REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO
ITALIANO
Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione
Siciliana
in sede giurisdizionale
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso in appello n. 280 del 2011 proposto
da
ASSOCIAZIONE PUBBLICITÀ ESTERNA - ASPES, ASSOCIAZIONE PUBBLICITÀ
AFFISSIONI SICILIA - APAS, CONFCOMMERCIO, FEDERAZIONE PROVINCIALE DI
PALERMO DEL COMMERCIO, DEL TURISMO, DEI SERVIZI, DELLE PROFESSIONI E DEI
P.M.I. DI PALERMO e CONFINDUSTRIA PALERMO, ASSOCIAZIONE DEGLI INDUSTRIALI
DELLA PROVINCIA DI PALERMO, in persona dei legali rappresentanti pro
tempore, rappresentate e difese dagli avvocati Girolamo Calandra, Roberto
Pignatone e Giuseppe Mazzarella ed elettivamente domiciliate in Palermo,
piazza V.E. Orlando n. 33 presso lo studio dell’avv. Calandra;
contro
il COMUNE DI PALERMO - SETTORE ATTIVITÀ PRODUTTIVE,
in persona del legale rappresentante pro tempore, non regolarmente
costituito in questa fase del giudizio;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. per la Sicilia - II sezione
di Palermo n. 14026 del 10 novembre 2010;
Visto il ricorso con i
relativi allegati;
Visti gli atti tutti della causa;
Relatore, alla
pubblica udienza del 19 ottobre 2011 il Consigliere Antonino
Anastasi;
Udito, altresì, l’avv. G. Calandra per le associazioni
appellanti;
Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto
segue:
FATTO
Con delibera n. 80 del 24 marzo 2006 la Giunta
municipale di Palermo ha incrementato a decorrere dal 1° gennaio 2006 le
tariffe dell’imposta comunale sulla pubblicità.
Le Associazioni oggi
appellanti hanno impugnato con ricorso al T.A.R. Palermo tale delibera,
chiedendone l’annullamento.
Nelle more del giudizio con deliberazione
n. 104 del 30 marzo 2007 la Giunta ha ridotto l’incremento tariffario a
decorrere dal 1° gennaio 2007.
Essendo stato sostituito l’atto
impugnato, il Tribunale con la sentenza in epigrafe indicata ha dichiarato
il ricorso improcedibile per sopravvenuto difetto di interesse, rilevando
che le eventuali pretese afferenti ai provvedimenti applicativi della
stessa andavano dedotte dai soggetti passivi dell’imposta avanti al
Giudice tributario.
La sentenza è stata impugnata con l’atto di appello
all’esame dalle Associazioni soccombenti le quali ne hanno chiesto
l’integrale riforma, contestando la dichiarazione di improcedibilità e
riproponendo le censure di merito non esaminate dal T.A.R.
Il comune di
Palermo si è costituito tardivamente con memoria depositata il 30
settembre 2011.
All’udienza del 19 ottobre 2011 è stata respinta la
richiesta del comune di potersi costituire in udienza ed il ricorso è
stato trattenuto in decisione.
DIRITTO
Come risulta dalle premesse l’appellato comune di
Palermo si è costituito per l’udienza del 19 ottobre 2011 con deposito di
memoria in data 30 settembre 2011, avendo ricevuto la notifica del gravame
il 24 febbraio 2011.
Al riguardo l’art. 46 del codice del processo
amministrativo prevede, con disposizione applicabile anche in appello, che
le parti intimate possono costituirsi nel termine di sessanta giorni dalla
ricevuta notificazione del ricorso.
A sua volta l’art. 73 prevede che
le parti possono produrre memorie fino a trenta giorni liberi prima
dell’udienza.
Come chiarito dalla giurisprudenza formatasi con
riferimento all’analoga disposizione contenuta nell’art. 37 R.D. n. 1054
del 1924, il termine per la costituzione in giudizio ha carattere
ordinatorio. (cfr. ad es. VI sez. n. 2983 del 2007).
È invece
perentorio nel giudizio amministrativo il termine assegnato alle parti per
il deposito delle memorie ed esso non può subire deroghe nemmeno con il
consenso della controparte, essendo previsto non solo a tutela del
contraddittorio ma anche a garanzia del corretto svolgimento del processo
e dell'adeguata e tempestiva conoscenza degli atti di causa da parte del
collegio giudicante. (ad es. V sez. n. 7166 del 2009).
Ne consegue che
la memoria di costituzione del comune è stata depositata tardivamente e
non può spiegare perciò effetti nel presente giudizio
d’appello.
Inapplicabile è l’art. 54 c.p.a., il quale prevede che la
presenta-zione tardiva di memorie può essere eccezionalmente autorizzata
dal collegio quando la produzione nel termine di legge risulta
estremamente difficile: infatti nel caso all’esame il comune - il quale
del resto non ha allegato alcuna particolare difficoltà a costituirsi -
aveva ricevuto la notifica dell’appello ben sette mesi prima della data in
cui ha depositato la memoria.
Tanto chiarito, deve darsi poi conto del
fatto che il comune ha chiesto di potersi costituire in udienza e che,
come riferito nella premesse, tale richiesta è stata respinta per le
ragioni che si espongono.
Come è noto, l’indirizzo prevalente in
giurisprudenza ha sin qui ammesso - in difetto di contrarie previsioni
normative - la possibilità per le parti intimate di costituirsi (oltre che
nella camera di consiglio in caso di domanda cautelare) nell’udienza
pubblica di discussione, ovviamente con possibilità di svolgere solo
oralmente le proprie difese. (ad es. IV sez. n. 5356 del 2001 e C.G.A. n.
58 del 1998).
Tale indirizzo va però rimeditato a seguito dell’entrata
in vigore del codice del processo amministrativo.
Il codice infatti con
l’art. 56 comma 7, nel disciplinare il giudizio cautelare, ha
espressamente disposto che “Nella camera di consiglio le parti possono
costituirsi” ai fini della trattazione orale, mentre con l’art. 73 non ha
introdotto analoga previsione per l’udienza di discussione.
Secondo il
criterio interpretativo a contrario (o dell’ubi voluit) deve
dedursi che la costituzione della parte intimata in udienza pubblica non è
oggi più ammissibile, nemmeno ai soli fini della discussione orale,
diversamente dalla costituzione nella camera di consiglio
cautelare.
Tale preclusione non può superarsi in virtù del disposto
dell’art. 370 primo comma cod. proc. civ. il quale consente alla parte
contro cui è diretto il ricorso per cassazione di partecipare alla
discussione orale avanti alla Suprema Corte anche se non abbia notificato
nei termini il controricorso.
Occorre infatti considerare che una
simile previsione si correla alle specifiche caratteristiche di un
giudizio di legittimità dominato dall'impulso d'ufficio (cfr. Corte cost.
n. 1110 del 1988) tanto che in esso non trova addirittura applicazione
l'istituto dell'interruzione del processo per uno degli eventi previsti
dagli art. 299 e seguenti (ad es Cass. n. 9515 del 2008).
Simili
caratteristiche non si rinvengono invece nel giudizio di appello nè civile
nè amministrativo dominato nell’impulso di parte nel quale è consentita
anche una integrale rivalutazione del merito della
controversia.
Nemmeno può farsi riferimento alla norma del rito civile
(cfr. art. 171 secondo comma cod. proc. civ.) che nel giudizio di merito
consente la costituzione della parte fino alla prima udienza: tale
previsione, che opera del resto solo in determinati casi, si inserisce
infatti in un sistema processuale del tutto peculiare, caratterizzato da
una specifica disciplina nel caso di contumacia del convenuto nonchè dalla
normale destinazione della prima udienza alla comparizione delle parti e
non alla spedizione della causa in decisione, a differenza di quanto
accade nel processo amministrativo.
Alla luce di quanto esposto al
silenzio del c.p.a. circa la possibilità per le parti intimate di
costituirsi in udienza non può dunque ovviarsi mediante il rinvio esterno
di cui all’art. 39, risultando le norme del codice di procedura civile
sopra richiamate non compatibili con il processo amministrativo e non
espressive di principi generali.
Tanto chiarito può procedersi
all’esame dell’appello, che risulta fondato in rito, ma va respinto nel
merito.
Fondato è infatti il primo motivo col quale le appellanti
deducono in rito che ha errato il Tribunale nel dichiarare improcedibile
il ricorso introduttivo.
Nel caso in esame infatti il comune non ha
rimosso l’atto originariamente impugnato ma ne ha soltanto delimitato la
portata temporale, con la conseguenza che l’incremento tariffario per cui
è controversia ha ricevuto concreta applicazione per un intero anno
solare.
In linea generale, la decisione di improcedibilità del gravame
per sopravvenuto difetto di interesse consegue ad una modificazione della
situazione di fatto o di diritto esistente al momento della domanda, tale
da rendere certa e definitiva l'inutilità della sentenza.
Peraltro,
come evidenziato dalla giurisprudenza, la decisione di improcedibilità
esige che il giudice, sulla base di una rigorosa indagine circa l'utilità
conseguibile per effetto della definizione del ricorso, pervenga al sicuro
convincimento che la modificazione della situazione di fatto e di diritto
intervenuta in corso di causa impedisca di riconoscere in capo al
ricorrente alcun interesse, anche meramente strumentale e morale, alla
decisione (ad es. V sez. n. 2833 del 2010), ipotesi questa che palesemente
non ricorre nel caso in esame.
Nè può seguirsi la sentenza impugnata
quando afferma che eventuali pretese (ad es. restitutorie) fondate sulla
prima deliberazione tariffaria possono essere comunque azionate avanti al
Giudice tributario il quale ben potrebbe disapplicarla in via incidentale:
nel caso in esame, infatti, le ricorrenti in primo grado sono associazioni
di categoria, il cui interesse ad agire non è correlato direttamente ad
alcuno specifico rapporto tributario, ma alla finalità di difendere gli
associati impugnando in via principale un atto generale frutto
(asseritamente) di un cattivo esercizio del potere autoritativo
dell’amministrazione.
Stabilità la procedibilità dell’impugnazione,
vanno allora esaminate le censure già versate nel ricorso di primo grado e
qui espressamente riproposte.
L'erronea declaratoria da parte del
giudice di primo grado dell'improcedibilità del ricorso non comporta
infatti l'annullamento della sentenza con rinvio, con la conseguenza che
il giudice di appello deve trattenere la causa e deciderla nel
merito.
Con la prima censura le appellanti osservano che la
deliberazione impugnata ha comportato un incremento della tariffe
dell’im-posta comunale sulla pubblicità ben eccedente il limite massimo
fissato dalla legge: ne consegue l’incompetenza della Giunta comunale, la
quale ai sensi dello Statuto può procedere a variazioni di tariffe e
aliquote solo nei limiti fissati dalla legge, risultando necessaria in
caso contrario una deliberazione del consiglio comunale.
Il mezzo non è
fondato.
L’art. 49 dello Statuto del comune di Palermo contempla, tra
le competenze della Giunta, quella di procedere a variazioni delle tariffe
e aliquote dei tributi comunali e dei corrispettivi dei servizi a domanda
individuale entro i limiti indicati dalla legge o dal Consiglio
comunale.
Ma nel caso all’esame non può dirsi che la Giunta abbia
oltre-passato i limiti di incremento delle aliquote posti dalla
legge.
La revisione ed armonizzazione dell'imposta comunale sulla
pubblicità è stata attuata con il D. L.vo n. 507 del 1993 il quale
all’art. 12 ha determinato la tariffa base dell’imposta in relazione alla
classe del comune e alla superficie dell’impianto e all’art. 37 ne ha
previsto il periodico adeguamento mediante Decreti del Presidente del
Consiglio dei Ministri.
Successivamente il comma 10 dell’art. 11 della
legge finanziaria n. 449 del 1997 (come modificato dall’art. 30 comma 17
della successiva legge finanziaria n. 488 del 1998) ha previsto che le
tariffe dell’imposta potevano essere aumentate dagli enti locali fino ad
un massimo del 20 per cento a decorrere dal 1° gennaio 1998 e fino ad un
massimo del 50 per cento a decorrere dal 1° gennaio 2000.
Infine il
D.P.C.M. 16 febbraio 2001 ha incrementato la tariffa base dell’imposta a
decorrere dal 1° gennaio 2001.
In questo complesso quadro normativo il
comune di Palermo con una deliberazione del 2002 e con la deliberazione
impugnata ha introdotto un incremento delle tariffe complessivamente
superiore al cinquanta per cento della misura originariamente fissata per
i comuni di I classe: ma l’incremento in questione è stato deliberato
quando la tariffa base era stata innalzata dal citato D.P.C.M. ed è su
tale importo che va positivamente verificato il rispetto del limite
massimo di incremento comunale fissato dalla legge.
In sostanza, la
legge assegna ai comuni la facoltà di introdurre un incremento
dell’imposta base, fissando in chiave percentuale il tetto massimo
dell’incremento consentito.
Così facendo la legge individua a regime
uno spazio di autonomia impositiva comunale che è collegato dinamicamente
all’importo della tariffa base nazionale e che non può, in difetto di
contraria previsione, risultare decurtato quando la tariffa base nazionale
viene a sua volta incrementata.
Quindi, per quanto qui interessa,
l’incremento tariffario disposto dalla deliberazione comunale impugnata
rientra (ove correttamente calcolato sulla tariffa base nazionale
modificata) nel limite massimo previsto dalla legge.
Di talchè, una
volta stabilito che la Giunta non ha superato i limiti indicati dalla
legge risulta chiaro che tale organo non ha esorbitato dalle attribuzioni
statutarie.
Il mezzo in rassegna va perciò disatteso.
Inammissibili
sono le deduzioni mediante le quali le appellanti sostengono, richiamando
la sentenza del T.A.R. Palermo n. 1550 del 2009, che in Sicilia la
disciplina dei tributi locali è in ogni caso demandata al consiglio
comunale.
La specifica censura, infatti, non risulta versata, in primo
grado, nel ricorso introduttivo ma in memoria non notificata: di talchè la
doglianza qui proposta configura un inammissibile novum in
appello.
In ogni caso la tesi delle appellanti non è condivisibile, in
quanto questo Consiglio ha anche di recente precisato che il regime delle
attribuzioni degli organi comunali in Sicilia va ricercato nella fonte
statutaria. (CGA n. 45 del 2011).
Del tutto inconferente è il secondo
motivo mediante il quale si deduce la violazione dell’art. 62 della legge
n. 446 del 1997, nella parte in cui limita al 25% l’incremento delle
aliquote applicabili dai comuni che aboliscono l’I.C.P. decidendo di
assoggettare a canone autorizzatorio le iniziative pubblicitarie incidenti
sull’arredo urbano.
In disparte il rilievo che le due diverse forme di
prestazione monetaria sono disciplinate del tutto autonomamente, le
appellanti trascurano di considerare che l’incremento del canone di cui
all’art. 62 va calcolato non sulle tariffe base nazionali ma sulle tariffe
dell’I.C.P. già incrementate in sede comunale.
Infondati sono il terzo,
quarto e quinto motivo con i quali si lamenta l’irragionevolezza
dell’immotivato aumento tariffario disposto dal comune (oltre tutto in via
retroattiva) senza aver previamente consultato le categorie
imprenditoriali interessate.
Al riguardo deve infatti osservarsi per un
verso che l’obbligo di motivazione non riguarda gli atti generali; per
l’altro che nel caso all’esame nessuna previsione giuridicamente
vincolante imponeva al comune di consultare le associazioni esponenziali
delle categorie coinvolte.
Inammissibile, in quanto impinge in
considerazioni di puro merito, è il motivo mediante il quale si deduce che
le aliquote dell’imposta sono state determinate a Palermo in misura
superiore a quella definita nella generalità dei comuni classificati di I
classe.
Con l’ultimo motivo le appellanti censurano la decisione della
Giunta di attribuire immediata esecutività alla delibera impugnata, senza
esplicitare le ragioni in base alle quali l’incremento deliberato doveva
ritenersi urgente.
Il mezzo è inammissibile, dovendosi per costante
giurisprudenza ritenere che l’apprezzamento circa la ricorrenza dei
presupposti dell’urgenza de qua è insindacabilmente riservato alla
sfera discrezionale dell'Amministrazione.
Sulla scorta delle
considerazioni che precedono l’appello va quindi respinto e la sentenza
impugnata va confermata con diversa motivazione e rigetto del ricorso
originario.
Ogni altro motivo od eccezione può essere assorbito in
quanto ininfluente ed irrilevante ai fini della presente
decisione.
Nulla per le spese di questo grado del giudizio, in difetto
di regolare costituzione del comune intimato.
P.Q.M.
Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la
Regione Siciliana, in sede giurisdizionale, definitivamente pronunciando,
respinge l’appello, conferma la sentenza impugnata con diversa motivazione
e per l’effetto rigetta il ricorso originario.
Nulla per le spese di
questo grado del giudizio.
Ordina che la presente decisione sia
eseguita dall’Autorità amministrativa.
Così deciso in Palermo il
19 ottobre 2011 dal Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione
Siciliana in sede giurisdizionale, nella camera di consiglio, con
l'intervento dei signori: Riccardo Virgilio, Presidente, Antonino
Anastasi, estensore, Guido Salemi, Pietro Ciani, Alessandro Corbino,
Componenti.
Depositata in Segreteria
17 gennaio 2012