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n. 4-2011 - © copyright

 

MARIA TERESA DENARO

Spunti problematici in tema di tutela dei diritti fondamentali in Europa dopo il Trattato di Lisbona

 

 


 

 

1. Premessa. 2. L’assetto precedente e le novità introdotte dal Trattato di Lisbona. 3. Conclusioni.


1. Premessa.
Il cammino verso la realizzazione di un’autentica cooperazione e integrazione europea, avviato dai sei Paesi fondatori (Italia, Francia, Germania, Belgio, Olanda e Lussemburgo) con il Trattato istitutivo della Comunità Europea e proseguito con i successivi Trattati modificativi e integrativi e con la partecipazione di altri Paesi, ha raggiunto, con la firma del Trattato di Lisbona, una nuova stagione volta al rafforzamento della legittimità democratica dell’Unione e della coerenza della sua azione esterna.[1]
Dopo l’istituzione della Comunità Europea, più volte gli Stati membri avevano cercato di riformarne e “modernizzarne” la struttura ma l’iter modificativo, lungo e articolato, aveva subito diversi arresti. A seguito della mancata ratifica del Trattato per la Costituzione Europea da parte della Francia e dei Paesi Bassi, la Conferenza intergovernativa, istituita con il compito di concordare il testo di un accordo di revisione dei testi esistenti, ha terminato i suoi lavori con l’approvazione, nell’ottobre del 2007, del nuovo Trattato, entrato in vigore il 1° dicembre 2009, in conseguenza dell’approvazione da parte degli Stati membri.[2] Con esso è stata “creata” una “nuova Europa” con un ruolo più attivo ed efficace sulla scena internazionale, con un’architettura istituzionale più lineare, metodi di lavoro più efficienti e procedimenti decisionali più trasparenti, in grado di rispondere meglio alle attese dei cittadini e dei vari Stati.
Tanto si deve ancora dire su questa nuova Europa e sulle conseguenze che il Trattato firmato a Lisbona ha determinato nell’assetto internazionale; in questa sede l’esame che si intende svolgere si indirizza alla realtà dei diritti fondamentali nel quadro europeo a seguito dell’entrata in vigore del Trattato suddetto e della nuova formulazione dell’art. 6 del Trattato firmato a Maastricht il 7 febbraio 1992 (Trattato sull’Unione Europea, ratificato con la legge 3 novembre 1992, n. 454). Il riconoscimento della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea del 7 dicembre 2000 (Carta di Nizza), cui è espressamente attribuito lo stesso valore giuridico dei trattati, e la contestuale adesione alla CEDU, che comporterebbe implicitamente l’adesione e il riconoscimento della giurisdizione della Corte di Strasburgo, ora parte integrante del testo dell’art. 6 sopra citato, forniscono lo spunto per alcune brevi riflessioni sul tema della tutela dei diritti fondamentali.[3]

2. L’assetto precedente e le novità introdotte dal Trattato di Lisbona.
E’ opportuno dire subito che la formulazione dell’art. 6 del Trattato sull’Unione Europea non ha determinato un cambiamento significativo nella situazione dei diritti fondamentali e della loro tutela. La Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali continua a spiegare la sua efficacia, così come continua ad operare la sua Corte; lo stesso vale per la Corte di Giustizia. Se un cambiamento c’è stato, come si vedrà, esso è sostanzialmente consistito nell’aggiunta di nuove possibilità di tutela, in quanto si è esteso il diritto dell’Unione alla Carta di Nizza ed è stata programmata la sua adesione, con tutte le conseguenze inerenti alla sua applicazione, alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Le modalità di accesso alla tutela della Corte Europea di Strasburgo sono rimaste invariate: in base al principio di sussidiarietà, esaurite le vie di ricorso interne, il cittadino europeo può rivolgersi ad essa che, riconosciuta e dichiarata l’avvenuta violazione delle norme della Convezione, può condannare lo Stato alla restituito in integrum quando possibile, e, in ultima istanza, al risarcimento del danno.
La tutela offerta quindi appare, da un lato subordinata al previo esaurimento delle vie di ricorso interne, dall’altro limitata dalla portata delle sentenze della Corte che non possono incidere direttamente nell’ordinamento dello Stato, ad esempio annullando l’atto lesivo del diritto fondamentale. Queste sentenze, in quanto meramente dichiarative, non producono effetti normativi diretti negli ordinamenti degli Stati, ma fanno comunque nascere in capo allo Stato parte del giudizio, l’obbligo, sul quale vigila il comitato dei Ministri, di rimuovere le cause della violazione ripristinando la situazione anteriore alla stessa e determinano in capo ai giudici nazionali un obbligo di conformarsi, nelle decisioni future, al loro contenuto, sussistendo l’obbligo di interpretare le norme interne in conformità alle disposizioni della Convenzione, come interpretate dai giudici di Strasburgo.[4]
La competenza della Corte di Strasburgo non esauriva già prima del Trattato di Lisbona le possibilità di tutela dei diritti fondamentali riconosciuta ai cittadini della Comunità: la Corte di Giustizia (ora Corte di Giustizia dell’Unione Europea), creata con il compito di garantire l’uniforme interpretazione e applicazione del diritto in tutti i Paesi dell’Unione, a partire dalla fine degli anni ’60, aveva infatti già incluso nell’ambito della propria competenza anche i diritti fondamentali, individuandoli nella forma del richiamo alle tradizioni costituzionali comuni agli stati membri, cominciando da quelli di natura economica, come ad esempio il diritto di proprietà, abbracciandoli poi indistintamente tutti e così creando un sistema di diritti fondamentali di origine giurisprudenziale.[5]
Le sue sentenze, a differenza di quelle della Corte di Strasburgo hanno la stessa efficacia giuridica dei Trattati e sono vincolanti per tutti i Paesi dell’Unione. La possibilità per il cittadino di accedere alla tutela offerta dalla Corte di Giustizia passa, però, attraverso la valutazione del giudice nazionale che, tramite la procedura del rinvio pregiudiziale, può rivolgersi ad essa per un parere.[6]
Manca quindi la possibilità di rivolgersi direttamente alla Corte per denunciare la violazione di un diritto, così come è invece possibile fare, esaurite le vie di ricorso interne, dinnanzi alla Corte di Strasburgo. I singoli, persone fisiche o giuridiche, possono infatti impugnare direttamente solo determinati atti dell’Unione: le decisioni a loro specificamente indirizzate o anche gli atti che, sebbene a loro non destinati, li riguardino però direttamente e individualmente.[7]
Le due Corti, quella di Strasburgo e quella di Lussemburgo, e questa è una realtà precostituita prima del Trattato di Lisbona e rimasta invariata anche dopo, sono quindi competenti a giudicare in materia di diritti fondamentali ma sono differenti sia le modalità di accesso alla tutela che, come visto, l’efficacia delle loro sentenze.
Ci si domanda allora in che modo il Trattato del 2007 abbia inciso nell’ambito dei diritti fondamentali e della loro tutela. La lettura del nuovo articolo 6 del Trattato sull’Unione europea fornisce la risposta a questo quesito.
Nel primo comma, l’Unione riconosce espressamente i diritti, le libertà e principi sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, che ha «lo stesso valore giuridico dei Trattati». L’Unione riconosce così e fa proprio il catalogo dei diritti fondamentali della Carta di Nizza, che entra a pieno titolo a far parte del diritto europeo, diritto che, come già detto, si offre alla competenza riconosciuta alla Corte di giustizia.
Il significato della norma, tuttavia, è stato oggetto di un ampio dibattito dottrinale che ha investito, innanzitutto, la questione dell’esatta collocazione, all’interno della gerarchia delle fonti comunitarie, della Carta di Nizza.[8]
E’ stato rilevato che il mancato inserimento della Carta all’interno dei trattari istitutivi e modificativi della UE, pur non negando valore giuridico alla stessa, ne abbia, per così dire, ridotto le sue potenzialità innovative, rendendo difficile il suo collocamento al livello del diritto primario. In particolare, è stato osservato che la concessione di deroghe nell’applicazione della Carta ad alcuni Paesi dell’Unione costituirebbe prova della mancata volontà dei redattori del Trattato di Lisbona di farle assumere valore costituzionale e definitivamente fondante.[9] In questa prospettiva si ritiene che l’espressione che attribuisce alla Carta «lo stesso valore giuridico dei Trattati» non possa e non debba rappresentare un escamotage linguistico idoneo a superare le resistenze all’indirizzo della costituzionalizzazione comunitaria. Essa, piuttosto, farebbe della Carta «un parametro formale di legittimità degli atti comunitari».[10]
La mancata menzione della Carta all’interno dei Trattati dell’Unione, poi, renderebbe problematica l’individuazione delle procedure per la sua eventuale revisione e potrebbe, in teoria, accreditare la possibilità di utilizzare un meccanismo di revisione molto più semplificato rispetto a quello previsto per le modifiche dei Trattati sull’Unione e del Trattato sul funzionamento dell’Unione. Tale ambiguità sarebbe rafforzata, secondo alcuni, dalla mancata attribuzione ai diritti enunciati nella Carta del carattere della inviolabilità, di tal che tale omissione sembrerebbe, ancora una volta, non del tutto compatibile con la sua parificazione piena alla forza giuridica dei Trattati.[11]
Per ciò che attiene, invece, all’estensione dell’efficacia della Carta ed alla sua capacità di assicurare effettività alla tutela dei diritti fondamentali, occorre evidenziare che il quadro complessivo che emerge appare arricchito di luci e, allo stesso tempo, contaminato da ombre.
E’ indubbiamente vero che la Carta di Nizza, com’è stato osservato, contiene un catalogo ampio e completo di diritti e principi giuridici che potranno rappresentare un sicuro ancoraggio per la giurisprudenza comunitaria, che a sua volta potrà, in questo ambito, abbandonare la tecnica del diritto pretorio.[12]
Non si può, però, contemporaneamente dimenticare che la dottrina ha unanimemente sottolineato che tanto il Trattato di Lisbona quanto la stessa Carta di Nizza precisano che l’attribuzione a questa ultima del valore giuridico dei Trattati non altera in alcun modo i limiti delle competenze dell’Unione. In sostanza, la tutela dei diritti e delle libertà fondamentali, in seguito al rinnovato valore giuridico della Carta, può venire in rilievo solo quando si fa questione dell’applicazione del diritto comunitario e non già quando l’applicazione del diritto interno non sia in alcun modo legata alla cogenza del diritto dell’Unione. La Carta di Nizza, dunque, non vale, nemmeno a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, a riconoscere all’Unione una competenza generale sulla tutela dei diritti fondamentali, sebbene non si debba dimenticare che proprio in occasione dell’approvazione di tale ultimo Trattato le materie assegnate all’Unione sono notevolmente aumentate interessando settori sempre più lontani dalla mera regolazione del mercato comune.[13]
Nel secondo comma dell’art. 6, è dichiarata, inoltre, l’adesione dell’Unione alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. In questa esplicita adesione dovrebbe essere ricompreso anche l’implicito riconoscimento della giurisdizione della Corte Europea dei diritti dell’uomo per le violazioni delle norme CEDU da parte delle Alte Parti contraenti a danno di ogni persona fisica, ogni organizzazione non governativa o gruppo di privati.
Anche questa norma non è di agevole interpretazione e, anzi, ha suscitato notevoli dibattiti dottrinali e differenti pronunce giurisdizionali.
La tendenza provocata da una prima lettura è stata quella di ritenere l’adesione dell’Unione alla Convenzione europea come un effetto scaturente, in via diretta ed immediata, dall’art. 6 del Trattato. In questa ottica si è pensato di poter parlare di “comunitarizzazione” della CEDU e di attribuzione alle norme della convenzione di quella stessa efficacia che è propria, invece, delle norme comunitaria primarie. Se l’Unione aderisce alla CEDU, questo il ragionamento sillogistico fatto in un primo momento, le norme della Convenzione «divengono immediatamente operanti negli ordinamenti nazionali degli Stati membri dell’Unione, e quindi nel nostro ordinamento nazionale, in forza del diritto comunitario, e quindi in Italia ai sensi dell’art. 11 della Costituzione».[14] Tutte le volte, dunque, che una norma nazionale violi una norma CEDU non sarebbe più necessario sollevare la questione di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 117, comma 1, Cost., ma sarebbe sufficiente, invece, procedere alla disapplicazione della norma interna perché essa risulterebbe, oramai, in contrasto con il diritto comunitario primario, nuova forma e sostanza della Convenzione per i diritti umani.
Nel terzo comma dell’articolo 6, infine, il Trattato stabilisce in ultimo che «I diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali». Con questa formulazione, il Trattato ingloberebbe i diritti fondamentali della CEDU, quali principi generali, nel diritto dell’Unione, estendendo implicitamente ad essi la competenza della Corte di Lussemburgo.
L’Unione, in definitiva, riconosce la Carta di Nizza e fa propri i diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo: entrambe contengono un catalogo di diritti ma la Carta del 2000, di gran lunga più recente, appare, nell’elencazione dei diritti fondamentali, più moderna, più ampia e maggiormente attenta alla reale situazione sociale in cui quei diritti si esplicano. Non ci sono diritti della CEDU non previsti nella Carta di Nizza nel cui preambolo, tra l’altro, si legge: «La presente Carta riafferma … i diritti derivanti … dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti e delle libertà fondamentali». C’è, quindi, un continuo richiamo: il Trattato sull’Unione riconosce i diritti e le libertà sanciti nella Carta di Nizza; incorporerebbe i diritti garantiti dalla CEDU. La Carta di Nizza riafferma i diritti derivanti dalla CEDU.
Questa la situazione che emerge dalla nuova formulazione dell’art. 6: entrambe le Carte farebbero ora parte del diritto dell’Unione e su entrambe potrebbe quindi esercitarsi la giurisdizione della Corte di giustizia. Ai cittadini dell’Unione sarebbe offerta la possibilità di scegliere la tutela ritenuta nel singolo caso più opportuna ed efficace tramite o il ricorso alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo o la tutela offerta dalla Corte di Lussemburgo e anche la possibilità di sottoporre alla Corte di giustizia una questione inerente la CEDU, prima di esclusiva competenza della Corte di Strasburgo.
Le due vie però, come si è visto, presentano percorsi e caratteri diversi. Per il ricorso alla Corte dei diritti dell’uomo la previa necessità dell’esperimento ed esaurimento delle vie di ricorso interne, la impossibilità per le sentenze di incidere direttamente nell’ordinamento dello Stato riconosciuto responsabile della violazione e parte in causa, la non estensibilità del contenuto delle sentenze agli altri Paesi dell’Unione. Per il ricorso alla Corte di giustizia: efficacia delle sentenze pari a quella dei Trattati e quindi estesa a tutti i Paesi dell’Unione, capacità delle sentenze di incidere direttamente nell’ordinamento dei Paesi dell’Unione, ma impossibilità per il cittadino di attivare procedure che consentono di rivolgersi direttamente alla Corte.
Con la nuova formulazione dell’art. 6, anche l’efficacia e il valore riconosciuti nell’ordinamento italiano alle norme della CEDU potrebbero essersi, come detto, modificati. Se prima queste, come espressione di un obbligo internazionale, erano rispettate come norme interposte tra la legge ordinaria e la Costituzione, essendo ora parte del diritto dell’Unione ne avrebbero acquisito l’efficacia diretta e la prevalenza sul diritto interno che ne sono proprie.
Si ricorda in proposito che la Corte costituzionale ha individuato il fondamento dell’efficacia del diritto comunitario nell’art. 11, secondo comma, della Costituzione, e con la nota sentenza del 1973 n. 183, ha riconosciuto che «le norme comunitarie devono avere piena efficacia obbligatoria e diretta applicazione in tutti gli Stati membri, senza la necessità di una legge di ricezione e adattamento, come atti aventi forza e valore di legge in ogni Paese della Comunità, si da entrare ovunque contemporaneamente in vigore e consentire un’applicazione uguale ed uniforme nei confronti di tutti i destinatari».
Nel nostro sistema giuridico, ai fini dell’efficacia, bisogna distinguere tra le norme comunitarie per le quali vale il riferito orientamento della Corte Costituzionale, e le norme pattizie, tra cui rientra la CEDU. La Costituzione nel titolo V, art. 117, distingue espressamente i due generi di norme: «i vincoli derivanti dall’Ordinamento Comunitario» e gli «obblighi internazionali», i primi immediatamente vincolanti per il legislatore e prevalenti sulla Costituzione, i secondi in una collocazione intermedia tra le fonti ordinarie e la Costituzione.
Le sentenze 348 e 349 del 2007 della Corte Costituzionale hanno precisato i rapporti tra le norme della CEDU, la legge ordinaria e la Costituzione. Secondo la Corte le norme CEDU, pur rivestendo grande rilevanza in quanto tutelano e valorizzano i diritti e le libertà fondamentali delle persone, sarebbero norme internazionali pattizie, che vincolano lo Stato, ma non producono effetti diretti nell’ordinamento. Da ciò deriva che nel caso in cui una legge ordinaria sia in contrasto con una norma della CEDU, il giudice comune non potrà disapplicare la legge (come può fare invece nel caso in cui il contrasto sia con una norma dell’Unione) ma potrà solo sollevare la questione di legittimità costituzionale, per la violazione dell’art. 117 (che, si ricorda, impone alla legge ordinaria il rispetto degli obblighi internazionali). Sono quindi norme interposte.
Nel caso in cui il contrasto si ponga invece con una norma dell’Unione, questa è sempre prevalente e il giudice ordinario sarà tenuto a disapplicare la norma interna contrastante e dare prevalenza a quella dell’Unione.
Se, come si è prima detto, si riconoscesse che ex art. 6 del Trattato anche la Convezione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali fosse ora parte del diritto dell’Unione, potrebbe ipotizzarsi che venga meno la sua posizione di norma interposta nella gerarchia delle fonti per divenire diritto prevalente e direttamente applicabile per cui il giudice comune sarebbe tenuto a disapplicare qualsiasi norma nazionale in contrasto con i diritti fondamentali sanciti dalla CEDU, in base al principio, fondato sull’art.11 della Cost., secondo cui le norme del diritto comunitario sono direttamente operanti nell’ordinamento interno.[15]
Sulla questione si è recentemente pronunciata la Corte Costituzionale nella sentenza n. 80 del 2011, nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica mortalità) e dell’art. 2-ter della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere).
La Corte ritiene che le innovazioni apportate dal Trattato di Lisbona non avrebbero comportato un mutamento della collocazione delle disposizioni della CEDU nel sistema delle fonti, tale da rendere inattuale la concezione delle norme interposte, ma, modificando l’art. 6 del Trattato sull’Unione, avrebbero comportato un rafforzamento dei meccanismi di protezione dei diritti fondamentali. Il nuovo art. 6 avrebbe così introdotto « … un sistema di protezione assai più complesso e articolato del precedente, nel quale ciascuna delle componenti è chiamata ad assolvere a una propria funzione ».
La Corte si pronuncia per la non “comunitarizzazione” della CEDU ribadendo la validità delle considerazioni dalla stessa precedentemente svolte in merito alla loro collocazione come norme interposte tra la Costituzione e la legge ordinaria perché «nessun argomento in tale direzione può essere tratto, anzitutto, dalla prevista adesione dell’Unione europea alla CEDU, per l’assorbente ragione che l’adesione non è ancora avvenuta».[16]
La Corte, dunque, da un lato, conferma autorevolmente le opinioni di quella dottrina che già aveva manifestato consistenti perplessità sull’effetto diretto ed immediato dell’adesione dell’Unione alla CEDU, e, dall’altro, sconfessa le pronunce giurisdizionali che su tale presunto effetto immediato hanno ritenuto di potere disapplicare in via diretta norme nazionali contrastanti con precetti della Convenzione, anziché sottoporle al giudizio di legittimità costituzionale per violazione ex art. 117, comma primo, Cost.
E’ accaduto, infatti, che all’indomani dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona una parte della giurisprudenza amministrativa italiana ha ritenuto, come detto, direttamente applicabile nel sistema nazionale le norme della CEDU. L’art. 6 del nuovo Trattato, avrebbe, insomma, assegnato efficacia diretta alle norme della Convenzione che, divenute norme di diritto comunitario di rango primario, potrebbero ben essere disapplicate dal giudice nazionale.[17]
Ancor prima di tali decisioni, però, la dottrina aveva sottolineato, con forza e con dovizia di particolari, che l’adesione dell’Unione alla CEDU non poteva ritenersi effetto immediato dell’entrata in vigore dell’art. 6 del Trattato, ma necessitava dell’introduzione e del compimento di un procedimento di adesione ad un trattato internazionale (qual è la CEDU), procedimento, peraltro, rigorosamente disciplinato dallo stesso Trattato dell’Unione e dalla Convenzione.[18]
In particolare, si è opportunamente sottolineato che l’espressione utilizzata dall’art. 6, allorché afferma che l’Unione aderisce alla CEDU, non rappresenta un linguaggio ad effetto costitutivo, un linguaggio, cioè, capace di produrre effetti giuridici di per sé, per il solo fatto di affermarli, ma riproduce una norma programmatica che si limita a legittimare un percorso (l’adesione, appunto) prima ritenuto implicitamente vietato.[19]
Né si è ritenuto di potere assicurare l’effetto diretto della CEDU in forza del paragrafo 3 dell’art. 6, secondo il quale i diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione e dalle tradizioni costituzionali comuni «fanno parte del diritto dell’Unione». Contrasta con tale conclusione, infatti, il richiamo ai principi generali: come è stato osservato la disposizione da ultimo richiamata si limita «a ribadire quanto già previsto a Maastricht, e cioè che i diritti fondamentali ricevono tutela in quanto principi generali dell'ordinamento UE e che la ricostruzione degli stessi ha luogo sulla base delle tradizioni costituzionali comuni e della Convenzione. Non può, allora, condividersi il ragionamento del TAR Lazio secondo cui le norme CEDU, sulla base del richiamo contenuto nell'art. 6 par. 3, penetrano nel nostro ordinamento in forza del diritto comunitario “ai sensi dell'art. 11 della Costituzione”».[20]
La Corte costituzionale, infine, ha posto il definitivo suggello sulla necessità che si porti a compimento l’iter di adesione dell’Unione alla CEDU prima di poter affermare una qualsiasi forma di efficacia diretta delle norme della Convenzione all’interno dell’ordinamento nazionale. Essa ha precisato che i principi generali della Convenzione assumono rilievo solo in riferimento alle fattispecie in cui il diritto dell’Unione è applicabile e non anche quando viene in considerazione il solo diritto interno.[21]

3. Conclusioni.
Da quanto abbiamo sin qui detto emerge la necessità di trarre delle conclusioni non influenzate da facili entusiasmi innovatori o da atteggiamenti ingiustificatamente riduttivi. E’ indispensabile, invece, cogliere la reale portata dei nuovi effetti giuridici che si possono desumere dall’introduzione del nuovo art. 6 del Trattato di Maastricht.
La Carta di Nizza ha assunto di certo una forza giuridica cogente di cui era sino ad oggi priva; la parificazione del suo valore giuridico a quello dei Trattati non può che essere stata voluta per indicare una chiara innovazione sul piano della gerarchia della fonti, anche se non ci si può sbarazzare facilmente delle osservazioni di coloro che temono che il suo mancato inserimento all’interno dei Trattati abbia voluto contenere la portata di tale innovazione.
La capacità espansiva della Carta, poi, è direttamente ricollegata all’estensione delle competenze riconosciute all’Unione dai Trattati, nel senso che la tutela dei diritti fondamentali può assumere un significato pregnante in ambito europeo solo se il campo di operatività delle istituzioni comunitarie si estenderà a materie in cui la rilevanza dei predetti diritti potrà apprezzarsi in tutta la sua evidenza e non si manterrà esclusivamente all’interno del settore economico. Come è stato notato, infatti, sono state rarissime le sentenza in cui la Corte di Giustizia ha fatto applicazione dei diritti fondamentali,[22] e ciò non già per una improbabile resistenza del Collegio, quanto per un limite oggettivo derivante dal fatto che sino ad ora solo alcuni dei diritti fondamentali sono venuti in rilievo in ambito comunitario e, nello specifico, quelli coinvolti nell’attività di regolazione del mercato comune e della concorrenza. Da questo punto di vista, l’estensione che il nuovo trattato ha introdotto, nelle materie oggetto della competenza comunitaria, fa ben sperare in ordine all’ampliamento del campo di indagine della stessa Corte di Giustizia. Ciò che preme sottolineare, in definitiva, sul punto è che le stesse norme della Carta e quelle dei Trattati ad oggi sembrano impedire ai diritti fondamentali “europei” una valenza generale ed universale.
Per ciò che concerne l’adesione dell’Unione alla CEDU non può che condividersi la conclusione cui è pervenuta di recente la Corte costituzionale: l’iter di adesione è iniziato ma non si è ancora concluso, di tal che le norme della Convenzione mantengono ancora il loro carattere di norme interposte idonee per il sindacato di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 117, comma 1 Cost.
Interessante, invece, si presenta lo scenario futuro, quando ciò che viene comunemente definita “comunitarizzazione” della CEDU imporrà il tema del coordinamento fra la Carta di Nizza e la Convenzione e, soprattutto, fra le due Corti internazionali.
Su un piano generale, è opportuno osservare che l’espressione “comunitarizzazione della CEDU” non sembra descrivere adeguatamente il fenomeno reale che potrebbe prodursi in seguito. E ciò per la semplice considerazione che è l’Unione che aderisce alla CEDU; il parametro normativo che, in definitiva, dovrà assumere valore determinante per giudicare della legittimità degli atti dell’Unione sarà la Convenzione, di tal che non appare chiaro perché dovrebbe essere quest’ultima Carta a subire l’influenza del diritto comunitario quando risulterà evidente, invece, che sarà questo ad essere valutato sulla base di quella. D’altronde, il fenomeno per il quale gli Stati hanno dato vita ed aderito alla CEDU ha trovato condivisa giustificazione nella necessità di approntare un’ulteriore strumento di tutela dei diritti fondamentali allorché la salvaguardia costituzionale interna non si rivelasse adeguata. Questa appare anche la ragione giustificatrice dell’adesione dell’Unione alla CEDU: fare in modo che la produzione normativa delle istituzioni comunitarie sia conforme alle norme della Convenzione, la quale, assicurerà tale corrispondenza per il tramite dell’attività della Corte di Strasburgo (che potrebbe in futuro assumere una posizione di preminenza). Più che di “comunitarizzazione” della CEDU, allora, sembrerebbe opportuno parlare molto più semplicemente, come ha fatto il Trattato, di adesione dell’Unione alla Convenzione.[23]
La completa adesione alla CEDU consentirà, in ogni caso, anche alla Corte di Giustizia di giudicare, nel suo ambito di competenza, le violazioni dei diritti fondamentali della CEDU quali «principi fondamentali», così affiancando, ma non sostituendo, il suo intervento a quello della Corte Europea dei diritti dell’uomo. Restano salve e impregiudicate le differenze relative sia alle modalità di accesso alla giurisdizione delle due Corti, che agli effetti delle loro pronunce.
Si profila così un sistema più ricco di tutela (definito multilivello) che darà ai cittadini dell’Unione un’opzione in più e i cui sviluppi successivi sono, allo stato, imprevedibili.

 

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[1] G. Tesauro, Diritto dell’Unione Europea, VI ed., Padova, 2010, p. 17: «Il Trattato di Lisbona ha comportato una “successione” dell’Unione europea alla Comunità europea ed una revisione in senso proprio del Trattato dell’Unione europea (TUE) e del Trattato CE; la denominazione di quest’ultimo .. è mutata in Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE)». Attualmente l’Unione europea conta 27 paesi membri, che hanno trasferito all’Unione una parte della loro sovranità.
[2] L’Italia ha ratificato il Trattato con le legge n. 130 del 2 agosto 2008.
[3] G. Tesauro, cit. p. 3, sottolinea che «… nel sistema giuridico dell’Unione … un ruolo decisivo va attribuito alla giurisprudenza, sia del giudice comunitario sia del giudice nazionale, che ne ha definito fin dall’origine i connotati essenziali e peculiari e che, nell’arco di oltre un cinquantennio, ha contribuito notevolmente al suo consolidamento e al suo sviluppo. La giurisprudenza è dunque un dato ineliminabile nell’apprezzamento del sistema giuridico dell’Unione». Si vedano anche: R. Adam, A. Tizzano, Lineamenti di diritto dell’Unione europea, II ed., Torino, 2010; E. Scoditti, Il giudice comune e la tutela dei diritti fondamentali di fonte sovranazionale, in Foro it., 2010, V, 42; M.R. Donnaruma, Il processo di “costituzionalizzazione” dell’Unione europea e la tensione dialettica tra la giurisprudenza della Corte di giustizia e le giurisprudenze delle Corti Costituzionali, in Riv. It. dir. pubbl. comu., 2010, 2, 407; G. Martinico, Il trattamento nazionale dei diritti europei: CEDU e diritto comunitario nell’applicazione dei giudici nazionali, in Riv. trim.,dir. publi., 2010, 3, 691; F. Salerno, La garanzia costituzianle della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Riv. dir. internaz., 2010, 3, 637; C. Panzera, Il bello dell’essere diversi. Corte Costituzionale e Corti Europee ad una svolta, in Riv. Tri. Dir. pubbl., 2009, I; P. Maddalena, La Dichiarazione Universale dei diritti dell’upmo e la Costituzione della Repubblica Italiana. Giudizio di equità ed identità tra equità e diritto, in Dir. e società, 2, 2009, 225; M. Cartabia, L’universalità dei diritti umani nell’età dei nuovi diritti, in Quad. Cost., 2009, 537; R. Romboli, L. Cappuccio, La Corte Costituzionale interviene sui rapporti tra Convenzione europea dei diritti dell’uomo e Costituzione, in Foro it., I, 2008; S. Valaguzza, Riflessioni sul primato attenuato del diritto CEDU e sui suoi possibili sviluppi: prospettive interpretative per il giudizio amministrativo, in Riv. it. dir. pubbl. com., 6, 2008; P. Costanzo, L. Mezzetti. A. Ruggeri, Lineamenti di diritto costituzionale dell’Unione europea, Torino, 2006; F. Pocar, Diritto dell’Unione e delle Comunità europee, Milano, 2006; G. Zagrebelsky, Corti Costituzionali e diritti universali, in Riv. trim. dir. pubbl., 2006, 297; Id., Corte Europea dei diritti dell’uomo e sistema europeo di protezione dei diritti fondamentali, in Foro it., 2006, V, 353; G. Silvestri, Verso uno ius comune europeo dei diritti fondamentali, in Quad. Cost., 2006, 1, 7; R.A. Garcia, Il giudice nazionale come giudice europeo, in Quad. Cost., 2005, 1, 111; F. Sorrentino, la tutela multilivello dei diritti, in Riv. it. dir. publ. com., 2005, 79; B. Randazzo, Giudici comuni e Corte Europea dei diritti, in Riv. it. dir. publ. com., 2002, 1303; J.H.H. Weiler, Diritti umani, costituzionalismo ed integrazione: iconografia e feticismo, in Quad. Cost., 2002, 1, 521.
[4] Se questa interpretazione non è possibile, in quanto non è ammessa l’interpretazione contra legem, al giudice non resterà che sollevare la questione di costituzionalità rispetto all’art. 117 della Cost. In merito ai problemi di esecuzione delle sentenze della Corte di Strasburgo vedi G. Barone, Diritti fondamentali, Diritto a una vita serena, Il percorso della giurisprudenza, Roma, 2008, pp. 102 e 103 e nota 96. Di recente, con sentenza n. 113 del 7 aprile 2011, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma processuale che disciplina la revisione della sentenza o del decreto penale di condanna, nella parte in cui essa non prevede la possibilità di conseguire la riapertura del processo, quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell'uomo.
[5] P. Costanzo, L. Mezzetti, A. Ruggeri, cit., pp. 346 e ss., in particolare laddove ritengono che la Corte di giustizia sia divenuta “giudice dei diritti”. La Corte, si ricorda, è l’istituzione cui è attribuito il controllo giurisdizionale sulla legittimità degli atti e dei comportamenti delle istituzioni dell’Unione rispetto ai Trattati e sull’interpretazione del diritto comunitario.
[6] Accanto alla funzione principale del rinvio pregiudiziale di realizzare un’interpretazione ed applicazione del diritto dell’Unione uniforme in tutti i paesi membri, per far si che esso abbia ovunque la stessa efficacia, la sua seconda funzione è quella di verificare la legittimità di una legge nazionale o di un atto o di una prassi amministrativa, rispetto al diritto dell’Unione. G. Tesauro, cit., p. 313: «Di qui la strettissima analogia con il sindacato di costituzionalità delle norme, specie in quei sistemi giuridici in cui tale sindacato è attribuito a giudici ad hoc, come avviene in Italia con la Corte Costituzionale o in Germania con il Bundesverfassungsgericht … In definitiva si tratta di una possibilità in più data al singolo, giudice permettendo, perché si verifichi la legittimità di un atto dell’Unione di cui non è il destinatario specifico e del quale non risulta direttamente e individualmente investito».
[7] G. Tesauro, cit., pp. 233 e ss.
[8] Sull’argomento si vedano: F. Seatzu, La tutela dei diritti fondamentali nel nuovo trattato di Lisbona, in Comunità internazionale, 2009, p. 43; N. Parisi, Funzione e ruolo della Carta dei diritti fondamentali nel sistema delle fonti alla luce del Trattato di Lisbona, in Diritto dell’Unione Europea, 3/2009, p. 653; T. Pensabene Lionti, Trattato di Lisbona e diritti fondamentali: nuove prospettive con riferimento alla Carta di Nizza e al rapporto tra Unione Europea e CEDU, in Nuove autonomie, 2/2010, p. 381; M. Cartabia, I diritti fondamentali in Europa dopo Lisbona: Verso nuovi equilibri?, in Giornale di diritto amministrativo, 3/2010, p. 221.
[9] F. Seatzu, cit., p. 46, fa notare come la volontà di parificare tout court l’efficacia della Carta a quella dei trattati e di assegnare, dunque, alla prima valore primario all’interno della gerarchia delle fonti comunitarie, sia contraddetta da numerosi indici rivelatori contenuti all’interno dello stesso Trattato di Lisbona: «Ora, è nostro parere che il nuovo Trattato contenga significativi indici del genere. Uno di questi è certamente la previsione di un'apposita disciplina derogatoria, come precisato sopra, prevista nel Protocollo n. 7, che consente, sia pure esclusivamente al Regno Unito ed alla Polonia, di attribuire alla Carta, ove questa faccia riferimento a leggi e pratiche nazionali, soltanto il valore che ai diritti e ai principi ivi contenuti è riconoscibile nel diritto e nelle pratiche rispettivamente di Polonia e Gran Bretagna. Il ca va sans dire che in quanto tale la previsione in parola non è facilmente conciliabile con un'ipotetica volontà dei redattori del Trattato di Lisbona di mettere la Carta in una posizione apicale nel sistema delle fonti del diritto comunitario e dell'unione Europea, quest'ultima desumibile sic paret dal sopra indicato richiamo della Carta dei diritti fondamentali nell'art. 6, par. 1 Tr. UE, contenente un esplicito riferimento a valori aventi il rango di principi costituzionali dell'ordinamento giuridico comunitario».
[10] F. Seatzu, cit., p. 47.
[11] «Un altro grave problema interpretativo deriva dall’assenza di un qualunque riferimento alla Carta di Nizza nell’ambito del nuovo art. 48 TUE (così come sostituito dal Trattato di Lisbona) disciplinante le modalità di revisione di trattati (tale articolo, in particolare, prevede due procedure di revisione dei trattati: una procedura ordinaria ed una procedura semplificata. Ciò potrebbe, infatti, consentire una pericolosa interpretazione in base alla quale eventuali revisioni della Carta di Nizza dovrebbero svolgersi non secondo le regole e le garanzie previste dall’art. 48 Tue, ma secondo le tradizionali norme che disciplinano il diritto internazionale dei trattati. Pertanto, se si dovesse in futuro consolidare tale orientamento interpretativo, sarebbe consentito modificare, in modo significativo, il contenuto della Carta senza dover richiedere (così come, invece, disposto dal nuovo art. 48 TUE – al chiaro fine di limitare modifiche dei trattati di ampio respiro) l’intervento di una convenzione costituita “da rappresentanti dei parlamenti nazionali, dai capi di Stato o di Governo degli Stati membri, del Parlamento Europeo e della Commissione”, ma semplicemente ottenendo - così come previsto dal diritto internazionale dei trattati - l’unanimità degli stessi membri (ipotesi, questa, evidentemente più facile da realizzare). In sintesi, con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, si potrebbe determinare una situazione davvero singolare, nel senso che la Carta di Nizza (pur essendo dotata dello stesso valore giuridico dei Trattati, e sebbene volta alla tutela di diritti considerati – per la rilevanza dei beni della vita protetti – fondamentali) risulterebbe soggetta ad una procedura di revisione molto più semplificata rispetto a quella prevista per modifiche di ampio respiro relative al Trattato sull’Unione europea ed al Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea» T. Pensabene Lionti, cit., p. 399.
[12] N. Parisi, cit., pp. 653 e ss.
[13] L’articolo 51 della Carta di Nizza stabilisce, infatti, che «la Carta non estende l'ambito di applicazione del diritto dell'unione al di là delle competenze dell'unione, né introduce competenze nuove e compiti nuovi, né modifica le competenze e i compiti definiti nei trattati ». Dello stesso tenore sono l’art. 6, par. 1 del nuovo TUE (integrato, cioè dal Trattato di Lisbona), il Protocollo (n. 30) sull'applicazione della Carta dei diritti fondamentali alla Polonia e al Regno Unito e le Dichiarazioni adottate dalla Polonia (n. 61), dalla Repubblica Ceca (n. 63), dalla stessa Conferenza (n. 1). Sulla descrizione dell’ampliamento delle competenze dell’Unione e su come tale circostanza possa influenzare l’applicazione della Carta dei diritti fondamentali si vedano le osservazioni di N. Parisi, cit., pp. 657 e ss.
[14] TAR Lazio, Roma, sezione II bis, sentenza 18 maggio 2010, n. 11984.
[15] Si ricorda ancora che, l’unico limite alla prevalenza del diritto dell’Unione è rappresentato dai contro limiti. G. Tesauro, cit., p. 223, a proposito della nuova formulazione dell’art. 117 Cost., sottolinea che: «… né risulta modificato il rapporto tra norme comunitarie e norme costituzionali, rispetto al quale il principio della prevalenza della norma dell’Unione incontra il solo limite dei principi strutturali del nostro sistema e dei diritti fondamentali della persona, limite di fatto fino ad oggi rimasto sulla carta, risolve dosi in un’ipotesi di scuola».
[16] Sottolinea la Corte costituzionale che «Restano, quindi, tuttora valide le considerazioni svolte da questa Corte in rapporto alla disciplina anteriore, riguardo alla impossibilità, nelle materie cui non sia applicabile il diritto dell’Unione … di far derivare la riferibilità alla CEDU dell’art. 11 Cost. dalla qualificazione dei diritti fondamentali in essa riconosciuti come “principi generali” del diritto comunitario … Le variazioni apportate al dettato normativo – e, in particolare, la sostituzione della locuzione “rispettata” (presente nel vecchio testo dell’art. 6 del Trattato) con l’espressione “fanno parte” – non sono, in effetti, tali da intaccare la validità di tale conclusione. Come sottolineato nella citata sentenza n. 349 del 2007, difatti, già la precedente giurisprudenza della Corte di giustizia … era costante nel ritenere che i diritti fondamentali, enucleabili dalla CEDU e dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, facessero “parte integrante” dei principi generali del diritto comunitario di cui il giudice comunitario era chiamato a garantire il rispetto (ex plurimis, sentenza 26 giugno 2007, C- 305/05, Ordini avvocati contro Consiglio, punto 29». Sulla questione si veda G. Pistorio, La Corte conferma la non «comunitarizzazione» della CEDU. Nota a prima lettura della sentenza della Corte Costituzionale n. 80 del 2011, in www.giustamm.it, che ritiene che « … riconoscere che i diritti fondamentali garantiti dalla CEDU fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali non significa ammettere che le norme CEDU godano dello stesso trattamento giuridico delle norme comunitarie».
[17] Si tratta di TAR Lazio, Roma, sezione II bis, sentenza 18 maggio 2010, n. 11984 e Consiglio di Stato, sezione IV, decisione 2 marzo 2010, n. 1220.
[18] «Oggi, in seguito alle modifiche introdotte nel Trattato di Lisbona, l’adesione alla Convenzione europea potrà` avvenire secondo le procedure descritte nell’art. 218, che prevedono, tra l’altro, la decisione all’unanimità` del Consiglio, l’approvazione del Parlamento europeo e l’approvazione di tutti gli Stati membri, ciascuno secondo le proprie regole costituzionali. Una procedura forse ancor più` rigida e complessa della revisione dei trattati, dal punto di vista formale» M. Cartabia, cit., p. 223. Si veda anche la descrizione dettagliata di T. Guarnier che pone in luce come sia stato necessario aggiungere il protocollo n. 14 alla Convenzione, che all’art. 17 prevede la facoltà dell’Unione di potervi aderire e che ribadisce l’insufficienza dell’art. 6 del Trattato ad assicurare tale adesione: «Seppure il tenore letterale di quest'ultima disposizione – e, in special modo, l'uso del presente indicativo – possa trarre in inganno, ad una lettura più attenta emerge come l'articolo valga a colmare la lacuna evidenziata dalla Corte di giustizia nel parere n. 2/94 e non possa considerarsi adempimento esaustivo del procedimento di adesione alla Convenzione. A questo ultimo fine, infatti, è indispensabile seguire le apposite procedure predisposte dalla CEDU e dai Trattati istitutivi dell'Unione. Si tratta di una fase imprescindibile e di importanza capitale per l'adesione di un sistema complesso come quello europeo ad una organizzazione internazionale multilaterale, poiché in quella fase dovranno essere delineate le eventuali riserve e modulazioni degli impegni che la particolare fisionomia delle istituzioni e dell'apparato giurisdizionale comunitario senza dubbio richiederanno. Diversi sono, infatti, i punti di attrito tra la Carta e l'organizzazione istituzionale comunitaria, nonché le complicazioni derivanti dal particolarissimo ruolo della Corte di giustizia dell'Unione europea, che verrebbe ad instaurare una complessa rete di rapporti con i giudici nazionali, da un lato, la Corte di Strasburgo, da un altro, e con il sistema di relazioni esistente tra i primi e la seconda, in ultima battuta», T. Guarnier, Verso il superamento delle differenze? Spunti di riflessione sul dibattito intorno alla proposta di “comunitarizzazione” della CEDU, in www.giustamm.it, n. 7/2010.
[19] Opportuna appare la descrizione della natura delle norme costitutive fatta da F. Lisena, la quale esclude che fra esse possa annoverarsi l’art. 6 del Trattato allorché recita che l’Unione «aderisce» alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti e delle libertà fondamentali. Ed infatti: «le norme costitutive producono l’effetto realizzandolo da sé, lo costituiscono nel momento stesso del loro entrare in vigore, differenziandosi in ciò da quelle di comportamento che tendono a produrre un evento esercitando una pressione sul comportamento di qualcuno. In altri termini, le situazioni e i fatti costituiti si producono in maniera immediata, senza che occorra fare appello all’obbedienza o alla collaborazione esecutiva di alcuno. Evidentemente si tratta di norme che, non contenendo una regola di condotta, non hanno destinatari, per cui non richiedono alcuna forma di esecuzione e quindi non sono suscettibili di violazione» F. Lisena, L’Unione europea “ aderisce” alla CEDU: quando le parole non bastano a fare “cose”, in www.giustamm.it, 6/2010. E’ evidente che in base a quanto detto l’art. 6 non possa essere considerata una norma costitutiva.
[20] A. Torrisi, Il Giudice amministrativo e l’applicabilità diretta della CEDU all’indomani dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, in Osservatorio Unione Europea, 2010, p. 684.
[21] Vedi G. Pistorio, cit.
[22] M. Cartabia, cit., p. 223.
[23] Del tutto condivisibili, appaiono, allora le osservazioni e le conclusioni di A. Celotto: «E’ evidente il diverso valore giuridico che vengono ad assumere la Carta di Nizza e la CEDU. La prima acquisisce “lo stesso valore giuridico dei trattati”. In tal modo diviene diritto comunitario e comporta tutte le conseguenze del diritto comunitario in termini di prevalenza sugli ordinamenti nazionali. Intendo dire, che – a seguito del Trattato di Lisbona - una legge interna che contrasta con una norma della Carta di Nizza ben potrà essere disapplicata dal giudice nazionale. Diverso è il discorso per la CEDU. Il Trattato Unione Europea, per come modificato dal Trattato di Lisbona, consente – superando la tradizionale querelle (cfr. CGCE 28 marzo 1996, parere 2/94) - l’adesione dell’Unione alla CEDU. Non solo tale adesione deve ancora avvenire, secondo le procedure del protocollo n. 8 annesso al Trattato, ma soprattutto non comporterà l’equiparazione della CEDU al diritto comunitario, bensì - semplicemente - una loro utilizzabilità quali “principi generali” del diritto dell’Unione al pari delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri. Si tratta di una formula non certo dissimile da quella originaria del Trattato sull’Unione europea (approvata nel 1992) “L'Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi generali del diritto comunitario”. Ad avviso di chi scrive, quindi, il Trattato di Lisbona nulla ha modificato circa la (non) diretta applicabilità nell’ordinamento italiano della CEDU che resta, per l’Italia, solamente un obbligo internazionale, con tutte le conseguenze in termini di interpretazione conforme e di prevalenza mediante questione di legittimità costituzionale, secondo quanto già riconosciuto dalla Corte costituzionale», A. Celotto, Il trattato di Lisbona ha reso la CEDU direttamente applicabile nell’ordinamento italiano? ( in margine alla sentenza n. 1220/2010 del Consiglio di Stato ), in www.giustamm.it, 5/2010.

 

(pubblicato il 21.4.2011)

 

 

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