 |
|
 |
 |
n. 3-2011 - © copyright |
GINEVRA CERRINA FERONI
|
|
La circolazione dei beni pubblici: un “nuovo” istituto giuridico?
1. Esiste l’istituto giuridico della circolazione dei beni pubblici?
Alla luce degli inveterati principi sul regime dei beni pubblici, la risposta è certamente negativa. Come è noto, infatti, per beni pubblici si intendono tradizionalmente quei beni che appartengono al demanio e al patrimonio indisponibile, beni cioè che esplicano funzioni di interesse pubblico. I beni demaniali sono i beni di proprietà degli enti pubblici territoriali che rientrano nelle categorie di cui agli artt. 822 e 824 c.c. e sono o beni immobili o universalità di beni mobili. Ai sensi dell’art. 823 c.c. tali beni sono inalienabili, inusucapibili, insuscettibili di espropriazione forzata e non possono formare oggetto di diritti a favore di terzi se non nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano (vedremo dopo le deroghe al regime della inalienabilità dei beni demaniali che riguardano ad esempio i beni culturali). I beni del patrimonio indisponibile sono quelli indicati dall’art. 826 c.c. e possono appartenere a qualsiasi ente pubblico (anche non territoriale), essere cose immobili o cose mobili (art. 826 e 830 c.c.) e comunque hanno una destinazione specifica al soddisfacimento di un pubblico interesse, in quanto devono essere utilizzati per l’erogazione di servizi pubblici o l’espletamento di attività di pubblica utilità. Tali beni sono alienabili, purché l’alienazione non implichi il venir meno della loro specifica destinazione, e possono formare oggetto di diritti reali a favore di terzi, sempreché ciò sia compatibile con la loro destinazione (essi sono inusucapibili e insuscettibili di appropriazione forzata ma, a determinate condizioni, possono essere espropriati per la realizzazione di un’opera pubblica). Il regime di tali beni si differenzia dunque da quello dei beni demaniali sopra descritto poiché è incentrato sull’imprescindibile esigenza di conservare la destinazione pubblica (art. 828 c.c.) . Tuttavia, come è stato rilevato in dottrina, i due regimi creati dal c.c. per i beni demaniali e per i beni indisponibili, in assenza di criteri definiti per la distinzione delle due categorie di beni, sono stati «progressivamente avvicinati, sovrapposti e omogeneizzati tra loro» e ciò ad opera sia del legislatore sia della giurisprudenza e della prassi amministrativa . Si è verificata in particolare, almeno fino ai primi anni Novanta, una sorta di “demanializzazione” del patrimonio indisponibile che ha assoggettato tutti i beni pubblici ad un «regime rigido e severo che ne ha impedito una gestione quantomeno economicamente efficace» .
All’interno dei beni patrimoniali indisponibili sussiste poi l’ulteriore distinzione (della dottrina) tra beni indisponibili per natura (ad esempio le miniere, le cave, le torbiere ecc.), i quali assumono il carattere della indisponibilità per il semplice fatto di possedere le prerogative di uno dei tipi configurati dalla legge come beni pubblici e di appartenere ad un ente pubblico, e beni indisponibili per destinazione che vengono utilizzati dallo Stato (come dagli altri enti pubblici territoriali e non) per l’espletamento delle loro funzioni istituzionali.
Non sono quindi beni pubblici nel senso ora richiamato i beni del patrimonio disponibile. Questi ultimi circolano secondo le regole del diritto privato, ferma restando l’osservanza delle regole di contabilità pubblica per i contratti attivi (come ad esempio la vendita).
Sia chiaro, il discorso è tutt’altro che piano: infatti il semplice inquadramento, ad opera dell’amministrazione, di un bene ad esempio all’interno della categoria di beni indisponibili non è sufficiente a considerarlo come tale, poiché per conferire ad un bene il carattere di bene patrimoniale indisponibile è necessario che, oltre all’atto amministrativo di destinazione del bene ad un pubblico servizio, al bene stesso sia data effettiva ed attuale destinazione al pubblico servizio . A differenza dei beni indisponibili per natura, i beni indisponibili per destinazione assumono il carattere della indisponibilità solo se concretamente destinati a quel determinato uso (ufficio o servizio pubblico), cui la legge ricollega l’effetto di sottrarli alla comune negoziabilità privata.
Si pensi alla effettiva appartenenza alla categoria dei beni indisponibili (per destinazione) di immobili situati in arenili in zone ad alto tasso turistico (il c.d. lungo mare), che vengono dati a privati in regime di concessione. Va da sé che, nonostante l’esistenza della concessione, cioè l’atto tipico di attribuzione dell’uso a favore di privati dei beni demaniali e dei beni patrimoniali indisponibili, bisogna valutare in concreto e sulla base di specifici deliberati degli organi comunali come l’immobile venga utilizzato da privati. Se è utilizzato per attività commerciali e turistiche (bar, agenzie immobiliari, paninoteche, ecc.) e non per l’espletamento di una attività pubblica, è perlomeno discutibile che il bene rientri nel demanio o nel patrimonio indisponibile.
Ciò che si vuole dire è che se il giudice accerta che non si tratta di un rapporto concessorio ma locatizio (e ciò al di là del nomen juris dato dalle parti), ciò ha delle implicazioni non solo sulla regolamentazione del rapporto, ma anche sul regime del bene. Per restare nell’esempio fatto, tali beni sono cioè utilizzati per fini considerati dal Comune di interesse pubblico in quanto finalizzati ad incentivare le attività turistiche e connesse. Ma ciò non significa destinazione a pubblico servizio, così come prevede l’art. 826, comma 3° c.c. Ciò che rileva non è la finalità di interesse generale, o meglio considerata tale dal Comune, bensì la espressa destinazione a pubblico servizio. Nella specie non v’è affatto un pubblico servizio: ci sono attività svolte da privati che rispondono ad esigenze di promozione turistica. Ciò ha delle ricadute sulla qualificazione della natura del bene: tali immobili assumono pertanto la natura di bene del patrimonio disponibile e, di conseguenza, sottoposti al regime ordinario dei beni privati e non al regime speciale dei beni pubblici destinati a pubblico servizio: ad esempio è quantomeno discutibile che il rapporti sia di natura concessoria e come tale revocabile dalla amministrazione concedente, ben potendo qualificarsi come locatizio.
Sappiamo poi che, attraverso determinate procedure, i beni del demanio non necessario (mari, fiumi) e del patrimonio indisponibile non necessario (miniere) possono essere sclassificati, ovvero perdere tale status, e allora si rientra nella categoria di cui sopra, ovvero nella categoria dei beni patrimoniali disponibili. Quanto alla demanialità, i beni del demanio naturale (lido del mare, fiumi, laghi, ecc.) la perdono per distruzione del bene o per la perdita dei requisiti di bene demaniale (es. prosciugamento di fiume), mentre i beni del demanio artificiale la perdono in caso di cessazione, espressa o tacita ma univoca, della destinazione pubblica (emblematico il caso di una fortezza non più idonea ad usi militari). Laddove si abbia un mutamento di destinazione non stabilito con atto formale, si ha “sdemanializzazione tacita”. L’art. 829 c.c. disciplina il passaggio di beni dal demanio al patrimonio: «Il passaggio dei beni dal demanio pubblico al patrimonio dello Stato deve essere dichiarato dall’autorità amministrativa. Dell’atto deve essere dato annuncio in G.U.». Si tratta di un provvedimento con il quale il bene cessa di essere pubblico perché ha perduto i caratteri di bene pubblico (per natura o per destinazione) e non già perché l’amministrazione ha modificato il suo regime con un atto amministrativo. I beni del patrimonio indisponibile sono invece assoggettati alla disciplina dell’art. 828, comma 2° c.c. in base al quale «essi non possono essere sottratti alla loro destinazione, se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano». Se ne è ricavato il principio della alienabilità (salvo alcune eccezioni), purché l‘alienazione non comporti la sottrazione dei beni stessi alla loro destinazione pubblica. La perdita della qualità di bene indisponibile avviene: per i beni indisponibili per natura, con il loro venir meno (ad es. esaurimento della miniera o distruzione di una foresta); per gli altri, con l’atto che ne muta la destinazione (ad es. edifici destinati ad uffici pubblici come ex caserme) o anche per effetto del mancato utilizzo del bene per il soddisfacimento di una finalità pubblica. Comunque, una volta che per effetto di provvedimenti espressi (sclassificazione) ovvero di provvedimenti impliciti e/o di comportamenti concludenti, i beni siano transitati dal demanio o dal patrimonio indisponibile a quello disponibile, gli stessi passano tout court sotto il regime della proprietà privata, sono perciò liberamente alienabili, pignorabili, usucapibili e possono assumere qualsiasi destinazione anche diversa dall’uso pubblico.
I beni del demanio e del patrimonio indisponibile sono passibili di diritti da parte di terzi nei modi previsti dalle leggi speciali, attraverso la concessione et similia, ma in tal caso non si tratta di una circolazione, bensì di un trasferimento di determinate utilitates ad altri soggetti regolati da leggi speciali (ad es. T.U. acque, legge mineraria, codice della navigazione, ecc.). Invero tali diritti – che la giurisprudenza equipara a diritti reali parziari (enfiteusi) – possono a loro volta circolare previo consenso dell’ente concedente. Ma in tal caso non circola il bene pubblico, bensì il diritto reale parziario sul bene pubblico che è sempre di proprietà dell’ente pubblico di riferimento.
Ciò detto, alla luce di questi principi, come anticipato in premessa, il tema della circolazione dei beni pubblici non dovrebbe neppure porsi.
2. Sennonché la legislazione più recente ha introdotto poteri che si discostano dalla architettura sopra disegnata in quanto consentono espressamente la vendita dei beni demaniali o del patrimonio indisponibile. A partire dalla fine degli anni Novanta si è verificata cioè una sorta di inversione della tendenza alla “demanializzazione” del patrimonio indisponibile sopra descritta che ha portato nella direzione opposta, ovvero quella della privatizzazione del regime dei beni pubblici, anche demaniali . Facendo perno sull’art. 828, comma 2°, ai sensi del quale la destinazione a finalità pubbliche di un bene può essere garantita anche se tale bene cessa di appartenere ad un ente pubblico, il legislatore ha iniziato a disciplinare, invero in modo frammentario e spesso senza prevedere adeguati strumenti di garanzia del vincolo di destinazione , ipotesi di trasferimento a soggetti privati di beni patrimoniali indisponibili e di beni demaniali. Si pensi ad esempio al l. 6 agosto 2008, n. 133 «Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria» (che molto spazio ha occupato per la riforma Gelmini), la quale contiene una norma (l’art. 58) che introduce ai fini della «ricognizione e valorizzazione del patrimonio immobiliare di Regioni, Comuni ed altri Enti locali» una clausola generale di “sclassificazione”, cioè di liberazione dal demanio (ovviamente artificiale) e dal patrimonio indisponibile. Si stabilisce infatti che: «1. Per procedere al riordino, gestione e valorizzazione del patrimonio immobiliare di Regioni, Province, Comuni e altri Enti locali, ciascun ente con delibera dell'organo di Governo individua, redigendo apposito elenco, sulla base e nei limiti della documentazione esistente presso i propri archivi e uffici, i singoli beni immobili ricadenti nel territorio di competenza, non strumentali all'esercizio delle proprie funzioni istituzionali, suscettibili di valorizzazione ovvero di dismissione. Viene così redatto il piano delle alienazioni e valorizzazioni immobiliari allegato al bilancio di previsione. 2. L'inserimento degli immobili nel piano ne determina la conseguente classificazione come patrimonio disponibile e ne dispone espressamente la destinazione urbanistica; la deliberazione del consiglio comunale di approvazione del piano delle alienazioni e valorizzazioni costituisce variante allo strumento urbanistico generale. Tale variante, in quanto relativa a singoli immobili, non necessita di verifiche di conformità agli eventuali atti di pianificazione sovraordinata di competenza delle province e delle regioni […]». Da notare che non si tratta più di una facoltà per gli Enti territoriali di avvalersi delle disposizioni relative alla ricognizione del patrimonio immobiliare pubblico; adesso gli Enti sono vincolati a fare il "Piano delle Alienazioni immobiliari”. Sia chiaro, si tratta di un atto di programmazione generale che non cambia le regola di “sclassificazione”, ma è indicativo del cambiamento in atto.
Tra le numerose previsioni legislative che hanno introdotto ipotesi di alienazione e commercializzazione di beni pubblici appartenenti al demanio, in deroga al c.c., particolare rilievo assume il Codice dei Beni culturali e del paesaggio, e sulla legge sulla cartolarizzazione (l. 23 novembre 2001, n. 410). In realtà, come vedremo, i beni divenuti alienabili ai sensi di tale normativa, intanto possono essere ceduti in quanto, almeno contestualmente, perdono lo status di bene pubblico nel senso sopra delineato. Il fatto che tale legislazione sia finalizzata alla vendita e non sia quindi incentrata sulla sdemanializzazione e il fatto che non siamo più di fronte ad una sdemanializzazione accidentale (ad esempio il mare che si ritrae) ma ad una sistematica complessiva dismissione, fanno sì che si possa delineare l’istituto, anzi il nuovo istituto della circolazione dei beni pubblici. Abbiamo infatti due plessi normativi che peraltro possono intersecarsi, entrambi finalizzati appunto alla dismissione dei beni pubblici. Si tratta di un novum legislativo, lo si ripete, la cui finalità è proprio la vendita di beni pubblici. Altrimenti si dovrebbe chiamare “circolazione di beni ex pubblici” (nella strada abbandonata prima si verifica che è abbandonata, poi si vende, qui invece no).
Quanto alla circolazione dei beni culturali, la disciplina è oggi contenuta nel Codice dei beni culturali e del paesaggio (d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 41), artt. 53 ss. Diciamo subito che con il Codice viene meno la previgente “presunzione generale di culturalità” per i beni culturali ad appartenenza pubblica , in base alla quale lo speciale regime di protezione discendeva in via presuntiva dal fatto stesso che il bene immobile appartenesse agli enti pubblici senza la necessità di un formale riconoscimento, da parte dell’Amministrazione competente, della loro qualità culturale. Con il Codice si è introdotto un procedimento di verifica di competenza del Ministero per i Beni e le Attività culturali, il quale può avviarlo d’ufficio o su richiesta dei soggetti cui le cose appartengono e deve compiere la verifica in questione sulla base degli indirizzi di carattere generale da esso stesso stabiliti in via preventiva. Quanto agli esiti del procedimento, laddove si riscontra l'interesse storico, artistico, archeologico o etnoantropologico del bene, si applica in via definitiva la disciplina di tutela; nell’ipotesi invece in cui la verifica abbia esito negativo, il bene esce dal regime di tutela, viene sdemanializzato e può essere liberamente alienato. L’art. 12, comma 10° del Codice, come riformato dal d.lgs 24 marzo 2006, n. 156 (che ha abrogato i rinvii alla disciplina del 2003) contempla una disciplina uniforme: tutti i procedimenti di verifica dell'interesse culturale di un bene si devono concludere entro centoventi giorni. L’eventuale silenzio dell’amministrazione, oltre il termine di 120 giorni, è una fattispecie di silenzio-inadempimento . Con ciò si è posto fine ad una serie di discussioni sollevate in dottrina circa i possibili rischi di una sdemanializzazione in via di provvedimento tacito, per mero decorso del termine sull’accertamento dell’interesse culturale.
Ai sensi dell’art. 53 costituiscono il “demanio culturale” i beni culturali appartenenti allo Stato, alle Regioni e agli altri Enti pubblici territoriali e che rientrano nelle tipologie indicate all’art. 822 c.c. Il demanio culturale ricomprende cioè i beni che sono solitamente qualificati come demanio storico, artistico, archeologico, museale, archivistico. I beni del demanio culturale sono sottoposti a regime peculiare, come si ricava dallo stesso art. 53, comma 2°: «I beni del demanio culturale non possono essere alienati, né formare oggetto di diritti a favore di terzi, se non nei limiti e con le modalità previsti dal presente Codice» . Tale disposizione va ad incidere sulle norme del codice civile che disciplinano il regime demaniale, ed in particolare sul principio della inalienabilità assoluta, proprio di tale regime, in quanto consente, in determinati casi previsti dal Codice stesso, l’alienazione dei beni demaniali culturali . Seppur non trattasi di novità assoluta (essendo presente in una disposizione della finanziaria 1999) , di certo è stata eliminata la tradizionale equazione tra inalienabilità e demanialità. Il che si inserisce a pieno titolo nella evoluzione legislativa descritta più sopra che, come è stato rilevato, sta portando ad un progressivo «sfilacciamento dei consolidati schemi sulla demanialità» .
Ciò detto, resta da chiarire se le ipotesi di alienabilità siano da considerarsi come deroghe al principio generale della inalienabilità o meno. La questione è controversa e di grande rilievo ai fini interpretativi. Un indirizzo dottrinale afferma che il Codice non fa che ampliare le possibilità di deroga al principio della inalienabilità, il quale rimane comunque principio fondante del regime dei beni demaniali . Altra parte della dottrina sostiene invece che il principio sia quello opposto, ovvero quello della alienabilità previa autorizzazione o «alienabilità controllata» . In tal caso sarebbero le ipotesi di non alienabilità ad essere oggetto di stretta interpretazione.
Ci sembra che la tesi preferibile sia la seconda: in primo luogo, perché, come è stato rilevato , la legge contiene un elenco tassativo dei beni culturali demaniali non alienabili escludendo tutti gli altri dal regime dell’inalienabilità assoluta (v. art. 54, comma 1°); in secondo luogo, perché il principio della alienabilità viene confermato e potenziato dalla legge sulle cartolarizzazioni (v. art. 3, comma 1°-bis l. 410/2001), che prevede l’alienazione dei beni dello Stato anche di particolare valore artistico e storico , e dalla l. 15 giugno 2002 che istituisce Patrimonio dello Stato S.p.a. a cui pure sono trasferiti beni pubblici di interesse storico-artistico (v. art. 7) ; in terzo luogo perché l’alienazione non ha solo lo scopo di generare entrate per le casse pubbliche, ma anche quello di permettere più alti livelli di tutela dei beni in questione – livelli che i poteri pubblici sono sempre meno in grado di garantire . Ed infatti le alienazioni possono essere autorizzate solo se assicurano la tutela, la fruizione pubblica e la valorizzazione dei beni (v. infra). Infine, una indiretta conferma di tutto ciò si trova nella l. 133/2008 ricordata più sopra. Del resto, va detto che il trasferimento di funzioni di tutela e di valorizzazione ai privati può essere considerato anche una applicazione del principio di sussidiarietà orizzontale di cui all’art. 118, comma 4° Cost. .
La nuova disciplina dettata dal Codice pone al centro non il regime di appartenenza bensì quello di tutela e di uso e, basandosi sull’idea di soddisfare le concrete esigenze di valorizzazione e tutela coinvolgendo i soggetti, anche privati, che dispongano delle risorse necessarie, rappresenta il definitivo superamento della «inesatta premessa che di per sé la mano pubblica è migliore» .
Come è stato evidenziato in dottrina, il Codice sembra così ripristinare il regime della l. 1 giugno 1939, n. 1089, la quale, dopo aver sancito all’art. 23 l’inalienabilità dei beni culturali appartenenti allo Stato o ad altro ente o istituto pubblico, stabiliva, all’art. 24, che il Ministero poteva autorizzare l’alienazione di cose d’antichità e d’arte di proprietà dello Stato o di altri enti o istituti pubblici, purché non ne derivasse danno alla loro conservazione e non ne fosse menomato il pubblico godimento . Vi sono tuttavia delle sostanziali differenze: in primo luogo, la l. 1089/1939 riguardava tutti i beni, mentre il Codice distingue alcune tipologie di beni per i quali vige ancora l’inalienabilità assoluta; in secondo luogo, nella legge del 1939, la alienazione, estendendosi indistintamente a tutti i beni, rappresentava una ipotesi del tutto eccezionale, mentre nel regime attuale, che definisce espressamente le categorie di beni assolutamente inalienabili, non ha, per tutti gli altri beni, carattere di eccezionalità, posto che siano soddisfatti determinati presupposti di garanzia .
L’art. 54, comma 1° del Codice, così come modificato dal d.lgs. 26 marzo 2008, n. 62, riprende in parte le categorie per cui era stata prevista l’inalienabilità dal d.P.R. 283/2000 e qualifica come inalienabili i seguenti beni:
1) «gli immobili e le aree di interesse archeologico»;
2) «gli immobili dichiarati monumenti nazionali a termini della normativa all’epoca vigente»;
3) «le raccolte di musei, pinacoteche, gallerie e biblioteche»;
4) «gli archivi»;
5) «gli immobili dichiarati di interesse particolarmente importante ai sensi dell'articolo 10, comma 3, lettera d)» ;
6) «le cose mobili che siano opera di autore vivente o la cui esecuzione non risalga ad oltre cinquanta anni, se incluse in raccolte appartenenti ai soggetti di cui all'articolo 53»;
Il comma 2° dell’art. 54 dichiara inalienabili altre categorie di beni. In particolare: le cose immobili e mobili appartenenti Stato, alle Regioni, agli altri Enti pubblici territoriali, nonché ad ogni altro ente ed istituto pubblico, che siano opera di autore non più vivente e la cui esecuzione risalga ad oltre cinquanta anni, fino alla conclusione del procedimento di verifica dell’interesse culturale previsto dall'articolo 12 (art. 53, comma 2°, lett. a) ; i singoli documenti appartenenti allo Stato, alle Regioni e agli altri Enti pubblici territoriali, nonché gli archivi e i singoli documenti di altri enti ed istituti pubblici (art. 53, comma 2°, lett. b). Tali beni diventano comunque alienabili se il procedimento di verifica dell’interesse culturale richiamato all’art. 53, comma 2°, lett. a ha esito negativo o se per qualche motivo essi cessano di essere beni “culturali” (ad esempio se nuove ricerche dimostrano che l’interesse culturale è stato attribuito ad un determinato bene per errore).
L’art. 55, che è stato interamente riscritto con il d.lgs. 25 marzo 2008, n. 62, disciplina l’alienabilità dei beni appartenenti al demanio culturale che non rientrano tra quelli elencati dall’art. 54. Tali beni possono essere alienati solo previa autorizzazione del Ministero (art. 55, comma 1°). Il comma 2° riporta l’elenco dei dati che devono essere contenuti nella richiesta di autorizzazione riprendendo interamente (e integrando) il regime che era stato introdotto con il d.P.R. 7 luglio 2000, n. 283 e poi abrogato dal Codice del 2004: indicazione della destinazione d'uso in atto; programma delle misure necessarie ad assicurare la conservazione del bene; indicazione degli obiettivi di valorizzazione che si intendono perseguire con l'alienazione del bene e delle modalità e dei tempi previsti per il loro conseguimento; indicazione della destinazione d'uso prevista, anche in funzione degli obiettivi di valorizzazione da conseguire; modalità di fruizione pubblica del bene, anche in rapporto con la situazione conseguente alle precedenti destinazioni d'uso . L’autorizzazione è rilasciata dal Ministero su parere del Soprintendente, sentita la Regione e, per suo tramite, gli altri Enti pubblici territoriali interessati. Il provvedimento autorizzativo non consiste nella semplice approvazione dell’alienazione ma ha una natura conformativa: esso, infatti, «detta prescrizioni e condizioni in ordine alle misure di conservazione programmate; stabilisce le condizioni di fruizione pubblica del bene, tenuto conto della situazione conseguente alle precedenti destinazioni d'uso; si pronuncia sulla congruità delle modalità e dei tempi previsti per il conseguimento degli obiettivi di valorizzazione indicati nella richiesta» (art. 55, comma 3°).
Le previsioni dei commi 2° e 3° dell’art. 55 rappresentano due delle principali novità introdotte nel 2008, essendo del tutto assenti nella versione previgente, nella quale le diverse fasi della procedura di autorizzazione – i.e. richiesta di autorizzazione, contenuti del provvedimento autorizzativo, condizioni per l’autorizzazione – risultavano alquanto confuse tra loro. Quanto alle condizioni per l’autorizzazione, nella versione antecedente alle modifiche del 2008 esse venivano dettate all’art. 55, comma 2° il quale richiedeva che l'alienazione assicurasse «la tutela, la fruizione pubblica e la valorizzazione dei beni» e che nel provvedimento di autorizzazione fossero indicate «le destinazioni d’uso compatibili con il carattere storico ed artistico degli immobili e tali da non recare danno alla loro conservazione» . Il testo attuale, al contrario, non prevede che il provvedimento di autorizzazione detti le possibili destinazioni di uso, ma richiede un esame preventivo della destinazione d'uso proposta volto a stabilire se quest’ultima sia «suscettibile di arrecare pregiudizio alla conservazione e fruizione pubblica del bene o comunque risulti non compatibile con il carattere storico e artistico del bene medesimo» (art. 55, comma 3-bis) . Si è seguita in questo caso la giurisprudenza del Consiglio di Stato il quale ha stabilito che «i limiti al diritto dominicale dell'acquirente che possono introdursi in sede di rilascio dell'autorizzazione alla vendita devono operare in negativo, a salvaguardia dell'integrità e conservazione del bene e dei valori artistici e storici di cui è espressione, ma non possono imporre in positivo singole destinazioni d'uso per il perseguimento di scopi» . Rimane comunque intatto il principio fondamentale della riserva di fruizione pubblica del bene, secondo l’insegnamento di Giannini per il quale: «Il bene culturale è pubblico non in quanto bene di appartenenza, ma in quanto bene di fruizione» .
Da quanto si ricava dai commi 2° e 3° dell’art. 55, l’alienazione dei beni deve dunque garantire:
a) la tutela del bene, ovvero, secondo la definizione data dal Codice stesso all’art. 3, «la protezione e la conservazione per i fini di pubblica fruizione»;
b) la valorizzazione, ovvero tutte quelle attività dirette a «promuovere la conoscenza del patrimonio culturale e ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio stesso» (art. 6) e disciplinate dagli artt. 111 e ss. del Codice ;
c) la fruizione pubblica del bene.
Nell’ipotesi in cui l’acquirente non ottemperi agli impegni assunti con il contratto di alienazione e quindi non offra più le garanzie sopra citate, si applica la “clausola risolutiva espressa”, che era stata proposta dal d.P.R. n. 183/2000 (art. 11) ma non era stata inserita nel Codice del 2004 ed è stata reintrodotta nel Codice con il d.lgs. n. 62/2008 (art. 55 bis). Secondo tale previsione «le prescrizioni e condizioni contenute nell'autorizzazione di cui all'articolo 55 sono riportate nell'atto di alienazione, del quale costituiscono obbligazione ai sensi dell'articolo 1456 del codice civile ed oggetto di apposita clausola risolutiva espressa» (art. 55, comma 1°, periodo primo). Spetta al Soprintendente verificare l’inadempimento dell’acquirente e comunicarlo alle amministrazioni alienanti ai fini della risoluzione dell’atto di alienazione, con la quale viene meno il passaggio di proprietà e quindi il bene ritorna nella disponibilità e nell’appartenenza del proprietario originario, ovvero torna ad essere demaniale.
L’autorizzazione all’alienazione deve essere motivata, così come prevede l’art. 3 l. 7 agosto 1990, n. 241 sul procedimento amministrativo, e quindi indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell'amministrazione. L’obbligo di trasparenza è tantopiù necessario in quanto si tratta di beni culturali appartenenti ad enti pubblici (o a persone giuridiche private senza scopo di lucro). In particolare il provvedimento autorizzativo dovrà precisare come le condizioni imposte garantiscano una adeguata tutela, valorizzazione e fruizione del bene: del resto la motivazione ha anche lo scopo di garantire una maggior tutela giurisdizionale da parte di soggetti contrari alla dismissione . Come è stato più volte affermato dalla giurisprudenza, anche il diniego di autorizzazione deve essere motivato . Quanto alle procedure di vendita e alle regole di selezione degli acquirenti, il Codice non dà alcuna indicazione . Esse sono disciplinate da altri testi normativi, quali la legge di contabilità dello Stato e altre leggi speciali (ad es. la legge sulle cartolarizzazioni, v. infra), per quanto riguarda Stato, Comuni e Province, nonché dalla normativa regionale di settore. Del resto, come è stato rilevato, il potere delle amministrazioni di dettare regole di selezione degli acquirenti, ad es. ispirate alla loro affidabilità economica, è molto limitato in quanto i requisiti fondamentali per l’alienazione – ovvero gli obblighi di tutela e valorizzazione e la garanzia della fruizione – attengono al bene e non alla persona acquirente . Come regola generale, cioè, l’alienazione prescinde dalla figura dell’acquirente.
L’autorizzazione ad alienare comporta la sdemanializzazione del bene cui essa si riferisce, il quale resta comunque sottoposto a tutte le disposizioni di tutela previste dal Codice (art. 55, comma 3-quinquies). La qualità di “bene culturale” resta dunque intatta, e con essa il regime di tutela relativo.
Concludendo dunque, si può dire che, a differenza di quanto avvenuto in altri settori – dove sono state previste ipotesi di commercializzazione dei beni senza la contestuale introduzione di adeguate garanzie per il mantenimento della loro destinazione pubblica – in materia di beni demaniali culturali le ipotesi di alienazione prevedono tutta una serie di garanzie e cautele che assicurano il controllo della P.A. sui beni alienati, tanto che, in dottrina, si è arrivati a parlare di «trasposizione del contenuto della demanialità» .
3. Esiste poi la delicata questione della cartolarizzazione dei beni pubblici e, per quanto qui rileva, i profili del regime giuridico dei beni trasferiti alle società di cartolarizzazione . Le norme sulla cartolarizzazione hanno attribuito un particolare effetto giuridico ai decreti dell’Agenzia del demanio cui è affidata la propedeutica operazione di ricognizione dei beni immobili dello Stato. Infatti a detti decreti non è stato soltanto attribuito effetto dichiarativo della proprietà statale (con gli effetti dell’art. 2644 c.c. e cioè della trascrizione), ma è stato altresì attribuito l’effetto di far passare i beni stessi al patrimonio disponibile. L’art. 3, comma 1° l. 410/2001 stabilisce che: «L’inclusione nei decreti produce il passaggio dei beni al patrimonio disponibile». La questione centrale è il passaggio automatico dei beni al patrimonio disponibile, sembrando anomalo che da un atto amministrativo, che dovrebbe avere una mera funzione ricognitiva dell’esistente, possano discendere effetti costitutivi così imponenti quale quello di sdemanializzare beni o revocare la destinazione del patrimonio indisponibile . In effetti, a parte il fatto che nei decreti di trasferimento potrebbero esservi già beni del patrimonio disponibile (e dunque non avrebbe alcun senso parlare di passaggio), emerge che l’inclusione di beni statali demaniali o patrimoniali indisponibili nei decreti di trasferimento implica chiaramente la sdemanializzazione o la revoca della destinazione pubblicistica dei medesimi beni. Continuano a gravare invece su detti beni, indipendentemente dalla proprietà pubblica o privata, i vincoli storico-artistici, paesaggistici e ambientali di vario genere: solo in questo senso può avere significato l’art. 3, comma 18° della l. 410/2001.
Ai nostri fini rileva che i beni demaniali, una volta sottoposti alla procedura di cartolarizzazione, cessano di essere demaniali, cioè non sono più sottoposti al regime giuridico previsto per detti beni. In sintesi, la sdemanializzazione fa sì che, in via amministrativa, i beni transitino al patrimonio disponibile. Ciò non significa – è ovvio – che il Ministro dell’Economia e delle Finanze possa per esempio decidere di sottrarre alla destinazione collettiva e al regime pubblicistico un fiume ancora in possesso delle caratteristiche naturali alle quali la legge connette la natura di bene del demanio (naturale), oppure una strada o un’altra infrastruttura ancora efficiente e indispensabile per l’adeguato svolgimento della circolazione automobilistica o di un determinato servizio pubblico. Se così fosse, le scelte ministeriali potrebbero essere orientate solo dagli interessi finanziari dello Stato che per assurdo potrebbero condurre il Ministro dell’Economia e delle Finanze a decretare di fatto persino la totale soppressione del demanio e del patrimonio indisponibile statale. Una tale lettura esporrebbe a dubbi di legittimità costituzionale: sia con riferimento all’art. 42 Cost., laddove stabilisce che la proprietà è pubblica o privata, in quanto si violerebbe il principio di legalità con l’attribuzione in bianco al Ministro dell'Economia del potere di determinare il confine tra la proprietà pubblica e privata ; sia con riferimento all’art. 97 Cost. poiché la privazione dei beni strumentali essenziali per assicurare il perseguimento dei fini pubblici finisce con il compromettere il buon andamento della pubblica amministrazione.
Una interpretazione conforme a Costituzione, suggerita dalla dottrina appena citata , impone invece di ritenere che la disciplina delle cartolarizzazioni non è indifferente alla classificazione dei beni e che quindi il decreto di trasferimento è atto ricognitivo del venir meno dei presupposti della demanialità e della indisponibilità. Esso cioè può fare riferimento solo a beni che, oggettivamente, abbiano perso le caratteristiche che li avevano resi qualificabili come beni demaniali o indisponibili . In proposito è però da ritenere che non c’è neppure bisogno di invocare la Costituzione. Ed infatti una sdemanializzazione che non tenga conto delle caratteristiche attuali materiali e funzionali dei beni sarebbe in contrasto con l’art. 822 c.c., nonché con il generale principio di ragionevolezza e di adeguatezza allo scopo che deve caratterizzare l’azione amministrativa.
Non mancano rapporti tra cartolarizzazione dei beni pubblici e regime di alienazione dei beni culturali. Quanto a detti rapporti, il problema si è posto poiché la l. 410/2001 (v. art. 3, comma 1-bis), prevede la cartolarizzazione e dunque l’alienazione dei beni dello Stato anche di particolare valore artistico e storico, senza distinzioni (a tal fine i decreti del Ministro dell’Economia e delle Finanze sono adottati di concerto con il Ministro per i beni e le attività culturali). Sennonché il Codice dei beni culturali, come si è visto più sopra, a proposito della alienazione di beni degli enti pubblici, prevede la inalienabilità di tutta una serie di beni (art. 54). Cosa prevale? Va affermato con certezza che il Codice dei beni culturali prevale sulla legge di cartolarizzazione e sulle procedure di alienazione. Del resto le previsioni dell’art. 54 del Codice dei beni culturali, in quanto lex posterior rispetto alla legge sulla cartolarizzazione, hanno effetto integrativo di questa; né potrebbe opporsi la specialità della legislazione sulla cartolarizzazione, perché entrambi i plessi normativi disciplinano lo stesso istituto: ovvero la verifica della natura culturale dei beni di proprietà dello Stato e degli enti pubblici. Non solo. Lo status di inalienabilità si impone anche alla legge sulla cartolarizzazione, attesa la natura di ordine pubblico di tale disciplina, rinforzata dal principio di tutela del supervalore certamente espresso dai beni in questione in virtù dell’ex art. 9 Cost. (palesemente infondati i dubbi sulla vendita del Colosseo). Del demanio culturale risultano alienabili solo le categorie di immobili non ricomprese tra le tipologie elencate dall'art. 54 del Codice, che restano assolutamente inalienabili. Qualsiasi norma, dunque, che disponesse la dismissione di immobili culturali di enti pubblici al di fuori dell'autorizzazione ministeriale, oppure la disponesse per immobili che devono considerarsi inalienabili risulta oggi implicitamente abrogata dalla nuova normativa speciale di cui agli articoli 54 ss. del Codice: divieto assoluto di alienazione per le categorie indicate, autorizzazione preventiva, denuncia successiva, ecc.
4. La legislazione esaminata è finalizzata alla vendita e non è incentrata sulla sdemanializzazione. Siamo dunque di fronte ad un fatto nuovo: ovvero la sistematica, complessiva dismissione di beni pubblici che fa sì che si possa delineare un “nuovo” istituto giuridico, ovvero appunto quello della circolazione dei beni pubblici. La tradizionale fissità e immobilità del demanio, una sorta di “mano morta” che aduggiava su tutta l’Italia da decenni e che veniva meno solo in circostanze eccezionali, spesso seguita da una incerta giurisprudenza, è venuta meno. Non riteniamo affatto che questo sia di per sé un male: anzi. Il quadro che si viene a delineare, data l’entità del fenomeno, si inserisce, né potrebbe essere diversamente, in una cornice di programmazione generale nella quale i beni pubblici sono destinati sempre più ad entrare a fare parte del circuito produttivo del Paese. L’importante è che ciò sia condotto con procedure chiare e che la valutazione di non utilità o di non strumentalità a fini pubblici dei beni sia oggetto di scrutinio da parte di tutti gli interessati, scrutinio che richiede efficaci norme di pubblicità e di partecipazione. Il che è coerente con una interpretazione secondo Costituzione, ovvero con il principio del procedimento e più in generale con quello di ragionevolezza.
|
|
(pubblicato il 21.3.2011)
|
|
|
|
 |
|
|
|