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n. 2-2011 - © copyright |
EZIO MARIA BARBIERI
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Impugnazione di atti endoprocedimentali ed effettività della giustizia amministrativa
1.- L'ENAC -Ente Nazionale per l'aviazione civile - aveva affidato, per la durata di 40 anni, la gestione in uno scalo aeroportuale di tutti i servizi generali e di carattere collettivo, compresi gli indotti servizi di carattere commerciale, ad una società senza procedere preventivamente alla indizione ed all’espletamento di una pubblica gara finalizzata alla scelta del contraente ed aveva stipulato a tal fine una convenzione con la società prescelta. Dopo di che era stata avviata la gestione dei servizi senza attendere l’adozione del decreto ministeriale di concessione, previsto dall’art. 1 del d.l. 251/1995 e dall’art. 7 del d.m. 521/1997.
Altra società interessata alla gestione degli stessi servizi impugnava la convenzione suddetta mediante ricorso al TAR, adducendo principalmente il mancato rispetto delle norme comunitarie sull’affidamento dei servizi mediante gara pubblica.
Il TAR di Brescia, con sentenza n. 853/2009 accoglieva il ricorso. Questa sentenza, però, è stata annullata in sede di appello dalla VI sezione del Consiglio di Stato con decisione in data 3 marzo 2010, n. 1250. Il supremo organo di giustizia amministrativa ha ritenuto, infatti, di dover dichiarare l’inammissibilità del ricorso, rifacendosi al tradizionale principio secondo il quale gli atti endoprocedimentali non sono di norma impugnabili disgiuntamente dal provvedimento terminale del procedimento in cui si inseriscono, in quanto atti preparatori e come tali sforniti di autonoma capacità lesiva immediata. Di conseguenza gli eventuali vizi dell'atto interno, ridondando in vizi dell’atto terminale, possono essere fatti valere soltanto in sede di impugnativa del provvedimento finale conclusivo del procedimento. Le uniche eccezioni che la giurisprudenza riconosce a questa regola sarebbero le seguenti: a) quando l'atto interno determini un arresto del procedimento ovvero preveda lo svolgimento di una determinata attività, ma senza predeterminazione temporale, lasciando l'interesse pretensivo esposto sine die all'arbitrio dell'amministrazione; b) quando l’atto interno modifichi l'ordinato e corretto iter decisionale, alterando la sequenza disegnata dalla disciplina di settore; c) quando sia esso stesso conclusivo di una fase autonoma, sotto il profilo giuridico, del procedimento generale in cui si inserisce, producendo effetti esterni o anticipando gli effetti del provvedimento terminale.
Non ricorrendo nessuno di questi casi eccezionali il Consiglio di Stato ha ritenuto che la convenzione fra l’ENAC e la società prescelta fosse stata prematuramente impugnata, in quanto si sarebbe dovuto attendere di impugnarla unitamente al decreto ministeriale di concessione dei servizi, concludendo che pertanto il ricorso fosse inammissibile.
La decisione del Consiglio di Stato non presenta sul piano dei principi un particolare interesse, in quanto conferma un orientamento interpretativo ampiamente consolidato. Credo, però, che la sentenza meriti di essere segnalata in quanto da essa emergono con evidente chiarezza i limiti entro i quali gli interpreti amano talvolta continuare a circoscrivere la giustizia amministrativa, pur quando questo avvenga a scapito della sua effettività.
2.- Che non tutti i provvedimenti amministrativi possano essere fatti oggetto di impugnazione e quindi di controllo giurisdizionale è stato sempre pacificamente ammesso, nonostante l’art. 113 della Costituzione disponga che “contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi” e nonostante molteplici interventi della Corte costituzionale abbiano dato di questa norma una lettura favorevole ad estendere sia l’impugnabilità di atti sia la disponibilità di strumenti processuali a favore dei cittadini. La conciliazione fra norma costituzionale ed interpretazioni giurisprudenziali che in concreto ne limitano la portata (come quella recepita dal Consiglio di Stato nella sentenza che ha offerto lo spunto per queste considerazioni, della quale deve riconoscersi in astratto la ragionevolezza) richiede allora che si individui quale sia il momento in cui deve essere garantita l’impugnabilità di un atto e cioè il momento in cui si fa attuale l’utilità e quindi l’esigenza dell’intervento giurisdizionale. Questo momento che apre l’accesso alla giustizia va chiaramente individuato nel verificarsi di una lesione della sfera soggettiva dell’interessato attribuibile all’emanazione di un atto amministrativo produttivo di effetti giuridici che egli ritenga contrari al suo interesse. Si possono dunque ammettere “categorie di atti non impugnabili perché inidonei a turbare la posizione giuridica del cittadino e in quanto tali non interpretabili come una limitazione incostituzionale della tutela giurisdizionale” (Berti, Corso breve di giustizia amministrativa. Padova 2004, pag. 179). Tali sono, oltre agli atti meramente interni, così detti perché esauriscono la loro efficacia all’interno dell’amministrazione, tutti quegli atti che, appartenendo ad un procedimento amministrativo, considerati singolarmente non producono effetti esterni in quanto costituiscono solo il presupposto di atti successivi. In questo caso è solo l’atto terminale del procedimento quello produttivo di effetti esterni e quindi anche di una possibile lesione di interessi; esso solo, di conseguenza, è impugnabile, seppure unitamente a tutti gli altri atti ad esso presupposti che possano essere causa della sua illegittimità. Dice bene, dunque, Berti quando afferma che “non è possibile generalizzare escludendo in toto l’impugnabilità degli atti cosiddetti endoprocedimentali, perché comunque è necessario valutare la qualità e la direzione dei loro effetti” ( op. cit. pag. 180 ).
E in verità anche il Consiglio di Stato nella citata sentenza n. 1250/2010 non nega in forma generalizzata l’impugnabilità di tutti gli atti endoprocedimentali, ma anzi ammette ed elenca espressamente ben tre categorie di eccezioni, già indicate all’inizio di questo scritto. Quello che riesce difficile condividere è la esclusione dell’appartenenza del caso sottoposto a giudizio ad almeno una di queste categorie.
Infatti l’affidamento in concessione della gestione in uno scalo aeroportuale di tutti i servizi generali e di carattere collettivo, compresi gli indotti servizi di carattere commerciale, la cui legittimità era sottoposta al giudizio del Consiglio di Stato, doveva perfezionarsi mediante un decreto ministeriale, il quale a sua volta era subordinato, fra l’altro, alla sottoscrizione di una convenzione secondo il disposto dell’art. 7 del d.m. 521/1997. Ora, nel caso in esame la convenzione era stata stipulata (seppure senza ricorrere ad una gara pubblica, donde l’impugnazione della stessa) e ad essa era stata data immediata esecuzione senza attendere l’atto definitivo di concessione da parte del competente ministero. Ricorreva dunque, quantomeno, l’ipotesi indicata all’inizio sub c), in quanto si consentiva di fatto l’esecuzione delle prestazioni previste dalla convenzione, il che costituiva una anticipazione degli effetti del provvedimento concessorio terminale ancora non adottato dal ministero. Una situazione di fronte alla quale sembra difficile chiudere gli occhi con il pretesto della inefficacia giuridica della convenzione, in quanto nulla più dell’esecuzione di un accordo ne comprova nei fatti l’efficacia e la conseguente capacità lesiva. Donde però la difficoltà anche di accedere alla tesi del Consiglio di Stato che in una situazione attualmente dannosa in conseguenza di un accordo stipulato (seppure formalmente inefficace) ha negato l’accesso alla tutela giurisdizionale del controinteressato.
Direi quindi che ciò che maggiormente meraviglia nella decisione dei giudici amministrativi d’appello è proprio che, pur avendo accuratamente ricordato, e quindi avendo ben presenti quei casi eccezionali nei quali si ritiene possibile l’immediata impugnazione di atti endoprocedimentali, si sia poi omesso di ricondurre fra di essi il caso in esame, che sembrava invece una ipotesi paradigmatica di immediata impugnabilità.
3.- Passando allora dal caso di specie a considerazioni di carattere più generale, mi sembra opportuno ricordare prima di tutto l’art. 1 del codice del processo amministrativo di cui al d. lgs. 2 luglio 2010, n. 104, entrato in vigore il 16 settembre 2010, il quale, molto significativamente, dispone che “la giurisdizione amministrativa assicura una tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo”. Credo, infatti, che quando si tratti di interpretare e di dare applicazione alle regole cui attenersi per individuare nel tempo l’impugnabilità di un atto amministrativo, prima e più che esaminare i caratteri del procedimento, i rapporti intercorrenti fra ciascuna fase del procedimento medesimo e la natura endoprocedimentale o terminale di un atto occorra tenere presente la funzione delle norme processuali che si va ad interpretare onde addivenire ad una loro lettura coerente con tale funzione. Se dunque l’accesso alla giustizia persegue la funzione di assicurare una tutela piena ed effettiva agli interessi che il ricorrente ritenga lesi occorrerà che tale accesso sia reso possibile contestualmente al verificarsi di un fatto dannoso. E siccome l’evento dannoso è, di regola, successivo al perfezionamento di un provvedimento illegittimo è coerente con il principio di effettività che il termine per la proposizione del ricorso contro l’atto terminale del procedimento venga fatto decorrere dalla emanazione o dalla conoscenza del provvedimento, così in ipotesi anche anticipando rispetto all’effettualità di un evento dannoso l’accesso alla tutela giurisdizionale. A tal fine, infatti, è giustamente ritenuta sufficiente a consentire la proposizione del ricorso l’esistenza di un provvedimento idoneo ad essere posto in esecuzione in qualsiasi momento, esecuzione peraltro doverosa finché il provvedimento esiste. Può accadere, però, che il fatto dannoso si verifichi prima della regolare conclusione del procedimento amministrativo in conseguenza della emanazione di un atto endoprocedimentale che di per sé non sarebbe immediatamente impugnabile in quanto non dovrebbe nemmeno essere produttivo di effetti esterni, ma che diventa dannoso per effetto dell’esserne consentita o tollerata l’esecuzione in sostanziale anticipazione di quegli effetti che avrebbero dovuto essere riservati o comunque essere resi possibili solo con l’adozione dell’atto terminale. In questo caso la regola dell’effettività della garanzia giurisdizionale comporta che la tutela venga anticipata rispetto all’atto terminale e contestualizzata con l’esecuzione dell’atto endoprocedimentale. Esso, infatti, costituisce pur sempre una attività amministrativa che si pone come presupposto del danno e la cui traduzione in fatti concreti costituisce evidentemente qualcosa di più della astratta efficacia, teoricamente ancora non conseguita. Tanto più ora che l’art. 7.1 del codice del processo amministrativo devolve alla giurisdizione amministrativa anche le controversie riguardanti i comportamenti riconducibili all’esercizio di un potere amministrativo.
Nell’uno come nell’altro caso, e cioè sia quando si tratti dell’esecuzione di un atto terminale del procedimento, sia quando si tratti dell’esecuzione di un atto endoprocedimentale, il danno per il quale una giustizia effettiva richiede che si consenta l’accesso al ricorso giurisdizionale è sempre costituito o dal semplice fatto dell’adozione del provvedimento, quando esso non necessiti di una esecuzione, ovvero dall’esecuzione di un provvedimento illegittimo, con questa sola differenza: che mentre in presenza di un atto terminale la prevedibile (ma direi, meglio, dovuta) futura messa in esecuzione del provvedimento ha indotto il legislatore a fare scattare a carico dell’interessato l’onere di un immediato ricorso al giudice entro termini di decadenza decorrenti (a seconda dei casi) dall’emanazione o dalla conoscenza del provvedimento, e quindi in ipotesi anche prima del verificarsi del danno medesimo, in presenza di un atto endoprocedimentale solo la messa in esecuzione di esso perfeziona una situazione di impugnabilità, salva comunque sempre la facoltà dell’interessato di rinviare l’accesso alla giustizia al momento del perfezionamento della procedura amministrativa, con i relativi conseguenti effetti di tale scelta processuale sulla quantificazione del danno secondo il disposto dell’art. 30 del codice. Quello che è certo è che proprio esigenze evidenti di effettività impongono che di fronte alla messa in esecuzione di un atto endoprocedimentale sia immediatamente consentito a chi si ritenga danneggiato il ricorso al giudice, senza trincerarsi dietro una dichiarata ma ipocrita inefficacia di ciò che in realtà si sta eseguendo.
Questa è chiaramente la ratio delle eccezioni che la giurisprudenza giustamente ammette alla regola generale che individua nell’atto terminale del procedimento quello che deve essere impugnato anche quando le illegittimità che lo inficiano discendono da atti anteriori interni al procedimento medesimo, eccezioni che il Consiglio di Stato ha puntualmente ricordato nella sentenza citata.
4.- Queste considerazioni sulla rilevanza processuale del danno valgono anche, a mio giudizio, a prendere ragionevole consapevolezza del contenuto sostanziale proprio della situazione giuridica soggettiva di interesse legittimo, nonché della reale conversione del processo amministrativo in un processo sul rapporto e non più solo sull’atto, che poi significa guardare alla realtà delle cose e non solo alla forma dell’azione amministrativa.
Le cose dette, forse, possono anche aiutare inoltre ai fini della quantificazione del danno da risarcire in presenza di una lesione di interessi legittimi; questo è un problema, infatti, sul quale la giustizia amministrativa fatica a prendere posizione anche per la difficoltà a dare sostanza a quell’interesse legittimo che una lunga tradizione leggeva in termini più che altro processuali. Ma soprattutto credo che le considerazioni svolte possano indurre a tralasciare strumenti astratti di valutazione, come appunto l’endoprocedimentalità di un provvedimento, che, se male utilizzati - come mi sembra sia avvenuto nel caso in esame - possono facilmente comportare un concreto diniego di giustizia, cui un futuro risarcimento dei danni si aggiungerebbe con inevitabile pregiudizio per tutte le parti interessate. Qualora infatti, come potrebbe avvenire nel caso in esame, il convenzionamento elusivo della gara pubblica dovesse essere annullato unitamente all’annullamento del decreto ministeriale di concessione dei servizi aeroportuali, sull’amministrazione graverebbe un pesante obbligo risarcitorio, mentre dal canto suo il ricorrente dovrà accontentarsi di un guadagno pecuniario, laddove invece, come giustamente è stato detto, “l’imprenditore deve poter aspirare a chiudere i bilanci non con somme conseguenti a risarcimenti del danno, ma con utilità concrete rappresentate dalle attività effettivamente svolte per lavori effettuati” (Carullo, Gli appalti pubblici dopo l’entrata in vigore della Direttiva n. 2007/66/CE: gli aspetti processuali che incidono direttamente sull’amministrazione aggiudicatrice in Riv. trim. appalti 2010, pag. 287 e segg.).
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(pubblicato il 16.2.2011)
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