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n. 4-2011 - © copyright |
ALESSANDRO PAIRE
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La disciplina giuridica dei rifiuti dell’attività estrattiva: alcune considerazioni di sistema tra legislazione mineraria e testo unico dell’ambiente.
Sommario: 1. Introduzione. – 2. Le fonti normative. In particolare: il rapporto tra la legislazione mineraria speciale e la legislazione ambientale generale. – 3. Segue. Alcune (preziose) indicazioni giurisprudenziali. – 4. Considerazioni di sintesi. Le concrete fattispecie applicative.
1. Introduzione.
Il presente studio si propone di analizzare organicamente l’attuale disciplina normativa del materiale di risulta derivante dall’attività estrattiva e, dunque, in definitiva, dei cosiddetti residui di coltivazione dei giacimenti minerari [1].
L’argomento rappresenta un tema sempre più complesso ed articolato ponendosi oggigiorno come il frutto della combinazione – e, talvolta, della commistione – tra la legislazione mineraria di carattere speciale e quella ambientale di carattere generale, entrambe di chiara ed evidente matrice comunitaria [2].
L’emanazione di un corpus normativo speciale per i rifiuti estrattivi nel luglio 2008 da un lato e l’adozione degli ultimi correttivi al Testo unico dell’ambiente nel dicembre 2010 dall’altro, rappresentano tuttavia solo l’ultimo episodio di un lungo e travagliato processo di affastellamento normativo iniziato agli albori del XX secolo e, tuttora, in itinere [3].
Il ciclo produttivo dell’industria mineraria, intesa nell’ampia accezione di cui al RD del 1927 e, dunque, comprensiva sia delle miniere sia delle cave, si compone essenzialmente di due autonome e distinte fasi [4].
La prima, avente ad oggetto l’attività di estrazione del minerale dal giacimento, avviene direttamente nel sito estrattivo; la seconda, avente ad oggetto l’attività di lavorazione – ed, eventualmente, di trasformazione – del materiale, avviene invece generalmente negli stabilimenti industriali e nei laboratori artigianali territorialmente dislocati sia all’interno sia all’esterno dei distretti minerari [5].
Entrambe le predette fasi produttive originano diverse tipologie di residui o materiali di risulta, essenzialmente classificabili in residui di estrazione e residui di lavorazione.
Al fine di focalizzare lo spettro di indagine sulla prima tipologia di residui, giova prendere le mosse da un brevissimo inquadramento dell’attività imprenditoriale tipica delle c.d. aziende estrattive.
Richiamando solo fugacemente la fondamentale ricostruzione dogmatica elaborata nel secolo scorso sul profilo statico e dinamico dell’attività mineraria [6], basti qui ricordare che, secondo una illuminante definizione, il risultato della coltivazione delle miniere consiste nella separazione del minerale dal giacimento con la conseguente produzione di minerale estratto [7].
Circa la concreta portata di una tale definizione è stato peraltro significativamente notato come la legge base mineraria tenga a sottolineare a più riprese tale ambito di applicazione legato alla sola fase di asportazione del minerale, indicando il limite massimo e straordinario della sua espansione nell’intervento di arricchimento del minerale: tale fase è riallacciata alla materia estrattiva ed alla relativa disciplina solo in considerazione del fatto che l’eventuale operazione di “arricchimento” è necessaria per consentire che il materiale estratto acquisti la sua individualità specifica di minerale, così da renderlo commerciabile nella sua propria individualità minerale [8].
Sia il legislatore minerario, sia quello ambientale qualificano come “estrazione” in senso lato l’attività di prospezione, estrazione, trattamento, ammasso di risorse minerali o sfruttamento delle cave [9].
Tale attività prende avvio con la prospezione o ricerca del giacimento minerario e si sostanzia nell’estrazione del materiale suscettibile di destinazione industriale sia tal quale, sia a seguito di una successiva lavorazione [10].
Qualora, nel corso di una coltivazione mineraria, residuino sostanze minerali, che per quantità ed ubicazione non siano più economicamente coltivabili, si ha de iure ed automaticamente la cessazione della concessione mineraria per esaurimento del giacimento: è la stessa miniera, nel suo significato complesso, a venir meno [11].
Di qui, tutto ciò che rappresenta materiale diverso dal minerale oggetto di “separazione” dal giacimento e, dunque, di coltivazione commercialmente sfruttabile, costituisce materiale di risulta dell’attività di estrazione, ovverosia residuo o rifiuto di coltivazione.
Pertanto, sicuramente estraneo all’ambito dei residui estrattivi, è la sostanza minerale di seconda categoria “associata”, pacificamente da ricondurre alla categoria “prodotto minerario”.
Come è noto, per conseguire l'interesse pubblico del massimo recupero delle risorse minerarie, l’art. 24 del RD 1443/1927 prevede che il concessionario possa disporre delle sostanze minerali che sono associate a quelle formanti oggetto della concessione.
Secondo la dottrina, alla stregua di questa norma nell’ambito dell’area di concessione, sono da considerarsi “associate” le sostanze la cui lavorazione separata sarebbe incompatibile con quella della sostanza oggetto della concessione; sussiste pertanto associazione non soltanto in caso di commistione fisica o di appartenenza ad un corpo mineralizzato, ma anche in presenza di sostanze le quali, ancorché adunate distintamente, non possono essere coltivate, dal punto di vista tecnico od economico, separatamente dalla coltivazione dei minerali oggetto della concessione [12].
La dottrina, interrogatasi circa la possibilità di classificare sostanza minerale associata il minerale di seconda categoria, pare oggi pressoché unanimemente pervenire ad una risposta affermativa: va considerato minerale associato di seconda categoria (cava) quale materiale che il concessionario estrae in funzione della coltivazione del minerale (di prima categoria) oggetto della concessione mineraria avente carattere di industrialità e quindi oggetto di commercializzazione da parte del concessionario [13].
Donde – concludono gli orientamenti prevalenti – il minerale associato, anche se di cava, ha la stessa connotazione di quello oggetto di concessione mineraria e pari dignità di trattamento giuridico [14].
A fortiori, analogo discorso sembra sostenibile per le cave per le quali, a differenza delle miniere, non si pone la necessità della previsione relativa al minerale associato, in quanto tutto il materiale estratto appartiene de iure al dominus soli.
Secondo la dottrina più avvertita, anche in materia di cave si riproduce lo stesso fenomeno: accanto al minerale principale oggetto di coltivazione, il soggetto autorizzato estrae necessariamente anche altro minerale di minor valore, ma pur sempre avente caratteristiche di minerale di cava, in quanto caratterizzato dal requisito della industrialità e conseguente commercializzazione [15].
Si è detto che i “residui” da attività estrattiva sono prodotti in miniera o in cava nel corso di due distinte fasi del processo di estrazione del materiale riassumibili in buona sostanza nell’attività di prospezione o ricerca e nell’attività di sfruttamento vero e proprio del giacimento.
La prima fase, di natura squisitamente preparatoria, è rappresentata dalla scopertura, che consiste nella c.d. “messa a giorno” del giacimento oggetto di successiva coltivazione.
Il materiale di sfrido tipico di questa fase presenta una granulometria eterogenea: si spazia, infatti, da frazioni limoso-argillose, a frazioni di sabbia e di pietrischi e, ancora, a frazioni di dimensioni maggiori a volte pari a diversi metri cubi.
L’ampia gamma granulometrica è dovuta principalmente all’origine colluviale [16].
La seconda fase è rappresentata dalla coltivazione vera e propria del giacimento minerario ovverosia dall’estrazione del materiale destinato alla commercializzazione.
In questa fase sono prodotti quantitativi che, a seconda della qualità del giacimento, possono costituire mediamente il 30% dell’abbattuto: appare evidente che una tale percentuale sia puramente indicativa, variando da minerale a minerale e, soprattutto, da distretto a distretto.
Tale materiale, a seconda dei casi, potrà avere o meno una sua propria utilizzazione industriale rappresentando pertanto – in ipotesi positiva – anch’esso un “prodotto dell’industria mineraria” ex RD 1443/1927.
Quanto sopra appare di estrema importanza se solo si considera come oggigiorno – in un’ottica di massimo incentivo al principio dello sfruttamento minerario sostenibile [17] – una parte assai consistente di materiali frutto di attività estrattiva, proprio in quanto ancora “commerciabile”, anziché essere allocata nelle discariche minerarie, viene utilizzata quale materiale inerte per la realizzazione di opere di riempimento e di rilevati stradali, nonché di opere infrastrutturali pubbliche di grandi o medio-piccole dimensioni.
Segnatamente, la parte di materiale che rientra nel fuso granulometrico richiesto dalle norme previste per le opere pubbliche viene impiegato solitamente “tal quale” per riempimenti e reinterri in genere.
Trattasi del c.d. “pietrisco” che, stante le originali caratteristiche chimico-fisiche, non necessita di alcuna trasformazione e/o lavorazione di frantumazione.
In ipotesi di utilizzo per rilevati stradali il materiale, invece, viene sottoposto ad operazioni di selezione granulometrica e/o di frantumazione; particolarmente diffusa è altresì la frantumazione del materiale informe volta proprio alla produzione di pietrisco.
Tra gli altri, una siffatta tendenza orientata al massimo sfruttamento sostenibile, è rinvenibile nel ciclo produttivo delle industrie minerarie di materiali per costruzioni edilizie [18].
In tal caso, essendovi una destinazione industriale del materiale, destinazione peraltro scollegata da qualsivoglia volontà del coltivatore di disfarsene, la normativa di riferimento non sarà quella dei rifiuti quanto piuttosto quella dei prodotti o, al massimo, dei sottoprodotti dell’attività estrattiva.
Solo allorquando una tale destinazione sarà assente, come ad esempio in ipotesi di allocazione del materiale nelle sopra citate discariche minerarie, troverà applicazione la disciplina dei rifiuti.
Premesso un tale quadro d’insieme, ai fini di una corretta applicazione della normativa di riferimento, una summa divisio balza all’evidenza: da un lato si avrà la sostanza minerale suscettibile di “utilizzazione industriale”, sia essa qualificabile in termini di prodotto minerario tout court ovvero di prodotto minerario associato [19] e, da un altro lato, si avrà la sostanza minerale (o non minerale) non suscettibile di una siffatta destinazione [20].
Nel primo caso, in forza di un principio generale cardine del diritto minerario, l’operatore si troverà di fronte ad un bene ex lege qualificato dall’ordinamento come “prodotto minerario” latamente inteso.
Nel secondo caso, invece, difettando una tale utilizzazione e, soprattutto, sussistendo l’intenzione del coltivatore di disfarsi del bene, la categoria giuridica di riferimento non potrà che essere quella del rifiuto.
Rifiuto che, a sua volta, a seconda delle concrete modalità di gestione e successiva allocazione, troverà disciplina nella legislazione speciale mineraria ovvero in quella generale ambientale.
2. Le fonti normative. In particolare: il rapporto tra la legislazione mineraria speciale e la legislazione ambientale generale.
Nell’attuale assetto normativo, l’attività estrattiva dei minerali di prima e seconda categoria trova disciplina sia nella legislazione mineraria di rango regionale, sia in quella di rango statale [21].
Con diretto riferimento al profilo della gestione e del trattamento delle risulte provenienti dall’attività estrattiva, giova anzitutto rilevare come la materia sia stata interessata nel 2008 da una riforma sistemica a dir poco radicale.
Si consideri il caso delle cave piemontesi: se sino ad un recente passato il residuo trovava disciplina pressoché interamente nella legislazione regionale – e, segnatamente, nel combinato disposto dalle diverse leggi emanate dal legislatore regionale in materia di cave e torbiere [22] – con l’attuazione della Direttiva 2006/21/CE, la fonte normativa principale, quantomeno sotto il profilo ambientale e della tutela della salute umana, è da rinvenire nel d.lgs. 30 maggio 2008 n. 117 [23], foriero di numerose novità nel settore, soprattutto sotto il profilo squisitamente amministrativo.
Solo parzialmente applicabile alla fattispecie estrattiva, come si vedrà, risulta invece il d.lgs. 3 aprile 2006 n. 152 (Testo Unico Ambientale – TUA) [24] che all’art. 185 (come modificato dal d.lgs. 16 gennaio 2008, n. 4), rubricato originariamente “Limiti al campo di applicazione”, riproponendo l’analoga disposizione già contenuta nel c.d. decreto Ronchi [25], statuiva espressamente che “non rientrano nel campo di applicazione della Parte Quarta del presente decreto: (…) b) in quanto regolati da altre disposizioni normative che assicurano tutela ambientale e sanitaria: (…) 4) i rifiuti risultanti dalla prospezione, dall’estrazione, dal trattamento, dall’ammasso di risorse minerali, o dallo sfruttamento delle cave”.
Oggi, a seguito della novella introdotta dall’art. 13 del d.lgs. 3 dicembre 2010, n. 205, tale “limitazione” risulta pienamente confermata: invero, più che di limitazione, alla luce della stessa formulazione della rubrica dell’articolo, pare potersi parlare di vera e propria “esclusione”, con un richiamo espresso del TUA al d.lgs. 117/2008.
Ai sensi del comma 2, lett. d), dell’art. 185 TUA, infatti, “sono esclusi dall’ambito di applicazione della parte quarta del presente decreto, in quanto regolati da altre disposizioni normative comunitarie, ivi incluse le rispettive norme nazionali di recepimento: (…) d) i rifiuti risultanti dalla prospezione, dall'estrazione, dal trattamento, dall'ammasso di risorse minerali o dallo sfruttamento delle cave, di cui al decreto legislativo 30 maggio 2008, n. 117 (…)” [26].
Il TUA, dunque, si pone rispetto ai rifiuti estrattivi in un modo assolutamente peculiare, introducendo un meccanismo normativo che – mutuando l’espressione dal diritto costituzionale – potrebbe definirsi come un’autentica “clausola di cedevolezza” [27].
Sino all’entrata in vigore della novella del 2010, emergeva quale condizione ineludibile per escludere i rifiuti estrattivi dallo spettro applicativo del TUA la sussistenza – con riferimento ad essi – di “disposizioni normative che assicurano tutela ambientale e sanitaria”.
La norma, attraverso l’inciso di cui alla lettera b) “in quanto regolati da altre disposizioni normative che assicurano tutela ambientale e sanitaria”), sembrava configurare un regime applicativo del TUA modulato – e modulabile – a seconda che ricorresse o meno, relativamente alla fattispecie estrattiva, una diversa fonte normativa “speciale”, volta, appunto, ad assicurare “la tutela ambientale e sanitaria”.
Attualmente, a seguito della recentissima novella del dicembre 2010, ogni dubbio sul punto sembra essere definitivamente fugato giacché il legislatore parrebbe avere conferito formalmente al d.lgs. 117/2008 carattere speciale che, in quanto tale, prevale sul TUA alla stregua del fondamentale criterio di risoluzione delle antinomie tra le fonti lex specialis derogat generali: laddove risulta applicabile il 117/2008, il TUA recede [28].
La disciplina sui rifiuti contenuta nel d.lgs. 152/2006 rappresenta, pertanto, la normativa generale in materia la quale, delineando il suo campo di applicazione, introduce delle vere e proprie eccezioni o deroghe.
L’esistenza di specifiche (o speciali) disposizioni di legge è posta dal legislatore quale condizione di operatività dell’esclusione: pertanto le sostanze elencate possono ritenersi escluse solo se ed in quanto esista una specifica normativa settoriale che le disciplini.
Di qui, due ipotesi risultano astrattamente possibili: a) sussistono disposizioni normative che assicurano tutela ambientale e sanitaria: ed allora, anziché il TUA, saranno queste a trovare applicazione; b) non sussistono disposizioni che assicurano tutela ambientale e sanitaria: ed allora, a fronte di un “vuoto di tutela”, troverà normalmente applicazione TUA.
Ecco perché il d.lgs. 152/2006 sembra porsi alla stregua di un’autentica norma di chiusura del sistema, destinata tuttavia a lasciare spazio (a cedere, per l’appunto) a normative di carattere settoriale che assicurino tutela ambientale e sanitaria.
E questo sembra risultare vero anche a fronte dell’entrata in vigore della legge 27 febbraio 2009, n. 13 [29] che – come è noto – all’art. 8 ter, rubricato “Modifiche all’articolo 186 del decreto legislativo n. 152 del 2006 in materia di terre e rocce da scavo e di residui di lavorazione della pietra”, ha previsto un singolare meccanismo di “equiparazione di disciplina” tra i residui lapidei (marmi e pietre) e le terre e rocce da scavo: “Ai fini dell’applicazione del presente articolo, i residui provenienti dall’estrazione di marmi e pietre sono equiparati alla disciplina dettata per le terre e rocce da scavo (…)” [30].
Si noti: non un’equiparazione tout court tra residui lapidei e terre e rocce da scavo, ma tra residui lapidei e “la disciplina dettata per le terre e rocce da scavo” [31].
Alla luce del dato letterale della novella legislativa, infatti, siffatto meccanismo di equiparazione non sembrerebbe trovare applicazione per tutte le ipotesi di residui di estrazione della pietra e del marmo quanto piuttosto solo ed esclusivamente in fattispecie astrattamente riconducibili alla disciplina delle “terre e rocce da scavo”.
In tal senso sembrano infatti deporre sia l’incipit della novella legislativa, allorquando chiarisce “Ai fini dell’applicazione del presente articolo” (cfr. art. 8 ter cit), sia l’incipit dell’art. 186, che statuisce “fatto salvo quanto previsto dall’articolo 185”.
Se il primo inciso mira chiaramente a perimetrare lo spettro di applicazione del meccanismo di equiparazione in parola, il secondo richiama, facendoli salvi, i principi generali di applicabilità della Parte IV del TUA.
Sicché, allorquando si fosse in presenza di fattispecie relative a residui lapidei non direttamente riconducibili alla disciplina degli “scavi” ex 186 TUA – e, segnatamente, alle ipotesi di prodotti o sottoprodotti utilizzati per reinterri, riempimenti, rimodellazioni e rilevati – tale meccanismo di equiparazione legislativa non sembrerebbe ragionevolmente operare.
Inoltre, affinché possa trovare applicazione il regime delle terre e rocce da scavo di cui all’art. 186, occorre che tutte le condizioni ivi previste siano rispettate dall’operatore economico [32].
Altrimenti troverà applicazione il comma 5 dell’articolo in commento, che rimanda alla disciplina generale sui rifiuti di cui alla Parte IV del TUA[33].
Del resto, lo stesso incipit dell’art. 186 precisando che è “fatto salvo quanto previsto dall’articolo 185”, sembra corroborare l’idea che con la riforma de qua il legislatore si sia limitato a dettare un’ipotesi di fattispecie normativa assolutamente specifica e speciale destinata ad inserirsi all’interno di un quadro sistematico generale lasciato pressoché invariato.
Sicché, fuori dallo spetto applicativo di cui all’art. 8 ter l. 13/2009, la disciplina normativa del materiale di risulta dell’attività estrattiva non parrebbe lambito dalla riforma legislativa in parola.
Ciò posto non sembrano doversi condividere quegli orientamenti dottrinali secondo i quali la norma sarebbe censurabile proprio in quanto foriera di particolare confusione sistematica [34].
Se è vero che disciplina delle terre e rocce da scavo riguarda residui da lavori non estrattivi e che l’attività estrattiva (coltivazione – rifiuti) trovava già compiuta disciplina nella legislazione mineraria speciale , è parimenti vero che tale norma è stata espressamente – e, forse, volutamente – inserita nel TUA e, dunque, in quanto tale, destinata ad operare all’interno (e nella rigida osservanza) dello spetto applicativo della normativa ambientale generale [35].
La particolare collocazione sistematica della norma nonché la sua peculiare formulazione applicativa non pare dunque minimamente in grado di scardinare l’impianto sistematico di fondo deputato a regolare i confini tra la legislazione mineraria e la legislazione ambientale.
3. Segue. Alcune (preziose) indicazioni giurisprudenziali.
Esaurita la fase estrattiva, il ciclo produttivo del comparto minerario prosegue attraverso quella che sembra potersi definire la vera e propria fase della lavorazione e trasformazione del minerale estratto.
Questa fase prende avvio con il trasporto del materiale dal sito estrattivo allo stabilimento industriale o al laboratorio artigianale, ovvero con il verificarsi di qualsiasi operazione di lavorazione effettuata anche direttamente, o nell’immediata prossimità, del sito minerario.
Giova sul punto rammentare sin d’ora come, alla luce delle indicazioni rese dalla giurisprudenza in materia di attività estrattiva, al fine di una corretta applicazione della disciplina normativa di riferimento, sia necessario costantemente tenere in massima considerazione la differenza che corre tra attività di estrazione ed attività di lavorazione del minerale.
E ciò in quanto, a seconda che un’operazione sia riconducibile alla prima o alla seconda tipologia, la disciplina normativa ambientale applicabile muta sensibilmente.
Affinché il d. lgs. 117/2008 possa trovare applicazione e, dunque, escludere lo spettro applicativo del TUA, occorre che i rifiuti risultino come detto “dalla prospezione, dall'estrazione, dal trattamento, dall'ammasso di risorse minerali o dallo sfruttamento delle cave, di cui al decreto legislativo 30 maggio 2008, n. 117”.
Circa il significato delle nozioni di “estrazione” e di “sfruttamento” delle cave appare illuminante la giurisprudenza penale originatasi sul punto in seno alla Suprema Corte di Cassazione.
In una pronuncia del 2007 la Suprema Corte ha avuto modo di precisare che “il termine <> deve essere inteso come estrazione del materiale di cava da considerarsi, secondo il codice civile (art. 820 c.c.), un frutto naturale della stessa; le espressioni <> devono essere collegate alle <> e non alla intera attività conseguente allo sfruttamento della cava (Cass. Sezione terza sentenza 9333/1996). Pertanto, la deroga in oggetto è limitata ai prodotti derivanti dalla attività estrattiva i quali restano disciplinati dalle leggi speciali in materia di miniere, cave e torbiere. Più precisamente, sono esclusi dalla normativa del d.lgs. 22/1997 solo i materiali derivati dallo sfruttamento delle cave quando restino entro il ciclo produttivo della estrazione e connessa pulitura l'attività di sfruttamento della cava non può confondersi con la lavorazione successiva dei materiali” [36].
Di estremo interesse, soprattutto per le industrie minerarie di materiali per costruzioni edilizie (sabbia e ghiaia), quegli orientamenti giurisprudenziali che a proposito di “prima pulitura”, sul presupposto che questa possa avvenire sia attraverso operazioni di setacciatura e di grigliatura ma anche di lavaggio, ritengono che i fanghi ed i limi derivanti appunto dalla prima pulitura del materiale di cava non possano essere considerati rifiuti di cui alla parte IV del TUA[37].
Da questi orientamenti, peraltro, sembra potersi individuare e tracciare la linea di confine tra estrazione e lavorazione del minerale e, dunque, tra ambito applicativo della legislazione mineraria speciale e quello della legislazione ambientale generale, nell’attività di prima pulitura, sia essa a secco (grigliatura – setacciatura) o meno (lavaggio): tutte le operazioni che stanno a monte, rappresentano attività di estrazione, tutte quelle operazioni che stanno a valle, rappresentano attività di lavorazione.
E in un tale quadro d’insieme, già si è detto che le eventuali operazioni di “arricchimento” del minerale debbano essere collocate “a monte” della testé tracciata linea di confine [38].
Pertanto, ai fini della distinzione tra attività di estrazione ed attività di lavorazione del minerale non rileva il profilo geografico-territoriale, quanto piuttosto la natura delle operazioni materialmente condotte.
Tutto ciò che esula dalla prospezione, dall’estrazione, dal trattamento, dall’ammasso di risorse minerali ovvero dalla nozione civilisticamente intesa di sfruttamento delle cave non può considerarsi attività estrattiva e va ricondotto all’attività di lavorazione: e tutto ciò – sia consentito sottolinearlo – indipendentemente dal luogo in cui le operazioni in oggetto vengano materialmente poste in essere.
Ne consegue che il mero ambito territoriale di perimetro di cava non sarà idoneo – di per sé stesso – a ricondurre l’attività prestata sotto il regime normativo posto per l’esercizio di attività estrattive: esauritosi il ciclo produttivo della estrazione e connessa pulitura, le successive operazioni saranno necessariamente da qualificarsi come “attività di lavorazione”.
Alla luce di ciò, dunque, pare evidente che allorquando all’interno del perimetro estrattivo vengano condotte attività “di lavorazione”, oltre che “di estrazione” del materiale minerario, anche le prime – al pari di ciò che avviene nei laboratori artigianali o negli stabilimenti industriali – dovranno essere disciplinate totalmente ed integralmente ai sensi della disciplina normativa sulla lavorazione.
4. Considerazioni di sintesi. Le concrete fattispecie applicative.
Si è detto che – generalmente – dall’attività estrattiva dei diversi minerali residua materiale di composizione eteregonea, sia per dimensione che per consistenza chimica e fisica.
Si è altresì detto che tale materiale viene sostanzialmente indirizzato in parte allo stoccaggio nei siti adibiti a discarica e in parte commercializzato – con o senza previo trattamento di frantumazione, di selezione, di macinazione, ecc. – dalle imprese estrattive (ad esempio come inerte per reinterri, riempimenti, rimodellazione e rilevati di vario genere) sia quale prodotto minerario tout court, ovvero come prodotto minerario associato.
Ovviamente tutto ciò varierà da minerale e minerale e, soprattutto, da impresa estrattiva ad impresa estrattiva, in ragione delle diverse strutture e dinamiche aziendali esistenti.
Nel primo caso, stante l’assenza di utilizzazione commerciale e industriale nonché la manifesta volontà del coltivatore di disfarsene, trattasi di rifiuto minerario; nella seconda, per le medesime ragioni dedotte “a contrario”, trattasi di prodotti o, quantomeno, di sottoprodotti minerari.
Con diretto riferimento a quelli che si sono definiti rifiuti minerari occorre peraltro dar conto come il loro trattamento e gestione sia duplice: essi trovano infatti disciplina sia nella legislazione mineraria speciale, sia in quella ambientale generale.
Stante la complessità della questione, giova dunque articolare la ricostruzione separatamente.
Il d.lgs. 117/2008 più volte evocato in questa sede rappresenta la fonte normativa legislativa mineraria speciale: in tale ipotesi il residuo termina immediatamente il ciclo di vita attraverso un’allocazione in apposite strutture definite discariche minerarie ovvero nei vuoti e nelle volumetrie per la loro ripiena.
Ne consegue che all’infuori di tali fattispecie concrete, il residuo originato al termine del processo estrattivo, prosegue il proprio percorso che lo porterà ad una collocazione “alternativa” a quella prevista dalla legislazione mineraria.
Si è dunque di fronte ad una suddivisione sistematica chiara e netta di tipologia di materiale.
Ebbene, nel prosieguo emergerà come una siffatta distinzione sia di fondamentale importanza proprio ai fini dell’applicazione del TUA, giacché, se con riferimento alla prima ipotesi sussiste una disciplina normativa di tutela ambientale e sanitaria di carattere “speciale” idonea ad escludere l’applicabilità del TUA (il d.lgs. 117/2008, per l’appunto), con riferimento alla seconda una tale normativa allo stato non sembra sussistere.
Se si considera infine come il quadro sistematico testé tratteggiato, frutto del combinato disposto tra le due fonti legislative di settore, ovverosia il TUA ed il d.lgs 117/2008, sembrerebbe da ultimo lambito dalla riforma legislativa del 2009 in materia di terre e rocce da scavo, con riferimento al materiale di risulta dell’attività estrattiva le fattispecie normative astrattamente ipotizzabili risultano ulteriormente aumentate.
Ciò, si ripete, varierà da minerale a minerale e, soprattutto, da impresa estrattiva ad impresa estrattiva in ragione delle diverse strutture e delle diverse dinamiche aziendali esistenti.
4.1 Le fattispecie di cui alla legislazione mineraria: le discariche minerarie e la ripiena di vuoti e volumetrie.
Con l’entrata in vigore del d.lgs. 30 maggio 2008 n. 117 è stata introdotta nel nostro ordinamento la nozione di “rifiuti prodotti dalle industrie estrattive”.
Il d.lgs. citato pone “le misure, le procedure e le azioni necessarie per prevenire o per ridurre il più possibile eventuali effetti negativi per l’ambiente, in particolare per l’acqua, l’aria, il suolo, la fauna, la flora e il paesaggio, nonché eventuali rischi per la salute umana, conseguenti alla gestione dei rifiuti prodotti dalle industrie estrattive” e si applica alla “gestione dei rifiuti di estrazione come definiti all’articolo 3, comma 1, lettera d), all’interno del sito di cui all’articolo 3, comma 1, lettera hh), e nelle strutture di deposito di cui all’articolo 3, comma 1, lettera r)” (cfr., rispettivamente, l’art. 1, rubricato “Finalità”, e l’art. 2, rubricato “Ambito di applicazione”).
Alla luce di quanto testé richiamato, dunque, occorre anzitutto osservarsi che allorquando ricorrano i presupposti del d.lgs. 117/2008 non potrà farsi applicazione del TUA.
E ciò in quanto il d.lgs. 117 cit. si pone espressamente e chiaramente come disciplina di tutela ambientale e sanitaria e, dunque, come una disposizione idonea a far scattare la “clausola di cedevolezza” di cui all’art. 185 TUA [39].
Sotto un profilo meramente definitorio, dai rifiuti di estrazione tout court [40], il legislatore distingue i “rifiuti inerti” e la “terra non inquinata” [41].
Ai fini applicativi dell’impianto sistematico di cui al d.lgs. 117/2008, la distinzione tra i rifiuti di estrazione tout court, i “rifiuti inerti” e la “terra non inquinata” risulta di fondamentale importanza: la seconda e la terza categoria di beni, infatti, “a meno che detti rifiuti siano stoccati in una struttura di deposito dei rifiuti di categoria A”, sono soggette ad una disciplina normativa di “gestione” c.d. semplificata rispetto ai rifiuti di estrazione generalmente intesi (cfr. art. 2, comma 3, cit.).
Del pari, si può accedere ad una procedura semplificata per la gestione di rifiuti non pericolosi derivanti dalla prospezione e dalla ricerca di risorse minerali, esclusi gli idrocarburi e gli evaporiti diversi dal gesso e dall’anidride, allorquando l’Autorità competente ritenga soddisfatti i requisiti di cui all’art. 4 del d. lgs. cit.
Ai sensi del comma 5, art. 2, infine, “L’autorità competente può, sulla base di una valutazione tecnica specifica, ridurre gli obblighi di cui agli articoli 11, comma 3, 12, commi 4 e 5, e 13, comma 6, o derogarvi nel caso di rifiuti non inerti non pericolosi, a meno che siano stoccati in una struttura di deposito di categoria A”.
Fulcro centrale di tutto l’impianto sistematico introdotto nel 2008 risulta essere il c.d. “Piano di gestione dei rifiuti di estrazione”, disciplinato all’art. 5, avente come finalità la “riduzione al minimo, il trattamento, il recupero e lo smaltimento dei rifiuti stessi, nel rispetto del principio dello sviluppo sostenibile”.
Come detto, all’interno dell’ampia ed eterogenea categoria “materiale di risulta proveniente dall’attività estrattiva”, la norma distingue tra: rifiuti prodotti dalle industrie estrattive tout court, rifiuti inerti, terra non inquinata.
Queste tre diverse tipologie di materiale, a seconda della diversa casistica enucleata dal d.lgs. 117, sono soggette ad una disciplina particolare di gestione dei rifiuti delle industrie estrattive.
Gestione che vede nel “Piano” lo strumento fondamentale e che, per essere qualificabile come tale, deve avvenire in ambiti territoriali ben precisi rappresentati dai cantieri estrattivi e relative pertinenze ovvero dalle strutture di deposito [42].
Oltre all’ambito territoriale ben preciso, ai fini dell’applicazione del regime previsto per la gestione dei rifiuti di cui al d.lgs. 117/2008, occorre che il detentore “si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi” del rifiuto.
E ciò in quanto che, se da un lato il d.lgs. 152/2006 esclude la sua applicabilità in ipotesi di “rifiuti risultanti dalla prospezione, dall’estrazione, dal trattamento, dall’ammasso di risorse minerali, o dallo sfruttamento delle cave”, dall’altro lato il d.lgs. 117/2008 prevede espressamente che per rifiuto si intende “la definizione di cui all’articolo 183, comma 1, lettera a), del decreto legislativo n. 152 del 2006”.
Tale definizione, come è ampiamente noto, trova il suo fondamento essenziale del verbo “disfare” [43].
Alla luce di ciò, pare logico concludere che, allorquando il detentore non sia animato dall’intenzione di disfarsi del materiale, giacché – ad esempio – intenzionato alla sua commercializzazione quale inerte per reinterri, riempimenti, rimodellazione e rilevati di vario genere, non sussisteranno i presupposti applicativi del d. lgs. 117/2008.
In tali casi, infatti, il minerale non potrà essere qualificato come “rifiuto” ex d. lgs. 117/2008, giacché il dato letterale della norma non contempla affatto tale fattispecie.
E tutto ciò proprio a fronte di un disposto normativo particolarmente preciso e puntuale.
A corroborare una siffatta lettura interpretativa sembra concorrere lo stesso art. 10 del d.lgs. 117/2008 allorquando prevede una disciplina specifica per il materiale di risulta che, anziché essere allocato nelle strutture di deposito viene destinata ai “Vuoti e le volumetrie prodotti dall’attività estrattiva”.
In tali ipotesi, il legislatore ha espressamente previsto che laddove il materiale di risulta sia impiegato ai fini di ripristino e ricostruzione “per la ripiena di vuoti e volumetrie prodotti dall’attività estrattiva superficiale o sotterranea”, debba essere oggetto del Piano di gestione dei rifiuti [44].
Ebbene, proprio una tale “previsione espressa” depone a favore della lettura interpretativa che esclude in linea generale dall’ambito di applicazione del d.lgs. 117/2008 tutto ciò che, non essendo propriamente caratterizzato dall’intenzione dell’operatore di disfarsene, non rientra nel Piano di gestione dei rifiuti.
Parimenti non rientreranno nello spettro applicativo del d.lgs. 117/2008 le ipotesi di gestione del materiale non suscettibile di utilizzazione industriale effettuate all’esterno dei siti estrattivi (perimetri di cava e miniera e relative discariche).
Tali ipotesi, infatti, esulano totalmente dalle fattispecie tipicamente previste dalla legislazione mineraria speciale (strutture di deposito – ripiena di vuoti e volumetrie), trovando dunque necessariamente disciplina nella legislazione ambientale generale e, segnatamente, nel TUA.
Da tempo, oramai, in dottrina è principio consolidato quello per cui in ipotesi di deroga alla disciplina dei rifiuti laddove – come nel caso di specie – la deroga riguardi una categoria (attività estrattiva), che a propria volta assurga a materia autonoma in seno all’ordinamento giuridico, la prima operazione ermeneutica consiste nell’individuare, in via positiva, l’ambito di questa categoria e, conseguentemente, l’oggetto dell’eccezione; solo dopo, esaurito tale accertamento, si può passare alla seconda operazione ermeneutica in ordine all’espansione della disciplina sui rifiuti negli “spazi” lasciati liberi dalla ricostruzione positiva dell’oggetto della deroga [45].
4.2 Le fattispecie di cui alla legislazione ambientale: l’ipotesi “speciale” dell’assimilazione alle terre e rocce da scavo ex 186 TUA.
Come già evidenziato, con l’entrata in vigore dell’art. 8 ter della legge 13/2009, ai fini dell’applicazione dell’art. 186 TUA, i residui provenienti dall’estrazione di marmi e pietre sono equiparati alla disciplina dettata per le terre e rocce da scavo.
A seguito di siffatto meccanismo di equiparazione normativa, ogniqualvolta i residui lapidei risultino astrattamente riconducibili all’art 186 TUA, troveranno applicazione le disposizioni ivi contenute, sia con riferimento alla disciplina autorizzatoria, sia con riferimento a quella sanzionatoria.
Laddove invece non ricorrano le condizioni ex 186, saranno i principi generali TUA della Parte IV a trovare applicazione: se il 117 si pone in termini di specialità rispetto al TUA, la norma in commento – a sua volta – pare rilevarsi speciale rispetto al TUA nel suo complesso, norma chiaramente residuale rispetto a quella “speciale” prevista dal legislatore con l’art. 8 ter della legge 13/2009.
4.3 Le fattispecie di cui alla legislazione ambientale: l’ipotesi “generale” del rifiuto.
Poc’anzi si è detto che il materiale di risulta derivante dall’attività estrattiva trasportato all’esterno del sito estrattivo (miniera o cava) privo di una destinazione commerciale e caratterizzato dall’intenzione del coltivatore di disfarsene – a differenza di quello stoccato in discarica o destinato, ex art. 10, ai vuoti e alle volumetrie prodotti dall’attività estrattiva – esula dall’ambito di applicazione del d.lgs. 117/2008.
E ciò in quanto, in tali ipotesi, alla luce di quanto emerge dall’impianto sistematico del d.lgs. 117/2008, non sembra potersi parlare propriamente di “rifiuti dell’attività estrattiva”.
Se è vero che l’art. 2 del decreto citato disciplina la gestione dei rifiuti di estrazione all’interno delle strutture di deposito e “dell’area del cantiere o dei cantieri estrattivi come individuata e perimetrata nell’atto autorizzativo e gestita da un operatore” secondo precisi e determinate fattispecie applicative, all’infuori di esse non potrà dunque applicarsi una siffatta norma speciale.
Ciò nondimeno, tale materiale non sembra esulare affatto dallo spettro applicativo d.lgs. 152/2006.
Con riferimento ad esso, infatti, a sistema legislativo vigente – diversamente da quanto avviene per il materiale soggetto al d.lgs. 117/2008 – non è rinvenibile una disposizione di “tutela ambientale e sanitaria” e, dunque, una disposizione idonea a far scattare la “clausola di cedevolezza” di cui all’art. 185 TUA.
Ebbene, posto che la gestione del materiale di risulta derivante dall’attività estrattiva che, anziché essere avviato allo stoccaggio in siti adibiti a discarica o in strutture di deposito o, ancora, ai riempimenti ex art. 10 dei siti di cava, è avviato al trasporto per una sua destinazione “alternativa”, non sembra potersi definire attività di “gestione di rifiuti” ex d.lgs. 117/2008, il suo trattamento giuridico risulta accomunabile a quello relativo al materiale di risulta proveniente dall’attività di lavorazione del minerale e, dunque, ai rifiuti tout court [46].
Una volta usciti dallo spetto applicativo della disciplina mineraria speciale, infatti, la fonte normativa di riferimento non potrà che essere quella generale e, dunque, il TUA.
Ecco perché, al termine di queste <> considerazioni, una risposta univoca all’interrogativo posto all’inizio non sembra possibile: a seconda dei casi, i rifiuti derivanti dall’attività di cava e miniera – intendendosi con tale espressione le sostanze minerarie non suscettibili di utilizzazione industriale – potranno talvolta essere trattati e gestiti come “rifiuto estrattivo”, talvolta come “terre e rocce da scavo” e, talvolta, come “rifiuto speciale non pericoloso”.
E, in un tale quadro d’insieme, decision-maker unico ed indiscusso, sarà l’imprenditore il quale, a seconda delle specifiche dinamiche e realtà aziendali, sceglierà l’opzione ritenuta più opportuna lasciando all’ordinamento il compito di controllare e verificare non la bontà della scelta effettuata quanto piuttosto la stretta osservanza della normativa ad essa sottesa.
Ma questo è, ovviamente, tutt’altro discorso.
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[1] Per una primissima rassegna orientativa, pressoché d’obbligo il richiamo di alcuni classici del diritto minerario, F. Bo – P. Tappari, Legislazione sulle miniere, Torino, 1890; A. Gilardoni, Miniere, cave e torbiere, in D.I., XV, Torino, 1904; G. Vassalli, Note critiche sul concetto di demanio minerario, Riv. dir. comm., 1927; C. Vitta, Il diritto dello Stato sulle miniere di fronte al concetto di demanio pubblico, in Studi in onore di O. Ranelletti, II, Padova, 1931; D. Simoncelli, La demanialità mineraria e la legge del 1927, in Riv. dem., 1933, p. 160 ss.; R. Lucifredi, Cave e torbiere, proprietà privata, in Dir. b. pubbl., 1936, p. 409 ss.; Id., Il diritto dei beni pubblici, Roma, 1936, p. 409 ss.; Id., Intorno al regime giuridico delle cave e delle torbiere, in Annali Università di Perugia, 1937, p. 153 ss.; E. Guicciardi, Le miniere, cave e torbiere, e la loro qualificazione giuridica, in Dir. b. pubbl., 1937; V. Spagnuolo Vigorita, Voce Cave e torbiere, in Enc. dir., VI, Milano, 1960; G. Guarino, La disciplina giuridica dei permessi di ricerca e delle concessioni minerarie, in Scritti di diritto pubblico dell’economia e di diritto dell’energia, Milano, 1962, p. 269 ss.; A. Barucchi, L’attività mineraria nel sistema della legislazione dell'energia, Torino, 1964; A. De Gioannis, Principi fondamentali della legislazione sulle miniere, Napoli, 1970; C. Abbate, Il diritto minerario in Italia, Palermo, 1970; F.P. Pugliese, Proprietà e impresa: riflessioni sui procedimenti costitutivi dei beni minerari e del regime amministrativo dell’impresa, in Riv. trim. dir. pubbl., 1971, p. 930; A. D’Avanzo, Diritto minerario e delle fonti di energia, Roma 1975; V. Cerulli Irelli, Proprietà pubblica di cose produttive: i beni minerari, in Foro amm., 1982, p. 1128 ss.; A. D’Avanzo, Voce Miniere, cave e torbiere, Nov. Dig., Torino 1984; P.G. Lignani, Voce Miniera, in Enc. giur., XX, Roma, 1990; U. Fantigrossi, Voce Miniere, in Dig. Disc. Pubbl., IX, Torino, 1994; R. Federici, Contributo allo studio dei beni minerari, Padova, 1996; F. Francario, Il regime giuridico di cave e torbiere, Milano, 1997; Id, Il decentramento amministrativo. Miniere e risorse geotermiche, in Gior. dir. amm., 1998, p. 821 ss.; S. Valentini, Le fonti normative del diritto minerario, in R. Federici, (a cura di), Approfondimenti sul diritto minerario nazionale e introduzione al diritto minerario comunitario e comparato, Atti dei primo convegno di studi di diritto minerario, Padova, 2001, p. 107 ss.; F. Francario, Il bene minerario come impresa, in R. Federici, (a cura di), L’impresa mineraria, Atti del secondo convegno di studi di diritto minerario, Napoli, 2002, p. 121 ss.; Id, Le miniere, le cave e le torbiere, in S. Cassese, (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, Diritto amministrativo speciale, Tomo II, Milano, 2003, p. 1789 ss.; M. Sertorio, Miniere e cave tra disciplina regionale e nazionale, Milano, 2004; M. Vaccarella, La disciplina delle attività estrattive nell’amministrazione del territorio, Torino, 2010.
[2] In dottrina, per un’ampia ricostruzione sistematica della disposizioni derogatorie dell’attività estrattiva dalla normativa sui rifiuti, M. Sertorio, Sulla delimitazione della nozione dei minerali oggetto di esclusione dalla disciplina sui rifiuti, in Riv. giur. ambiente, 2002, 1, p. 29 ss. Circa i principi europei a tutela dell’ambiente si veda R. Ferrara, Modelli e tecniche della tutela dell'ambiente: il valore dei principi e la forza della prassi, in Foro amm. TAR, 2009, p. 1945 ss.; Id., I principi comunitari della tutela dell'ambiente, in Dir. amm., 2005, p. 59 ss.; M. Cafagno, Principi e strumenti di tutela dell'ambiente come sistema complesso, adattativo, comune, Torino, 2007; O. Porchia, Tutela dell'ambiente e competenze dell'Unione Europea, in Riv. it. Dir. pubbl. com., 2006, p. 17 ss.; M. Renna, Il sistema degli "standard ambientali" tra fonti europee e competenze nazionali, in B. Pozzo – M. Renna (a cura di), L’ambiente nel nuovo Titolo V della Costituzione, Quaderno n. 15 della Rivista giuridica dell'ambiente, Milano, 2004, p. 93 ss.
[3] Cfr. il d.lgs. 30 maggio 2008 n. 117, Attuazione della direttiva 2006/21/CE relativa alla gestione dei rifiuti delle industrie e che modifica la direttiva 2004/35/CE nonché il d.lgs. 3 dicembre 2010, n. 205, Disposizioni di attuazione della direttiva 2008/98/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio del 19 novembre 2008 relativa ai rifiuti e che abroga alcune direttive.
[4] Circa la distinzione tra miniere e cave, si veda il RD 29 luglio 1927, n. 1443, Norme di carattere legislativo per disciplinare la ricerca e la coltivazione delle miniere nel regno. In dottrina, F. Cazzagon, I presupposti del rilascio e del trasferimento dell’autorizzazione estrattiva, Nota a TAR Umbria-Perugia, 13 agosto 2009, n. 486, sez. I, in Riv. giur. ambiente 2009, n. 6, p. 1025 ss., il quale rammenta come “la dottrina prevalente ritiene tassativa l’elencazione delle sostanze minerali di prima categoria, onde la nozione delle sostanze di seconda categoria sarebbe automaticamente delimitata in via negativa rispetto alla elencazione dei minerali di prima categoria (cfr. Berio, La disciplina della coltivazione mineraria, 1927, 25; A. D’Avanzo, Corso di diritto minerario, Roma, 1960, p. 71; Gilardoni, Trattato di diritto minerario, 1928, II, 143; Montel, Problemi di diritto minerario, 1950, 57). Si è, però, osservato che l'art. 2 lett. d) del R.D. 1443/1927 considera come cave anche le lavorazioni di altri materiali industrialmente utilizzabili ai termini dell'art. 1 e non compresi nella prima categoria il che sembrerebbe lasciare aperta la stessa definizione di cava posta dalla legge mineraria (cfr. V. Spagnuolo Vigorita, Cave e torbiere, in Enc. dir., 1960, p. 669)”.
Chiamata a pronunciarsi sul tema, la Suprema Corte di Cassazione ha osservato che “a base della distinzione tra miniera e cava è la circostanza, decisiva rispetto alle altre, che la cava, diversamente dalla miniera, si presenta come giacimento a cielo aperto, che si sviluppa prevalentemente su larga superficie e in cui il materiale viene estratto da poca profondità. Per l’esercizio di una cava, perciò, non è necessario che l’attività di scavo sia diretta a penetrare nelle viscere della terra per portare alla luce i materiali minerari, che ivi si celano, costituendo cava in senso tecnico - siccome è notorio secondo indiscusso indirizzo di questo giudice di legittimità - qualunque luogo in cui, mediante tagli ed escavazioni, si pratichi l’estrazione di materie esistenti immediatamente sotto il suolo o di minerali affioranti. Per detta estrazione, pertanto, non è indispensabile una struttura organizzata stabile, con impianti infissi al suolo; ma è sufficiente l'impiego anche di mezzi semoventi di scavo e di raccolta del materiale medesimo, come è avvenuto nel caso di specie mediante la utilizzazione di mezzi meccanico di sbancamento e di rimozione del terreno asportato in superficie” (cfr. Corte di Cassazione, sez. III, 2 agosto 2000, n. 10113, in Giust. civ. Mass., 2000, p. 1682 ss.).
[5] Circa le peculiarità delle imprese operanti nel comparto minerario, per tutti, R. Federici, (a cura di), L’impresa mineraria, op. cit., passim.
[6] F. Francario, Le miniere, le cave e le torbiere, in S. Cassese, (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, Diritto amministrativo speciale, op. cit., passim.
[7] C. Abbate, Il diritto minerario in Italia, op. cit., p. 149 ss.
[8] M. Sertorio, Sulla delimitazione della nozione dei minerali oggetto di esclusione dalla disciplina sui rifiuti, op. cit., p. 29 ss.
[9] Il riferimento è al d.lgs. 30 maggio 2008 n. 117, Attuazione della direttiva 2006/21/CE relativa alla gestione dei rifiuti delle industrie e che modifica la direttiva 2004/35/CE nonché al d.lgs. 3 aprile 2006 n. 152, Norme in materia ambientale.
[10] Ai sensi dell’art. 1, RD 29 luglio 1927, n. 1443, più che di “destinazione industriale” parrebbe opportuno parlare di “utilizzazione industriale”.
[11] M. Sertorio, Sulla delimitazione della nozione dei minerali oggetto di esclusione dalla disciplina sui rifiuti, op. cit., p. 29 ss. il quale segnala la decisione TAR Lazio, 8 luglio 1997, consultabile in internet sul sito htpp:www.giustizia-amministrativa.it, relativa alla cessazione del rapporto minerario in conseguenza dell'esaurimento del giacimento così inteso anche nell’accezione della sua non più economica coltivabilità: “allorché si sia in presenza di esaurimento della miniera per sostanziale incoltivabilità tecnico-economica della miniera stessa, viene meno il patrimonio indisponibile statale al riguardo e l’area stessa torna ad essere disciplinata dalle regole di diritto comune con conseguente riappropriazione da parte dell’originario proprietario del suolo e ciò senza che occorra un atto amministrativo al riguardo”. In giurisprudenza, sul punto, si veda Cassazione civile, 14 novembre 1975, n. 3829, in Foro it., 1976, I, p. 1626; Cassazione civile, 6 giugno 1987, n. 4950, in Giur. it., Rep., 1987.
[12] Cfr. A. Ribolzi, Il problema delle sostanze minerali “associate” alla sostanza oggetto di concessione mineraria, in Foro padano, 1970, III, p. 26; G. Berio, La riforma della legislazione mineraria, Roma, 1928, p. 133; A. D’Avanzo, Lezioni di diritto minerario, Roma, 1958, p. 109; G. Carretto, Sostanze minerali associate, in Dir. beni pubbl., 1939, p. 516. Sul punto, per una ricostruzione del tema nel suo complesso, M. Sertorio, Sulla delimitazione della nozione dei minerali oggetto di esclusione dalla disciplina sui rifiuti, op. cit., p. 29 ss. il quale osserva come “in proposito è pacifico che debba ritenersi senz’altro sussistente il rapporto di associazione, quando sostanze minerali diverse si presentino commiste in modo tale da non potere essere oggetto di estrazione separata. È stato inoltre ulteriormente ribadito che vi è associazione anche quando l’estrazione delle varie sostanze minerali interessate avviene congiuntamente, mentre non vi è associazione quando tra le varie sostanze non sussiste nessun rapporto di contiguità, così che le rispettive estrazioni possano avvenire in modo separato ed autonomo, oltre che compatibilmente tra loro. Anzi questa constatazione giustifica sul piano logico una interpretazione estensiva del concetto di associazione, nel senso che quest’ultima sussiste non soltanto nel caso di commistione fisica o di appartenenza ad uno stesso corpo mineralizzato, ma anche in presenza di sostanze le quali, ancorché adunate distintamente, non possano essere coltivate, dal punto di vista tecnico od economico, separatamente dalla coltivazione dei minerali oggetto della concessione”.
[13] M. Sertorio, Sulla delimitazione della nozione dei minerali oggetto di esclusione dalla disciplina sui rifiuti, op. cit., p. 29 ss.
[14] M. Sertorio, Sulla delimitazione della nozione dei minerali oggetto di esclusione dalla disciplina sui rifiuti, op. cit., p. 29 ss., il quale prosegue le sue considerazioni osservando che “per quanto concerne la possibilità di classificare sostanza minerale associata il minerale di seconda categoria, la risposta affermativa si impone, anzitutto, sotto un profilo di interpretazione letterale, dato che l’art. 24 non contiene né distinzioni, né limitazioni al riguardo. Questa norma del resto, parlando genericamente di sostanze minerali è riferita in modo espresso ai minerali tanto di prima categoria quanto di seconda. Inoltre, come già sottolineato, esiste la eadem ratio, tanto più ove si consideri che la cava è connotata dall’interesse pubblico alla produzione come le miniere. La disposizione dell’art. 24 L.M. pone esclusivamente l’accento sull’individuazione del soggetto che può disporre del minerale associato: la dottrina tradizionale ha inserito tra i diritti del concessionario quello di apprendere il minerale associato”.
[15] M. Sertorio, Sulla delimitazione della nozione dei minerali oggetto di esclusione dalla disciplina sui rifiuti, op. cit., p. 29 ss. Tanto è vero che, in un altro lavoro, il medesimo Autore giunge ad affermare come “dal punto di vista naturalistico e giuridico, sono postulabili due tipologie di materiali presenti in un sito minerario: il minerale ed il terreno vegetale che lo circonda. Mentre il primo appartiene al titolare del giacimento come frutto naturale, il secondo appartiene al proprietario del suolo ed è normalmente destinato al recupero ambientale del sito”, cfr. M. Sertorio, Il riutilizzo dei siti minerari dismessi: la polizia mineraria come elemento essenziale dell’operazione, consultabile in internet sul sito http:www.assomineraria.org.
[16] I materiali sono originati dall’erosione di agenti fisici e successivamente trasportati nella nuova sede oppure sono dovuti alla parziale pedonegizzazione superficiale e alla disgregazione della parte di tetto del giacimento in posto. Normalmente, anche nel caso di trasporto da parte di agenti meteorici, quali acqua e vento, o di fenomeni gravitativi, il materiale non subisce alcun intervento antropico.
[17] Per tutti, F. Lenzerini, Lo sfruttamento minerario sostenibile come principio emergente nel diritto internazionale contemporaneo, in Riv. giur. ambiente, 2004, 1, p. 165 ss.; G. Gisotti, Le cave. Recupero e pianificazione ambientale, Palermo, 2008, p. 13 ss.
[18] A titolo esemplificativo, si consideri il caso del minerale di seconda categoria pietra ornamentale “gneiss lamellare” del distretto “Luserna – Infernotto” ovvero quello del “granito”, del “beola” e del “serizzo” del distretto del VCO. Sul punto, recentemente, G.A. Dino – M. Fornaro, Problematiche relative alla gestione delle risulte lapidee di cava e stabilimento, alla luce delle nostre normative specifiche più recenti, in Geoingegneria Ambientale e Mineraria GEAM, n. 3, 2010, p. 17 ss. In via ulteriore, G. Bozzola – L. Garrone – L. Ramon – D. Savoca, Un esempio concreto di riutilizzo di prodotti di scarto: da granito da discarica a materia prima per ceramica e vetrerie, in Geoingegneria Ambientale e Mineraria GEAM, n. 4, 1995, p. 17 ss.
[19] Ai quali andranno necessariamente collegate le nozioni di sottoprodotto e materia prima secondaria alla luce dei principi generali del nostro sistema normativo.
[20] Sul punto, si veda M. Sertorio, Terre e rocce da scavo. Profili giuridici prima e dopo il D.Lgs 3 dicembre 2010, n. 205: attuazione amministrativa della loro destinazione finale, Atti del Convegno GEAM tenutosi a Torino il 14 dicembre 2010, in Ambiente & Sicurezza, 2011, n. 2, p. 29 ss. il quale ha recentemente osservato come “si è pervenuti ad individuare come criterio identificativo di minerale estratto, ogni materiale proveniente dall’attività estrattiva che sia oggetto di commercializzazione da parte dell’operatore minerario a fini industriali a prescindere dall’entità del corrispettivo. Questo percorso normativo ed identificativo evidenzia come debba essere attuato il criterio sopra richiamato, secondo cui occorre una giustificazione per assoggettare un materiale o una sostanza alla disciplina sui rifiuti”, cfr. p. n. 3 del dattiloscritto cit.
[21] Per tutti, R. Federici, Le miniere, le cave e le torbiere, in S. Cassese, (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, Diritto amministrativo speciale, op. cit., p. 1789 ss.; M. Sertorio, Miniere e cave tra disciplina regionale e nazionale, op. cit., passim; M. Vaccarella, La disciplina delle attività estrattive nell’amministrazione del territorio, op. cit., passim.
[22] Cfr. la fondamentale l.r. 22 novembre 1978, n. 69, Coltivazione di cave e torbiere, e successive l.r. 6/1980, l.r. 9/1981, l.r. 30/1981, l.r. 28/1996, l.r. 30/1999, l.r. 44/2000, l.r. 5/2001.
[23] Cfr. d.lgs. 30 maggio 2008 n. 117, Attuazione della direttiva 2006/21/CE relativa alla gestione dei rifiuti delle industrie e che modifica la direttiva 2004/35/CE. In dottrina, per tutti, M. Sertorio, Gestione dei residuali estrattivi: profilo del D.Lgs. n. 117/2008, in Ambiente e Sicurezza, 2009, n. 9, p. 98 ss.
[24] Cfr. il d.lgs. 3 aprile 2006 n. 152, Norme in materia ambientale. La produzione dottrinaria relativa a tale Codice è a dir poco sterminata. Tra gli altri, per una rassegna orientativa di ampio respiro, F. Giampietro, Analisi critica del D.Lgs. N. 152/2006: gli obiettivi ed i tempi di una vera riforma. Introduzione al volume, in Aa.Vv., Commento al Testo Unico Ambientale, Milano, 2006, p. 260 ss.; L. Costato – F. Pellizzer, Commentario breve al Codice dell'Ambiente, Padova. 2007; A. Celotto, Il codice che non c’è: il diritto ambientale tra codificazione e semplificazione, Relazione al Convegno “Ambiente e sviluppo”, Taranto, 17-18 aprile 2009, consultabile in internet sul sito http:www.giustamm.it, 22 aprile 2009. Tra la manualistica di riferimento, P. dell’Anno, Elementi di diritto dell’ambiente, Padova, 2008.
[25] Cfr. il d.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, Attuazione delle direttive 91/156/CEE sui rifiuti, 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e 94/62/CE sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio.
[26] Recita testualmente l’art. 185 del d.lgs. 3 aprile 2006 n. 152 rubricato “Esclusioni dall’ambito di applicazione” (articolo così sostituito dall’articolo 13 del d.lgs. n. 205 del 2010): “1. Non rientrano nel campo di applicazione della parte quarta del presente decreto: a) le emissioni costituite da effluenti gassosi emessi nell'atmosfera; b) il terreno (in situ), inclusi il suolo contaminato non scavato e gli edifici collegati permanentemente al terreno, fermo restando quanto previsto dagli artt. 239 e ss. relativamente alla bonifica di siti contaminati; c) il suolo non contaminato e altro materiale allo stato naturale escavato nel corso di attività di costruzione, ove sia certo che esso verrà riutilizzato a fini di costruzione allo stato naturale e nello stesso sito in cui è stato escavato; d) i rifiuti radioattivi; e) i materiali esplosivi in disuso; f) le materie fecali, se non contemplate dal comma 2, lettera b), paglia, sfalci e potature, nonché altro materiale agricolo o forestale naturale non pericoloso utilizzati in agricoltura, nella selvicoltura o per la produzione di energia da tale biomassa mediante processi o metodi che non danneggiano l’ambiente né mettono in pericolo la salute umana. 2. Sono esclusi dall’ambito di applicazione della parte quarta del presente decreto, in quanto regolati da altre disposizioni normative comunitarie, ivi incluse le rispettive norme nazionali di recepimento: a) le acque di scarico; b) i sottoprodotti di origine animale, compresi i prodotti trasformati, contemplati dal regolamento (CE) n. 1774/2002, eccetto quelli destinati all’incenerimento, allo smaltimento in discarica o all’utilizzo in un impianto di produzione di biogas o di compostaggio; c) le carcasse di animali morti per cause diverse dalla macellazione, compresi gli animali abbattuti per eradicare epizoozie, e smaltite in conformità del regolamento (CE) n. 1774/2002; d) i rifiuti risultanti dalla prospezione, dall'estrazione, dal trattamento, dall'ammasso di risorse minerali o dallo sfruttamento delle cave, di cui al decreto legislativo 30 maggio 2008, n. 117; 3. Fatti salvi gli obblighi derivanti dalle normative comunitarie specifiche, sono esclusi dall’ambito di applicazione della Parte Quarta del presente decreto i sedimenti spostati all’interno di acque superficiali ai fini della gestione delle acque e dei corsi d’acqua o della prevenzione di inondazioni o della riduzione degli effetti di inondazioni o siccità o ripristino dei suoli se è provato che i sedimenti non sono pericolosi ai sensi della decisione 2000/532/CE della Commissione del 3 maggio 2000, e successive modificazioni. 4. Il suolo escavato non contaminato e altro materiale allo stato naturale, utilizzati in siti diversi da quelli in cui sono stati escavati, devono essere valutati ai sensi, nell’ordine, degli articoli 183, comma 1, lettera a), 184-bis e 184-ter.”.
[27] Circa la disciplina delle norme statali cedevoli, per tutti, L. Antonini, Sono ancora legittime le normative statali cedevoli?, consultabile in internet su sito htpp: www.associazionedeicostituzionalisti.it.
[28] Criterio al quale, come è noto, occorre collegare quello secondo cui “lex posterior generalis non derogat priori speciali”. Sul punto, per tutti, R. Bin – G. Pitruzzella, Diritto pubblico, Torino, 2010, p. 264 ss.
[29] Cfr. l. 27 febbraio 2009, n. 13, Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 30 dicembre 2008, n. 208, recante misure straordinarie in materia di risorse idriche e di protezione dell’ambiente.
[30] Recita testualmente l’art. 7 ter dell’art. 186 del d.lgs. 152/2006: “ai fini dell’applicazione del presente articolo, i residui provenienti dall’estrazione di marmi e pietre sono equiparati alla disciplina dettata per le terre e rocce da scavo. Sono altresì equiparati i residui delle attività di lavorazione di pietre e marmi che presentano le caratteristiche di cui all’articolo 184 bis. Tali residui, quando siano sottoposti a un’operazione di recupero ambientale, devono soddisfare i requisiti tecnici per gli scopi specifici e rispettare i valori limite, per eventuali sostanze inquinanti presenti, previsti nell’Allegato 5 alla parte IV del presente decreto, tenendo conto di tutti i possibili effetti negativi sull’ambiente derivanti dall’utilizzo della sostanza o dell’oggetto”.
Come è noto, trattasi di un comma introdotto dall’articolo 8-ter della legge n. 13 del 2009 poi così modificato dall’articolo 14 del d.lgs. 3 dicembre 2010, n. 205, Disposizioni di attuazione della direttiva 2008/98/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio del 19 novembre 2008 relativa ai rifiuti e che abroga alcune direttive.
[31] Queste ultime, come è noto, trovano la loro regolamentazione legislativa all’art. 186 TUA, il quale prevede stringenti e puntuali condizioni affinché gli operatori economici in ipotesi di “terre e rocce da scavo, anche di gallerie, ottenute quali sottoprodotti” possano utilizzarle per “reiterri, riempimenti, rimodellazioni e rilevati” attraverso l’applicazione di una disciplina di chiaro favore, sia sotto il profilo autorizzatorio, sia sotto quello sanzionatorio, in luogo di quella relativa al trattamento ed alla gestione dei rifiuti speciali non pericolosi. Scopo del legislatore è stato quello di ritagliare, all’interno dell’indistinta categoria dei rifiuti speciali non pericolosi, una categoria normativa a sé stante distinta ed autonoma, ovverosia quella delle “terre e rocce da scavo”.
[32] Affinché si possa integrare la disciplina terre e rocce da scavo ex 186 occorre, dunque, essere in presenza di “terre e rocce da scavo, anche di gallerie, ottenute quali sottoprodotti”, con riferimento alle quali il detentore sia animato dall’intento di utilizzarle per “reinterri, riempimenti, rimodellazioni e rilevati”, conformemente e coerentemente alle condizioni e prescrizioni dettate dalla stessa disciplina del TUA. Diversamente, la disciplina di favore prevista per le terre e rocce da scavo di cui all’art 186 non potrà trovare applicazione. Alla luce di ciò, considerato che il legislatore del 2009 ha disposto con riferimento ai residui di estrazione di marmi e pietre una equiparazione con la disciplina testé richiamata in materia di terre e rocce da scavo, pare ovvio ritenere che solo se il detentore del rifiuto di estrazione “ottenuto quale sottoprodotto” sia determinato ed intenzionato ad effettuare operazioni di “reinterri, riempimenti, rimodellazioni e rilevati” conformemente e coerentemente alle condizioni e prescrizioni di cui all’art. 186 TUA (sia sotto il profilo statico che dinamico), il regime speciale e peculiare di cui a tale articolo potrà trovare applicazione anche in ipotesi di residui lapidei di estrazione, stante la novella di cui all’art. 8 ter l. 13/2009.
In materia di terre e rocce da scavo giova precisare come sia opinione della giurisprudenza quella per cui “in tema di tutela penale dell’ambiente, non è configurabile il reato di attività di gestione di rifiuti non autorizzata in presenza di un’attività di frammentazione o macinatura di terre e rocce da scavo, in quanto tale attività non costituisce un’operazione di trasformazione preliminare ai sensi dell’art. 186, d.lg. 3 aprile 2006 n. 152, non determinando di per sè stessa alcuna alterazione dei requisiti merceologici e di qualità ambientali” (cfr. Cassazione penale, sez. III, 7 ottobre 2008, n. 41331, in Cass. pen., 2009, 9, p. 3595; Cassazione penale, sez. III, 4 dicembre 2007, n. 14323, in CED Cass. pen., 2008, p. 23957; Cassazione penale, sez. III, 28 aprile 2006, n. 24046, in Ragiusan, 2007, p. 281 ss.; Cassazione penale, sez. III, 10 maggio 2006, n. 22038, in Dir. e giur. agr., 2007, p. 181 (nota di R. Sorrentino); Cassazione penale, sez. III, 15 gennaio 2003, n. 8936, in Ragiusan, 2004, p. 237 ss.; Cassazione penale, sez. III, 12 maggio 1996, n. 1726, in Cass. pen., 1997, p. 2223 ss.
Chiamata a pronunciarsi in tema di terre e rocce da scavo, la giurisprudenza amministrativa ha precisato che “i fanghi da dragaggio non sono equiparabili alle terre e rocce da scavo. A tale equiparazione è di ostacolo la circostanza che il legislatore della novella di cui alla l. n. 443 del 2001, nell’estendere i casi di esclusione di cui all’art. 8, d.lg. n. 22 del 1997, aveva ben presente la disciplina dei fanghi di dragaggio (ritenuti rifiuti non pericolosi da recuperare con procedure semplificate), la relativa collocazione (All. 1 punto 12.2, d.m. del 1998), la composizione organica dei fanghi di dragaggio, il sistema di smaltimento per spandimento se caratterizzati da valori conformi a quelli specificati nel citato d.m. Quel che è ancor più di ostacolo all'asserita identificazione, tuttavia, è la circostanza, chiarita dallo stesso legislatore, con i commi 17, 18 e 19 dell'art. 1, l. 21 dicembre 2001 n. 443, che le terre e rocce da scavo (e non anche i fanghi da dragaggio) non sono considerati rifiuti”, cfr. Consiglio Stato, sez. VI, 18 agosto 2010, n. 5875, in Red. amm. CDS, 2010, p. 7 ss.
[33] Il quale, come anticipato, statuisce lapidariamente che “le terre e rocce da scavo, qualora non utilizzate nel rispetto delle condizioni di cui al presente articolo, sono sottoposte alle disposizioni in materia di rifiuti di cui alla Parte Quarta del presente decreto”.
[34] M. Sertorio, Terre e rocce da scavo. Profili giuridici prima e dopo il D.Lgs 3 dicembre 2010, n. 205: attuazione amministrativa della loro destinazione finale, op. cit., p. 3, in quale osserva come “è stata del tutto estemporanea l’introduzione di una previsione che riguarda una porzione limitata dell’attività estrattiva (pietre e marmi), volta ad equiparare i residui dell’estrazione di tali minerali e della successiva lavorazione alle terre e rocce da scavo, ed è già stata oggetto di critica sotto diversi profili: a) la disciplina delle terre e rocce da scavo riguarda residui da lavori non estrattivi, in quanto l’attività estrattiva trovava già compiuta disciplina per un verso nella normativa nazionale e regionale che riguarda la coltivazione dei giacimenti minerari (di prima e di seconda categoria), per altro verso nella disciplina dei rifiuti estrattivi e per altro verso ancora nella disciplina dei sottoprodotti: non a caso in dottrina si è osservato come tale norma comporti confusione, in quanto i residui lasciati in loco delle attività estrattive sono già oggetto del D.Lgs. n. 117/2008; b) la norma porta confusione concettuale nella materia estrattiva, in cui va tenuta distinta la fase di coltivazione dei giacimenti (e dell’arricchimento del minerale estratto, quale ultima fase eventuale dell’attività estrattiva) dalla successiva fase di lavorazione del minerale estratto che è soggetta esclusivamente alla disciplina generale dei beni mobili”.
Prendendo le mosse da tali considerazioni critiche, l’Autore osserva peraltro come “la nuova disciplina, cancellando questa disposizione, consente di tornare ad un quadro più chiaro in materia: a) l’attività estrattiva è disciplinata dalla legislazione mineraria (statale e regionale): tutti i minerali estratti industrialmente utilizzabili sono al di fuori dell’ambito di applicazione della disciplina sui rifiuti; b) i residui di lavorazione che abbiano i requisiti dei sottoprodotti sono assoggettati alla disciplina di questi ultimi; c) i residui che vengono abbandonati sono soggetti alla disciplina del D.Lgs. 117/2008. La norma in esame resterà in vigore, sino a che non sarà emanato il D.M. previsto dall’art. 184 bis (introdotto dall’art. 12 del D.Lgs. in esame. Tuttavia, nel periodo transitorio intercorrente tra la data di entrata in vigore del D.Lgs. e l’emanazione del D.M., la norma in esame troverà applicazione con la seguente modifica “Sono altresì equiparati i residui delle attività di lavorazione di pietre e marmi che presentano le caratteristiche di cui all’art. 184 bis” in luogo della locuzione “derivanti da attività nelle quali non vengono usati agenti o reagenti non naturali”. Tale modifica comporta che i residui della attività di lavorazione di pietre e marmi potranno essere riutilizzati qualora abbiano le caratteristiche dei sottoprodotti e quindi anche se derivano dalla lavorazione effettuata con agenti o reagenti non naturali. Viene così consentito il riutilizzo dei residui trattati con agenti o reagenti chimici purchè debbano essere sottoposti soltanto a trattamenti non diversi dalla normale pratica industriale e non necessitino di “trasformazioni” preliminari nel senso precisato sub II 2.2.b). La norma, anche con questa correzione, presenta i difetti sopra rilevati: di positivo resta che viene, anche qui, confermato il nuovo indirizzo teso a delineare i confini tra la materia dei rifiuti e quella esclusa da tale disciplina”.
[35] In proposito, si vedano gli atti dei lavori parlamentari Atto Senato della Repubblica 1306 – Atto Camera dei Deputati 2206, XVI legislatura, consultabili in internet sul sito htpp:www.senato.it.
[36] Cfr. Corte di Cassazione penale, sez. III, 8 febbraio 2007, n. 5315, consultabile in internet sul sito http:www.ambientediritto.it.
[37] Cfr. Corte di Cassazione penale, sez. III, 22 novembre 2010, n. 41014, consultabile in internet sul sito http:www.ambientediritto.it, secondo la quale “l’indirizzo prevalente di questa Corte, cui il Collegio ritiene di aderire, esclude che il limo rientri nel campo di applicazione della disciplina sui rifiuti di cui alla parte quarta del D.L.gs. n.152 del 2006. La sentenza di questa sezione n.41584 del 9.10.2007, nel richiamare la decisione n.5315 dell'11 ottobre 2006- 8 febbraio 2007, Doneda, che aveva stabilito il principio che i fanghi ed i limi derivanti dalla prima pulitura del materiale di cava non possono essere considerati rifiuti, ribadiva che “l'esclusione contemplata dal D.L.gs n.152 del 2006, art.85, non può operare esclusivamente per la prima setacciatura del materiale estratto, in quanto non si vede la ragione per la quale la prima pulitura del materiale estratto, debba avvenire esclusivamente mediante setacciatura o grigliatura e non possa avvenire, quando necessità tecniche lo richiedano o lo rendano opportuno, mediante lavaggio.... il quale costituirebbe, a differenza della setacciarura o grigliatura, attività ontologicamente successiva alla estrazione vera e propria”. La motivazione dava atto che una precedente decisione (sez,3 n.42949 del 29.10.2009, rv.222968) era pervenuta a conclusioni diverse, ma evidenziava anche che si trattava di una difformità più apparente che reale, trattandosi in quel caso di fattispecie relativa non al lavaggio di materiale estratto bensì al materiale risultante dalla demolizione della cava stessa. Si sottolineava, infine, che “l'escludere che la normativa in vigore consideri come rifiuto i fanghi di primo lavaggio non comporta un disinteresse dell'ordinamento per le ricadute che l'attività di lavaggio può avere nell'ambiente circostante, posto che la normativa a tutela delle acque e della loro qualità può costituire riferimento in caso di eventuali modalità di trattamento del materiale che comportino ricadute negative sulle acque fluviali interessate””.
In via ulteriore, Cassazione penale, sez. III, 28 gennaio 2009, n. 10711, in CED Cass. pen., 2009, p. 24108, secondo la quale “risultando dalla stessa sentenza impugnata che il limo veniva prodotto dall’attività di primo lavaggio (....consistita nel primo lavaggio della ghiaia rilevata da coltivazioni di cava... pag. 2 sent.), va ritenuta insussistente l’ipotesi di reato contestata. A proposito dei fanghi va precisato che a norma del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 185, lett. d) sono esclusi dalla disciplina prevista per i rifiuti solo i fanghi che provengono direttamente dallo sfruttamento della cava e non pure quelli derivanti da diversa e successiva lavorazione delle materie prime (cfr. Cass. n. 42966 del 2005; 41584 del 2007), in altri termini vanno esclusi dalla disciplina sui rifiuti soltanto i materiali derivanti dallo sfruttamento delle cave nella misura in cui restino entro il ciclo produttivo dell’estrazione e connessa pulitura: infatti l’attività di sfruttamento della cava non può confondersi con la lavorazione successiva dei materiali stessi. Gli inerti, ancorchè provenienti in origine da una cava, una volta esaurito il ciclo estrattivo, se vengono smaltiti, ammassati ecc. devono considerarsi rifiuti”. In senso conforme, Cassazione penale, n. 41584 del 2007; Cassazione penale n. 5315 del 2007; Cassazione penale, sez. III, 22 settembre 2005, n. 42966; Cassazione penale, sez. III, 3 luglio 2002, n. 42949; Cassazione penale, sez. III, 28 giugno 1996 n. 9333, consultabili in internet sul sito http:www.ambientediritto.it.
[38] M. Sertorio, Sulla delimitazione della nozione dei minerali oggetto di esclusione dalla disciplina sui rifiuti, op. cit., p. 29 ss.
[39] E ciò, a maggior ragione, a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. 3 dicembre 2010, n. 205, Disposizioni di attuazione della direttiva 2008/98/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio del 19 novembre 2008 relativa ai rifiuti e che abroga alcune direttive.
[40] Definiti dall’art. 3, comma 1, lettera d) come “rifiuti derivanti dalle attività di prospezione o di ricerca, di estrazione, di trattamento e di ammasso di risorse minerali e dallo sfruttamento delle cave”.
[41] I rifiuti inerti, precisa il medesimo art. 3, comma 1, lettera c), sono quei “rifiuti che non subiscono alcuna trasformazione fisica, chimica o biologica significativa. I rifiuti inerti non si dissolvono, non bruciano né sono soggetti ad altre reazioni fisiche o chimiche, non sono biodegradabili e, in caso di contatto con altre materie, non comportano effetti nocivi tali da provocare inquinamento ambientale o danno alla salute umana. La tendenza a dar luogo a percolati e la percentuale inquinante globale dei rifiuti, nonché l’ecotossicità dei percolati devono essere trascurabili e, in particolare, non danneggiare la qualità delle acque superficiali e sotterranee”. Per terra non inquinata, invece, si intende la “terra ricavata dallo strato più superficiale del terreno durante le attività di estrazione e non inquinata, ai sensi di quanto stabilito all’articolo 186, decreto legislativo n. 152 del 2006” (cfr. art. 3, comma 1, lettera e).
[42] L’art. 2, infatti, statuisce che il d.lgs. “si applica alla gestione dei rifiuti di estrazione come definiti all’articolo 3, comma 1, lettera d), all’interno del sito di cui all’articolo 3, comma 1, lettera hh), e nelle strutture di deposito di cui all’articolo 3, comma 1, lettera r)” ovverosia allorquando la gestione del materiale avvenga: - all’interno del sito di cui alla lettera all’articolo 3, comma 1, lettera hh) ovvero “l’area del cantiere o dei cantieri estrattivi come individuata e perimetrata nell’atto autorizzativo e gestita da un operatore. Nel caso di miniere, il sito comprende le relative pertinenze di cui all’articolo 23 del regio decreto n. 1443 del 1927, all’articolo 1 del decreto del Presidente della Repubblica n. 128 del 1959 e all’articolo 1 del decreto legislativo n. 624 del 1996”; - in strutture di deposito di cui all’articolo 3, comma 1, lettera r) ovvero “struttura di deposito dei rifiuti di estrazione: qualsiasi area adibita all'accumulo o al deposito di rifiuti di estrazione, allo stato solido o liquido, in soluzione o in sospensione. Tali strutture comprendono una diga o un’altra struttura destinata a contenere, racchiudere, confinare i rifiuti di estrazione o svolgere altre funzioni per la struttura, inclusi, in particolare, i cumuli e i bacini di decantazione; sono esclusi i vuoti e volumetrie prodotti dall'attività estrattiva dove vengono risistemati i rifiuti di estrazione, dopo l’estrazione del minerale, a fini di ripristino e ricostruzione. In particolare, ricadono nella definizione: 1) le strutture di deposito dei rifiuti di estrazione di categoria A e le strutture per i rifiuti di estrazione caratterizzati come pericolosi nel piano di gestione dei rifiuti di estrazione; 2) le strutture per i rifiuti di estrazione pericolosi generati in modo imprevisto, dopo un periodo di accumulo o di deposito di rifiuti di estrazione superiore a sei mesi; 3) le strutture per i rifiuti di estrazione non inerti non pericolosi, dopo un periodo di accumulo o di deposito di rifiuti di estrazione superiore a un anno; 4) le strutture per la terra non inquinata, i rifiuti di estrazione non pericolosi derivanti dalla prospezione o dalla ricerca, i rifiuti derivanti dalle operazioni di estrazione, di trattamento e di stoccaggio della torba nonché i rifiuti di estrazione inerti, dopo un periodo di accumulo o di deposito di rifiuti di estrazione superiore a tre anni”.
[43] Proprio a fronte di tali considerazioni si esclude che il terreno vegetale di copertura di giacimento utilizzato per il recupero ambientale del sito estrattivo possa essere qualificato rifiuto estrattivo ex d.lgs. 117/2008: questa operazione, infatti, è parte integrante dell’attività estrattiva autorizzata, essendo il recupero ambientale un momento inscindibile dell’autorizzazione estrattiva. Sul punto, M. Sertorio, Gestione dei residui estrattivi: profilo del d. lgs. 117/2008 , op. cit., p. 102 ss.
[44] Sino ad ora si è detto circa l’ipotesi di riempimento dei vuoti e delle volumetrie prodotti dall’attività estrattiva effettuata con rifiuti di estrazione. Ebbene, cosa totalmente diversa è l’ipotesi del riempimento dei vuoti e delle volumetrie prodotti dall’attività estrattiva con rifiuti diversi dai rifiuti di estrazione. In proposito il legislatore delegato del 2008 si è laconicamente limitato a statuire che “il riempimento dei vuoti e delle volumetrie prodotti dall’attività estrattiva con rifiuti diversi dai rifiuti di estrazione di cui al presente decreto è sottoposto alle disposizioni di cui al decreto legislativo 13 gennaio 2003, n. 36, relativo alle discariche di rifiuti” (cfr. art. 10, comma 3, d.lgs. cit.).
Sicché, allorquando le operazioni di “riempimento” dei vuoti provocati dall’attività estrattiva avvenga con materiale diverso da quello prodotto in cava o in miniera, la disciplina normativa di riferimento non sarà il d.lgs. 117/2008 quanto piuttosto il decreto relativo alle discariche di rifiuti del 2003.
Nutrita è la produzione giurisprudenziale formatasi sul punto, soprattutto con riferimento ai profili amministrativi della questione. Più recentemente, TAR Veneto, Sezione III, 23 dicembre 2009, n. 3810, in Dir. e giur. agr., 2010, nn. 7-8, p. 487 ss (nota A. Costantino) laddove è stato precisato che “il riempimento di una cava abbandonata o dismessa con rifiuti diversi dai rifiuti di estrazione deve ritenersi assoggettato -ex art. 10, comma 3, del d. lgs. n. 117/08- alle disposizioni di cui al d. lgs. n. 36 del 2003, relativo alle discariche di rifiuti. Nella prospettiva di prevenire la produzione di rifiuti da destinare allo smaltimento in discarica, l’art. 10 del decreto legislativo n. 117/08 permette infatti agli operatori di utilizzare i rifiuti di estrazione, vale a dire i rifiuti prodotti nel corso o a seguito dell’attività estrattiva, per il riempimento dei vuoti e delle volumetrie causati dalle escavazioni, subordinando tale possibilità a una serie di condizioni. La scelta del legislatore delegato concerne il riempimento, con rifiuti di estrazione, di vuoti e di volumetrie prodotti dall’attività estrattiva. L’art. 10 non distingue tra cave in esercizio e cave dismesse o abbandonate, tra vuoti e volumetrie (pre)esistenti e vuoti e volumetrie conseguenti a una attività di cava in esercizio. L’unica distinzione è quella tra rifiuti di estrazione e rifiuti diversi dai rifiuti di estrazione. Tutte quelle situazioni nelle quali si trattano rifiuti diversi da quelli provenienti dalle attività estrattive - relative sia alle cave in esercizio che alle cave dismesse o abbandonate - devono pertanto essere assoggettate , a norma del citato art. 10, c. 3, alle disposizioni di cui al d. lgs. n. 36/03 sulle discariche di rifiuti, non invece alla più favorevole disciplina di cui al d.m. 5 febbraio 1998”.
Sul punto pare peraltro opportuno rammentare come l’art. 186, comma 7 ter, disciplini gli interventi di recupero ambientale effettuati con i residui di estrazione e di lavorazione delle pietre e del marmo. Come è noto, tale disposizione è stata recentemente modificata nel dicembre 2010 rispetto al testo originario nella parte relativa ai residui di lavorazione (II alinea) con la seguente modifica “Sono altresì equiparati i residui delle attività di lavorazione di pietre e marmi che presentano le caratteristiche di cui all’art. 184 bis” in luogo della locuzione “derivanti da attività nelle quali non vengono usati agenti o reagenti non naturali”. Tale modifica comporta che i residui della attività di lavorazione di pietre e marmi potranno essere riutilizzati qualora abbiano le caratteristiche dei sottoprodotti e quindi anche se derivano dalla lavorazione effettuata con agenti o reagenti non naturali. Tali residui, recita la norma in commento, “quando siano sottoposti a un’operazione di recupero ambientale, devono soddisfare i requisiti tecnici per gli scopi specifici e rispettare i valori limite, per eventuali sostanze inquinanti presenti, previsti nell’Allegato 5 alla parte IV del presente decreto, tenendo conto di tutti i possibili effetti negativi sull’ambiente derivanti dall’utilizzo della sostanza o dell’oggetto”.
[45] M. Sertorio, Materiali da attività estrattiva: anche la CGE li esclude dai rifiuti, in Ambiente & Sicurezza, 2005, n. 4, p. 89.
[46] Si veda, in proposito, il codice CER “01 Rifiuti derivanti da prospezione, estrazione da miniera o cava, nonché dal trattamento fisico o chimico di minerali”.
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(pubblicato il 26.4.2011)
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