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CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA - SEZIONE GIURISDIZIONALE - Sentenza 17 gennaio 2012 n. 64
Pres. Virgilio – Est. Anastasi
Associazione pubblicità esterna – Aspes + altri (Avv. ti G. Calandra, R. Pignatone e G. Mazzarella) c/ Comune di Palermo (n.c.)


1. Giustizia amministrativa – Costituzione – Termine ordinatorio – Deposito memorie – Termine perentorio – Conseguenze – Deroghe – Inammissibilità

 

2. Giustizia amministrativa – Processo – Udienza pubblica – Costituzione intimata – Inammissibilità – Camera di consiglio – Ammissibilità – Ragione

 

3. Giustizia amministrativa – Processo – Sopravvenuto difetto interesse – Decisione di improcedibilità – Ammissibilità – Presupposti – Certezza e definitività sull’assenza di utilità

 

4. Giustizia amministrativa – Appello – Censure in memoria non notificata – Proposizione – Inammissibilità – Ragione

 

 

1. Nel giudizio amministrativo, mentre il termine per la costituzione in giudizio ha carattere ordinatorio, il termine assegnato alle parti per il deposito delle memorie deve ritenersi perentorio, ed esso non può subire deroghe nemmeno con il consenso della controparte, essendo previsto non solo a tutela del contraddittorio ma anche a garanzia del corretto svolgimento del processo e all’adeguata e tempestiva conoscenza degli atti di causa da parte del collegio giudicante.

 

2. Con l’entrata in vigore del c.p.a., la costituzione in giudizio della parte intimata in udienza pubblica non è più ammissibile, nemmeno ai soli fini della discussione orale, diversamente della costituzione nella camera di consiglio cautelare. Infatti, mentre l’art. 56, co. 7, c.p.a. prevede espressamente che “Nella camera di consiglio cautelare, le parti possono costiuirsi” ai fini della trattazione orale, l’art. 73 non introduce analoga previsione per l‘udienza di discussione. Preclusione che peraltro non può essere superarata né in virtù del disposto dell’art. 370, co. 1, c.p.c., trattandosi di una previsione correlata alle specifiche caratteristiche del giudizio di legittimita dominiato dall’impulso d’ufficio, né in virtù dell’art. 171, co. 2 c.p.c., atteso che tale norma si inserisce in un sistema processuale caratterizzato dalla normale destinazione della prima udienza alla comparizione delle parti e non alla spedizione della causa in decisione.

 

3. La decisione di improcedibilità del gravame per sopravvenuto difetto di interesse consegue ad una modificazione della situazione di fatto o di diritto esistente al momento della domanda, tale da rendere certa e definitiva l'inutilità della sentenza. Peraltro, la decisione di improcedibilità esige che il giudice, sulla base di una rigorosa indagine circa l'utilità conseguibile per effetto della definizione del ricorso, pervenga al sicuro convincimento che la modificazione della situazione di fatto e di diritto intervenuta in corso di causa impedisca di riconoscere in capo al ricorrente alcun interesse, anche meramente strumentale e morale, alla decisione.

 

4. Nel giudizio di appello sono inammissibile le censure che non risultino versate, in primo grado, nel ricorso introduttivo ma in memoria non notificata, stante il divieto di nova in appello.

 

 


 

 

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana
in sede giurisdizionale



ha pronunciato la seguente

SENTENZA



sul ricorso in appello n. 280 del 2011 proposto da

ASSOCIAZIONE PUBBLICITÀ ESTERNA - ASPES, ASSOCIAZIONE PUBBLICITÀ AFFISSIONI SICILIA - APAS, CONFCOMMERCIO, FEDERAZIONE PROVINCIALE DI PALERMO DEL COMMERCIO, DEL TURISMO, DEI SERVIZI, DELLE PROFESSIONI E DEI P.M.I. DI PALERMO e CONFINDUSTRIA PALERMO, ASSOCIAZIONE DEGLI INDUSTRIALI DELLA PROVINCIA DI PALERMO, in persona dei legali rappresentanti pro tempore, rappresentate e difese dagli avvocati Girolamo Calandra, Roberto Pignatone e Giuseppe Mazzarella ed elettivamente domiciliate in Palermo, piazza V.E. Orlando n. 33 presso lo studio dell’avv. Calandra;

 

contro



il COMUNE DI PALERMO - SETTORE ATTIVITÀ PRODUTTIVE, in persona del legale rappresentante pro tempore, non regolarmente costituito in questa fase del giudizio;

 

per la riforma



della sentenza del T.A.R. per la Sicilia - II sezione di Palermo n. 14026 del 10 novembre 2010;

Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visti gli atti tutti della causa;
Relatore, alla pubblica udienza del 19 ottobre 2011 il Consigliere Antonino Anastasi;
Udito, altresì, l’avv. G. Calandra per le associazioni appellanti;
Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:

FATTO



Con delibera n. 80 del 24 marzo 2006 la Giunta municipale di Palermo ha incrementato a decorrere dal 1° gennaio 2006 le tariffe dell’imposta comunale sulla pubblicità.
Le Associazioni oggi appellanti hanno impugnato con ricorso al T.A.R. Palermo tale delibera, chiedendone l’annullamento.
Nelle more del giudizio con deliberazione n. 104 del 30 marzo 2007 la Giunta ha ridotto l’incremento tariffario a decorrere dal 1° gennaio 2007.
Essendo stato sostituito l’atto impugnato, il Tribunale con la sentenza in epigrafe indicata ha dichiarato il ricorso improcedibile per sopravvenuto difetto di interesse, rilevando che le eventuali pretese afferenti ai provvedimenti applicativi della stessa andavano dedotte dai soggetti passivi dell’imposta avanti al Giudice tributario.
La sentenza è stata impugnata con l’atto di appello all’esame dalle Associazioni soccombenti le quali ne hanno chiesto l’integrale riforma, contestando la dichiarazione di improcedibilità e riproponendo le censure di merito non esaminate dal T.A.R.
Il comune di Palermo si è costituito tardivamente con memoria depositata il 30 settembre 2011.
All’udienza del 19 ottobre 2011 è stata respinta la richiesta del comune di potersi costituire in udienza ed il ricorso è stato trattenuto in decisione.

DIRITTO



Come risulta dalle premesse l’appellato comune di Palermo si è costituito per l’udienza del 19 ottobre 2011 con deposito di memoria in data 30 settembre 2011, avendo ricevuto la notifica del gravame il 24 febbraio 2011.
Al riguardo l’art. 46 del codice del processo amministrativo prevede, con disposizione applicabile anche in appello, che le parti intimate possono costituirsi nel termine di sessanta giorni dalla ricevuta notificazione del ricorso.
A sua volta l’art. 73 prevede che le parti possono produrre memorie fino a trenta giorni liberi prima dell’udienza.
Come chiarito dalla giurisprudenza formatasi con riferimento all’analoga disposizione contenuta nell’art. 37 R.D. n. 1054 del 1924, il termine per la costituzione in giudizio ha carattere ordinatorio. (cfr. ad es. VI sez. n. 2983 del 2007).
È invece perentorio nel giudizio amministrativo il termine assegnato alle parti per il deposito delle memorie ed esso non può subire deroghe nemmeno con il consenso della controparte, essendo previsto non solo a tutela del contraddittorio ma anche a garanzia del corretto svolgimento del processo e dell'adeguata e tempestiva conoscenza degli atti di causa da parte del collegio giudicante. (ad es. V sez. n. 7166 del 2009).
Ne consegue che la memoria di costituzione del comune è stata depositata tardivamente e non può spiegare perciò effetti nel presente giudizio d’appello.
Inapplicabile è l’art. 54 c.p.a., il quale prevede che la presenta-zione tardiva di memorie può essere eccezionalmente autorizzata dal collegio quando la produzione nel termine di legge risulta estremamente difficile: infatti nel caso all’esame il comune - il quale del resto non ha allegato alcuna particolare difficoltà a costituirsi - aveva ricevuto la notifica dell’appello ben sette mesi prima della data in cui ha depositato la memoria.
Tanto chiarito, deve darsi poi conto del fatto che il comune ha chiesto di potersi costituire in udienza e che, come riferito nella premesse, tale richiesta è stata respinta per le ragioni che si espongono.
Come è noto, l’indirizzo prevalente in giurisprudenza ha sin qui ammesso - in difetto di contrarie previsioni normative - la possibilità per le parti intimate di costituirsi (oltre che nella camera di consiglio in caso di domanda cautelare) nell’udienza pubblica di discussione, ovviamente con possibilità di svolgere solo oralmente le proprie difese. (ad es. IV sez. n. 5356 del 2001 e C.G.A. n. 58 del 1998).
Tale indirizzo va però rimeditato a seguito dell’entrata in vigore del codice del processo amministrativo.
Il codice infatti con l’art. 56 comma 7, nel disciplinare il giudizio cautelare, ha espressamente disposto che “Nella camera di consiglio le parti possono costituirsi” ai fini della trattazione orale, mentre con l’art. 73 non ha introdotto analoga previsione per l’udienza di discussione.
Secondo il criterio interpretativo a contrario (o dell’ubi voluit) deve dedursi che la costituzione della parte intimata in udienza pubblica non è oggi più ammissibile, nemmeno ai soli fini della discussione orale, diversamente dalla costituzione nella camera di consiglio cautelare.
Tale preclusione non può superarsi in virtù del disposto dell’art. 370 primo comma cod. proc. civ. il quale consente alla parte contro cui è diretto il ricorso per cassazione di partecipare alla discussione orale avanti alla Suprema Corte anche se non abbia notificato nei termini il controricorso.
Occorre infatti considerare che una simile previsione si correla alle specifiche caratteristiche di un giudizio di legittimità dominato dall'impulso d'ufficio (cfr. Corte cost. n. 1110 del 1988) tanto che in esso non trova addirittura applicazione l'istituto dell'interruzione del processo per uno degli eventi previsti dagli art. 299 e seguenti (ad es Cass. n. 9515 del 2008).
Simili caratteristiche non si rinvengono invece nel giudizio di appello nè civile nè amministrativo dominato nell’impulso di parte nel quale è consentita anche una integrale rivalutazione del merito della controversia.
Nemmeno può farsi riferimento alla norma del rito civile (cfr. art. 171 secondo comma cod. proc. civ.) che nel giudizio di merito consente la costituzione della parte fino alla prima udienza: tale previsione, che opera del resto solo in determinati casi, si inserisce infatti in un sistema processuale del tutto peculiare, caratterizzato da una specifica disciplina nel caso di contumacia del convenuto nonchè dalla normale destinazione della prima udienza alla comparizione delle parti e non alla spedizione della causa in decisione, a differenza di quanto accade nel processo amministrativo.
Alla luce di quanto esposto al silenzio del c.p.a. circa la possibilità per le parti intimate di costituirsi in udienza non può dunque ovviarsi mediante il rinvio esterno di cui all’art. 39, risultando le norme del codice di procedura civile sopra richiamate non compatibili con il processo amministrativo e non espressive di principi generali.
Tanto chiarito può procedersi all’esame dell’appello, che risulta fondato in rito, ma va respinto nel merito.
Fondato è infatti il primo motivo col quale le appellanti deducono in rito che ha errato il Tribunale nel dichiarare improcedibile il ricorso introduttivo.
Nel caso in esame infatti il comune non ha rimosso l’atto originariamente impugnato ma ne ha soltanto delimitato la portata temporale, con la conseguenza che l’incremento tariffario per cui è controversia ha ricevuto concreta applicazione per un intero anno solare.
In linea generale, la decisione di improcedibilità del gravame per sopravvenuto difetto di interesse consegue ad una modificazione della situazione di fatto o di diritto esistente al momento della domanda, tale da rendere certa e definitiva l'inutilità della sentenza.
Peraltro, come evidenziato dalla giurisprudenza, la decisione di improcedibilità esige che il giudice, sulla base di una rigorosa indagine circa l'utilità conseguibile per effetto della definizione del ricorso, pervenga al sicuro convincimento che la modificazione della situazione di fatto e di diritto intervenuta in corso di causa impedisca di riconoscere in capo al ricorrente alcun interesse, anche meramente strumentale e morale, alla decisione (ad es. V sez. n. 2833 del 2010), ipotesi questa che palesemente non ricorre nel caso in esame.
Nè può seguirsi la sentenza impugnata quando afferma che eventuali pretese (ad es. restitutorie) fondate sulla prima deliberazione tariffaria possono essere comunque azionate avanti al Giudice tributario il quale ben potrebbe disapplicarla in via incidentale: nel caso in esame, infatti, le ricorrenti in primo grado sono associazioni di categoria, il cui interesse ad agire non è correlato direttamente ad alcuno specifico rapporto tributario, ma alla finalità di difendere gli associati impugnando in via principale un atto generale frutto (asseritamente) di un cattivo esercizio del potere autoritativo dell’amministrazione.
Stabilità la procedibilità dell’impugnazione, vanno allora esaminate le censure già versate nel ricorso di primo grado e qui espressamente riproposte.
L'erronea declaratoria da parte del giudice di primo grado dell'improcedibilità del ricorso non comporta infatti l'annullamento della sentenza con rinvio, con la conseguenza che il giudice di appello deve trattenere la causa e deciderla nel merito.
Con la prima censura le appellanti osservano che la deliberazione impugnata ha comportato un incremento della tariffe dell’im-posta comunale sulla pubblicità ben eccedente il limite massimo fissato dalla legge: ne consegue l’incompetenza della Giunta comunale, la quale ai sensi dello Statuto può procedere a variazioni di tariffe e aliquote solo nei limiti fissati dalla legge, risultando necessaria in caso contrario una deliberazione del consiglio comunale.
Il mezzo non è fondato.
L’art. 49 dello Statuto del comune di Palermo contempla, tra le competenze della Giunta, quella di procedere a variazioni delle tariffe e aliquote dei tributi comunali e dei corrispettivi dei servizi a domanda individuale entro i limiti indicati dalla legge o dal Consiglio comunale.
Ma nel caso all’esame non può dirsi che la Giunta abbia oltre-passato i limiti di incremento delle aliquote posti dalla legge.
La revisione ed armonizzazione dell'imposta comunale sulla pubblicità è stata attuata con il D. L.vo n. 507 del 1993 il quale all’art. 12 ha determinato la tariffa base dell’imposta in relazione alla classe del comune e alla superficie dell’impianto e all’art. 37 ne ha previsto il periodico adeguamento mediante Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri.
Successivamente il comma 10 dell’art. 11 della legge finanziaria n. 449 del 1997 (come modificato dall’art. 30 comma 17 della successiva legge finanziaria n. 488 del 1998) ha previsto che le tariffe dell’imposta potevano essere aumentate dagli enti locali fino ad un massimo del 20 per cento a decorrere dal 1° gennaio 1998 e fino ad un massimo del 50 per cento a decorrere dal 1° gennaio 2000.
Infine il D.P.C.M. 16 febbraio 2001 ha incrementato la tariffa base dell’imposta a decorrere dal 1° gennaio 2001.
In questo complesso quadro normativo il comune di Palermo con una deliberazione del 2002 e con la deliberazione impugnata ha introdotto un incremento delle tariffe complessivamente superiore al cinquanta per cento della misura originariamente fissata per i comuni di I classe: ma l’incremento in questione è stato deliberato quando la tariffa base era stata innalzata dal citato D.P.C.M. ed è su tale importo che va positivamente verificato il rispetto del limite massimo di incremento comunale fissato dalla legge.
In sostanza, la legge assegna ai comuni la facoltà di introdurre un incremento dell’imposta base, fissando in chiave percentuale il tetto massimo dell’incremento consentito.
Così facendo la legge individua a regime uno spazio di autonomia impositiva comunale che è collegato dinamicamente all’importo della tariffa base nazionale e che non può, in difetto di contraria previsione, risultare decurtato quando la tariffa base nazionale viene a sua volta incrementata.
Quindi, per quanto qui interessa, l’incremento tariffario disposto dalla deliberazione comunale impugnata rientra (ove correttamente calcolato sulla tariffa base nazionale modificata) nel limite massimo previsto dalla legge.
Di talchè, una volta stabilito che la Giunta non ha superato i limiti indicati dalla legge risulta chiaro che tale organo non ha esorbitato dalle attribuzioni statutarie.
Il mezzo in rassegna va perciò disatteso.
Inammissibili sono le deduzioni mediante le quali le appellanti sostengono, richiamando la sentenza del T.A.R. Palermo n. 1550 del 2009, che in Sicilia la disciplina dei tributi locali è in ogni caso demandata al consiglio comunale.
La specifica censura, infatti, non risulta versata, in primo grado, nel ricorso introduttivo ma in memoria non notificata: di talchè la doglianza qui proposta configura un inammissibile novum in appello.
In ogni caso la tesi delle appellanti non è condivisibile, in quanto questo Consiglio ha anche di recente precisato che il regime delle attribuzioni degli organi comunali in Sicilia va ricercato nella fonte statutaria. (CGA n. 45 del 2011).
Del tutto inconferente è il secondo motivo mediante il quale si deduce la violazione dell’art. 62 della legge n. 446 del 1997, nella parte in cui limita al 25% l’incremento delle aliquote applicabili dai comuni che aboliscono l’I.C.P. decidendo di assoggettare a canone autorizzatorio le iniziative pubblicitarie incidenti sull’arredo urbano.
In disparte il rilievo che le due diverse forme di prestazione monetaria sono disciplinate del tutto autonomamente, le appellanti trascurano di considerare che l’incremento del canone di cui all’art. 62 va calcolato non sulle tariffe base nazionali ma sulle tariffe dell’I.C.P. già incrementate in sede comunale.
Infondati sono il terzo, quarto e quinto motivo con i quali si lamenta l’irragionevolezza dell’immotivato aumento tariffario disposto dal comune (oltre tutto in via retroattiva) senza aver previamente consultato le categorie imprenditoriali interessate.
Al riguardo deve infatti osservarsi per un verso che l’obbligo di motivazione non riguarda gli atti generali; per l’altro che nel caso all’esame nessuna previsione giuridicamente vincolante imponeva al comune di consultare le associazioni esponenziali delle categorie coinvolte.
Inammissibile, in quanto impinge in considerazioni di puro merito, è il motivo mediante il quale si deduce che le aliquote dell’imposta sono state determinate a Palermo in misura superiore a quella definita nella generalità dei comuni classificati di I classe.
Con l’ultimo motivo le appellanti censurano la decisione della Giunta di attribuire immediata esecutività alla delibera impugnata, senza esplicitare le ragioni in base alle quali l’incremento deliberato doveva ritenersi urgente.
Il mezzo è inammissibile, dovendosi per costante giurisprudenza ritenere che l’apprezzamento circa la ricorrenza dei presupposti dell’urgenza de qua è insindacabilmente riservato alla sfera discrezionale dell'Amministrazione.
Sulla scorta delle considerazioni che precedono l’appello va quindi respinto e la sentenza impugnata va confermata con diversa motivazione e rigetto del ricorso originario.
Ogni altro motivo od eccezione può essere assorbito in quanto ininfluente ed irrilevante ai fini della presente decisione.
Nulla per le spese di questo grado del giudizio, in difetto di regolare costituzione del comune intimato.

P.Q.M.



Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, in sede giurisdizionale, definitivamente pronunciando, respinge l’appello, conferma la sentenza impugnata con diversa motivazione e per l’effetto rigetta il ricorso originario.
Nulla per le spese di questo grado del giudizio.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Così deciso in Palermo il 19 ottobre 2011 dal Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana in sede giurisdizionale, nella camera di consiglio, con l'intervento dei signori: Riccardo Virgilio, Presidente, Antonino Anastasi, estensore, Guido Salemi, Pietro Ciani, Alessandro Corbino, Componenti.

 

Depositata in Segreteria
17 gennaio 2012





 

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