) fatta salva
diversa prescrizione regionale
In pendenza della procedura di
annullamento il competente organo regionale può provvedere alla
sospensione dei lavori che cessa di avere efficacia se, entro sei
mesi dalla sua notificazione, non sia stato emesso il decreto di
annullamento. Ad ogni modo entro 6 mesi dalla adozione del
provvedimento di annullamento và ordinata la demolizione delle opere
abusive realizzate in base al titolo annullato
6.
L’inerzia della P.a nel rilascio del permesso a costruire: Il
rimedio del silenzio rifiuto e l’intervento sostitutivo regionale .
L’art 21 D.p.r n 380’/2001 disciplina l’ipotesi in cui entro
i termini previsti dall’art 20, non sia stato adottato il
provvedimento conclusivo. In caso di inerzia della P.A l’interessato
può, con atto notificato o trasmesso in piego raccomandato con
avviso di ricevimento, richiedere allo sportello unico che il
dirigente o il responsabile dell’ufficio di cui all’articolo 13, si
pronunci entro quindici giorni dalla ricezione dell’istanza. Di tale
istanza viene data notizia al sindaco a cura del responsabile del
procedimento. Il disposto normativo chiarisce senza alcun dubbio che
il decorso del termine comporta la realizzazione del silenzio
rifiuto in quanto alla scadenza del termine per l’adozione del
provvedimento comunale “Resta comunque ferma la facoltà di
impugnare in sede giurisdizionale il silenzio-rifiuto formatosi
sulla domanda di permesso di costruire”. Nel caso in cui
l’amministrazione rimanga inerte nei termini di cui all’art. 20 si
presentano due possibilità: impugnare il silenzio rifiuto in via
giurisdizionale e sollecitare l’intervento sostitutivo della
Regione. I due rimedi, impugnazione del silenzio-rifiuto comunale e
richiesta di intervento sostitutivo regionale non sono alternativi
ma possono coesistere ed essere proposti contemporaneamente
Il
silenzio rifiuto non ha portata sostanziale ma solo formale avendo
l’effetto di imporre al Comune l’obbligo di rispondere alla
richiesta del privato e così da ottenere una pronuncia del giudice
di declaratoria dell’obbligo di provvedere . Si noti che l’Adunanza
Generale del Consiglio di Stato (29 marzo 2001 n. 3) aveva espresso
sul punto un parere consultivo favorevole a che, in caso di inerzia
della PA si formasse un vero e proprio provvedimento tacito di
assenso. Il mancato accoglimento di quanto indicato sul punto nel
parere del Consiglio di Stato e la conseguente opzione per il
silenzio rifiuto e l’intervento sostitutivo della regione può essere
valutato sotto una altra prospettiva: il silenzio assenso avrebbe
potuto lasciare troppi margini di rischio per il corretto uso del
territorio che deve essere pienamente garantito evitando abusi e
disincentivando pratiche elusive di controlli preventivi per
interventi che incidono sull’assetto complessivo del territorio. In
ogni caso, la dottrina più attenta fa osservare che l’opzione
proposta dal Consiglio di Stato in ordine alla formazione di un vero
e proprio silenzio assenso è in linea con la natura autorizzatoria
del permesso di costruire per l’emanazione del quale
l’amministrazione è chiamata unicamente ad effettuare una mera
verifica di conformità con, se del caso, l’esercizio di sola
discrezionalità tecnica.
Se si sceglie invece la via
dell’’intervento sostitutivo regionale la nomina del commissario ad acta deve avvenire entro quindici giorni dalla richiesta
(termine considerato non perentorio) e nei successivi sessanta
giorni deve essere emanato il provvedimento espresso. Tale nomina è
dovuta a seguito della richiesta e non deve essere preceduta da
alcuna attività istruttoria volta a verificare il tenore del
provvedimento che dovrà essere emesso. Anche nel caso rimanga inerte
il commissario ad acta si determina la formazione del silenzio
rifiuto. In entrambe le ipotesi di silenzio rifiuto è escluso che
per la formazione del silenzio sia necessario effettuare una
preventiva diffida nei confronti della PA .
La disciplina
dell’intervento sostitutivo regionale si inserisce nell’ambito della
più ampia problematica dei rapporti tra enti ad autonomia
costituzionalmente garantita ( Comune e Regione) . A tale riguardo
il giudice costituzionale si è espresso in merito alle problematiche
del controllo sostitutivo alla luce del nuovo quadro costituzionale
chiarendo i caratteri che deve avere l’intervento sostitutivo
regionale. E’ stato così precisato che i poteri del tipo in esame,
che comportano cioè la sostituzione di organi di un ente con quelli
di un altro, ordinariamente competente, nel compimento di atti,
ovvero la nomina da parte dei primi di organi straordinari dell’ente
“sostituito” per il compimento degli stessi atti, limitano
l’autonomia del sostituto costituzionalmente garantita e “ quindi
necessitano di un fondamento esplicito o implicito nelle norme o nei
principi costituzionali che tale autonomia prevedono e
disciplinano”.[27]
Dato che si tratta di interventi
sostitutivi che limitano l’autonomia degli enti locali è necessario
che siano sottoposti ai medesimi limiti individuati dalla
giurisprudenza costituzionale con riferimento all’intervento
sostitutivo dello Stato sulle Regioni:
1) in primo
luogo, le ipotesi di esercizio di poteri sostitutivi debbono
essere previste e disciplinate dalla legge [28], che deve
definirne i presupposti sostanziali e procedurali; 2) in secondo
luogo, la sostituzione può prevedersi esclusivamente per il
compimento di atti o di attività “prive di discrezionalità nell’an (anche se non necessariamente nel quid o nel quomodo)”[29], la cui obbligatorietà sia il riflesso degli
interessi unitari alla cui salvaguardia provvede l’intervento
sostitutivo: e ciò affinché essa non contraddica l’attribuzione
della funzione amministrativa all’ente locale sostituito;
3) Il
potere sostitutivo deve essere poi esercitato da un organo di
governo della Regione o sulla base di una decisione di questo [30]
data l’attitudine dell’intervento ad incidere sull’autonomia,
costituzionalmente rilevante, dell’ente sostituito;
4) La legge
deve, infine, apprestare congrue garanzie procedimentali per
l’esercizio del potere sostitutivo, in conformità al principio di
leale collaborazione (cfr. ancora C.Cost, sentenza n. 177/1988), non
a caso espressamente richiamato anche dall’articolo 120, secondo
comma, ultimo periodo, della Costituzione a proposito del potere
sostitutivo “straordinario” del Governo, ma operante più in generale
nei rapporti fra enti dotati di autonomia costituzionalmente
garantita; dovrà dunque prevedersi un procedimento nel quale l’ente
sostituito sia comunque messo in grado di evitare la sostituzione
attraverso l’autonomo adempimento, e di interloquire nello stesso
procedimento [31].
Le maggiori difficoltà interpretative nella
materia in argomento sono costituite dalla controversa natura
giuridica del commissario e dei poteri che possono essere esercitati
dal commissario regionale in rapporto alle competenze dell’ente
sostituito
In genere il commissario nominato dalla Regione viene
considerato un organo straordinario del comune con la conseguenza
che gli oneri finanziari derivanti dalla sua nomina sono a carico
del comune stesso inadempiente .
In alcuni pronunciamenti però
il Consiglio di Stato (Cons. Stat. 6 ottobre 1999 n 1332) ha
ritenuto che il commissario abbia competenza autonoma ed il rapporto
con il comune non sia di natura interorganica ma intersoggettiva .
Da ciò deriva che il comune possa impugnare le statuizioni del
commissario davanti al G.A ma non direttamente rimuoverle o
incidervi . L’amministrazione può anche adottare gli atti che reputi
necessari per circostanze sopravvenute, essendo solo preclusa
l’invadenza dell’amministrazione nella sfera di azione del
commissario.
Anche durante il commissariamento non viene meno il
potere dell’amministrazione comunale di provvedere all’istanza per
cui è stata inadempiente in quanto si instaura una potestà
concorrente del commissario e dell’amministrazione
comunale.
7.. La tutela risarcitoria: il danno da
ritardo.
Una ulteriore forma di tutela del privato è
costituita dalla possibilità di richiedere il risarcimento del
danno. La domanda di risarcimento del danno deve essere fondata su
una puntuale quantificazione ed una congrua dimostrazione del danno
conseguente all’annullamento giurisdizionale dell’atto concessorio .
Il risarcimento può avvenire in forma specifica con il rilascio del
titolo negato ovvero per equivalente nella misura pari
all’incremento dei costi di costruzione.
La tutela risarcitoria
in materia edilizia rientra nella più ampia problematica del
risarcimento del danno per la lesione dell’interesse legittimo
pretensivo.[32] Come noto la sentenza n. 500/1999 della Corte di
Cassazione ha ritenuto che la risarcibilità dei danni derivanti
dalla lesione dell’interesse legittimo debba essere ancorata alla
presenza di due condizioni: una prima rappresentata dalla lesione
dell’interesse legittimo, ed una seconda rappresentata dalla
meritevolezza di tutela dell’interesse finale collegato
all’interesse legittimo. Tale meritevolezza deve ritenersi presunta
nel caso di lesione dell’interesse legittimo oppositivo e da
accertare attraverso un giudizio prognostico sulla spettanza del
bene della vita illegittimamente negato dalla pubblica
amministrazione, nel caso di lesione dell’interesse legittimo
pretensivo.
In linea con tale orientamento la giurisprudenza, in
materia di risarcibilità del danno per lesione dell’interesse
pretensivo al rilascio di un titolo edilizio, ha ritenuto che il
privato ha titolo al risarcimento del danno non per il mero fatto
che gli sia stato opposto un illegittimo diniego, ma solo ove,
sussistendo gli altri requisiti dell’illecito, egli riesca a
dimostrare che la propria aspirazione al provvedimento era
destinata, secondo un criterio di normalità, ad un esito favorevole.
La protezione risarcitoria può quindi essere accordata soltanto in
presenza di un giudizio prognostico sulla spettanza definitiva del
bene collegato a tale interesse.[33]
Tale giudizio prognostico
sarà poi attendibile nel solo caso di discrezionalità tecnica o
provvedimento vincolato ( come nel caso di rilascio di un titolo
abilitativo) , mentre non si potrebbe riconoscere il risarcimento in
caso di discrezionalità amministrativa.
E’ stata avanzata in
dottrina e giurisprudenza la possibilità di ottenere un risarcimento
per il cosiddetto “danno da ritardo”[34]
Possono distinguersi tre
diverse ipotesi di danno da ritardo[35] , incentrate le prime due,
sul provvedimento tardivo rispetto ai tempi procedimentali , la
terza sul rifiuto di provvedere.
Il pregiudizio lamentato può
consistere: a) Nel ritardo con cui la stessa amministrazione ha
emanato ( previo o meno annullamento del diniego originario) il
provvedimento favorevole richiesto: in tale ipotesi, il danno
risarcito è quello subito per aver avuto in ritardo il bene della
vita di cui si aveva titolo[36]; b) nel fatto che l’amministrazione
non emani alcun provvedimento[37]. ovvero emani in ritardo un
provvedimento negativo pur se legittimo.
Per quanto concerne
l’ipotesi sub a) non sussistono delle problematiche in ordine
all’accertamento dell’elemento oggettivo della responsabilità in
quanto il conseguimento del bene della vita attraverso il
provvedimento tardivo qualifica senza dubbio come illegittima
l’azione amministrativa senza la necessità di ricorrere al giudizio
prognostico in ordine alla sua spettanza.
In ordine invece
all’ipotesi sub b) è discussa invece l’ammissibilità del c.d danno
da mero ritardo, da identificarsi come il danno derivante al privato
dalla lesione dell’interesse procedimentale alla tempestiva
definizione del procedimento nel termine previsto ai sensi dell’art
2 della l 241/1990 al cui conseguimento era rivolta l’istanza, non
tempestivamente riscontrata.
La configurabilità di un danno da
mero ritardo è stata sostenuta dal Consiglio di Stato, sez IV ord.
875/2005 che rimettendo tale questione all’Adunanza plenaria ha
ritenuto che :“ L’affidamento del privato alla certezza dei tempi
dell’azione amministrativa sembra, nell’attuale realtà economica e
nella moderna concezione del c.d rapporto amministrativo- interesse
meritevole di tutela in sé considerato , non essendo sufficiente
relegare tale tutela alla previsione e all’azionabilità di strumenti
processuali a carattere propulsivo, che si giustificano solo
nell’ottica del conseguimento dell’utilità finale ma appaiono poco
appaganti rispetto all’interesse del privato a vedere definita con
certezza la propria posizione in relazione ad un’istanza rivolta
all’amministrazione” [38].
A parere della sezione la
questione della configurabilità di un danno da mero ritardo deve
essere inquadrata nell’ambito del complesso problema della natura,
contrattuale o extracontrattuale della responsabilità della
P:A.
I sostenitori della responsabilità contrattuale “ da
contatto qualificato” ritengono che, considerando la normativa di
cui alla l 241/1990 , l’amministrazione determini in capo al privato
un’ “aspettativa qualificata” al rispetto delle regole in
essa indicate, tanto che accanto al novero degli interessi
pretensivi sarebbero individuabili gli “interessi strumentali”
derivanti dal mancato rispetto delle regole procedimentali,
autonomamente risarcibili.
Al contrario invece per i sostenitori
della natura extracontrattuale della responsabilità della P.A , il
danno da ritardo è risarcibile solo se il privato abbia titolo a
conseguire il “bene della vita” a cui aspirava : ci si divide poi in
merito al criterio per stabilire la spettanza del bene della vita
tra chi ritiene che andrebbe effettuato attraverso un giudizio
prognostico e chi invece sostiene la necessità dell’utilizzazione
del meccanismo del silenzio in via pregiudiziale nell’ipotesi di
ambiti caratterizzati da discrezionalità.
La sezione aderendo
alla tesi della responsabilità da “contatto” ritiene configurabile
il danno derivante dal ritardo puro in quanto il tempo del
procedimento è considerato esso stesso bene della vita la cui
lesione può dar luogo al risarcimento del danno.
Ai fini del
risarcimento del danno da ritardo il giudice amministrativo non ha
ritenuto neanche necessario attivare preliminarmente il giudizio sul
silenzio, che è finalizzato al diverso scopo di far conseguire al
privato il bene della vita e non serve per stigmatizzare l’inerzia
della P.A che è insita nella violazione dei termini stabiliti
dall’ordinamento.
Il Consiglio di Stato, IV sezione, si distingue
invece con i sostenitori della responsabilità per contatto
qualificato, nella parte in cui qualifica la responsabilità che
deriva dalla violazione delle norme procedurali, non come
contrattuale ma precontrattuale, in tal modo limitando il danno
all’interesse negativo derivante dal perdurare della situazione di
incertezza.[39]
L’ Adunanza plenaria n. 7/2005 ha però in maniera
perentoria escluso la configurabilità del danno da mero ritardo
“puro” che sostanzialmente integrerebbe una ipotesi di danno
punitivo a carico dell’amministrazione inadempiente, sconosciuto dal
nostro ordinamento.
A conferma di ciò si richiama la mancata
attuazione della delega conferita dall’art 17, comma 1, lett. f)
della l n 59/ del 1997 che ipotizzava proprio forme di indennizzo
automatico e forfettario qualora l’amministrazione non avesse
adottato tempestivamente il provvedimento anche se negativo.[40]
L’impossibilità di configurare il danno da mero ritardo in materia
edilizia è stata ribadita dalla giurisprudenza amministrativa
successiva[41]. Di recente il legislatore, con l’art 2 bis l n
241/1990, è poi intervenuto prescrivendo l’obbligo di risarcimento
del danno a carico delle pubbliche amministrazioni in caso in cui
non venga rispettato il termine di conclusione del procedimento di
legge con dolo o colpa.[42] Richiedendo il dolo e la colpa della P.A
pare che il legislatore abbia voluto prendere posizione a favore
dell’ orientamento che intende il risarcimento per danno da ritardo
come una forma di responsabilità extracontrattuale sottoposta ad un
termine di prescrizione
quiquennale
_________________________________________________
[1]
Per una esauriente analisi in merito alla natura e al regime
giuridico della D.I.A e in materia di silenzio ex multis: SCOCA F.G
Il silenzio della pubblica amministrazione, Milano 1971; SCOCA
F.G-D’ORSOGNA M. , Silenzio, clamori di novità, in Dir. proc amm.
1995,412; SCOCA F.G Il silenzio della Pubblica Amministrazione
alla luce del nuovo trattamento processuale, in Dir. proc.amm.,
2/2002,248- 252;, D'Orsogna M, La tutela avverso il silenzio
della pubblica amministrazione, in A. Zito, D. De Carolis (a
cura di), Giudice amministrativo e tutele in forma specifica.
Atti della Tavola rotonda, Teramo, 3 maggio 2002, Milano,,
2003,169; GIULIETTI W., Nuove norma in tema di dichiarazione di
inizio attività ovvero la continuità di un istituto in
trasformazione, in www.giustamm.it;; GIULIETTI W, Il
controverso impatto della l n 122 del 2010 sulla D.I.A edilizia.,in www.giustamm.it; ; FORT U., Il “silenzio” della pubblica
amministrazione e i suoi effetti processuali, in Rivi.dir. proc.
civ. 1932,121; SANDULLI A.M, Questioni recenti in tema di silenzio
della pubblica amministrazione, in F.I.. 1949,III,128; CASSESE, S.
Inerzia e silenzio della P.A., in Foro amministrativo 1963,I,30;
LEDDA F., Il rifiuto di provvedimento amministrativo, Torino 1964;
PARISIO V., I silenzi della pubblica amministrazione, Milano
1996,67ss; MARTINEZ L., La dichiarazione di inizio attività: natura
e regime giuridico, Torino, 2008; MORBIDELLI G., Il silenzio
assenso, in www.giustamm.it. .
[2] In tale senso diversi
pronunciamenti giurisprudenziali tra cui : T.A.R. Calabria , sez. I,
18 giugno 2009 n. 431 secondo cui la denuncia di inizio attività non
ha valore di provvedimento amministrativo tacito, ma si configura
come atto di parte che consente al privato di intraprendere
un'attività, una volta scaduto il termine di decadenza entro il
quale l'Amministrazione può esercitare il proprio potere inibitorio;
pertanto, il terzo che intende opporsi all'intervento, una volta
decorso il termine senza l'esercizio del potere inibitorio, è
legittimato unicamente a presentare all' Amministrazione istanza
formale per l'adozione dei provvedimenti sanzionatori previsti e ad
impugnare l'eventuale silenzio-rifiuto su di essa formatosi, oppure
il provvedimento emanato dalla stessa all'esito dell'avvenuta
verifica. Gli effetti di una dichiarazione di inizio attività non
assumono valore provvedimentale, in quanto il principio di legalità
e di conseguente tipicità dei provvedimenti amministrativi esclude
che possano essere inseriti nella sequenza procedimentale
provvedimenti non espressione di poteri tipici previsti dalla
legge.; TAR Milano Lombardia, n. 1924 13.03.2009 secondo cui la
denuncia di inizio di attività si configura soggettivamente come
atto del privato, che autocertifica la sussistenza delle condizioni
previste dalla legge per la realizzazione dell'intervento; pertanto,
la legittimazione all'esercizio dell'attività non è fondata su un
atto di consenso dell'Amministrazione, ma trova la propria fonte
direttamente nella legge. Il principio di autoresponsabilità del
denunciante esclude che possono ritorcersi in danno del Comune le
conseguenze derivanti dall'attività edilizia intrapresa dal medesimo
in difformità della denuncia di inizio attività o sulla base di una
d.i.a. illegittima, ancorché il Comune non abbia inibito l'opera
tempestivamente o sia intervenuto con interventi repressivi
tardivamente.
[3]Cfr T.A.R. Puglia sez. III, n. 983 22.04.2009
il quale rileva che in materia edilizia - nonostante il richiamo
specifico dell'art 19, comma 3, della legge n. 241 del 1990, agli
artt. 21 quinquies e 21 nonies, che disciplinano la revoca e
l'annullamento d'ufficio - il potere dell'Amministrazione di
assumere determinazioni in via di autotutela, che la suddetta norma
fa salvo, non si esaurisce nell'utilizzazione dei suddetti istituti
ma deve intendersi comprensivo di tutte le iniziative che
l'Amministrazione è legittimata ad assumere per ristabilire, nel
pubblico interesse, la legalità violata, compresa quindi la
decadenza
[4] La percorribilità di una azione di accertamento
volta a constatare la mancanza dei presupposti per poter attivare la
denuncia di inizio attività è sostenuta dal Consiglio Stato , sez.
VI, 9 febbraio 2009 n. 717 secondo cui, premesso che la d.i.a. è un
atto di un soggetto privato non costituente esplicazione di una
potestà pubblicistica, la tutela del terzo controinteressato è
assicurata dall'azione di accertamento autonomo che lo stesso può
esperire innanzi al g.a. per sentire pronunciare che non
sussistevano i presupposti per svolgere l’attività sulla base di una
semplice denuncia di inizio di attività. L’azione di accertamento
deve proporsi nel termine decadenziale di sessanta giorni decorrente
dal momento in cui il terzo è venuto a conoscenza della d.i.a. e
della lesività dell'intervento edilizio realizzato sulla base della
stessa. Emanata la sentenza di accertamento, graverà
sull'Amministrazione l’ obbligo di ordinare la rimozione degli
effetti della condotta posta in essere dal privato, sulla base dei
presupposti che il giudice ha ritenuto mancanti.
[5] In questo
senso Consiglio di Stato, sez. V, 22.02.2007, n. 948. Secondo tale
pronunciamento la d.i.a. non è uno strumento di liberalizzazione
dell’attività, ma rappresenta una semplificazione procedimentale,
che consente al privato di conseguire un titolo abilitativo a
seguito del decorso di un termine (30 giorni) dalla presentazione
della denuncia; la liberalizzazione di determinate attività
economiche è cosa diversa e presuppone che non sia necessaria la
formazione di un titolo abilitativo. Nel caso della d.i.a., con il
decorso del termine si forma una autorizzazione implicita di natura
provvedimentale, che può essere contestata dal terzo entro
l’ordinario termine di decadenza di sessanta giorni, decorrenti
dalla comunicazione al terzo del perfezionamento della d.i.a. o
dall’avvenuta conoscenza del consenso (implicito) all’intervento
oggetto di d.i.a. È, quindi, ammissibile il ricorso proposto
direttamente avverso il titolo abilitativo formatosi a seguito di
d.i.a. ed avente ad oggetto non il mancato esercizio dei poteri
sanzionatori o di autotutela dell’amministrazione, ma direttamente
l’assentibilità, o meno, dell’intervento .In tal senso anche
Consiglio Stato sez. IV, 25 novembre 2008 n. 5811 secondo cui nel
caso di presentazione di dichiarazione di inizio di attività
l'inutile decorso del termine di trenta giorni, assegnato dall'art.
23, t.u. 6 giugno 2001 n. 380 all'autorità comunale per l'adozione
del provvedimento di inibizione ad effettuare il previsto intervento
edificatorio, non comporta che l'attività del privato, ancorché del
tutto difforme dal paradigma normativo, possa considerarsi
lecitamente effettuata e quindi andare esente dalle sanzioni
previste dall'ordinamento per il caso di sua mancata rispondenza
alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni degli
strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nei titoli
abilitativi, ben potendo il titolo abilitativo formatosi per effetto
dell'inerzia dell'amministrazione formare oggetto, alle condizioni
previste in via generale dall'ordinamento, di interventi di
annullamento d'ufficio o revoca da parte dell'amministrazione
stessa; segue da ciò che, anche dopo il decorso del termine di
trenta giorni previsto per la verifica dei presupposti e requisiti
di legge, l'amministrazione non perde i propri poteri di autotutela,
né nel senso di poteri di vigilanza e sanzionatori, né nel senso di
poteri espressione dell'esercizio di una attività di secondo grado
estrinsecantesi nell'annullamento d'ufficio e nella revoca, ma con
il limite, per l'ipotesi in cui la legittimità dell'opera edilizia
dipenda da valutazioni discrezionali e di merito tecnico che possono
mutare nel tempo, che detto potere, esercitabile con riferimento ad
una d.i.a. anche quando sia ormai decorso il termine di decadenza
per l'esercizio dei poteri inibitori ex art. 23 comma 6 cit. t.u. n.
380 del 2001, deve essere opportunamente coordinato con il principio
di certezza dei rapporti giuridici e di salvaguardia del legittimo
affidamento del privato nei confronti dell'attività amministrativa;
mentre i terzi, che si assumano lesi dal silenzio serbato
dall'Amministrazione a fronte della presentazione della d.i.a., sono
legittimati a gravarsi non avverso il silenzio stesso ma, nelle
forme dell'ordinario giudizio di impugnazione, avverso il titolo
che, formatosi e consolidatosi per effetto del decorso del termine,
si configura in definitiva come fattispecie provvedimentale a
formazione implicita. Ancora nel senso della natura provvedimentale
della d.i.a Consiglio Stato sez. IV, 12 marzo 2009, n. 1474 secondo
cui nel caso di presentazione di dichiarazione di inizio di attività
l'inutile decorso del termine assegnato prima dall'art. 2, comma 60,
l. 23 dicembre 1996 n. 662 e ora dall'art. 23, t.u. 6 giugno 2001 n.
380 all'Autorità comunale per l'adozione del provvedimento di
inibizione ad effettuare il previsto intervento edificatorio, non
comporta che l'attività del privato, ancorché del tutto difforme dal
paradigma normativo, possa considerarsi lecitamente effettuata e
quindi essere esente dalle sanzioni previste dall'ordinamento per il
caso di sua mancata rispondenza alle norme di legge e di
regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle
modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi; segue da ciò che
il titolo abilitativo, formatosi per effetto dell'inerzia
dell'Amministrazione, può diventare oggetto di interventi di
annullamento d'ufficio o revoca e che essa, dopo il decorso del
termine previsto per la verifica dei presupposti e requisiti di
legge, non perde i propri poteri di autotutela, nel senso di poteri
sia di vigilanza e sanzionatori che di poteri espressione
dell'esercizio di una attività di secondo grado estrinsecantesi
nell'annullamento d'ufficio e nella revoca, seppure nel rispetto del
principio di reciproca lealtà e certezza dei rapporti
giuridici.
[6] A giudizio del Consiglio di Stato l’azione di
accertamento nel nostro ordinamento non è un’azione “tipica” (come
lo è, ad esempio, nel diritto processuale civile l’azione
costitutiva ex art. 2908 c.c.), in quanto non è necessario un
espresso riconoscimento normativo per ammetterne la vigenza.
L’ammissibilità di tale azione discende di per sé dall’esistenza
della giurisdizione che implica appunto lo “ius dicere”. Ad analoghe
conclusioni può giungersi per il processo amministrativo: sulle orme
della dottrina prima evocata, si può ritenere che anche nel processo
amministrativo il potere di accertamento del giudice non possa
essere limitato alle sole ipotesi tipiche specificamente previste.
La tipicità dell’azione di annullamento era coerente con la visione
originaria del processo amministrativo come un processo impostato
sulla tutela degli interessi legittimi oppositivi ai quali
corrispondeva una pretesa a un “non facere” in capo
all’amministrazione, cioè un dovere di astensione dall’emanare il
provvedimento restrittivo della sfera giuridica dell’interessato.
L’art. 45 del T.U. e l’art. 26, comma 2, della legge istitutiva dei
T.A.R che individuano come unico dispositivo di accoglimento la
sentenza di annullamento rispecchiavano perfettamente tale visione.
Ne deriva che anche per gli interessi legittimi la garanzia
costituzionale impone di riconoscere l’esperibilità dell’azione di
accertamento autonomo di questa posizione sostanziale, almeno in
tutti i casi in cui, mancando il provvedimento da impugnare, una
simile azione risulti necessaria per la soddisfazione concreta della
pretesa sostanziale del ricorrente.
[7] ABBAMONTE G., Sentenze
di accertamento ed oggetto del giudizio amministrativo di
legittimità e di ottemperanza; in Scritti in onore di massimo Severo
Giannini,Vol I, Milano, 1988, 9
[8] TAKANEN F.,La dichiarazione
di inizio attività e la tutela del terzo, in Riv. Giur.ed,
Maggio-Giugno 2010, 186ss
[9] Cfr T.A.R. Abruzzo Pescara,
Sezione I, (19 marzo 2009) sent. n. 156, il quale ritiene
che , nonostante alcune recenti prese di posizione giurisprudenziali
(Consiglio di Stato, 9 febbraio 2009, sez. VI, n. 717 per l’appunto)
, un’analisi realistica evidenzia che la D.I.A è una tipica
fattispecie a formazione progressiva, ad iniziativa di parte
interessata, la cui denuncia d’inizio attività svolge una funzione
propulsiva e procedurale, aperta a due possibili sviluppi:
l’intervento inibitorio “ex autoritate”, oppure il
superamento dello “spatium deliberandi”, che perfeziona, con
valore assentivo, la D.I.A, con gli effetti tipizzati “ex
lege”. Trattasi, quindi, di una scelta procedimentale
semplificata, produttiva, sul piano amministrativo, di risultati
sostanziali, che viene utilizzata, al pari del silenzio
significativo, per accelerare gli adempimenti burocratici e superare
la necessaria emissione di un provvedimento espresso;
l’autorizzazione, invero, si realizza non solo in base alla D.I.A
iniziale, che fa da presupposto, ma per il completamento positivo
della procedura, in cui trovano rilevanza sia il tempo – scadenza,
sia il non intervento inibitorio; il tipizzato effetto legale ha,
quindi, natura amministrativa. Il terzo che si ritiene leso, in
relazione alla tempestività o meno della conoscenza della Dia, può
intervenire nel procedimento e sollecitare l’intervento inibitorio,
ovvero, promuovere “ex post” la fase repressiva; quello che
appare essere essenziale, è assicurare al medesimo la piena tutela
oppositiva, consentendogli l’azione diretta avverso la fattispecie
abilitante che ha assunto il valore di un provvedimento
(Cons.Stat.,, IV, n.3742/29.7.2008). La Denuncia di Inizio Attività,
pertanto, o esaurisce la sua efficacia di atto privato propulsivo
con l’intervento pubblico inibitorio, oppure, perfezionatosi il
procedimento, costituisce il contenuto della fattispecie abilitante,
realizzatesi per espressa previsione normativa e, quindi, di natura
autoritativa. Il risultato conclusivo è l’effetto autorizzativo,
discendente da un’attività complessa ineguale (atto privato ed
assenso legale “tractu temporis”); sul piano processuale
deve, pertanto, prevale la logica impugnatoria e non quella del
giudizio di accertamento; la valutazione, infatti, attiene alla
legittimità del titolo ed il “non fare” dell’Amministrazione
acquista valore secondario.
[10] Il testo dell’ordinanza è
disponibile in questa rivista su www.giustamm.it
[11] In
merito all’introduzione della S.C.I.A si veda il paragrafo
seguente
[12] LISENA F., Dalla D.i.a alla S.C.I.A.: storia di una
metamorfosi, in questa rivista
[13] BOSCOLO E., La segnalazione
certificata di inizio attività tra esigenze di semplificazione ed
effettività dei controlli, in Riv.Giur. Urb., n 3-4, 2010,
580ss
[14] CARINGELLA F., Manuale di diritto amministrativo, Roma
, 2010, 1080.L’autore ritiene che la S.C.I.A sia applicabile anche
alle autorizzazioni vincolate in quanto rileva che il legislatore ha
escluso un maggior numero di ipotesi dall’applicazione della S.C-I.A
rispetto a quelle previste nella precedente D.I.A con la conseguenza
che se la S.C.I.A si applicasse alle sole autorizzazione vincolate,
escludendo quelle espressione di discrezionalità tecnica non si
comprenderebbe lo sforzo profuso dal legislatore nella tipizzazione
di un così elevato numero di eccezioni..
Ammettere la S.C.I.A
anche alle ipotesi di autorizzazioni espressione di discrezionalità
tecnica sarebbe poi compatibile con la previsione di cui all’art 19,
comma terzo. L n 241/1990 la quale fa espresso riferimento alle
ipotesi in cui la legge prevede l’acquisizione di pareri di organi o
enti appositi disponendo che in tal caso il termine per l’adozione
dei provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività e di
rimozione dei suoi effetti è sospeso,per un massimo di trenta
giorni, fino all’acquisizione dei pareri medesimi. Il riferimento ai
pareri pare infatti presupporre la possibilità che la S.C.I.A posa
riguarda attività oggetto di discrezionalità tecnica.. Ulteriore
argomento che l’autore utilizza a favore di tale è costituito dal
richiamo al potere di revoca di cui all’art 21- quinquies l n
241/1990 che può essere attivato scaduto il termine di trenta giorni
dalla comunicazione di avvio dell’attività. E’ infatti noto che il
potere di revoca presuppone la sussistenza di margini di
discrezionalità.
[15] BOSCOLO E., cit, 598. L’autore dubita che
il nuovo art 19-l n 241/1990, anche alla luce dello schema fissato
dalla sentenza 303/2003 della Corte Costituzionale, sia atto ad
esprimere un principio generale così dettagliato capace di imporsi
come tale entro la trama delle legislazioni regionali che più si
sono distaccate dalle logiche tassonomiche del T.U edilizia
[16]
CARINGELLA F., .cit, 1090
[17] BOSCOLO E., cit, 592
[18] Per
citare solo alcune sentenze ex multis: TAR Firenze Toscana sez. I n.
3100 27.06.2005 secondo cui l'esame delle domande di autorizzazione
a costruire è rigorosamente vincolato al rispetto delle prescrizioni
urbanistiche vigenti, di talché non è ravvisabile alcun vizio di
eccesso di potere per disparità di trattamento nel comportamento
dell'amministrazione comunale che subordini il rilascio del titolo
abilitativo alla perfetta osservanza di tali disposizioni; TAR
Latina Lazio, n. 218 21.02.1994 e TAR Brescia, n. 1244 28.11.1995
secondo cui nell'ambito di un giudizio di impugnazione di un
provvedimento di diniego di concessione edilizia, non è ammissibile
sollevare la censura dell'eccesso di potere per disparità di
trattamento, essendo la valutazione delle domande di autorizzazione
a costruire vincolata rigorosamente alla conformità delle domande
alle prescrizioni urbanistiche: è possibile, tuttavia, disattendere
tale principio nei casi in cui il comportamento tenuto
dall'amministrazione, con l'adozione dell'atto di diniego, risulti
poco lineare, qualora quest'ultimo implichi un margine di
discrezionalità tecnica.
[19] Cfr Cons .Stat., Sez IV, 12
febbraio 2007, n 599
[20] In questo senso T.A.R Emilia Romagna
Sez I, 20 ottobre 2009 secondo cui quando il materiale avvio
dell’esecuzione di un intervento edilizio – per la peculiarità del
caso concreto- è in sé rilevatore delle fondamentali caratteristiche
dell’opera e dell’eventuale non conformità della stessa alla
disciplina urbanistico- edilizia a tale momento va ricondotta la
piena conoscenza del titolo abilitativo, ai fini della tempestività
dell’impugnativa dell’atto da parte di chi abbia interesse.
[21]
In merito alla legittimità del permesso a costruire e del suo
diniego LIVERI G. T., Guida pratica di edilizia ed urbanistica,
Milano 2006, 93ss; REZZONICO S., REZZONICO M., D.I.A, SuperDia e
Permesso a costruire, Milano, 2005, 131ss
[22] LIVERI G. T., cit,
118
[23] Cfr Cons Stat., Sez V, 13.11.1995, n 1551
[24] In
questo senso di recente T.A.R Campania Napoli, Sezione II, 11
settembre 2009, sent n 4934.
[25] Art. 21-nonies. (Annullamento
d'ufficio): 1. Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi
dell'articolo 21-octies può essere annullato d'ufficio,
sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine
ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei
controinteressati, dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro
organo previsto dalla legge. 2. È fatta salva la possibilità di
convalida del provvedimento annullabile, sussistendone le ragioni di
interesse pubblico ed entro un termine ragionevole
[26] T.A,.R
Toscana 27.3.1986, n 365; T.A.R Piemonte- Sez I-21.5.1986, n 191;
Cons.Stato-Sez V- 3.1.1992 e Ad Plenaria-20.5.1980, n 18
[27] C.
Cost, 27 gennaio 2004, sent. n. 43. La modifica del quadro
costituzionale, realizzatasi in seguito alla riforma del titolo V
della Costituzione, ha proposto la problematica del controllo
sostitutivo nell’ambito di un assetto costituzionale notevolmente
differente. Con il nuovo assetto costituzionale il legislatore ha
dato un fondamento costituzionale al principio di sussidiarietà che
prevede il conferimento delle funzioni amministrative ai Comuni con
i limiti derivati dal principio di differenziazione e di adeguatezza
dell’azione amministrativa. Cadute le norme specifiche che
attribuivano in via generale allo Stato il compito di definire le
funzioni amministrative degli enti locali (articoli 118, primo
comma, e 128, vecchio testo), il nuovo articolo 117, secondo comma,
lettera p, ricomprende nella competenza legislativa esclusiva dello
Stato la determinazione delle sole “funzioni fondamentali” di
Comuni, Province e Città metropolitane; mentre il nuovo articolo
118, primo comma, attribuisce in via di principio ai Comuni, in
tutte le materie, “le funzioni amministrative”, ma riserva la
possibilità che esse, per assicurarne l’esercizio unitario, siano
conferite, sulla base dei principi di sussidiarietà,
differenziazione e adeguatezza, a Province, Città metropolitane,
Regioni e Stato. Vi è quindi una “preferenza” generalizzata per gli
enti più vicini ai cittadini, ma anche la previsione di un criterio
flessibile, guidato dai principi generali di differenziazione e di
adeguatezza, per la concreta collocazione delle funzioni ai vari
livelli di governo. L’assegnazione di funzioni amministrative a
livello sovracomunale deve riguardare quelle funzioni che devono
essere gestite a livello unitario; poiché tale concreta collocazione
non può che trovar base nella legge, ne deriva che sarà la legge
statale o regionale, a seconda che la materia spetti alla competenza
legislativa dello Stato o della Regione, ad operare le scelte
relative, nel rispetto dei principi generali indicati.
Il nuovo
articolo 120, secondo comma, della Costituzione si inserisce in
questo contesto, con la previsione esplicita del potere del Governo
di “sostituirsi a organi delle Regioni, delle Città metropolitane,
delle Province e dei Comuni” in determinate ipotesi, sulla base di
presupposti che vengono definiti nella stessa norma costituzionale.;
l’ultimo periodo del comma prevede che sia la legge a definire le
procedure, relative evidentemente all’esercizio dei poteri
sostitutivi previsti dal periodo precedente.
Il riconoscimento
costituzionale del principio di sussidiarietà, con la seguente
concentrazione delle funzioni amministrative agli enti locali, non
poteva comportare il venir meno del controllo sostitutivo statale
volto ad assicurare alcuni interessi unitari della nazione. Si deve
quindi ritenere che :“La nuova norma deriva palesemente dalla
preoccupazione di assicurare comunque, in un sistema di più largo
decentramento di funzioni quale quello delineato dalla riforma, la
possibilità di tutelare, anche al di là degli specifici ambiti delle
materie coinvolte e del riparto costituzionale delle attribuzioni
amministrative, taluni interessi essenziali – il rispetto degli
obblighi internazionali e comunitari, la salvaguardia
dell’incolumità e della sicurezza pubblica, la tutela in tutto il
territorio nazionale dei livelli essenziali delle prestazioni
concernenti i diritti civili e sociali – che il sistema
costituzionale attribuisce alla responsabilità dello Stato (cfr.
infatti l’articolo 117, quinto comma, ultimo inciso, della
Costituzione, per gli obblighi internazionali e comunitari;
l’articolo 117, secondo comma, lettere h e m, rispettivamente per
l’ordine e la sicurezza pubblica e per i livelli essenziali delle
prestazioni concernenti i diritti civili e sociali). Quanto all’
“unità giuridica” e all’ “unità economica”, quale che ne sia il
significato (che qui non occorre indagare), si tratta all’evidenza
del richiamo ad interessi “naturalmente” facenti capo allo Stato,
come ultimo responsabile del mantenimento della unità e
indivisibilità della Repubblica garantita dall’articolo 5 della
Costituzione. ”
[28] C..Cost., 15 giugno 1989, sent. n.
338
[29] C.. Cost., 18 febbraio 1988, sent. n 177
[30] C..
Cost., 27 luglio 1989, sent. n. 460; 25 luglio 1994 sent. n. 342; 1°
ottobre 2003, sent. n. 313
[31] C.. Cost., 27 giugno 1986, sent.
n. 153; 10 febbraio 2003, ord. n. 53
[32] In merito alla
problematiche relative alla tutela dell’interesse legittimo
pretensivo vedasi per tutti ZITO A., Il danno da illegittimo
esercizio della funzione amministrativa,. Riflessioni sulla tutela
dell’interesse legittimo, Napoli 2003
[33] Cons. Stat.,sez IV, 26
aprile 2006, sent.n 2288 commento di CHINELLO D., Presupposti e
limiti dell’azione risarcitoria da illegittimo diniego di un titolo
edilizio; in Urbanistica ed Appalti , n 9, 2006, pp 1068ss
[34]
Mi sia consentito richiamare CASU S. Decadenza dei vincoli
preordinati all’esproprio e danno da ritardo :interazioni e
riflessi, in Riv Giur. Urb , n 1 , 2007,
[35] CARINGELLA-F.
GAROFOLI R., Giurisprudenza Amministrativa 2006. Giuda ragionata per
la prova scritta dell’esame di avvocato e di uditore giudiziario,
Milano,, 2006, 81ss
[36] C.f.r, TAR Salerno, Campania sez. II,
n. 1988 21.06.2008 secondo cui deve essere accolta una domanda di
risarcimento del danno derivante dal ritardato rilascio della
concessione edilizia (nella specie, si trattava della concessione
edilizia per la realizzazione di un deposito agricolo), nel caso in
cui la P.A. abbia, dapprima, espresso un diniego di rilascio della
concessione stessa, motivato con la necessità di apportare alcune
modifiche al progetto originario presentato, e, nonostante la
formale e tempestiva disponibilità manifestata dal richiedente il
titolo edilizio, ad effettuare le modifiche progettuali proposte,
soltanto successivamente, e dopo lungo tempo (circa dieci anni),
abbia effettivamente rilasciato il permesso di costruire
[37] In
merito all’ipotesi di inerzia della P.A C.f.r Cons. Stat sez. IV
sent n. 248 del 29.01.2008 su www.giustiziaamministrativa.it/Sentenze/CdS200800248_SE_4.doc .secondo cui per configuarare la responsabilità della P:A è
necessario che manchi qualsiasi contributo causale al silenzio
dell’Amministrazione perché la sostanziale acquiescenza
dell’interessato ha rilevanza impeditivi sia del fatto obiettivo sia
della colpevolezza della PA; posto che il danno da ritardo è danno
da lesione di interessi legittimi pretensivi ed è risarcibile solo
se il privato ha titolo al rilascio del provvedimento finale si
prospetta altresì come indefettibile l’indagine sulla spettanza del
bene della vita che va obbligatoriamente richiesta dal privato in
base al principio della domanda e a quello dispositivo ed effettuata
direttamente dal giudice solo in presenza di attività vincolata;
infine, nei casi di attività amministrativa discrezionale pura in
cui il giudizio di spettanza è riservato alla PA, è necessaria per
il risarcimento l’ulteriore condizione del previo esercizio (o
riesercizio) del potere mediante statuizione espressa da parte della
stessa Amministrazione.
[38] In merito alla configurabilità di un
danno da mero ritardo come sostenuto da Consiglio di Stato, sez IV
ord. 875/2005 vedi :CARINGELLA-F., GAROFOLI R.,cit,. 81-85; VALLA
L., Il Giudice amministrativo ed il risarcimento “del tempo
perduto”, in Urbanistica ed Appalti, n 6, 2006, 651ss
[39] VALLA
L. , cit,., 656
[40]CARINGELLA-F., GAROFOLI R., cit., 87-88;
VALLA L. cit., 656-657
[41] Si segnalano qui di seguito alcune
sentenze in merito; TAR Pescara, Abruzzo n. 889, 06.11.2008 secondo
cui l'accertata illegittimità della condotta della Pubblica
amministrazione, derivante dal ritardo , dall'inerzia o dalla
mancata istruzione del procedimento, non è da sola sufficiente ai
fini dell'affermazione della responsabilità aquiliana, occorrendo
altresì che risulti danneggiato l'interesse al bene della vita, al
quale è correlato l'interesse legittimo dell'istante, e che detto
interesse risulti meritevole di tutela alla luce dell'ordinamento
positivo; Cassazione Civile, n. 12455, 16.05.2008 In tema di
risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi,
l'accertata illegittimità della condotta della p.a. o di suoi
organi, derivante dal ritardo , dall'inerzia o dalla mancata
istruzione del procedimento, che si traducono nella violazione
dell'obbligo di portarlo comunque a compimento (in modo favorevole o
sfavorevole per l'istante), non è sufficiente ai fini
dell'affermazione della responsabilità aquiliana, occorrendo altresì
che risulti danneggiato l'interesse al bene della vita al quale è
correlato l'interesse legittimo dell'istante, e che detto interesse
risulti meritevole di tutela alla luce dell'ordinamento positivo. In
riferimento al rilascio di una concessione edilizia, l'accertamento
di tale interesse implica un giudizio prognostico sulla fondatezza
dell'istanza, da condursi in riferimento alla normativa di settore
ed agli elementi offerti dall'istante, onde stabilire se costui
fosse titolare di una situazione suscettibile di determinare un
oggettivo affidamento circa la conclusione positiva del
procedimento. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha
confermato la sentenza impugnata, la quale aveva escluso la
responsabilità di un Comune per il rifiuto della concessione
edilizia richiesta per la realizzazione di un parcheggio interrato,
ritenendo non configurabile. un'aspettativa giuridicamente tutelata
dell'istante, in quanto l'autorizzazione a tal fine concessa dal
Consiglio comunale ed il parere favorevole emesso dalla commissione
edilizia erano subordinati all'adozione ed all'approvazione del
piano regolatore generale); TAR Catania, sez. Sicilia, sez. I, n.
1138, 03.07.2007 ai fini del riconoscimento del danno da illegittimo
ritardo nel rilascio di una concessione edilizia, la configurabilità
del danno emergente (maggiore costo di costruzione) e del lucro
cessante (mancata maturazione del reddito per lo sfruttamento degli
immobili) richiede quale necessario termine di paragone la
realizzazione della costruzione, mancando la quale, viene meno la
base di calcolo su cui liquidare il danno . Qualora con l'azione di
risarcimento danni da illegittimo ritardo nel rilascio di un
permesso di costruire si chieda il ristoro del pregiudizio derivante
dalla riduzione del possibile sfruttamento edificatorio dell'area a
causa della realizzazione, nelle more, di manufatti da parte di
altri proprietari, è onere del ricorrente fornire la prova della
legittimità dell'intervento non più assentibile, in termini, ad
esempio, di compatibilità dei maggiori volumi e superfici agli
indici di fabbricabilità, ai confini antecedenti ed attuali con gli
edifici frontisti ed agli altri requisiti necessari a valutarne la
conformità urbanistica, anche mediante la produzione in giudizio di
apposito progetto.
La prova piena a carico del deducente circa i
danni subiti per illegittimo ritardo nel rilascio di un permesso di
costruire non può essere sostituita mediante l'utilizzo della
consulenza tecnica d'ufficio, poiché quest' ultimo è un mezzo
istruttorio residuale e deputato a svolgere compiti integrativi e
non già esclusivi della prova.
Qualora con l'azione di
risarcimento danni da illegittimo ritardo nel rilascio di un
permesso di costruire si chieda il ristoro del pregiudizio derivante
dalla riduzione del possibile sfruttamento edificatorio dell'area a
causa della realizzazione, nelle more, di manufatti da parte di
altri proprietari, è onere del ricorrente fornire la prova della
legittimità dell'intervento non più assentibile, in termini, ad
esempio, di compatibilità dei maggiori volumi e superfici agli
indici di fabbricabilità, ai confini antecedenti ed attuali con gli
edifici frontisti ed agli altri requisiti necessari a valutarne la
conformità urbanistica, anche mediante la produzione in giudizio di
apposito progetto.
[42] Art. 2-bis. L n 241/1990 (Conseguenze per
il ritardo dell’amministrazione nella conclusione del
procedimento): 1. Le pubbliche amministrazioni e i soggetti
di cui all’articolo 1, comma 1-ter, sono tenuti al
risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza
dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del
procedimento. 2. Le controversie relative all’applicazione del
presente articolo sono attribuite alla giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo. Il diritto al risarcimento del danno si
prescrive in cinque anni.
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(pubblicato il
14.2.2011)
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