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n. 3-2011 - © copyright |
MARIA ALESSANDRA SANDULLI
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Il risarcimento del danno nei
confronti delle pubbliche Amministrazioni: tra soluzione di vecchi
problemi e nascita di nuove questioni (brevi note a margine di Cons.
Stato, ad plen. 23 marzo 2011 n. 3, in tema di autonomia dell’azione
risarcitoria e di Cass. SS. UU., 23 marzo 2011 nn. 6594, 6595 e 6596,
sulla giurisdizione ordinaria sulle azioni per il risarcimento del danno
conseguente all’annullamento di atti favorevoli)
È passato quasi un lustro da quando con tre note
“pronunce gemelle” (in data 13 e 15 giugno 2006), la Corte
regolatrice formulò il suo (primo) monito contro la c.d.
pregiudiziale di annullamento dell’atto amministrativo illegittimo
(o di dichiarazione di illegittimità della condotta omissiva su
un’istanza meritevole di esame) richiesta dai giudici amministrativi
come requisito di ammissibilità per l’azione risarcitoria dei danni
derivanti dalla lesione di interessi legittimi[1]; mentre,
contestualmente, la Grande Chambre della Corte di Giustizia europea
affermava l’incompatibilità comunitaria delle disposizioni (della l.
n. 117 del 1988) con le quali il nostro Stato limitava la propria
responsabilità per gli “errori” in iudicando commessi dai
propri magistrati nell’interpretazione e applicazione delle norme
giuridiche ai casi concreti.
E sono passati quasi sette anni
dalla sentenza-legge 204 del 2004 (ampiamente e costantemente
confermata e chiarita dalla giurisprudenza successiva[2]) con la
quale la Corte costituzionale ricostruì il ruolo del giudice
amministrativo come giudice del “potere” amministrativo,
riconoscendo in quel potere – e nel legame tra esso e la condotta
che ne ha costituito illegittimo esercizio/non esercizio la ragione
– e il limite – della giurisdizione amministrativa.
Il percorso
verso l’effettività della tutela (a dispetto del doppio plesso
giurisdizionale) ha segnato da allora nuove significative tappe in
ambito sia legislativo che giurisprudenziale: l’introduzione della translatio judicii (con le note sentenze n. 4109/2007 della
Corte di Cassazione e 77/2007 della Corte costituzionale[3], seguite
dall’art. 59 della l. n. 69 del 2009 e da ultimo dall’art. 11 del
nuovo codice del processo amministrativo) e del risarcimento del
danno da ritardo (con l’art. 2 bis l. n. 241 del 1990, introdotto
dalla l. n. 69 del 2009 e gli artt. 30 comma 4 e 117 comma 6 c.p.a.,
recentemente oggetto di importanti applicazioni
giurisprudenziali[4]), la conferma dell’autonomia dell’azione
risarcitoria (con la sentenza 30254 del 23 dicembre 2008 della Corte
di Cassazione, seguita dal dibattutissimo art. 30 c.p.a.)
l’esclusione della colpa come limite al risarcimento dei danni per
equivalente in caso di impossibilità di reintegrazione in forma
specifica nelle gare pubbliche (CGUE 30 settembre 2010 in C-314/09),
l’introduzione del giudicato implicito sulla giurisdizione (con la
sentenza SS.UU. 24883 del 2008[5], seguita dall’art. 9 c.p.a.); la
soluzione della vexata quaestio della giurisdizione sulla
sorte del contratto (con la sentenza SS.UU. n. 2906/2010, seguita
dagli artt. 245 bis e ter d.lgs. n. 163 del 2006,
introdotti dal d. lgs. n. 53 del 2010 e, da ultimo, dagli artt. 121
ss. c.p.a.), i “principi generali” e l‘attenzione dedicata a
tale profilo dal nuovo c.p.a., con particolare riferimento al
contraddittorio, alla tutela cautelare e all’ottemperanza, ma
soprattutto, per quanto possibile in un testo normativo, alla
“sincerità” e chiarezza delle regole[6].
Un esempio importante di
tale sincerità è costituito a mio avviso proprio dalla soluzione
(discussa e forse discutibile, ma sicuramente “chiara”) data dal
codice alla questione della pregiudiziale di annullamento: l’azione
risarcitoria, come richiesto dalla Corte di Cassazione (in disparte
ogni valutazione sulla correttezza del metodo utilizzato), è ormai
ammessa in via autonoma; ma, come “insinceramente” fatto trasparire
sin dalle prime citate pronunce gemelle, ma non immediatamente
percepibile ai cittadini non giuristi, la sua fondatezza è
strettamente legata alla diligenza mostrata dal soggetto leso
nell’impedire la consumazione del danno.
Sin dai primissimi
dibattiti sul tema, chi scrive si preoccupò di sottolineare che la
Suprema Corte, richiamando l’art. 1227 c.c., aveva surrettiziamente
invitato il giudice amministrativo ad introdurre un limite
sostanziale all’accoglimento dell’istanza (quello della diligenza
nell’impedire il danno anche – e soprattutto – attraverso la previa
o contestuale azione di annullamento) in virtù di una norma di cui
fino a quel momento la stessa Corte aveva costantemente negato
l’utilizzabilità per le c.d. negligenze processuali[7]. Con il
risultato che gli amministrati, illusi dai media e dai commentatori
più ottimisti di poter finalmente evitare il previo giudizio di
annullamento, si trovavano esposti al fortissimo rischio (e anzi,
salvi i casi di danno immediato e irreversibile attraverso la
reintegrazione in forma specifica, alla certezza) di vedersi
respinta la domanda nel merito, perché il pregiudizio era stato
frutto di una loro “non diligenza” nella reazione.
La
collaborazione che il sistema in fatto richiede agli amministrati
per assicurare la giustizia nell’amministrazione ed evitare che
quest’ultima paghi due volte (per la lesione che un atto illegittimo
comunque arreca all’interesse pubblico e per il ristoro dei danni al
soggetto che ne subisce ingiustamente gli effetti), uscita dalla
porta dell’azione pregiudiziale di annullamento (o di dichiarazione
di illegittimità del silenzio) rientra in sostanza dalla finestra
attraverso l’imputazione allo stesso danneggiato della parte di
pregiudizio da esso evitabile con un “diligente utilizzo dei mezzi
di tutela posti a sua disposizione”.
Ma ormai le regole sono
chiare: l’art. 30 c.p.a., dopo aver affermato l’ammissibilità
dell’azione risarcitoria autonoma da quella di cognizione e averne
fissato il termine di decadenza in 120 giorni dal giorno in cui il
fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento se
il danno deriva direttamente da questo (o, per il risarcimento
dell'eventuale danno che il ricorrente comprovi di aver subito in
conseguenza dell'inosservanza dolosa o colposa del termine di
conclusione del procedimento, dall’eventuale adempimento o
dall’inutile decorso di un anno dal medesimo termine di
conclusione), dispone (e dunque sinceramente “avvisa”) che “Nel
determinare il risarcimento il giudice valuta tutte le circostanze
di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque,
esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare
usando l'ordinaria diligenza, anche attraverso l'esperimento degli
strumenti di tutela previsti”. La riduzione a 120 giorni
del termine di decadenza per la proposizione dell’azione
risarcitoria, operata dal Governo in modifica del più ampio termine
di 180 giorni originariamente fissato dalla Commissione istituita
presso il Consiglio di Stato[8] costituisce un ulteriore esempio di
chiarezza: il termine di 120 giorni è, come noto, il termine per la
proposizione del ricorso straordinario (ammesso, con la sola
eccezione della materia dei contratti pubblici, in alternativa al
ricorso giurisdizionale): il soggetto che si ritiene ingiustamente
danneggiato da un atto amministrativo, è ancora in termini per
dimostrare la propria diligenza chiedendone (nelle vie peraltro meno
onerose della giustizi “interna”) l’annullamento e, laddove occorra,
la sospensione e/o adozione di ogni altra opportuna misura
cautelare.
Il sistema è stato proprio in questi giorni
lucidamente ricostruito dall’Adunanza plenaria del Consiglio di
Stato, che, con sentenza 23 marzo 2011 n. 3, con l’autorevolezza che
le viene ormai espressamente e significativamente riconosciuta
dall’art. 99 c.p.a. (imponendo il rispetto dei principi da essa
affermati da parte delle Sezioni semplici, che, per discostarsene,
dovranno nuovamente sottoporle la questione).
Dopo aver
correttamente la natura sostanziale dell’interesse legittimo come
“posizione di vantaggio riservata ad un soggetto in relazione ad
un bene della vita interessato dall’esercizio del potere
pubblicistico, che si compendia nell'attribuzione a tale soggetto di
poteri idonei ad influire sul corretto esercizio del potere, in modo
da rendere possibile la realizzazione o la difesa dell'interesse al
bene” e puntualmente sottolineato che “in questo quadro
normativo, sensibile all’esigenza di una piena protezione
dell’interesse legittimo come posizione sostanziale correlata ad un
bene della vita, risulta coerente che la domanda risarcitoria, ove
si limiti alla richiesta di ristoro patrimoniale senza mirare alla
cancellazione degli effetti prodotti del provvedimento, sia
proponibile in via autonoma rispetto all’azione impugnatoria e non
si atteggi più a semplice corollario di detto ultimo rimedio secondo
una logica gerarchica che il codice del processo ha con chiarezza
superato” (autonomia dell’azione, che, sempre secondo le chiare
parole della sentenza, “si apprezza , con argomento a contrario,
se si rileva che, alla stregua dell’inciso iniziale del comma 1
dell’art. 30, salvi in casi di giurisdizione esclusiva del giudizio
amministrativo (segnatamente, con riferimento alle azioni di
condanna a tutela di diritti soggettivi) ed i casi di cui al
medesimo articolo (relativi proprio alle domande di risarcimento del
danno ingiusto di cui ai successivi commi 2 e seguenti), la domanda
di condanna può essere proposta solo contestualmente ad altra
azione. Si ricava allora che mentre la domanda tesa ad una pronuncia
che imponga l’adozione del provvedimento satisfattorio, non è
ammissibile se non accompagnata dalla rituale e contestuale
proposizione della domanda di annullamento del provvedimento
negativo (o del rimedio avverso il silenzio ex art. 31), per
converso la domanda risarcitoria è proponibile in via autonoma
rispetto al rimedio caducatorio”), l’Adunanza plenaria
evidenzia, in termini di assoluta “sincerità” che “il codice ha
suggellato un punto di equilibrio capace di superare i contrasti
ermeneutici registratisi in subiecta materia tra le due
giurisdizioni e, in parte, anche in seno ad ognuna di esse. Il
legislatore, in definitiva, ha mostrato di non condividere la tesi
della pregiudizialità pura di stampo processuale al pari di quella
della totale autonomia dei due rimedi, approdando ad una soluzione
che, non considerando l’omessa impugnazione quale sbarramento di
rito, aprioristico ed astratto, valuta detta condotta come fatto
concreto da apprezzare, nel quadro del comportamento complessivo
delle parti, per escludere il risarcimento dei danni evitabili per
effetto del ricorso per l’annullamento.
E tanto sulla scorta di
una soluzione che conduce al rigetto, e non alla declaratoria di
inammissibilità, della domanda avente ad oggetto danni che
l’impugnazione, se proposta nel termine di decadenza, avrebbe
consentito di scongiurare”.
La soluzione, come ben chiarito
dalla pronuncia, coerente al diritto comunitario, “come
interpretato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, nel
senso dell’autonomia processuale delle due tecniche di protezione,
assume un rilievo pregnante nel nostro ordinamento alla luce
dell’art. 1 del codice del processo amministrativo che richiama
espressamente i principi della Costituzione e del diritto europeo
volti ad assicurare una tutela giurisdizionale piena ed
effettiva”.
Il massimo organo della giustizia amministrativa
poi ha messo efficacemente in luce il “superamento della
centralità della tutela di annullamento ove siano percorribili altre
e più appropriate forme di tutela, che l’art. 21 octies, comma 2,
della legge 7 agosto 1990, n. 241, introdotto dall’art. 14 della
legge 11 febbraio 2005, n. 15, ha statuito che il provvedimento
amministrativo non è suscettibile di annullamento ove sia affetto da
vizi procedimentali o formali che non abbiano influito sul contenuto
dispositivo dell’atto finale”, richiamando anche il ruolo
dell’art. 34, comma 3, del codice, il quale stabilisce che
"quando nel corso del giudizio l’annullamento del provvedimento
non risulti più utile per il ricorrente il giudice accerta
l’illegittimità dell’atto se sussiste l’interesse a fini
risarcitori".
Invocando la recente giurisprudenza
costituzionale in tema rapporti tra giudice amministrativo e
ordinamento sportivo (sent. n. 49 dell’11 febbraio 2011), la
pronuncia osserva quindi che “si supera così l’impostazione
tradizionale che vedeva l’annullamento quale sanzione indefettibile
a fronte del riscontro di un vizio di legittimità, dandosi vita ad
un sistema delle tutele duttile, che consente un accertamento non
costitutivo dell’illegittimità, a fini risarcitori”e rileva che,
ad avviso dell’adunanza plenaria, “l’analisi dei rapporti
sostanziali debba essere svolto, piuttosto che sul piano
dell’ingiustizia del danno valorizzato dalle pronunce in esame, su
quello della causalità giuridica”.
Viene a tal fine
richiamato il già ricordato art. 1227, comma 2, c.c., “alla luce
delle clausole generali di buona fede e correttezza di cui agli
artt. 1175 e 1375 c.c. e, soprattutto, del principio di solidarietà
sociale sancito dall'art. 2 Cost. Detto approccio ermeneutico è,
quindi, ispirato da una lettura della struttura del rapporto
obbligatorio in forza della quale, anche nella fase patologica
dell’inadempimento, il creditore, ancorché vittima dell’illecito, è
tenuto ad una condotta positiva (cd. controazione) tesa ad evitare o
a ridurre il danno”.
Correttamente peraltro la sentenza dà
conto dell’orientamento interpretativo prevalente nel senso che
“il comportamento operoso richiesto al creditore non
comprenderebbe l'esperimento di un'azione giudiziaria, sia essa di
cognizione o esecutiva, trattandosi di attività per definizione
complessa e aleatoria, come tale non esigibile in quanto esplicativa
di una mera facoltà, dall'esito non certo”. Ma il massimo
consesso giurisdizionale amministrativo ritiene che “tale
indirizzo laddove fissa, con affermazione perentoria ed astratta, il
principio dell’inesigibilità ex bona fide di condotte
processuali, meriti rivisitazione” anche alla stregua della più
recente giurisprudenza della Corte di cassazione sul divieto di
abuso delle posizioni soggettive, che concerne, oltre che la fase
fisiologica del rapporto, anche quella patologica: “il creditore,
cioè, deve cooperare col debitore non solo per agevolare
l’adempimento, ma anche per non aggravare la sua posizione una volta
che si è verificata la violazione dell’impegno obbligatorio. E tanto
si ricava proprio dal secondo comma dell’art. 1227 c.c., il quale
impone a colui che abbia subito l’inadempimento (o il fatto
illecito) di porre in essere in base a buona fede anche
comportamenti attivi, entro i limiti del sacrificio non
apprezzabile, per evitare l’aggravamento del danno”.
Per
concludere che “il divieto di tenere condotte contrarie a buona
fede ha un ancoraggio costituzionale nel dettato dell’art. 2
Cost.” (principio di solidarietà), che “costituisce canone di
valutazione anche delle condotte processuali ed opera anche nella
fase patologica del rapporto obbligatorio” e che “si deve
allora preferire al tradizionale indirizzo che esclude, per
definizione, la sindacabilità delle condotte processuali ai sensi
del capoverso dell’art. 1227 c.c., un più duttile criterio
interpretativo che, in coerenza con le clausole generali in materia
di correttezza, buona fede e solidarietà di cui la norma in esame è
espressione, consenta la valutazione della condotta complessiva,
anche processuale, del creditore, con riguardo alle specificità del
caso concreto”.
Applicando detto criterio interpretativo al
rapporto azione risarcitoria dei danni da lesione di interessi
legittimi - azione di annullamento dell’atto o di accertamento
dell’illegittimità del silenzio, l’Adunanza plenaria ne ricava che
“si deve allora reputare la scelta di non avvalersi della forma
di tutela specifica e non (comparativamente) complessa che, grazie
anche alle misure cautelari previste dall’ordinamento processuale,
avrebbe plausibilmente (ossia più probabilmente che non) evitato, in
tutto o in parte il danno, integra violazione dell’obbligo di
cooperazione, che spezza il nesso causale e, per l’effetto,
impedisce il risarcimento del danno evitabile. Detta omissione,
apprezzata congiuntamente alla successiva proposizione di una
domanda tesa al risarcimento di un danno che la tempestiva azione di
annullamento avrebbe scongiurato, rende configurabile un
comportamento complessivo di tipo opportunistico che viola il canone
della buona fede e, quindi, in forza del principio di
auto-responsabilità cristallizzato dall’art. 1227, comma 2, c.c.,
implica la non risarcibilità del danno evitabile”.
Ad
evitare il rischio di un’apparente sostanziale riproduzione della
pregiudiziale di annullamento, la sentenza chiarisce che “A
diversa conclusione si deve invece pervenire laddove la decisione di
non fare leva sullo strumento impugnatorio sia frutto di un’opzione
discrezionale ragionevole e non sindacabile in quanto l’interesse
all’annullamento oggettivamente non esista, sia venuto meno e, in
generale, non sia adeguatamente suscettibile di soddisfazione. Si
consideri, a titolo esemplificativo, l’ipotesi in cui il
provvedimento sia stato immediatamente eseguito producendo una
modificazione di fatto irreversibile; o quella in cui i tempi
tecnici del processo non consentano, ragionevolmente, di praticare,
in modo efficiente, il rimedio della tutela ripristinatoria; o,
ancora, le situazioni in cui, per effetto di specifica previsione di
legge (cfr. l’art. 246, comma 4, del codice dei contratti pubblici,
da ultimo confluito nell’art. 125, comma 3, del codice del processo
amministrativo), il mezzo dell’annullamento non possa soddisfare, in
termini reali, l’aspirazione al conseguimento del bene della vita
desiderato. Dette evenienze, ostative al soddisfacimento in natura
della posizione azionata, possono maturare nel corso del giudizio in
guisa da produrre la concentrazione in itinere della domanda sul
solo profilo del risarcimento sulla base della regola
giurisprudenziale prima ricordata, oggi canonizzata dall’art. 34,
comma 3, del codice del processo amministrativo”.
Nella parte
conclusiva, il supremo consesso giurisdizionale amministrativo
affronta anche il delicato tema dei profili probatori della buona
fede, ponendo in luce la necessità di adattare l’applicazione della regola iuris sottesa all’art. 1227, comma 2, del codice
civile alle peculiarità del processo amministrativo imperniato sul
metodo acquisitivo che permea l’operatività del principio
dispositivo (ribadito dalla sentenza Cons. Stato, Sez. IV, 11
febbraio 2011 n. 924 e tradotto dall’art. 63, comma 2, c.p.a.),
tenendo peraltro conto “della specificità del tema probatorio in
esame, il quale impinge in buona misura su quaestiones iuris - quelle relative all’individuazione degli strumenti giuridici di
tutela praticabili, al plausibile esito del ricorso per annullamento
ed agli sbocchi degli ulteriori mezzi di tutela anche stragiudiziali
- che soggiacciono al principio iura novit curia”.
Viene
dunque in definitiva affermato, con un principio guida che dovrà
orientare la successiva giurisprudenza, che “si deve allora
ritenere che, sulla base di principi già desumibili dal quadro
normativo precedente ed oggi recepiti dall’art. 30, comma 3, del
codice del processo amministrativo, il Giudice amministrativo sia
chiamato a valutare, senza necessità di eccezione di parte ed
acquisendo anche d’ufficio gli elementi di prova all’uopo necessari,
se il presumibile esito del ricorso di annullamento e
dell’utilizzazione degli altri strumenti di tutela avrebbe, secondo
un giudizio di causalità ipotetica basato su una logica
probabilistica che apprezzi il comportamento globale del ricorrente,
evitando in tutto o in parte mitigare o ridurre il danno”.
La
lettura della sentenza, confermando la piena e consapevole adesione
del Consiglio di Stato, nella sua massima espressione, al quadro
normativo delineato al c.p.a. in sostanziale coerenza alle tesi
espresse dalla Corte di Cassazione, offre – finalmente – un elemento
di “sincerità” sulle regole del sistema: la “pace tra le
magistrature superiori è fatta”, si potrebbe più semplicisticamente
osservare, con l’auspicata cessazione di un ingiusto quadro di
incertezza sull’effettiva garanzia dell’azione risarcitoria nei
confronti delle pubbliche amministrazioni e dei soggetti ad esse
equiparati o comunque tenuti al rispetto dei principi del
procedimento amministrativo (art. 7 c.p.a.).
Come spesso accade,
per una singolare coincidenza, contestualmente alla pubblicazione
della surrichiamata sentenza dell’Adunanza plenaria, il rapporto tra
le due giurisdizioni subisce tuttavia una nuova importante “scossa”
da parte della Corte regolatrice.
Pur partendo dalle surriferite
premesse storiche sull’evoluzione della tutela risarcitoria dinanzi
al giudice amministrativo (e dunque ricordando che, con l’art. 35
d.lgs. n. 80 del 1998, come sostituito dall’art. 7 l. n. 205 del
2000, peraltro incompletamente richiamato nella sola parte relativa
alla giurisdizione esclusiva, il legislatore ha inteso rendere piena
ed effettiva la tutela del cittadino nei confronti della pubblica
amministrazione, concentrando innanzi al giudice amministrativo non
solo la fase del controllo di legittimità dell’azione
amministrativa, ma anche, ove configurabile, quella della
riparazione per equivalente, ossia il risarcimento del danno,
evitando per esso la necessità di instaurare un successivo e
separato giudizio innanzi al giudice ordinario) con tre “parallele”
decisioni depositate il 23 marzo 2011 (con i nn. 6594, 6595 e 6596),
le Sezioni Unite della Corte di Cassazione affrontano il delicato
tema della risarcibilità delle posizioni soggettive
conferite/riconosciute dalla pubblica amministrazione attraverso un
provvedimento “favorevole” (ma la regola vale evidentemente anche
per il silenzio nelle attività di controllo, così ulteriormente
complicando il quadro degli effetti della s.c.i.a.[9])
successivamente annullato.
La Suprema Corte si pronuncia in
particolare sulla situazione del proprietario di un suolo attestato
“edificabile” e oggetto di concessione edilizia (sentt. 6594 e 6595)
e dell’aggiudicatario di un appalto (sent. 6596), che, dopo aver
ottenuto un provvedimento amministrativo favorevole e aver fatto
“affidamento (incolpevole)” sulla sua “(apparente) legittimità”,
venga successivamente privato del diritto acquisito a seguito di
annullamento – anche d’ufficio – del suddetto provvedimento .
Secondo le Sezioni Unite, “in questo caso, intervenuto
l’annullamento d’ufficio o giurisdizionale per la riscontrata
illegittimità” del provvedimento favorevole i titolari del
diritto ad edificare o a eseguire l’appalto, venendone
“giustamente privati (..) non possono invocare, adducendo la
perdita di tale facoltà, il risarcimento del danno”. In
particolare, “sulla base di questa situazione non possono
invocare né la tutela demolitoria di qualche atto (a meno che non si
ritenga di impugnare il provvedimento di ufficio, che, una volta
riconosciuto legittimo, non consente più di invocare lo jus
aedificandi (e il discorso vale anche per quello ad eseguire
l’appalto) quale fondamento di una ulteriore tutela), né quella
risarcitoria alla possibilità di quel tipo di tutela strettamente
legata”.
Proprio perché la tutela risarcitoria non integra
una autonoma ipotesi di giurisdizione esclusiva, ma una forma di
tutela dell’interesse ingiustamente leso dall’esercizio del potere
amministrativo, la legittima privazione del diritto conseguente ad
un provvedimento illegittimamente favorevole (o esercitabile sulla
base di quest’ultimo), non consentendo la tutela demolitoria, non
consentirebbe neppure di azionare dinanzi al giudice amministrativo
la tutela risarcitoria ad essa consequenziale.
Una volta
annullato, il provvedimento continuerebbe a rilevare per il soggetto
che ne aveva tratto vantaggio “esclusivamente quale mero
comportamento degli organi che hanno provveduto al suo rilascio,
integrando così, ex art. 2043 c.c., gli estremi di un atto illecito
per violazione del neminem laedere, imputabile alla
pubblica amministrazione in virtù del principio di immedesimazione
organica, per avere tale atto, con la sua apparente legittimità,
ingenerato nel suo destinatario l’incolpevole convincimento (avendo
questo il diritto di fare affidamento sulla legittimità dell’atto
amministrativo e, quindi, sulla correttezza dell’azione
amministrativa) di poter legittimamente procedere alla edificazione
del fondo” (o all’esecuzione dell’appalto).
L’unica tutela
invocabile sarebbe così quella risarcitoria fondata
sull’affidamento, relativa a un danno “che oggettivamente
prescinde da valutazioni sull’esercizio del potere pubblico,
fondandosi su doveri di comportamento il cui contenuto certamente
non dipende dalla natura privatistica o pubblicistica del soggetto
che ne è responsabile, atteso che anche la pubblica amministrazione,
come qualsiasi privato, è tenuta a rispettare nell’esercizio
dell’attività amministrativa principi generali di comportamento
quali la perizia, la prudenza, la diligenza, la
correttezza”.
Tale tutela, quindi, non sarebbe riconducibile
alla sfera di giurisdizione del giudice amministrativo, che, a norma
degli artt. 103 e 113 Cost., sarebbe “ordinata ad apprestare
tutela – cautelare, cognitoria ed esecutiva – contro l’agire della
pubblica amministrazione, manifestazione di poteri pubblici, quale
si è concretato nei confronti della parte, che in conseguenza del
modo in cui il potere è stato esercitato ha visto illegittimamente
impedita la realizzazione del proprio interesse sostanziale o la sua
fruizione”, senza potersi estendere alle ipotesi (come quelle
considerate nelle pronunce in commento) in cui la parte ricorrente
non lamenta un esercizio illegittimo del potere, consumato in suo
confronto con sacrificio del corrispondente interesse sostanziale,
ma “la colpa che connota un comportamento consistito per contro
nella emissione di atti favorevoli, poi ritirati per pronunzia
giudiziale o in autotutela, atti che hanno creato affidamento nella
loro legittimità ed orientato una corrispondente successiva condotta
pratica, poi dovuta arrestare”.
La possibilità di
quest’unica, e dunque autonoma, tutela, porterebbe ad escludere la
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ma anche quella
generale di legittimità, stante la consistenza di diritto soggettivo
della situazione (affidamento) fatta valere, con conseguente riserva
della relativa cognizione al giudice ordinario.
La soluzione,
indubbiamente suggestiva, prospettata dalla Suprema Corte, se ha
sicuramente il pregio di aprire la porte alla tutela del c.d.
“legittimo affidamento” riposto dagli amministrati nell’operato
(attivo od omissivo) dei pubblici poteri (offrendo nuovi elementi a
sostegno della già rappresentata esigenza di una loro massima
“sincerità” nell’esercizio dei compiti di amministrazione attiva e
di controllo), non sembra però – a prima lettura – condivisibile sul
piano dell’effettività (e della correlata concentrazione) della
tutela.
Il percorso compiuto in questi termini dalla
giurisprudenza costituzionale (dalla sentenza 204 del 2004 alle
sentenze 77 e 140 del 2007) e dalle surrichiamate pronunce della
stessa Corte di cassazione in tema di translatio iudicii e di
giudicato implicito sulla giurisdizione (percorso coerentemente
confermato dallo stesso legislatore nella redazione delle nuove
regole del processo civile ed amministrativo) osta invero ad una
lettura così riduttiva del legame potere/risarcimento.
Il
provvedimento favorevole giustamente annullato è comunque
espressione del potere pubblico e coerentemente la lesione che esso
arreca deve essere ricondotta, almeno nelle materie di giurisdizione
esclusiva, alla cognizione del giudice amministrativo: tanto più se
esso ha già conosciuto in sede cognitoria della sua legittimità (su
ricorso del terzo leso nel suo interesse oppositivo o del
destinatario leso dal suo annullamento d’ufficio).
Resta
indubbiamente il problema della natura della posizione soggettiva di
affidamento[10] e della conseguente spettanza all’uno o all’altro
plesso giurisdizionale della sua cognizione fuori dalle materie
attribuite alla giurisdizione amministrativa esclusiva. Ricostruendo
l’affidamento in termini di diritto soggettivo, non vi sarebbe
infatti nelle ipotesi considerate una lesione di interessi legittimi
da tutelare in via risarcitoria: da ciò l’estraneità delle relative
controversie alla giurisdizione amministrativa di legittimità.
Nell’attesa di conoscere l’esito nel merito delle controversie
portate all’esame della Suprema Corte e la risposta che i giudici
amministrativi vorranno eventualmente dare alle predette pronunce,
non si può dunque che segnalare, con i necessari limiti della
primissima lettura, la massima rilevanza del tema e la probabile
apertura di un nuovo epocale dibattito dottrinario e
giurisprudenziale, nel cui ambito saranno prevedibilmente riaccese
anche le più classiche questioni legate alla c.d. occupazione
acquisitiva a valle della dichiarazione di illegittimità
costituzionale dell’art. 43 T.U. espropriazioni sulla c.d.
acquisizione sanante[11].
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[1] Si rinvia alle osservazioni svolte in Finalmente “definitiva” certezza sul riparto di giurisdizione in
tema di “comportamenti” e sulla c.d. “pregiudiziale” amministrativa?
Tra i due litiganti vince la “garanzia di piena tutela” (a
primissima lettura in margine a Cass., Sez. Un., 13659, 13660 e
13911 del 2006), in Riv. Giur. Edil., 2006, 880 e
in La Corte di Cassazione e la Corte di Giustizia verso una più
effettiva tutela del cittadino? (note a margine di Cass. SS. UU. 13
giugno 2006 nn. 13659 e 13660 e 15 giugno 2006 n. 13911 sul
risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi e di CGUE
13 giugno 2006 in C-173/03, sulla responsabilità civile dei
magistrati), in www.federalismi.it, 2006. Sul tema della
pregiudiziale, chi scrive aveva ripetutamente espresso posizione in Il legislatore dà nuovi spunti al dibattito sulla
“pregiudiziale”? (riflessioni a margine della legge n. 2 del 2009,
di conversione del d.l.n. 185 del 2008), in www.giustamm.it (pubblicato il 20.2.2009); Ancora un passo
(indietro) nel gioco dell’oca sulla pregiudiziale di annullamento,
in www.giustamm.it (pubblicato il 28.4.2009) e in Pregiudiziale amministrativa: la storia infinita continua, in www.giustamm.it (pubblicato il 15.09.2009).
[2] Cfr. in
particolare la sent. n. 191 del 2006, sulla quale mi sia consentito
rinviare a Riparto di giurisdizione atto secondo: la Corte
costituzionale fa chiarezza sugli effetti della sentenza 204 in tema
di comportamenti “acquisitivi”, in www.federalismi.it,
2006, n. 11.
[3] Mi sia consentito richiamare in proposito i
rilevi svolti in I recenti interventi della Corte Costituzionale
e della Corte di Cassazione sulla translatio iudicii, in www.federalismi.it, 2007 e in Riv. Giur. Edil., 2007,
I, 487.
[4] Cfr. CGA 4 novembre 2010 n. 1368 e Cons. Stato, Sez.
V, 28 febbraio 2011 n. 1271, 21marzo 2011 n. 1739 e 24 marzo 2011 n.
1796 e Sez. IV, 2 marzo 2011n. 1335.
[5] M.A. Sandulli, Dopo
la “translatio iudicii”, le Sezioni Unite riscrivono l’art. 37
c.p.c. e muovono un altro passo verso l’unità della tutela (a
primissima lettura in margine a Cass. SS.UU., 24883 del 2008 e sui
suoi possibili riflessi sulla doppia giurisdizione sui contratti
pubblici), in www.federalismi.it, 2008.
[6] In
argomento, M.A. Sandulli, La s.c.i.a. e le nuove regole sulle
tariffe incentivanti per gli impianti di energia rinnovabile: due
esempi di 'non sincerità' legislativa. Spunti per un forum, in www.federalismi.it, 22 marzo 2011.
[7] Cfr. le
considerazioni svolte nelle Conclusioni al Convegno su Il
ruolo del giudice: le magistrature supreme svoltosi presso
l’Università degli studi “Roma Tre” il 18 e 19 maggio 2007, in www.giustamm.it e in Quaderni del Foro amm.-TAR ,
2007.
[8] L’iter di formazione del c.p.a. è assai
utilmente ricostruito, con i testi a fronte, nel volume di Ro.
Chieppa, Il codice del processo amministrativo, Milano,
Giuffrè, 2011.
[9] Sui quali si rinvia alle riflessioni citate supra alla nota 6.
[10] L’argomento, sul quale merita
sempre richiamare la fondamentale monografia di F. Merusi,
L’affidamento del cittadino, Milano, Giuffrè, 1970, ora in Buona fede e affidamento nel diritto pubblico. Dagli “anni
trenta” all’ “alternanza”, Milano, Giuffrè, 2001, e gli scritti
di F. Trimarchi Banfi, L’annullamento d’ufficio e l’affidamento
del cittadino, in Dir. amm. 2005, 843 e La
responsabilità civile per l’esercizio della funzione amministrativa.
Questioni attuali, Torino, UTET, 2009 è stato affrontato da
ultimo da M. Gigante, Mutamenti nella regolazione dei rapporti
giuridici e legittimo affidamento. Tra diritto comunitario e diritto
interno, Milano, Giuffrè, 2008, Il principio di affidamento e
la sua tutela nei confronti della pubblica amministrazione.
Dell’albero e del ramo, in Dir. e soc., 2009, 403 e Il
principio di tutela del legittimo affidamento in M.A. Sandulli
(a cura di), Il codice dell’azione amministrativa, Milano,
Giuffrè, 2010, 130 ss. e ivi ampi riferimenti bibliografici e
giurisprudenziali.
[11] Sul tema, cfr. F. Patroni Griffi, Prime impressioni a margine della sentenza della Corte
costituzionale n. 293 del 2010, in tema di espropriazione
indiretta, in www. federalismi.it, ottobre 2010 e G.
Mari, L’espropriazione indiretta: la sentenza della Corte
costituzionale n. 293 del 2010 sull’acquisizione sanante e le
prospettive future, in Riv.Giur. Edil. fasc. 5/2010.
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(pubblicato il
28.3.2011)
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