 |
|
 |
 |
n. 4-2011 - © copyright |
MARIA TERESA DENARO
|
|
Spunti problematici in tema di tutela
dei diritti fondamentali in Europa dopo il Trattato di Lisbona
1. Premessa. 2. L’assetto precedente e le novità
introdotte dal Trattato di Lisbona. 3. Conclusioni.
1.
Premessa.
Il cammino verso la realizzazione di un’autentica
cooperazione e integrazione europea, avviato dai sei Paesi fondatori
(Italia, Francia, Germania, Belgio, Olanda e Lussemburgo) con il
Trattato istitutivo della Comunità Europea e proseguito con i
successivi Trattati modificativi e integrativi e con la
partecipazione di altri Paesi, ha raggiunto, con la firma del
Trattato di Lisbona, una nuova stagione volta al rafforzamento della
legittimità democratica dell’Unione e della coerenza della sua
azione esterna.[1]
Dopo l’istituzione della Comunità Europea, più
volte gli Stati membri avevano cercato di riformarne e
“modernizzarne” la struttura ma l’iter modificativo, lungo e
articolato, aveva subito diversi arresti. A seguito della mancata
ratifica del Trattato per la Costituzione Europea da parte della
Francia e dei Paesi Bassi, la Conferenza intergovernativa, istituita
con il compito di concordare il testo di un accordo di revisione dei
testi esistenti, ha terminato i suoi lavori con l’approvazione,
nell’ottobre del 2007, del nuovo Trattato, entrato in vigore il 1°
dicembre 2009, in conseguenza dell’approvazione da parte degli Stati
membri.[2] Con esso è stata “creata” una “nuova Europa” con un ruolo
più attivo ed efficace sulla scena internazionale, con
un’architettura istituzionale più lineare, metodi di lavoro più
efficienti e procedimenti decisionali più trasparenti, in grado di
rispondere meglio alle attese dei cittadini e dei vari Stati.
Tanto si deve ancora dire su questa nuova Europa e sulle
conseguenze che il Trattato firmato a Lisbona ha determinato
nell’assetto internazionale; in questa sede l’esame che si intende
svolgere si indirizza alla realtà dei diritti fondamentali nel
quadro europeo a seguito dell’entrata in vigore del Trattato
suddetto e della nuova formulazione dell’art. 6 del Trattato firmato
a Maastricht il 7 febbraio 1992 (Trattato sull’Unione Europea,
ratificato con la legge 3 novembre 1992, n. 454). Il riconoscimento
della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea del 7
dicembre 2000 (Carta di Nizza), cui è espressamente attribuito lo
stesso valore giuridico dei trattati, e la contestuale adesione alla
CEDU, che comporterebbe implicitamente l’adesione e il
riconoscimento della giurisdizione della Corte di Strasburgo, ora
parte integrante del testo dell’art. 6 sopra citato, forniscono lo
spunto per alcune brevi riflessioni sul tema della tutela dei
diritti fondamentali.[3]
2. L’assetto precedente e le novità
introdotte dal Trattato di Lisbona.
E’ opportuno dire subito che
la formulazione dell’art. 6 del Trattato sull’Unione Europea non ha
determinato un cambiamento significativo nella situazione dei
diritti fondamentali e della loro tutela. La Convenzione Europea per
la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali
continua a spiegare la sua efficacia, così come continua ad operare
la sua Corte; lo stesso vale per la Corte di Giustizia. Se un
cambiamento c’è stato, come si vedrà, esso è sostanzialmente
consistito nell’aggiunta di nuove possibilità di tutela, in quanto
si è esteso il diritto dell’Unione alla Carta di Nizza ed è stata
programmata la sua adesione, con tutte le conseguenze inerenti alla
sua applicazione, alla Convenzione europea dei diritti
dell’uomo.
Le modalità di accesso alla tutela della Corte Europea
di Strasburgo sono rimaste invariate: in base al principio di
sussidiarietà, esaurite le vie di ricorso interne, il cittadino
europeo può rivolgersi ad essa che, riconosciuta e dichiarata
l’avvenuta violazione delle norme della Convezione, può condannare
lo Stato alla restituito in integrum quando possibile, e, in
ultima istanza, al risarcimento del danno.
La tutela offerta
quindi appare, da un lato subordinata al previo esaurimento delle
vie di ricorso interne, dall’altro limitata dalla portata delle
sentenze della Corte che non possono incidere direttamente
nell’ordinamento dello Stato, ad esempio annullando l’atto lesivo
del diritto fondamentale. Queste sentenze, in quanto meramente
dichiarative, non producono effetti normativi diretti negli
ordinamenti degli Stati, ma fanno comunque nascere in capo allo
Stato parte del giudizio, l’obbligo, sul quale vigila il comitato
dei Ministri, di rimuovere le cause della violazione ripristinando
la situazione anteriore alla stessa e determinano in capo ai giudici
nazionali un obbligo di conformarsi, nelle decisioni future, al loro
contenuto, sussistendo l’obbligo di interpretare le norme interne in
conformità alle disposizioni della Convenzione, come interpretate
dai giudici di Strasburgo.[4]
La competenza della Corte di
Strasburgo non esauriva già prima del Trattato di Lisbona le
possibilità di tutela dei diritti fondamentali riconosciuta ai
cittadini della Comunità: la Corte di Giustizia (ora Corte di
Giustizia dell’Unione Europea), creata con il compito di garantire
l’uniforme interpretazione e applicazione del diritto in tutti i
Paesi dell’Unione, a partire dalla fine degli anni ’60, aveva
infatti già incluso nell’ambito della propria competenza anche i
diritti fondamentali, individuandoli nella forma del richiamo alle
tradizioni costituzionali comuni agli stati membri, cominciando da
quelli di natura economica, come ad esempio il diritto di proprietà,
abbracciandoli poi indistintamente tutti e così creando un sistema
di diritti fondamentali di origine giurisprudenziale.[5]
Le sue
sentenze, a differenza di quelle della Corte di Strasburgo hanno la
stessa efficacia giuridica dei Trattati e sono vincolanti per tutti
i Paesi dell’Unione. La possibilità per il cittadino di accedere
alla tutela offerta dalla Corte di Giustizia passa, però, attraverso
la valutazione del giudice nazionale che, tramite la procedura del
rinvio pregiudiziale, può rivolgersi ad essa per un
parere.[6]
Manca quindi la possibilità di rivolgersi direttamente
alla Corte per denunciare la violazione di un diritto, così come è
invece possibile fare, esaurite le vie di ricorso interne, dinnanzi
alla Corte di Strasburgo. I singoli, persone fisiche o giuridiche,
possono infatti impugnare direttamente solo determinati atti
dell’Unione: le decisioni a loro specificamente indirizzate o anche
gli atti che, sebbene a loro non destinati, li riguardino però
direttamente e individualmente.[7]
Le due Corti, quella di
Strasburgo e quella di Lussemburgo, e questa è una realtà
precostituita prima del Trattato di Lisbona e rimasta invariata
anche dopo, sono quindi competenti a giudicare in materia di diritti
fondamentali ma sono differenti sia le modalità di accesso alla
tutela che, come visto, l’efficacia delle loro sentenze.
Ci si
domanda allora in che modo il Trattato del 2007 abbia inciso
nell’ambito dei diritti fondamentali e della loro tutela. La lettura
del nuovo articolo 6 del Trattato sull’Unione europea fornisce la
risposta a questo quesito.
Nel primo comma, l’Unione riconosce
espressamente i diritti, le libertà e principi sanciti dalla Carta
dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000,
che ha «lo stesso valore giuridico dei Trattati». L’Unione
riconosce così e fa proprio il catalogo dei diritti fondamentali
della Carta di Nizza, che entra a pieno titolo a far parte del
diritto europeo, diritto che, come già detto, si offre alla
competenza riconosciuta alla Corte di giustizia.
Il significato
della norma, tuttavia, è stato oggetto di un ampio dibattito
dottrinale che ha investito, innanzitutto, la questione dell’esatta
collocazione, all’interno della gerarchia delle fonti comunitarie,
della Carta di Nizza.[8]
E’ stato rilevato che il mancato
inserimento della Carta all’interno dei trattari istitutivi e
modificativi della UE, pur non negando valore giuridico alla stessa,
ne abbia, per così dire, ridotto le sue potenzialità innovative,
rendendo difficile il suo collocamento al livello del diritto
primario. In particolare, è stato osservato che la concessione di
deroghe nell’applicazione della Carta ad alcuni Paesi dell’Unione
costituirebbe prova della mancata volontà dei redattori del Trattato
di Lisbona di farle assumere valore costituzionale e definitivamente
fondante.[9] In questa prospettiva si ritiene che l’espressione che
attribuisce alla Carta «lo stesso valore giuridico dei
Trattati» non possa e non debba rappresentare un escamotage linguistico idoneo a superare le resistenze all’indirizzo della
costituzionalizzazione comunitaria. Essa, piuttosto, farebbe della
Carta «un parametro formale di legittimità degli atti
comunitari».[10]
La mancata menzione della Carta all’interno
dei Trattati dell’Unione, poi, renderebbe problematica
l’individuazione delle procedure per la sua eventuale revisione e
potrebbe, in teoria, accreditare la possibilità di utilizzare un
meccanismo di revisione molto più semplificato rispetto a quello
previsto per le modifiche dei Trattati sull’Unione e del Trattato
sul funzionamento dell’Unione. Tale ambiguità sarebbe rafforzata,
secondo alcuni, dalla mancata attribuzione ai diritti enunciati
nella Carta del carattere della inviolabilità, di tal che tale
omissione sembrerebbe, ancora una volta, non del tutto compatibile
con la sua parificazione piena alla forza giuridica dei
Trattati.[11]
Per ciò che attiene, invece, all’estensione
dell’efficacia della Carta ed alla sua capacità di assicurare
effettività alla tutela dei diritti fondamentali, occorre
evidenziare che il quadro complessivo che emerge appare arricchito
di luci e, allo stesso tempo, contaminato da ombre.
E’
indubbiamente vero che la Carta di Nizza, com’è stato osservato,
contiene un catalogo ampio e completo di diritti e principi
giuridici che potranno rappresentare un sicuro ancoraggio per la
giurisprudenza comunitaria, che a sua volta potrà, in questo ambito,
abbandonare la tecnica del diritto pretorio.[12]
Non si può,
però, contemporaneamente dimenticare che la dottrina ha unanimemente
sottolineato che tanto il Trattato di Lisbona quanto la stessa Carta
di Nizza precisano che l’attribuzione a questa ultima del valore
giuridico dei Trattati non altera in alcun modo i limiti delle
competenze dell’Unione. In sostanza, la tutela dei diritti e delle
libertà fondamentali, in seguito al rinnovato valore giuridico della
Carta, può venire in rilievo solo quando si fa questione
dell’applicazione del diritto comunitario e non già quando
l’applicazione del diritto interno non sia in alcun modo legata alla
cogenza del diritto dell’Unione. La Carta di Nizza, dunque, non
vale, nemmeno a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di
Lisbona, a riconoscere all’Unione una competenza generale sulla
tutela dei diritti fondamentali, sebbene non si debba dimenticare
che proprio in occasione dell’approvazione di tale ultimo Trattato
le materie assegnate all’Unione sono notevolmente aumentate
interessando settori sempre più lontani dalla mera regolazione del
mercato comune.[13]
Nel secondo comma dell’art. 6, è dichiarata,
inoltre, l’adesione dell’Unione alla Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. In
questa esplicita adesione dovrebbe essere ricompreso anche
l’implicito riconoscimento della giurisdizione della Corte Europea
dei diritti dell’uomo per le violazioni delle norme CEDU da parte
delle Alte Parti contraenti a danno di ogni persona fisica, ogni
organizzazione non governativa o gruppo di privati.
Anche questa
norma non è di agevole interpretazione e, anzi, ha suscitato
notevoli dibattiti dottrinali e differenti pronunce
giurisdizionali.
La tendenza provocata da una prima lettura è
stata quella di ritenere l’adesione dell’Unione alla Convenzione
europea come un effetto scaturente, in via diretta ed immediata,
dall’art. 6 del Trattato. In questa ottica si è pensato di poter
parlare di “comunitarizzazione” della CEDU e di attribuzione alle
norme della convenzione di quella stessa efficacia che è propria,
invece, delle norme comunitaria primarie. Se l’Unione aderisce alla
CEDU, questo il ragionamento sillogistico fatto in un primo momento,
le norme della Convenzione «divengono immediatamente operanti
negli ordinamenti nazionali degli Stati membri dell’Unione, e quindi
nel nostro ordinamento nazionale, in forza del diritto comunitario,
e quindi in Italia ai sensi dell’art. 11 della
Costituzione».[14] Tutte le volte, dunque, che una norma
nazionale violi una norma CEDU non sarebbe più necessario sollevare
la questione di legittimità costituzionale per violazione dell’art.
117, comma 1, Cost., ma sarebbe sufficiente, invece, procedere alla
disapplicazione della norma interna perché essa risulterebbe,
oramai, in contrasto con il diritto comunitario primario, nuova
forma e sostanza della Convenzione per i diritti umani.
Nel terzo
comma dell’articolo 6, infine, il Trattato stabilisce in ultimo che
«I diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione europea per
la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e
risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli stati membri,
fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi
generali». Con questa formulazione, il Trattato ingloberebbe i
diritti fondamentali della CEDU, quali principi generali, nel
diritto dell’Unione, estendendo implicitamente ad essi la competenza
della Corte di Lussemburgo.
L’Unione, in definitiva, riconosce la
Carta di Nizza e fa propri i diritti fondamentali garantiti dalla
Convenzione europea dei diritti dell’uomo: entrambe contengono un
catalogo di diritti ma la Carta del 2000, di gran lunga più recente,
appare, nell’elencazione dei diritti fondamentali, più moderna, più
ampia e maggiormente attenta alla reale situazione sociale in cui
quei diritti si esplicano. Non ci sono diritti della CEDU non
previsti nella Carta di Nizza nel cui preambolo, tra l’altro, si
legge: «La presente Carta riafferma … i diritti derivanti … dalla
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti e delle libertà
fondamentali». C’è, quindi, un continuo richiamo: il Trattato
sull’Unione riconosce i diritti e le libertà sanciti nella Carta di
Nizza; incorporerebbe i diritti garantiti dalla CEDU. La Carta di
Nizza riafferma i diritti derivanti dalla CEDU.
Questa la
situazione che emerge dalla nuova formulazione dell’art. 6: entrambe
le Carte farebbero ora parte del diritto dell’Unione e su entrambe
potrebbe quindi esercitarsi la giurisdizione della Corte di
giustizia. Ai cittadini dell’Unione sarebbe offerta la possibilità
di scegliere la tutela ritenuta nel singolo caso più opportuna ed
efficace tramite o il ricorso alla Corte Europea dei diritti
dell’Uomo o la tutela offerta dalla Corte di Lussemburgo e anche la
possibilità di sottoporre alla Corte di giustizia una questione
inerente la CEDU, prima di esclusiva competenza della Corte di
Strasburgo.
Le due vie però, come si è visto, presentano percorsi
e caratteri diversi. Per il ricorso alla Corte dei diritti dell’uomo
la previa necessità dell’esperimento ed esaurimento delle vie di
ricorso interne, la impossibilità per le sentenze di incidere
direttamente nell’ordinamento dello Stato riconosciuto responsabile
della violazione e parte in causa, la non estensibilità del
contenuto delle sentenze agli altri Paesi dell’Unione. Per il
ricorso alla Corte di giustizia: efficacia delle sentenze pari a
quella dei Trattati e quindi estesa a tutti i Paesi dell’Unione,
capacità delle sentenze di incidere direttamente nell’ordinamento
dei Paesi dell’Unione, ma impossibilità per il cittadino di attivare
procedure che consentono di rivolgersi direttamente alla
Corte.
Con la nuova formulazione dell’art. 6, anche l’efficacia e
il valore riconosciuti nell’ordinamento italiano alle norme della
CEDU potrebbero essersi, come detto, modificati. Se prima queste,
come espressione di un obbligo internazionale, erano rispettate come
norme interposte tra la legge ordinaria e la Costituzione, essendo
ora parte del diritto dell’Unione ne avrebbero acquisito l’efficacia
diretta e la prevalenza sul diritto interno che ne sono
proprie.
Si ricorda in proposito che la Corte costituzionale ha
individuato il fondamento dell’efficacia del diritto comunitario
nell’art. 11, secondo comma, della Costituzione, e con la nota
sentenza del 1973 n. 183, ha riconosciuto che «le norme
comunitarie devono avere piena efficacia obbligatoria e diretta
applicazione in tutti gli Stati membri, senza la necessità di una
legge di ricezione e adattamento, come atti aventi forza e valore di
legge in ogni Paese della Comunità, si da entrare ovunque
contemporaneamente in vigore e consentire un’applicazione uguale ed
uniforme nei confronti di tutti i destinatari».
Nel nostro
sistema giuridico, ai fini dell’efficacia, bisogna distinguere tra
le norme comunitarie per le quali vale il riferito orientamento
della Corte Costituzionale, e le norme pattizie, tra cui rientra la
CEDU. La Costituzione nel titolo V, art. 117, distingue
espressamente i due generi di norme: «i vincoli derivanti
dall’Ordinamento Comunitario» e gli «obblighi
internazionali», i primi immediatamente vincolanti per il
legislatore e prevalenti sulla Costituzione, i secondi in una
collocazione intermedia tra le fonti ordinarie e la Costituzione.
Le sentenze 348 e 349 del 2007 della Corte Costituzionale hanno
precisato i rapporti tra le norme della CEDU, la legge ordinaria e
la Costituzione. Secondo la Corte le norme CEDU, pur rivestendo
grande rilevanza in quanto tutelano e valorizzano i diritti e le
libertà fondamentali delle persone, sarebbero norme internazionali
pattizie, che vincolano lo Stato, ma non producono effetti diretti
nell’ordinamento. Da ciò deriva che nel caso in cui una legge
ordinaria sia in contrasto con una norma della CEDU, il giudice
comune non potrà disapplicare la legge (come può fare invece nel
caso in cui il contrasto sia con una norma dell’Unione) ma potrà
solo sollevare la questione di legittimità costituzionale, per la
violazione dell’art. 117 (che, si ricorda, impone alla legge
ordinaria il rispetto degli obblighi internazionali). Sono quindi
norme interposte.
Nel caso in cui il contrasto si ponga invece
con una norma dell’Unione, questa è sempre prevalente e il giudice
ordinario sarà tenuto a disapplicare la norma interna contrastante e
dare prevalenza a quella dell’Unione.
Se, come si è prima detto,
si riconoscesse che ex art. 6 del Trattato anche la Convezione
europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali fosse ora
parte del diritto dell’Unione, potrebbe ipotizzarsi che venga meno
la sua posizione di norma interposta nella gerarchia delle fonti per
divenire diritto prevalente e direttamente applicabile per cui il
giudice comune sarebbe tenuto a disapplicare qualsiasi norma
nazionale in contrasto con i diritti fondamentali sanciti dalla
CEDU, in base al principio, fondato sull’art.11 della Cost., secondo
cui le norme del diritto comunitario sono direttamente operanti
nell’ordinamento interno.[15]
Sulla questione si è recentemente
pronunciata la Corte Costituzionale nella sentenza n. 80 del 2011,
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge
27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle
persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica mortalità) e
dell’art. 2-ter della legge 31 maggio 1965, n. 575
(Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso,
anche straniere).
La Corte ritiene che le innovazioni apportate
dal Trattato di Lisbona non avrebbero comportato un mutamento della
collocazione delle disposizioni della CEDU nel sistema delle fonti,
tale da rendere inattuale la concezione delle norme interposte, ma,
modificando l’art. 6 del Trattato sull’Unione, avrebbero comportato
un rafforzamento dei meccanismi di protezione dei diritti
fondamentali. Il nuovo art. 6 avrebbe così introdotto « … un
sistema di protezione assai più complesso e articolato del
precedente, nel quale ciascuna delle componenti è chiamata ad
assolvere a una propria funzione ».
La Corte si pronuncia per
la non “comunitarizzazione” della CEDU ribadendo la validità delle
considerazioni dalla stessa precedentemente svolte in merito alla
loro collocazione come norme interposte tra la Costituzione e la
legge ordinaria perché «nessun argomento in tale direzione può
essere tratto, anzitutto, dalla prevista adesione dell’Unione
europea alla CEDU, per l’assorbente ragione che l’adesione non è
ancora avvenuta».[16]
La Corte, dunque, da un lato, conferma
autorevolmente le opinioni di quella dottrina che già aveva
manifestato consistenti perplessità sull’effetto diretto ed
immediato dell’adesione dell’Unione alla CEDU, e, dall’altro,
sconfessa le pronunce giurisdizionali che su tale presunto effetto
immediato hanno ritenuto di potere disapplicare in via diretta norme
nazionali contrastanti con precetti della Convenzione, anziché
sottoporle al giudizio di legittimità costituzionale per violazione
ex art. 117, comma primo, Cost.
E’ accaduto, infatti, che
all’indomani dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona una
parte della giurisprudenza amministrativa italiana ha ritenuto, come
detto, direttamente applicabile nel sistema nazionale le norme della
CEDU. L’art. 6 del nuovo Trattato, avrebbe, insomma, assegnato
efficacia diretta alle norme della Convenzione che, divenute norme
di diritto comunitario di rango primario, potrebbero ben essere
disapplicate dal giudice nazionale.[17]
Ancor prima di tali
decisioni, però, la dottrina aveva sottolineato, con forza e con
dovizia di particolari, che l’adesione dell’Unione alla CEDU non
poteva ritenersi effetto immediato dell’entrata in vigore dell’art.
6 del Trattato, ma necessitava dell’introduzione e del compimento di
un procedimento di adesione ad un trattato internazionale (qual è la
CEDU), procedimento, peraltro, rigorosamente disciplinato dallo
stesso Trattato dell’Unione e dalla Convenzione.[18]
In
particolare, si è opportunamente sottolineato che l’espressione
utilizzata dall’art. 6, allorché afferma che l’Unione aderisce alla
CEDU, non rappresenta un linguaggio ad effetto costitutivo, un
linguaggio, cioè, capace di produrre effetti giuridici di per sé,
per il solo fatto di affermarli, ma riproduce una norma
programmatica che si limita a legittimare un percorso (l’adesione,
appunto) prima ritenuto implicitamente vietato.[19]
Né si è
ritenuto di potere assicurare l’effetto diretto della CEDU in forza
del paragrafo 3 dell’art. 6, secondo il quale i diritti fondamentali
garantiti dalla Convenzione e dalle tradizioni costituzionali comuni
«fanno parte del diritto dell’Unione». Contrasta con tale
conclusione, infatti, il richiamo ai principi generali: come è stato
osservato la disposizione da ultimo richiamata si limita «a
ribadire quanto già previsto a Maastricht, e cioè che i diritti
fondamentali ricevono tutela in quanto principi generali
dell'ordinamento UE e che la ricostruzione degli stessi ha luogo
sulla base delle tradizioni costituzionali comuni e della
Convenzione. Non può, allora, condividersi il ragionamento del TAR
Lazio secondo cui le norme CEDU, sulla base del richiamo contenuto
nell'art. 6 par. 3, penetrano nel nostro ordinamento in forza del
diritto comunitario “ai sensi dell'art. 11 della
Costituzione”».[20]
La Corte costituzionale, infine, ha posto
il definitivo suggello sulla necessità che si porti a compimento
l’iter di adesione dell’Unione alla CEDU prima di poter
affermare una qualsiasi forma di efficacia diretta delle norme della
Convenzione all’interno dell’ordinamento nazionale. Essa ha
precisato che i principi generali della Convenzione assumono rilievo
solo in riferimento alle fattispecie in cui il diritto dell’Unione è
applicabile e non anche quando viene in considerazione il solo
diritto interno.[21]
3. Conclusioni.
Da quanto abbiamo sin
qui detto emerge la necessità di trarre delle conclusioni non
influenzate da facili entusiasmi innovatori o da atteggiamenti
ingiustificatamente riduttivi. E’ indispensabile, invece, cogliere
la reale portata dei nuovi effetti giuridici che si possono desumere
dall’introduzione del nuovo art. 6 del Trattato di Maastricht.
La
Carta di Nizza ha assunto di certo una forza giuridica cogente di
cui era sino ad oggi priva; la parificazione del suo valore
giuridico a quello dei Trattati non può che essere stata voluta per
indicare una chiara innovazione sul piano della gerarchia della
fonti, anche se non ci si può sbarazzare facilmente delle
osservazioni di coloro che temono che il suo mancato inserimento
all’interno dei Trattati abbia voluto contenere la portata di tale
innovazione.
La capacità espansiva della Carta, poi, è
direttamente ricollegata all’estensione delle competenze
riconosciute all’Unione dai Trattati, nel senso che la tutela dei
diritti fondamentali può assumere un significato pregnante in ambito
europeo solo se il campo di operatività delle istituzioni
comunitarie si estenderà a materie in cui la rilevanza dei predetti
diritti potrà apprezzarsi in tutta la sua evidenza e non si manterrà
esclusivamente all’interno del settore economico. Come è stato
notato, infatti, sono state rarissime le sentenza in cui la Corte di
Giustizia ha fatto applicazione dei diritti fondamentali,[22] e ciò
non già per una improbabile resistenza del Collegio, quanto per un
limite oggettivo derivante dal fatto che sino ad ora solo alcuni dei
diritti fondamentali sono venuti in rilievo in ambito comunitario e,
nello specifico, quelli coinvolti nell’attività di regolazione del
mercato comune e della concorrenza. Da questo punto di vista,
l’estensione che il nuovo trattato ha introdotto, nelle materie
oggetto della competenza comunitaria, fa ben sperare in ordine
all’ampliamento del campo di indagine della stessa Corte di
Giustizia. Ciò che preme sottolineare, in definitiva, sul punto è
che le stesse norme della Carta e quelle dei Trattati ad oggi
sembrano impedire ai diritti fondamentali “europei” una valenza
generale ed universale.
Per ciò che concerne l’adesione
dell’Unione alla CEDU non può che condividersi la conclusione cui è
pervenuta di recente la Corte costituzionale: l’iter di
adesione è iniziato ma non si è ancora concluso, di tal che le norme
della Convenzione mantengono ancora il loro carattere di norme
interposte idonee per il sindacato di legittimità costituzionale per
violazione dell’art. 117, comma 1 Cost.
Interessante, invece, si
presenta lo scenario futuro, quando ciò che viene comunemente
definita “comunitarizzazione” della CEDU imporrà il tema del
coordinamento fra la Carta di Nizza e la Convenzione e, soprattutto,
fra le due Corti internazionali.
Su un piano generale, è
opportuno osservare che l’espressione “comunitarizzazione della
CEDU” non sembra descrivere adeguatamente il fenomeno reale che
potrebbe prodursi in seguito. E ciò per la semplice considerazione
che è l’Unione che aderisce alla CEDU; il parametro normativo che,
in definitiva, dovrà assumere valore determinante per giudicare
della legittimità degli atti dell’Unione sarà la Convenzione, di tal
che non appare chiaro perché dovrebbe essere quest’ultima Carta a
subire l’influenza del diritto comunitario quando risulterà
evidente, invece, che sarà questo ad essere valutato sulla base di
quella. D’altronde, il fenomeno per il quale gli Stati hanno dato
vita ed aderito alla CEDU ha trovato condivisa giustificazione nella
necessità di approntare un’ulteriore strumento di tutela dei diritti
fondamentali allorché la salvaguardia costituzionale interna non si
rivelasse adeguata. Questa appare anche la ragione giustificatrice
dell’adesione dell’Unione alla CEDU: fare in modo che la produzione
normativa delle istituzioni comunitarie sia conforme alle norme
della Convenzione, la quale, assicurerà tale corrispondenza per il
tramite dell’attività della Corte di Strasburgo (che potrebbe in
futuro assumere una posizione di preminenza). Più che di
“comunitarizzazione” della CEDU, allora, sembrerebbe opportuno
parlare molto più semplicemente, come ha fatto il Trattato, di
adesione dell’Unione alla Convenzione.[23]
La completa adesione
alla CEDU consentirà, in ogni caso, anche alla Corte di Giustizia di
giudicare, nel suo ambito di competenza, le violazioni dei diritti
fondamentali della CEDU quali «principi fondamentali», così
affiancando, ma non sostituendo, il suo intervento a quello della
Corte Europea dei diritti dell’uomo. Restano salve e impregiudicate
le differenze relative sia alle modalità di accesso alla
giurisdizione delle due Corti, che agli effetti delle loro
pronunce.
Si profila così un sistema più ricco di tutela
(definito multilivello) che darà ai cittadini dell’Unione un’opzione
in più e i cui sviluppi successivi sono, allo stato, imprevedibili.
|
|
----------
|
|
[1] G. Tesauro, Diritto dell’Unione Europea, VI ed., Padova, 2010, p. 17: «Il Trattato di Lisbona ha
comportato una “successione” dell’Unione europea alla Comunità
europea ed una revisione in senso proprio del Trattato dell’Unione
europea (TUE) e del Trattato CE; la denominazione di quest’ultimo ..
è mutata in Trattato sul funzionamento dell’Unione europea
(TFUE)». Attualmente l’Unione europea conta 27 paesi membri, che
hanno trasferito all’Unione una parte della loro sovranità.
[2]
L’Italia ha ratificato il Trattato con le legge n. 130 del 2 agosto
2008.
[3] G. Tesauro, cit. p. 3, sottolinea che «… nel
sistema giuridico dell’Unione … un ruolo decisivo va attribuito alla
giurisprudenza, sia del giudice comunitario sia del giudice
nazionale, che ne ha definito fin dall’origine i connotati
essenziali e peculiari e che, nell’arco di oltre un cinquantennio,
ha contribuito notevolmente al suo consolidamento e al suo sviluppo.
La giurisprudenza è dunque un dato ineliminabile nell’apprezzamento
del sistema giuridico dell’Unione». Si vedano anche: R. Adam, A.
Tizzano, Lineamenti di diritto dell’Unione europea, II ed.,
Torino, 2010; E. Scoditti, Il giudice comune e la tutela dei
diritti fondamentali di fonte sovranazionale, in Foro it., 2010, V, 42; M.R. Donnaruma, Il processo di
“costituzionalizzazione” dell’Unione europea e la tensione
dialettica tra la giurisprudenza della Corte di giustizia e le
giurisprudenze delle Corti Costituzionali, in Riv. It. dir.
pubbl. comu., 2010, 2, 407; G. Martinico, Il trattamento
nazionale dei diritti europei: CEDU e diritto comunitario
nell’applicazione dei giudici nazionali, in Riv. trim.,dir.
publi., 2010, 3, 691; F. Salerno, La garanzia costituzianle
della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Riv. dir.
internaz., 2010, 3, 637; C. Panzera, Il bello dell’essere
diversi. Corte Costituzionale e Corti Europee ad una svolta, in Riv. Tri. Dir. pubbl., 2009, I; P. Maddalena, La
Dichiarazione Universale dei diritti dell’upmo e la Costituzione
della Repubblica Italiana. Giudizio di equità ed identità tra equità
e diritto, in Dir. e società, 2, 2009, 225; M. Cartabia, L’universalità dei diritti umani nell’età dei nuovi diritti, in Quad. Cost., 2009, 537; R. Romboli, L. Cappuccio, La Corte Costituzionale interviene sui rapporti tra Convenzione
europea dei diritti dell’uomo e Costituzione, in Foro it., I, 2008; S. Valaguzza, Riflessioni sul primato attenuato del
diritto CEDU e sui suoi possibili sviluppi: prospettive
interpretative per il giudizio amministrativo, in Riv. it.
dir. pubbl. com., 6, 2008; P. Costanzo, L. Mezzetti. A. Ruggeri, Lineamenti di diritto costituzionale dell’Unione europea, Torino, 2006; F. Pocar, Diritto dell’Unione e delle Comunità
europee, Milano, 2006; G. Zagrebelsky, Corti Costituzionali e
diritti universali, in Riv. trim. dir. pubbl., 2006, 297;
Id., Corte Europea dei diritti dell’uomo e sistema europeo di
protezione dei diritti fondamentali, in Foro it., 2006,
V, 353; G. Silvestri, Verso uno ius comune europeo dei diritti
fondamentali, in Quad. Cost., 2006, 1, 7; R.A. Garcia, Il giudice nazionale come giudice europeo, in Quad. Cost., 2005, 1, 111; F. Sorrentino, la tutela multilivello dei
diritti, in Riv. it. dir. publ. com., 2005, 79; B.
Randazzo, Giudici comuni e Corte Europea dei diritti, in Riv. it.
dir. publ. com., 2002, 1303; J.H.H. Weiler, Diritti umani,
costituzionalismo ed integrazione: iconografia e feticismo, in Quad.
Cost., 2002, 1, 521.
[4] Se questa interpretazione
non è possibile, in quanto non è ammessa l’interpretazione contra
legem, al giudice non resterà che sollevare la questione di
costituzionalità rispetto all’art. 117 della Cost. In merito ai
problemi di esecuzione delle sentenze della Corte di Strasburgo vedi
G. Barone, Diritti fondamentali, Diritto a una vita serena, Il
percorso della giurisprudenza, Roma, 2008, pp. 102 e 103 e nota
96. Di recente, con sentenza n. 113 del 7 aprile 2011, la Corte
costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della
norma processuale che disciplina la revisione della sentenza o del
decreto penale di condanna, nella parte in cui essa non prevede la
possibilità di conseguire la riapertura del processo, quando ciò sia
necessario, ai sensi dell’art. 46, paragrafo 1, della Convenzione
per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà
fondamentali, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte
europea dei diritti dell'uomo.
[5] P. Costanzo, L. Mezzetti, A.
Ruggeri, cit., pp. 346 e ss., in particolare laddove
ritengono che la Corte di giustizia sia divenuta “giudice dei
diritti”. La Corte, si ricorda, è l’istituzione cui è attribuito il
controllo giurisdizionale sulla legittimità degli atti e dei
comportamenti delle istituzioni dell’Unione rispetto ai Trattati e
sull’interpretazione del diritto comunitario.
[6] Accanto alla
funzione principale del rinvio pregiudiziale di realizzare
un’interpretazione ed applicazione del diritto dell’Unione uniforme
in tutti i paesi membri, per far si che esso abbia ovunque la stessa
efficacia, la sua seconda funzione è quella di verificare la
legittimità di una legge nazionale o di un atto o di una prassi
amministrativa, rispetto al diritto dell’Unione. G. Tesauro, cit., p. 313: «Di qui la strettissima analogia con il
sindacato di costituzionalità delle norme, specie in quei sistemi
giuridici in cui tale sindacato è attribuito a giudici ad hoc, come
avviene in Italia con la Corte Costituzionale o in Germania con il
Bundesverfassungsgericht … In definitiva si tratta di una
possibilità in più data al singolo, giudice permettendo, perché si
verifichi la legittimità di un atto dell’Unione di cui non è il
destinatario specifico e del quale non risulta direttamente e
individualmente investito».
[7] G. Tesauro, cit., pp.
233 e ss.
[8] Sull’argomento si vedano: F. Seatzu, La tutela
dei diritti fondamentali nel nuovo trattato di Lisbona, in Comunità internazionale, 2009, p. 43; N. Parisi, Funzione
e ruolo della Carta dei diritti fondamentali nel sistema delle fonti
alla luce del Trattato di Lisbona, in Diritto dell’Unione
Europea, 3/2009, p. 653; T. Pensabene Lionti, Trattato di
Lisbona e diritti fondamentali: nuove prospettive con riferimento
alla Carta di Nizza e al rapporto tra Unione Europea e CEDU, in Nuove autonomie, 2/2010, p. 381; M. Cartabia, I diritti
fondamentali in Europa dopo Lisbona: Verso nuovi equilibri?, in Giornale di diritto amministrativo, 3/2010, p. 221.
[9]
F. Seatzu, cit., p. 46, fa notare come la volontà di
parificare tout court l’efficacia della Carta a quella dei
trattati e di assegnare, dunque, alla prima valore primario
all’interno della gerarchia delle fonti comunitarie, sia
contraddetta da numerosi indici rivelatori contenuti all’interno
dello stesso Trattato di Lisbona: «Ora, è nostro parere che il
nuovo Trattato contenga significativi indici del genere. Uno di
questi è certamente la previsione di un'apposita disciplina
derogatoria, come precisato sopra, prevista nel Protocollo n. 7, che
consente, sia pure esclusivamente al Regno Unito ed alla Polonia, di
attribuire alla Carta, ove questa faccia riferimento a leggi e
pratiche nazionali, soltanto il valore che ai diritti e ai principi
ivi contenuti è riconoscibile nel diritto e nelle pratiche
rispettivamente di Polonia e Gran Bretagna. Il ca va sans dire che
in quanto tale la previsione in parola non è facilmente conciliabile
con un'ipotetica volontà dei redattori del Trattato di Lisbona di
mettere la Carta in una posizione apicale nel sistema delle fonti
del diritto comunitario e dell'unione Europea, quest'ultima
desumibile sic paret dal sopra indicato richiamo della Carta dei
diritti fondamentali nell'art. 6, par. 1 Tr. UE, contenente un
esplicito riferimento a valori aventi il rango di principi
costituzionali dell'ordinamento giuridico comunitario».
[10]
F. Seatzu, cit., p. 47.
[11] «Un altro grave problema
interpretativo deriva dall’assenza di un qualunque
riferimento alla Carta di Nizza nell’ambito del nuovo art. 48 TUE
(così come sostituito dal Trattato di Lisbona) disciplinante le
modalità di revisione di trattati (tale articolo, in particolare,
prevede due procedure di revisione dei trattati: una procedura
ordinaria ed una procedura semplificata. Ciò potrebbe, infatti,
consentire una pericolosa interpretazione in base alla quale
eventuali revisioni della Carta di Nizza dovrebbero svolgersi non
secondo le regole e le garanzie previste dall’art. 48 Tue, ma
secondo le tradizionali norme che disciplinano il diritto
internazionale dei trattati. Pertanto, se si dovesse in futuro
consolidare tale orientamento interpretativo, sarebbe consentito
modificare, in modo significativo, il contenuto della Carta senza
dover richiedere (così come, invece, disposto dal nuovo art. 48 TUE
– al chiaro fine di limitare modifiche dei trattati di ampio
respiro) l’intervento di una convenzione costituita “da
rappresentanti dei parlamenti nazionali, dai capi di Stato o di
Governo degli Stati membri, del Parlamento Europeo e della
Commissione”, ma semplicemente ottenendo - così come previsto dal
diritto internazionale dei trattati - l’unanimità degli stessi
membri (ipotesi, questa, evidentemente più facile da realizzare). In
sintesi, con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, si
potrebbe determinare una situazione davvero singolare, nel senso che
la Carta di Nizza (pur essendo dotata dello stesso valore giuridico
dei Trattati, e sebbene volta alla tutela di diritti considerati –
per la rilevanza dei beni della vita protetti – fondamentali)
risulterebbe soggetta ad una procedura di revisione molto più
semplificata rispetto a quella prevista per modifiche di ampio
respiro relative al Trattato sull’Unione europea ed al Trattato sul
funzionamento dell’Unione Europea» T. Pensabene Lionti, cit., p. 399.
[12] N. Parisi, cit., pp. 653 e ss.
[13] L’articolo 51 della Carta di Nizza stabilisce, infatti, che
«la Carta non estende l'ambito di applicazione del diritto
dell'unione al di là delle competenze dell'unione, né introduce
competenze nuove e compiti nuovi, né modifica le competenze e i
compiti definiti nei trattati ». Dello stesso tenore sono l’art.
6, par. 1 del nuovo TUE (integrato, cioè dal Trattato di Lisbona),
il Protocollo (n. 30) sull'applicazione della Carta dei diritti
fondamentali alla Polonia e al Regno Unito e le Dichiarazioni
adottate dalla Polonia (n. 61), dalla Repubblica Ceca (n. 63), dalla
stessa Conferenza (n. 1). Sulla descrizione dell’ampliamento delle
competenze dell’Unione e su come tale circostanza possa influenzare
l’applicazione della Carta dei diritti fondamentali si vedano le
osservazioni di N. Parisi, cit., pp. 657 e ss.
[14] TAR
Lazio, Roma, sezione II bis, sentenza 18 maggio 2010, n. 11984.
[15] Si ricorda ancora che, l’unico limite alla prevalenza del
diritto dell’Unione è rappresentato dai contro limiti. G. Tesauro, cit., p. 223, a proposito della nuova formulazione dell’art.
117 Cost., sottolinea che: «… né risulta modificato il rapporto
tra norme comunitarie e norme costituzionali, rispetto al quale il
principio della prevalenza della norma dell’Unione incontra il solo
limite dei principi strutturali del nostro sistema e dei diritti
fondamentali della persona, limite di fatto fino ad oggi rimasto
sulla carta, risolve dosi in un’ipotesi di scuola».
[16]
Sottolinea la Corte costituzionale che «Restano, quindi, tuttora
valide le considerazioni svolte da questa Corte in rapporto alla
disciplina anteriore, riguardo alla impossibilità, nelle materie cui
non sia applicabile il diritto dell’Unione … di far derivare la
riferibilità alla CEDU dell’art. 11 Cost. dalla qualificazione dei
diritti fondamentali in essa riconosciuti come “principi generali”
del diritto comunitario … Le variazioni apportate al dettato
normativo – e, in particolare, la sostituzione della locuzione
“rispettata” (presente nel vecchio testo dell’art. 6 del Trattato)
con l’espressione “fanno parte” – non sono, in effetti, tali da
intaccare la validità di tale conclusione. Come sottolineato nella
citata sentenza n. 349 del 2007, difatti, già la precedente
giurisprudenza della Corte di giustizia … era costante nel ritenere
che i diritti fondamentali, enucleabili dalla CEDU e dalle
tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, facessero “parte
integrante” dei principi generali del diritto comunitario di cui il
giudice comunitario era chiamato a garantire il rispetto (ex
plurimis, sentenza 26 giugno 2007, C- 305/05, Ordini avvocati contro
Consiglio, punto 29». Sulla questione si veda G. Pistorio, La
Corte conferma la non «comunitarizzazione» della CEDU. Nota a prima
lettura della sentenza della Corte Costituzionale n. 80 del 2011, in www.giustamm.it, che ritiene che « … riconoscere
che i diritti fondamentali garantiti dalla CEDU fanno parte del
diritto dell’Unione in quanto principi generali non significa
ammettere che le norme CEDU godano dello stesso trattamento
giuridico delle norme comunitarie».
[17] Si tratta di TAR
Lazio, Roma, sezione II bis, sentenza 18 maggio 2010, n. 11984 e
Consiglio di Stato, sezione IV, decisione 2 marzo 2010, n. 1220.
[18] «Oggi, in seguito alle modifiche introdotte nel Trattato
di Lisbona, l’adesione alla Convenzione europea potrà` avvenire
secondo le procedure descritte nell’art. 218, che prevedono, tra
l’altro, la decisione all’unanimità` del Consiglio, l’approvazione
del Parlamento europeo e l’approvazione di tutti gli Stati membri,
ciascuno secondo le proprie regole costituzionali. Una procedura
forse ancor più` rigida e complessa della revisione dei trattati,
dal punto di vista formale» M. Cartabia, cit., p. 223. Si
veda anche la descrizione dettagliata di T. Guarnier che pone in
luce come sia stato necessario aggiungere il protocollo n. 14 alla
Convenzione, che all’art. 17 prevede la facoltà dell’Unione di
potervi aderire e che ribadisce l’insufficienza dell’art. 6 del
Trattato ad assicurare tale adesione: «Seppure il tenore
letterale di quest'ultima disposizione – e, in special modo, l'uso
del presente indicativo – possa trarre in inganno, ad una lettura
più attenta emerge come l'articolo valga a colmare la lacuna
evidenziata dalla Corte di giustizia nel parere n. 2/94 e non possa
considerarsi adempimento esaustivo del procedimento di adesione alla
Convenzione. A questo ultimo fine, infatti, è indispensabile seguire
le apposite procedure predisposte dalla CEDU e dai Trattati
istitutivi dell'Unione. Si tratta di una fase imprescindibile e di
importanza capitale per l'adesione di un sistema complesso come
quello europeo ad una organizzazione internazionale multilaterale,
poiché in quella fase dovranno essere delineate le eventuali riserve
e modulazioni degli impegni che la particolare fisionomia delle
istituzioni e dell'apparato giurisdizionale comunitario senza dubbio
richiederanno. Diversi sono, infatti, i punti di attrito tra la
Carta e l'organizzazione istituzionale comunitaria, nonché le
complicazioni derivanti dal particolarissimo ruolo della Corte di
giustizia dell'Unione europea, che verrebbe ad instaurare una
complessa rete di rapporti con i giudici nazionali, da un lato, la
Corte di Strasburgo, da un altro, e con il sistema di relazioni
esistente tra i primi e la seconda, in ultima battuta», T.
Guarnier, Verso il superamento delle differenze? Spunti di
riflessione sul dibattito intorno alla proposta di
“comunitarizzazione” della CEDU, in www.giustamm.it, n.
7/2010.
[19] Opportuna appare la descrizione della natura delle
norme costitutive fatta da F. Lisena, la quale esclude che fra esse
possa annoverarsi l’art. 6 del Trattato allorché recita che l’Unione
«aderisce» alla Convenzione europea per la salvaguardia dei
diritti e delle libertà fondamentali. Ed infatti: «le norme
costitutive producono l’effetto realizzandolo da sé, lo
costituiscono nel momento stesso del loro entrare in vigore,
differenziandosi in ciò da quelle di comportamento che tendono a
produrre un evento esercitando una pressione sul comportamento di
qualcuno. In altri termini, le situazioni e i fatti costituiti si
producono in maniera immediata, senza che occorra fare appello
all’obbedienza o alla collaborazione esecutiva di alcuno.
Evidentemente si tratta di norme che, non contenendo una regola di
condotta, non hanno destinatari, per cui non richiedono alcuna forma
di esecuzione e quindi non sono suscettibili di violazione» F.
Lisena, L’Unione europea “ aderisce” alla CEDU: quando le parole
non bastano a fare “cose”, in www.giustamm.it, 6/2010. E’
evidente che in base a quanto detto l’art. 6 non possa essere
considerata una norma costitutiva.
[20] A. Torrisi, Il
Giudice amministrativo e l’applicabilità diretta della CEDU
all’indomani dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, in Osservatorio Unione Europea, 2010, p. 684.
[21] Vedi G.
Pistorio, cit.
[22] M. Cartabia, cit., p. 223.
[23] Del tutto condivisibili, appaiono, allora le osservazioni e
le conclusioni di A. Celotto: «E’ evidente il diverso valore
giuridico che vengono ad assumere la Carta di Nizza e la CEDU. La
prima acquisisce “lo stesso valore giuridico dei trattati”. In tal
modo diviene diritto comunitario e comporta tutte le conseguenze del
diritto comunitario in termini di prevalenza sugli ordinamenti
nazionali. Intendo dire, che – a seguito del Trattato di Lisbona -
una legge interna che contrasta con una norma della Carta di Nizza
ben potrà essere disapplicata dal giudice nazionale. Diverso è il
discorso per la CEDU. Il Trattato Unione Europea, per come
modificato dal Trattato di Lisbona, consente – superando la
tradizionale querelle (cfr. CGCE 28 marzo 1996, parere 2/94) -
l’adesione dell’Unione alla CEDU. Non solo tale adesione deve ancora
avvenire, secondo le procedure del protocollo n. 8 annesso al
Trattato, ma soprattutto non comporterà l’equiparazione della CEDU
al diritto comunitario, bensì - semplicemente - una loro
utilizzabilità quali “principi generali” del diritto dell’Unione al
pari delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri. Si
tratta di una formula non certo dissimile da quella originaria del
Trattato sull’Unione europea (approvata nel 1992) “L'Unione rispetta
i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà
fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, e quali risultano
dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto
principi generali del diritto comunitario”. Ad avviso di chi scrive,
quindi, il Trattato di Lisbona nulla ha modificato circa la (non)
diretta applicabilità nell’ordinamento italiano della CEDU che
resta, per l’Italia, solamente un obbligo internazionale, con tutte
le conseguenze in termini di interpretazione conforme e di
prevalenza mediante questione di legittimità costituzionale, secondo
quanto già riconosciuto dalla Corte costituzionale», A. Celotto, Il trattato di Lisbona ha reso la CEDU direttamente applicabile
nell’ordinamento italiano? ( in margine alla sentenza n. 1220/2010
del Consiglio di Stato ), in www.giustamm.it, 5/2010.
|
|
(pubblicato il
21.4.2011)
|
|
|
|
 |
|
|
|