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n. 10-2013 - © copyright |
MICHELA CATRICALA'
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Trasparenza, tutela della
riservatezza e forme di Stato
Introduzione
Nella storia della
legislazione giuspubblicistica italiana sulla trasparenza
dell’azione amministrativa e sulla tutela del riserbo si registra
una linea tendenziale di non semplice interpretazione. A volte
infatti sembrano prevalere le ragioni della riservatezza e del
segreto, a volte quelle a favore della pubblicità dei dati di cui
sia in possesso la pubblica amministrazione. Un approfondimento di
studio sulla nostra esperienza, anche in chiave di confronto con
ordinamenti giuridici comparabili, può darci il senso
dell’evoluzione già da tempo in atto, non ancora consolidata, in un
quadro che sembra delineato da specifiche discipline di settore ma
che attiene a una questione di carattere generale coinvolgente il
rapporto giuridico-istituzionale tra Stato e cittadino.
La
presenza negli ordinamenti giuridici statali di limitazioni alla
conoscibilità indiscriminata di taluni dati o informazioni è
pressoché costante, sin dal sorgere dello Stato modernamente
inteso[1].
Mentre l’esistenza di un nucleo di disciplina relativa
ai “segreti” si è subito manifestata e non è mai venuta meno, della
tutela della “riservatezza” e delle situazioni che vi sono connesse
gli ordinamenti hanno iniziato a farsi carico soltanto in un secondo
momento.
Per quanto riguarda l’esperienza italiana in
particolare, la protezione della dimensione riservata dell’individuo
si colloca senza dubbio tra i temi che solo negli ultimi decenni
hanno riscosso una crescente attenzione in giurisprudenza e in
dottrina, non lasciando indifferente neppure il legislatore.
Tale
diffuso interesse è stato, peraltro, anticipato da alcune voci
critiche che, sulla scorta del confronto con altri ordinamenti
ritenuti sotto questo riguardo più avanzati, avevano già lamentato
una certa “arretratezza” del sistema italiano di garanzie in
materia. Si era giunti a rilevare e stigmatizzare, in particolare,
la lacunosità che avrebbe caratterizzato le stesse previsioni
costituzionali in tema di diritti che, almeno espressamente,
avrebbero omesso di fornire adeguata protezione a talune esigenze
primarie, tra cui – appunto – quella del singolo alla
riservatezza[2].
Nonostante ciò, non si può seriamente negare che
l’esigenza de qua, se pure all’inizio trascurata o non
adeguatamente considerata a livello ordinamentale, abbia in seguito
conquistato spazi progressivamente maggiori sia nella concreta
conformazione del sistema giuridico, sia – più in generale – nel
discorso pubblico[3].
E ciò si è verificato non soltanto in
relazione al discorso pubblico giuridico: la riservatezza e le
questioni che essa implica, infatti, sono divenute una sorta di verbum commune sul piano sociale in senso lato. Sia
sufficiente rilevare, al riguardo, che perfino il Pontefice
Benedetto XVI ritenne di inserire un breve riferimento alla privacy in una delle ultime allocuzioni, immediatamente
precedente al decorrere degli effetti del suo atto di rinuncia al
pontificato[4].
L’introduzione sul piano normativo di una
esplicita e strutturata regolazione a protezione della riservatezza,
accanto a quella dei segreti già presente, dà modo all’interprete di
elaborare una riflessione dal carattere più ampio e sistematico. Le
problematiche attinenti alla garanzia della privacy, così
come quelle relative al mantenimento dei segreti, infatti,
intersecano inevitabilmente altri profili, assai delicati, che
chiamano in causa taluni aspetti strutturali della complessiva
configurazione dello Stato-ordinamento.
Ciò che emerge,
anzitutto, è la necessità di indagare l’an, ed eventualmente
il quomodo, relativi alla possibilità di distinguere sul
piano delle norme di diritto positivo la conformazione della
riservatezza da quella del segreto, stante il dato che entrambe le
figure giuridiche sembrano convergere verso una stessa finalità di
fondo: il sottrarre determinate notizie o informazioni alla pubblica
divulgazione e circolazione, sia pure nella considerazione che il
segreto rappresenta l’interesse contrario alla conoscenza di una
notizia anche da parte di una sola persona, tutela certamente più
intensa di quella concessa alla riservatezza[5].
Le ragioni che
si pongono alla base della tutela della riservatezza, così come del
segreto, devono altresì confrontarsi con le esigenze antitetiche
derivanti dalla esistenza e dalla rilevanza di “interessi generali o
pubblici”, che richiedono, o talvolta impongono, di ricercare e
diffondere notizie che si riferiscono a soggetti operanti
nell’ambito della realtà sociale”[6].
È, però, molto importante
rilevare come la protezione della privacy e del segreto debba
trovare un’armonica composizione con spinte che sorgano dalla
garanzia accordata dall’ordinamento anche a interessi privati
eventualmente contrari.
È quanto accade, in particolare, se
interessi di tal genere vengano garantiti, come avviene nella
Costituzione italiana, attraverso la generale attribuzione del
diritto a manifestare liberamente il proprio pensiero; ossia,
attraverso la previsione di un diritto che – come ritenuto dalla
migliore dottrina – ha carattere strettamente individualistico,
essendone al titolare assicurato il godimento per “l’appagamento
egoistico dei suoi bisogni e desideri individuali”[7].
Si discute
di un profilo particolarmente delicato soprattutto per quanto
attiene alla riservatezza, poiché in tale caso il punto di
equilibrio tra quest’ultima e la libertà di manifestare il proprio
pensiero non può essere desunto nemmeno richiamando una generica
prevalenza dell’interesse pubblico su quello privato, essendo spesso
privata la natura di entrambe le posizioni giuridiche coinvolte e,
in ipotesi, confliggenti.
Infine, una ricostruzione della
disciplina della riservatezza che voglia almeno tentare di essere
sistematica non può non interrogarsi sul ruolo della Pubblica
Amministrazione in questo ambito. Non può sfuggire la rilevanza di
questo aspetto da almeno due punti di vista. Anzitutto, infatti,
possono verificarsi situazioni in cui la tutela del diritto alla
riservatezza si ponga come un “ostacolo” all’interno di un rapporto
bilaterale tra il privato che ne è portatore e l’Amministrazione. In
simili casi, si tratta di individuare gli strumenti e le forme che
permettano di perseguire l’interesse pubblico di volta in volta
rimesso all’attività dell’Amministrazione, sacrificando nella misura
minore possibile la pretesa del privato di tenere riservati dati,
notizie, informazioni che lo riguardano.
Esistono, tuttavia,
ulteriori ipotesi in cui l’Amministrazione non è soltanto parte di
un rapporto bilaterale del privato con il pubblico, ma
si pone come perno di rapporti trilaterali, o addirittura
multilaterali, che vedono l’incrociarsi del diritto alla
riservatezza di una parte privata con un opposto diritto o
interesse, egualmente protetti, di cui è intestataria un’altra
parte, anch’essa privata.
In casi di questo genere – un cui
esempio paradigmatico è rappresentato dal conflitto che può
insorgere tra le esigenze della privacy e quelle sottese al
diritto di accesso agli atti amministrativi – la modulazione del
diritto alla riservatezza del soggetto privato con il suo minor
sacrificio possibile, non può essere operata dall’Amministrazione
solamente tenendo conto dell’interesse pubblico. Anche l’attività
amministrativa (come quella del legislatore) deve necessariamente
inglobare la valutazione della rilevanza di ulteriori interessi
privati, contraddittori rispetto alla stessa riservatezza,
egualmente e specificamente coinvolti nell’attività di rilevanza
pubblica e fatti valere in concreto. In situazioni siffatte non
sembra del tutto inesatto configurare la posizione della P.A. come
“giustiziale” dal momento che essa viene “chiamata a cercare le
modalità idonee a conciliare e comporre le contrapposte esigenze o a
individuare l’interesse prevalente con conseguente sacrificio di uno
dei due diritti di competizione”[8].
Dalle sommarie notazioni che
precedono, dunque, è possibile evincere che l’inserimento del
diritto alla riservatezza nel contesto normativo, che va ad
affiancarsi alle ipotesi di difesa della segretezza, coinvolge
aspetti e profili che, come si è appena accennato, appaiono
strutturali rispetto alla conformazione dello Stato-ordinamento e
quindi, in definitiva, alla stessa forma di Stato.
Il diritto in
questione, infatti, da un lato estende l’area di “ciò che non può
essere divulgato” (ossia quell’area in precedenza tradizionalmente
rimessa in via esclusiva, come si è detto, alla disciplina dei
segreti); dall’altro lato, pone nuovi e ulteriori limiti sia alle
facoltà dei soggetti privati portatori di interessi contrapposti,
sia all’operare dei pubblici poteri, e in specie
dell’Amministrazione. Almeno in questo senso, pertanto, può essere
condiviso l’autorevole rilievo secondo cui la tutela della privacy appare idonea a influenzare e attraversare “l’intero
arco delle libertà individuali”[9].
La trasparenza negli ordinamenti di altri Paesi
Fermo
restando, per quanto su affermato, che il campo dell’indagine è
molto più vasto, includendo ogni normativa presente nell’ordinamento
sulla tutela del riserbo, dal segreto di Stato a quello
confessionale passando per il segreto istruttorio, il segreto
professionale, il riserbo domestico e altre fattispecie, un test di
prova per capire quale relazione esista tra livello di
partecipazione democratica all’attività dello Stato e tutela della
riservatezza può limitarsi alla disciplina dell’accesso agli atti e
ai documenti della pubblica amministrazione, in particolare a quelli
contenenti dati personali.
Sul tema è utile una breve rassegna
di diritto comparato.
La dottrina sovente cita la disciplina
svedese in tema di accesso agli atti amministrativi come antica
dimostrazione di civiltà giuridica: nel 1776 in Svezia venne
introdotta la legge sulla libertà di stampa
(Tryckfrihetsförordningen), la quale “consentiva a chiunque
di consultare, nonché di stampare e di pubblicare, i documenti
detenuti dal governo statale”, sicché “la pubblica amministrazione
era tenuta a soddisfare le richieste di accesso ai documenti”[10].
Tale legge è tuttora considerata parte del corpus costituzionale dello Stato.
Per effetto di quell’atto
normativo, nel sistema svedese chiunque è considerato abilitato a
chiedere l’accesso ad un documento ufficiale amministrativo (ossia
qualunque documento redatto, conservato o ricevuto
dall’Amministrazione), senza la necessità di dichiarare quale sia lo
specifico interesse, e dunque senza una fornire una motivazione
determinata, al punto tale che non è ritenuto necessario per il
richiedente neppure fornire prova della propria identità
personale[11].
Ciò non toglie che anche nell’ordinamento della
Svezia sussistano limitazioni all’accessibilità amministrativa, in
una serie di ipotesi tassativamente previste, in vista della
protezione di interessi considerati superiori (quale, ad esempio, la
sicurezza nazionale o l’attività di repressione dei reati); tali
ipotesi sono contemplate dalla Sekretesslag (“legge sul
segreto”), entrata in vigore nel 1981 successivamente
modificata.
Diversa è la complessiva situazione normativa nel
sistema spagnolo, in cui pure il diritto di accesso amministrativo è
contemplato al livello costituzionale, benché la sua disciplina di
dettaglio sia rimessa ad un intervento legislativo[12]. Il
legislatore spagnolo ha dato seguito alla previsione costituzionale
soltanto con la l. n. 30/1992 (Ley de Régimen Jurìdico de las
Administraciones Publicas y del Procedimiento Administrativo
Comùn).
Inoltre, la configurazione legislativa così operata
del diritto di accesso risulta essere piuttosto restrittiva: viene
ad esempio stabilita la possibilità di esercitare il diritto
soltanto in quei casi in cui il richiedente sia titolare di un
interesse specifico all’accesso, allo scopo di intraprendere azioni
di tutela di altri diritti di cui è titolare.
La legge del 1992 è
stata successivamente oggetto di integrazioni e modifiche, in
particolare ad opera della l. n. 4/1999, la quale espressamente
qualifica il principio di trasparenza amministrativa quale
principio-cardine nella disciplina dei rapporti tra Amministrazione
ed amministrati.
Tuttavia – è stato rilevato – “la normativa
spagnola, nonostante il riconoscimento costituzionale del diritto di
accesso e nonostante le numerose modifiche alla disciplina
originaria, nell’applicazione concreta non sembra dimostrare un
grado di accessibilità maggiore rispetto all’esperienza degli altri
paesi dell’Europa continentale”[13], ad esempio della Francia.
In
quest’ultimo Paese, infatti, la più significativa fonte che ha
disciplinato il diritto di accesso è rappresentata dalla l. n. 753
del 1978, successivamente oggetto di modificazioni, in particolare
ad opera della l. n. 322 del 2000. Anche nella disciplina francese
l’esercizio del diritto è assicurato a tutti, in relazione a
qualunque atto definitivo adottato dall’amministrazione (quindi con
esclusione degli atti preparatori) e con la previsione, altresì, di
una serie di documenti che, ai sensi dell’art. 6 della l. n.
753/1978, “ne sont pas communicables”, anche in ragione di
esigenze di tutela di aspetti connessi alla vita privata di altri
soggetti.
Tuttavia, la dottrina tende a mettere in luce come il
modello francese di accessibilità, a differenza di quello
statunitense, sarebbe da considerare non particolarmente evoluto. In
particolare, si evidenzia ad esempio che, mentre in altri sistemi
(ad esempio quello nordamericano) oggetto dell’accesso è
l’informazione in possesso dell’Amministrazione, nell’impianto
francese il diritto può essere indirizzato esclusivamente nei
riguardi del documento[14].
Più in generale, viene sottolineato
che l’impostazione francese risentirebbe di un carattere
“autoritario”, di natura sistematica, nella disciplina dei rapporti
tra soggetto pubblico e soggetto privato, sicché “l’impressione
generale è di una normativa che, combattendo contro una
giurisprudenza spesso restia a favorire la trasparenza dell’attività
amministrativa, sembra essere stata elaborata più nella prospettiva
di tutelare il potere pubblico che non in quella di garanzia del
cittadino”[15].
Nel Regno Unito “la disciplina legislativa di
tutela dei dati personali ha preceduto quella dell’accesso”[16], la
quale ultima può dirsi introdotta nel sistema soltanto con il Freedom of Information Act del 2000[17], peraltro entrato in
vigore nella sua integralità soltanto a partire dal 2005.
Il FOIA
britannico attribuisce ai cittadini il diritto di accesso, inteso
come il diritto di chiunque, indipendentemente dalla cittadinanza,
di chiedere al Foreing and Commonwealth Office o ad altri
organi pubblici, le informazioni che siano dagli stessi detenute;
aspetto rilevante della disciplina è, altresì, “che non occorre
motivare la richiesta, per cui si dice che essa è purpose
blind”[18].
Tuttavia, la parte II dell’atto normativo prevede
diverse exemptions, ossia una serie di ipotesi in cui
l’accesso possa essere negato dall’autorità richiesta; come è stato
sottolineato, si tratta di un novero di ipotesi particolarmente
esteso e ad ampio spettro[19].
Ciò dovrebbe pertanto indurre
alla cautela nell’indicare il modello britannico quale sistema in
cui la full disclosure abbia raggiunto una delle forme di
maggiore ampiezza. Al riguardo in dottrina si è anzi rilevato come
“nel sistema britannico non sia stato ancora riconosciuto il diritto
di accesso e il correlato obbligo di divulgazione per
l’amministrazione come principio generale, permanendo ancora
l’applicazione della regola del segreto”[20].
L’esperienza degli
Stati Uniti d’America è non di rado tuttora indicata anche in Italia
come modello cui validamente ispirarsi[21]. In tale ordinamento,
infatti, è stato introdotto nel 1966 il Freedom of Information
Act (FOIA)[22], per effetto del quale il principio accolto nel
sistema è quello della c.d. disclosure, vale a dire
dell’obbligo da parte di ogni federal agency di mettere a
disposizione dei cittadini qualunque documento o informazione sia
nella sua disponibilità[23].
Ciò non significa, peraltro, che il
sistema statunitense sia caratterizzato da una full
disclosure priva di limiti[24]: al contrario, il FOIA contempla
una serie di exemptions, ossia di casi in cui l’obbligo di
garantire l’accessibilità è da ritenersi non operante per le agenzie
federali[25]; a ciò si aggiunga che il legislatore, con l’avallo
della Corte Suprema, è intervenuto a partire dal 2001 ad ampliare la
portata di tali casi attraverso le nuove normative finalizzate al
contrasto al terrorismo[26].
L’esperienza
italiana
Nel nostro Paese in passato l’Amministrazione
pubblica ha goduto di una generale posizione di supremazia nella
gestione degli atti amministrativi e dei dati in essi contenuti e
anche la sua organizzazione di tipo gerarchico si basava,
essenzialmente, sul segreto[27]. La segretezza, in questo ambito,
era espressione di un principio che riguardava tanto l’assetto
interno dell’amministrazione, quanto i suoi rapporti con i soggetti
terzi[28].
Negli ultimi decenni, invece, a fronte della richiesta
crescente di economicità, efficienza e pubblicità dell’azione
amministrativa, si afferma il principio di trasparenza, intesa sia
come strumento a tutela della collettività, sia come mezzo di
garanzia della posizione giuridica dell’interessato al
procedimento[29].
Per l’effetto, il segreto amministrativo,
«da regola diviene eccezione»[30], con la conseguenza che il
suo ambito di operatività non è più collegato alla qualità del
soggetto coinvolto (appunto, l’Amministrazione), quanto piuttosto al
contenuto delle informazioni che possono essere oggetto di segreto,
nella misura in cui la loro divulgazione possa provocare la lesione
di determinati interessi[31].
La legge n. 241/1990 (“Nuove
norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di
accesso ai documenti amministrativi”), segna una tappa decisiva
verso una nuova concezione dell’azione amministrativa[32], nella
quale si affermano, in linea con la sempre più avvertita necessità
di massima circolazione e trasparenza delle informazioni, differenti
istituti, quali la figura del responsabile del procedimento,
interlocutore diretto nei rapporti tra P.A. e privati, l’obbligo di
comunicazione di avvio del procedimento, e il diritto di accesso
agli atti amministrativi[33].
Quest’ultimo, in particolare, si
configura quale principio generale dell’attività amministrativa,
volto ad assicurarne l’imparzialità e il buon andamento ex art. 97 Cost.[34].
La legge sul procedimento amministrativo
ha contribuito in modo determinante a delineare un nuovo modo di
esercizio dei pubblici poteri nello Stato
liberaldemocratico.
Dalla concezione autoritativa del rapporto
tra pubblica amministrazione e privato cittadino, si passa a una
visione delle dinamiche pubblico-privato, in cui i due soggetti
tendenzialmente si muovono in maniera paritaria e godono comunque di
pari dignità; inoltre, viene dato nuovo valore alla
funzionalizzazione dell’azione amministrativa, che trova la sua
ragione d’essere nella efficiente soddisfazione delle esigenze del
cittadino-utente con cui si relaziona.
In questa nuova visione
rientrano sia l’enunciazione dell’obbligo di provvedere della
pubblica amministrazione, che garantisce i cittadini dall’inerzia
dei pubblici poteri, sia la piena responsabilizzazione dei soggetti
che agiscono in nome dell’Amministrazione, garantita dalla
individuazione del responsabile del procedimento.
Inoltre, sono
stati introdotti istituti volti ad assicurare maggiore efficacia ed
efficienza all’azione amministrativa, consentendosi il ricorso a
strumenti tratti dal diritto privato e ampliandosi le ipotesi di
partecipazione diretta del cittadino alle scelte operate
dall’amministrazione.
È l’introduzione del principio di
pubblicità e trasparenza dell’azione amministrativa a far sì che la
segretezza dei documenti non possa più essere intesa in senso
soggettivo.
Al riguardo il Consiglio di Stato, occupandosi del
rapporto tra accesso e riservatezza, ha più volte avuto modo di
affermare che «la segretezza permane non come predicato soggettivo,
ma come requisito oggettivo del documento», che, conseguentemente,
non può essere considerato segreto per il fatto di appartenere alla
pubblica amministrazione, ma per il peculiare tipo di notizie
racchiuse in esso[35].
Nel nuovo modus operandi l’amministrazione deve garantire la piena trasparenza del proprio
agire, curando l’interesse pubblico in maniera da rendere sempre
conoscibile l’iter formativo delle proprie decisioni, anche al fine
di salvaguardare gli interessi privati coinvolti.
Al cittadino è
riconosciuta ampia possibilità di accedere agli atti in possesso
della pubblica amministrazione, al fine di tutelare i propri
interessi.
Proprio sulla scorta di queste considerazioni è
possibile affermare, pertanto, quanto si è accennato: ossia che il
segreto, con l’entrata in vigore dell’atto normativo in parola, ha
perso definitivamente la valenza di canone dell’operato della
pubblica amministrazione e non occupa più una posizione se non
residuale; è possibile invocare la necessità del segreto solo nei
casi in cui vi sia l’esigenza reale di tutelare delicati interessi
pubblici; esigenza che, tra l’altro, deve essere normativamente
considerata prevalente sul diritto di accesso[36].
Conseguentemente, il diritto di accesso ai documenti
amministrativi è funzionale ad assicurare esigenze di carattere
generale (quali quelle dell’imparzialità e del buon andamento
dell’amministrazione) e costituisce una posizione giuridica
soggettiva che gode di una specifica tutela riconosciuta
dall’ordinamento.[37] Le ipotesi eccezionali di tutela del segreto
proteggono interessi di natura diversa da quelli di generica
gestione amministrativa[38].
Quando c’è un controinteressato
all’accesso che invoca riservatezza occorre però ribadire che si
tratta di due posizioni giuridiche costituzionalmente rilevanti: il
diritto di accesso, infatti, trova il proprio fondamento negli artt.
96 e 97 Cost.[39], il diritto alla riservatezza viene considerato,
soprattutto dalla giurisprudenza, un diritto inviolabile dell’uomo ex art. 2 Cost. (v. supra, cap. I, par. 2).
I due
diritti hanno certamente aree di contatto, dal momento che tra i
presupposti richiesti per la loro la tutela si trova l’esigenza di
assicurare la trasparenza e l’imparzialità dell’attività
amministrativa e quindi la necessità di rendere controllabile
l’operato dei soggetti che detengono dati personali nello
svolgimento di un’attività correlata al perseguimento di un
interesse pubblico. Ma è altrettanto chiaro che i due diritti sono
antitetici nel momento in cui uno di essi tutela la trasparenza e la
pubblicità dell’azione amministrativa, l’altro si pone a difesa del
riserbo e della non divulgazione dei dati attinenti alla sfera
personale di un soggetto. Da qui il delicato problema di come
conciliare l’interesse pubblico alla trasparenza dell’attività
amministrativa e i diritti della personalità correlati alla
riservatezza: problema che determina, altresì, l’esigenza per il
legislatore di intervenire al fine di trovare un punto di
mediazione.
La possibilità riconosciuta agli individui di
conoscere gli atti coinvolti nell’esercizio del potere
amministrativo ha depauperato anche la sfera privata dei cittadini,
ai quali per converso si attribuisce una maggiore tutela della
riservatezza.
Gli interventi legislativi che in anni recenti
hanno modificato la disciplina del diritto di accesso hanno tentato,
per lo più, di contemperare le opposte esigenze di garanzia
dell’accesso ai documenti e di tutela del riserbo[40].
In
giurisprudenza particolarmente interessante è la sentenza della
Corte costituzionale n. 32/2005, ma non meno rilevanti risultano
numerose decisioni del giudice amministrativo[41] che hanno tentato
di risolvere il problema, in particolare muovendosi nell’ottica di
una interpretazione delle norme costituzionalmente orientata.
In
sostanza, può ritenersi che i profili più problematici consistono
proprio nel rapporto tra accesso e protezione della riservatezza dei
soggetti coinvolti nelle vicende che, di volta in volta, possono
divenire oggetto di conoscenza o divulgazione.
L’analisi del
rapporto conduce ad analizzare le conseguenze sistematiche che in
materia hanno apportato le più recenti introduzioni normative: ci si
riferisce, in particolare, al d.lgs. n. 196/2003 (Codice in
materia di trattamento dei dati personali)[42], e alla l. n.
15/2005, già citata in nota 108. Questi interventi hanno comportato
un riesame degli equilibri fra interesse all’accesso e interesse
alla riservatezza del controinteressato, equilibri che in passato,
vigente la sola l. n. 241/1990, tendevano al favore per il diritto
all’accesso.
In particolare, con la l. n. 15/2005 il legislatore
ha riproposto la questione del bilanciamento e ha cercato di
razionalizzare i casi di esclusione del diritto di accesso
inserendoli in un’unica disposizione.
Le limitazioni sono
rivolte all’esigenza di tutelare la segretezza di documenti
amministrativi, sia nell’interesse pubblico che nell’interesse di
terzi. Pertanto, il regime di esclusione è frutto di scelte e
valutazioni effettuate direttamente dal legislatore in relazione a
interessi prevalenti. In presenza di quei limiti l’amministrazione è
obbligata a dare risposta negativa alla richiesta d’accesso. Le
fattispecie legali, previste dall’art. 24, comma 1, della l. n.
241/1990, così come rivisitate dalla l. n. 15/2005, hanno quindi
carattere oggettivo e tassativo.
Il primo comma dell’art. 24,
amplia, rispetto alla disciplina precedente, la categoria dei
documenti esclusi dall’accesso, tra questi i documenti coperti da
segreto di stato, i procedimenti tributari e l’attività della
pubblica amministrazione diretta all’emanazione di atti normativi,
amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione,
nonché i procedimenti selettivi con riferimento ai documenti recanti
informazioni psico-attitudinali relative ai terzi.
La stessa
legge prescrive al comma 5 del citato art. 24 che quei documenti
«sono considerati segreti solo nell’ambito e nei limiti di tale
connessione» e «a tal fine le pubbliche amministrazioni
fissano, per ogni categoria di documenti, anche l’eventuale periodo
di tempo per il quale essi sono sottratti
all’accesso».
Sempre l’art. 24, al comma 2, prevede che le
singole amministrazioni individuino mediante propri regolamenti
«le categorie di documenti da esse formati o comunque rientranti
nella loro disponibilità sottratti all’accesso». La disposizione
è ribadita dall’art. 23 della l. n. 15/2005: ciascuna
amministrazione deve render note, mediante emanazione di propri
regolamenti, le categorie degli atti sottratti all’accesso in
maniera preventiva.
Con la riforma operata dalla l. n. 15/2005 è
stato anche sancito che non sono ammissibili istanze di accesso
finalizzate a un controllo generalizzato dell’operato delle
pubbliche amministrazioni.
Il diritto di accesso, infatti, è uno
strumento a tutela degli interesse concreti dei cittadini e non può
comportare un controllo generalizzato e indiscriminato dell’operato
della pubblica amministrazione, né può trasformarsi in uno strumento
di ispezione popolare sull’imparzialità dell’attività
amministrativa[43]. Si è anche osservato, in giurisprudenza, che
l’accesso non può in nessun caso diventare lo strumento per poter
reiterare richieste pretestuose concernenti i documenti del medesimo
procedimento[44] e che «nel caso in cui l’istanza di accesso agli
atti postuli un’attività valutativa ed elaborativa dei dati in
possesso dell’amministrazione, è precluso il suo accoglimento,
poiché, in tal caso, l’istanza stessa rileva un fine di generale
controllo sull’attività amministrativa che non risponde alle
finalità per la quale lo specifico strumento in parola viene
azionato, che è solo quella della tutela di un ben specifico
interesse»[45]. Inoltre, «deve essere escluso che il diritto
d’accesso garantisca un potere esplorativo o di vigilanza, da
esercitare attraverso l’acquisizione conoscitiva di atti o
documenti, al fine di stabilire se l’attività amministrativa possa
ritenersi svolta secondo i canoni di trasparenza e di
legalità»[46].
L’intento del legislatore di assicurare la
massima trasparenza nell’azione amministrativa a tutela degli
interessi del cittadino trova conferma anche nella nuova
formulazione del comma 7 dell’art. 24 della l. n. 241/1990, che
sicuramente rappresenta la novità più rilevante della nuova
normativa. Infatti, il legislatore ha fissato il principio generale
secondo cui l’esigenza di curare e difendere i propri interessi
giuridici acquista rilievo in tutti i casi possibili di esclusione
del diritto di accesso. Le uniche eccezioni previste sono proprio in
materia di dati personali, con il rinvio al relativo Codice, d.lgs.
n. 196/2003.
A questo punto, diviene particolarmente utile
chiarire l’esatta portata della nozione di “accesso” alla luce della
novella del 2005.
In primo luogo, il novellato art. 22 della l.
n. 241/1990, rubricato «Definizioni e principi in materia di
accesso», fornisce una serie di definizioni che hanno apportato
modifiche sostanziali alla precedente disciplina.
La disposizione
menzionata chiarisce che per controinteressati devono intendersi
«tutti i soggetti, individuati o facilmente individuabili in base
alla natura del documento richiesto, che dall’esercizio all’accesso
vedrebbero compromesso il loro diritto alla
riservatezza».
Inoltre, la lett. b) dello stesso art.
22 definisce soggetti interessati (o istanti) «tutti i soggetti
privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi,
che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente
a una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al
quale è chiesto l’accesso». La norma pone una prima,
sostanziale, differenza, rispetto al regime di accesso precedente,
ove lo stesso veniva riconosciuto «a chiunque vi abbia interesse
per la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti». Dunque, a
giustificare la richiesta di accesso è necessaria, la titolarità di
una situazione «tutelata» e non più solo «rilevante»; inoltre,
l’interesse all’accesso deve essere «personale», e dunque può avere
a oggetto soltanto quegli atti che si riferiscono all’istante, di
cui egli intenda avvalersi per la tutela di una propria posizione
soggettiva giuridicamente tutelata.
L’interesse all’accesso deve
essere «attuale», cioè deve sussistere al momento della
presentazione dell’istanza, e «concreto», nel senso che il
richiedente deve potersi avvalere del documento di cui si chiede
l’accesso, pena, in caso di diniego, la lesione di interessi
protetti.
In definitiva, la nuova formulazione dell’art. 22 l. n.
241/1990, richiedendo che l’interesse dell’istante sia sotteso a una
situazione soggettiva «tutelata» e non meramente «rilevante», appare
più restrittivo rispetto a quanto previsto dall’originaria
formulazione della medesima disposizione, sebbene sia stato chiarito
in dottrina che la riforma ha, di fatto, recepito l’orientamento
giurisprudenziale sul punto[47] su una disciplina definita dalla
dottrina tra le più infelici[48].
Frutto del recepimento di
principi affermatisi in sede giurisprudenziale[49], è la successiva
lett. c) dell’art. 22, ove si definiscono pubbliche
amministrazioni «tutti i soggetti di diritto pubblico e i
soggetti di diritto privato limitatamente alla loro attività di
pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o
privatistica della loro disciplina sostanziale», e si
considerano, pertanto, suscettibili di ostensione, anche gli atti
provenienti da soggetti privati, allorché abbiano avuto incidenza
nelle determinazioni
amministrative.
Conclusioni
Possiamo
quindi affermare che il nostro ordinamento amministrativo sia ormai
all’avanguardia nella garanzia della più ampia conoscibilità di dati
detenuti dallo Stato. Se è possibile utilizzare la misura
dell’accessibilità per valutazioni di carattere più generale
possiamo notare come nelle ipotesi in cui l’ordinamento si dà carico
di garantire il riserbo – attraverso conseguenti limitazioni alla
divulgabilità di dati, notizie e informazioni – nettamente
prevalenti risultano i casi nei quali la finalità di tali interventi
protettivi consiste nella garanzia del soggetto privato, tanto
rispetto agli altri consociati, quanto rispetto alla autorità
pubblica. Basti considerare che lo stesso concetto di riservatezza
nasce e si sviluppa a livello ordinamentale allo specifico scopo di
difendere significativi aspetti della individualità del singolo nei
riguardi della società, nelle sue componenti sia pubbliche che
private, in cui il medesimo si trova inserito[50].
Nel nostro
Paese assumono invece un rilievo decisamente recessivo le ipotesi,
tassative e non numerose benché rilevanti, nelle quali il riserbo,
nella forma più stringente del segreto, viene imposto in vista del
perseguimento di obiettivi di rilevanza pubblicistica (si pensi al
segreto di Stato o al segreto istruttorio)[51].
L’esistenza di
una dialettica tra “riserbo” e “conoscibilità”, tra “segretezza” e
“pubblicità” all’interno degli ordinamenti giuridici statali si può
dire caratterizzante lo Stato modernamente inteso, sin dal suo
sorgere nella conformazione di Stato assoluto. Ciò che invece appare
progressivamente e significativamente mutato, nei passaggi dallo
Stato assoluto allo Stato di diritto e alle progressive evoluzioni
di quest’ultimo, è la finalità che sottende tanto
l’imposizione del riserbo quanto la prescrizione della pubblicità in
ordine a determinate informazioni.
In particolare, nelle forme di
Stato più rudimentali e carenti dal punto di vista della tutela
della posizione del singolo nei riguardi dell’autorità pubblica, le
ipotesi di riserbo o di segretezza rilevanti per l’ordinamento sono
individuabili esclusivamente sulla base di esigenze pubblicistiche.
Nello Stato assoluto, cioè, non solo ogni limitazione alla
conoscibilità di informazioni è posta nell’interesse dello Stato –
ha natura dunque di segreto di Stato – ma la stessa limitazione può
essere tendenzialmente estesa a ogni atto che l’autorità ritenga
debba essere sottratto alla pubblica cognizione[52].
Al
contrario, nello Stato di diritto – soprattutto nelle sue versioni
più recenti, in cui il modello risulta perfezionato dal punto di
vista dell’architettura liberal-democratica – per l’azione pubblica
“la pubblicità è la regola, il segreto l’eccezione”[53]: una regola
di estrema rilevanza anche al fine di salvaguardare il punto di
equilibrio nella separazione dei poteri[54].
Del resto, la
diversità di ruolo che la segretezza, richiesta in vista del
perseguimento dell’interesse pubblico (reale o presunto), assume
nello Stato assoluto e nello Stato di diritto può essere agevolmente
colta già nelle pagine di due tra i primi eminenti teorici,
rispettivamente, dell’una e dell’altra forma di Stato.
Per quanto
riguarda l’assolutismo, particolarmente significativo è un passaggio
contenuto nel Leviatano di Thomas Hobbes, il quale ritiene
preferibile la monarchia assoluta rispetto ad un sistema in cui
siano sovrane le assemblee rappresentative anche per la seguente
ragione: “un monarca riceve consiglio da chi, quando e dove gi
piace; di conseguenza può ascoltare l’opinione di uomini versati
nella materia su cui egli delibera di qualsiasi rango e qualità,
quanto tempo prima dell’azione, e con quanta segretezza voglia”,
mentre non c’è “alcun luogo o tempo in cui un’assemblea, a causa
della sua pluralità, possa ricevere consiglio in
segreto”[55].
Invece, all’interno di una riflessione che in nuce già si svolge nell’ottica dello Stato di diritto,
nello scritto postumo su La scienza delle Costituzioni, Gian
Domenico Romagnosi afferma che “tutto prova la necessità e il
diritto di un’assoluta pubblicità degli atti dell’amministrazione,
della completa libertà, pubblicità e circolazione delle opinioni
sulla legislazione ed amministrazione dello Stato”; e aggiunge
che “le eccezioni sono poche, e debbono essere sanzionate dalla
legge”[56].
Appare dunque chiaro che, sin dall’origine, il
superamento dell’assolutismo da parte dello Stato di diritto passa
anche attraverso la generale conoscibilità degli atti (e,
soprattutto, dei procedimenti e delle informazioni che ne sono alla
base) attraverso i quali si manifestano le articolazioni funzionali
del pubblico potere; tale conoscibilità rappresenta il principio,
mentre le puntuali e limitate restrizioni ad essa si pongono come
deroghe[57].
Tuttavia, in subiecta materia, l’evoluzione
dello Stato di diritto non si arresta a questo dato, pur essenziale
ed ampiamente e diffusamente messo in luce dalla dottrina. Gli esiti
più compiuti di tale forma di Stato, infatti, non si limitano alla
imposizione ordinamentale di una generale pubblicità dell’agire
pubblico, invertendo soltanto da questo punto di vista un assunto
fondamentale dello Stato assoluto e configurando le ipotesi di
segretezza come eccezioni da interpretare stricto sensu; a
ciò deve aggiungersi – sempre in termini di principio – una generale
tutela della riservatezza del soggetto privato, per finalità che
sono strettamente connesse alla individualità del singolo.
In
altri termini, la dialettica tra “riserbo” e “conoscibilità” cui si
è sopra accennato, nelle manifestazioni meno imperfette dello Stato
di diritto non viene superata mediante l’affermazione di un
generalizzato favor per l’incontrastata circolazione di dati,
notizie e informazioni: ciò vale, infatti, esclusivamente in
relazione al versante degli apparati pubblici. Ma accanto a questo
risultato, si pone il riconoscimento del principio opposto per
quanto riguarda la posizione del singolo all’interno del sistema
giuridico: in questo caso, l’ordinamento esprime, infatti, una
tendenziale valutazione di sfavore verso l’indiscriminata
circolazione di notizie, dati, informazioni che riguardino il
privato, uti singulus considerato.
Deve pertanto ritenersi
che gli ordinamenti statali più avanzati non eliminano
semplicisticamente la tensione tra riserbo e pubblicità a favore
dell’uno o dell’altro polo: semmai, ne capovolgono i termini
rispetto alle forme assolutistiche, ponendo a carico degli apparati
pubblici la soddisfazione delle esigenze di conoscibilità e,
contestualmente, a beneficio dei soggetti privati la garanzia delle
loro esigenze di riserbo[58].
In sostanza, come è stato
autorevolmente rilevato con riguardo agli impianti statali
democratici: “L’apparato della democrazia ha per regola la
trasparenza, e il segreto costituisce un’eccezione. I diritti
costituzionalmente garantiti al soggetto privato in democrazia hanno
per regola la privacy e per eccezione la pubblicità”[59].
Proprio condividendo tale considerazione, dunque, è possibile
sostenere che la tutela del diritto alla riservatezza finisce con il
riverberarsi sulla stessa configurazione della forma di Stato.
Se
il rilievo appena formulato è esatto, è necessario trarne una
conseguenza ulteriore: la previsione e il grado di protezione del
diritto alla riservatezza all’interno di un dato ordinamento, che si
richiami al modello dello Stato di diritto, possono rappresentare un
valido “strumento di misurazione” del livello di compiutezza
complessiva dell’ordinamento stesso rispetto al modello.
In
questa prospettiva, la garanzia giuridica della privacy non
si pone soltanto come una delle “voci” di cui si compone,
genericamente e indifferentemente, il catalogo dei diritti che un
sistema accorda al singolo. In maniera più penetrante, essa assume
invece una chiara valenza qualificatoria dell’intero ordinamento,
sicché dalla sua presenza – o dalla sua assenza – debbono desumersi
significativi elementi di valutazione inerenti al sistema nel suo
insieme.
Si vuole intendere che la protezione della
riservatezza, al pari della garanzia di altri basilari diritti di
libertà, contribuisce in maniera determinante all’affermazione in un
ordinamento del principio per cui l’organizzazione ed il
funzionamento dei pubblici poteri sono costitutivamente strumentali
rispetto alla tutela della persona. Ossia di quel principio che, con
riguardo all’ordinamento costituzionale italiano, ha
tradizionalmente assunto il nome di “principio personalistico” e
trova espressione nell’art. 2 Cost.[60]. Non si vede, infatti, come
possa ritenersi posta al centro del sistema la tutela della persona
senza che, congiuntamente, si difenda la privacy intesa quale
“spazio vitale senza il quale la persona umana non può svilupparsi
in armonia con i postulati della dignità umana”[61].
Quanto
appena rilevato porta con sé un duplice corollario. Anzitutto, in un
ordinamento che a livello costituzionale affermi il suo essere
improntato al principio personalistico, non può mancare – a pena di
macroscopica incoerenza – la contestuale introduzione di adeguati
strumenti di difesa della sfera di riservatezza del
singolo[62].
Inoltre, posto che il principio personalistico sia
da inserire nel novero dei principi costituzionali che non possono
essere espunti dall’ordinamento neppure facendo ricorso al
procedimento di revisione costituzionale (come sembra persuasivo
ritenere in relazione al sistema italiano[63]), ogni intervento
legislativo che miri ad eliminare o a svuotare di contenuto la
protezione della riservatezza deve ritenersi costituzionalmente
illegittimo. Così come, all’inverso, debbono essere considerati
attuativi della Costituzione (rectius: del principio
personalistico in essa affermato) quegli interventi normativi che si
propongano di rafforzare ed accrescere il grado di difesa della
dimensione privata del singolo, tanto più in considerazione degli
inediti pericoli che per essa possano derivare dai progressi
tecnologici, anche e soprattutto lungo il versante
informatico[64].
Non sembra dunque eccessivo affermare,
conclusivamente, che i legami tra la garanzia della riservatezza e
gli esisti più maturi attualmente raggiunti nella configurazione
della forma di Stato siano strettissimi; al punto tale che ogni
arretramento sul piano della tutela della privacy appare
destinato a tradursi, inevitabilmente, in un indebolimento della
struttura garantistica che caratterizza, nel suo complesso, lo Stato
di diritto contemporaneo.
Se una sintesi è possibile, con un
certo timore, ma avendo a supporto anche le esperienze di
ordinamenti notoriamente non autoritari, potrebbe avanzarsi la
conclusione che la democrazia di una nazione si misura non solo con
riferimento al grado di disclosure che si fa delle notizie e
dei dati di cui è in possesso l’apparato statale, ma dalla capacità
di contemperamento dell’esigenza di pubblicità con quella
altrettanto rilevante di riservatezza dei dati personali del
singolo.
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[1] Si utilizza l’espressione “Stato modernamente
inteso” nel senso in cui è impiegata da V. Crisafulli, Lezioni di
diritto costituzionale, I, Padova, 1970, p. 52 e ss., ossia per
indicare lo Stato “così come si presenta nell’era moderna”, ossia in
“una fase storica relativamente recente, della quale si può assumere
convenzionalmente come punto di partenza (beninteso, con larga
approssimazione) la pace di Westfalia (1648)”. Con quel trattato
infatti si configura un concetto di sovranità dello Stato da far
valere anche nei confronti degli altri Stati.
[2] In termini di
“insufficienza della Costituzione rispetto ai problemi delle libertà
civili” si esprimeva, ad es., A. Barbera, Art. 2, in G.
Branca (a cura di), Commentario della Costituzione. Principi
fondamentali, Bologna-Roma, 1977, p. 61.
[3] Che il
disinteresse dell’ordinamento italiano per la protezione della
riservatezza potesse essere considerato o reale o soltanto
apparente, a seconda delle prospettive interpretative, è confermato
dall’evoluzione giurisprudenziale in materia: evoluzione che si era
determinata già prima degli interventi additivi del legislatore e,
dunque, a diritto vigente invariato. Sia sufficiente porre a
confronto due pronunce della Corte di Cassazione, intervenute a
circa un ventennio di distanza: nella sent. n. 4487 del 1956 (in Foro it., 1957, I, p. 9 e ss.) la Corte affermava che
“nell’ordinamento giuridico italiano non esiste un diritto alla
riservatezza, ma soltanto sono riconosciuti e tutelati, in modi
diversi, singoli diritti soggettivi della persona”; nella sent.
n. 2129 del 1975 (in Foro it., 1976, I, p. 2895 e ss.),
all’opposto, si riteneva che “il nostro ordinamento riconosce il
diritto alla riservatezza, che consiste nella tutela di quelle
situazioni e vicende strettamente personali e familiari le quali,
anche se verificatesi fuori del domicilio domestico, non hanno per i
terzi un interesse socialmente apprezzabile”.
[4] Si tratta
del discorso tenuto in occasione dell’ultima Udienza generale, in
piazza San Pietro, il 27 febbraio 2013, in cui è contenuto il
seguente passaggio: “Sempre – chi assume il ministero petrino non
ha più alcuna privacy”; il discorso è reperibile al seguente
indirizzo web: http://www.vatican.va/holy_father/benedict/_xvi/audiences/2013/documents/hf_ben-xvi_aud_20130227_it.html.
[5] Peraltro, neppure la figura giuridica del segreto, benché
assistita – come accennato – da una più lunga tradizione
nell’ordinamento italiano, si è potuta sottrarre, nel corso del
tempo, a penetranti riconsiderazioni; con particolare riguardo al
ripensamento del “segreto di Stato”, in una prospettiva di diritto
comparato, già sul finire degli anni Settanta del secolo scorso
veniva messo in luce come esso rappresentasse “un sintomo
dell’evoluzione che stanno subendo i rapporti tra Stato e società
civile e dell’importanza che in un’ipotesi di corretta struttura
democratica riveste il problema dell’informazione dei cittadini”:
così R. Gambini Musso, Uno sguardo alla tematica dei rapporti tra
segreto di Stato e processo nell’esperienza anglo-americana, in
M. Chiavario (a cura di), Segreto di Stato e giustizia
penale, Bologna, 1978, p. 115.
[6] In questi termini G.
Giacobbe, Riservatezza (diritto alla), in Enc. Dir.,
XL, Milano, 1989, p. 1243 e ss.
[7] Come rilevato nelle pagine,
oramai classiche, dedicate al tema da C. Esposito, La libertà di
manifestazione del pensiero nell’ordinamento italiano, Milano,
1958, passim, part. p. 8.
[8] Così A. Ferrucci, Diritto di
accesso e riservatezza: osservazioni sulle modifiche alla l.
241/90, 2005, par. 6, in www.giustamm.it; in verità l’A.
esprime la notazione riportata soltanto con riguardo alla
formulazione del previgente art. 24, comma 2, legge n. 241/1990.
Cfr. anche G. Arena, Il segreto amministrativo. Profili
teorici, Padova, 1984, p. 70, citando P. Gulphe, Rapport sur
le secret professionnel en droit français, in Le secret et le
droit. Travaux de l’Association H. Capitant, XXV, Parigi, 1974,
p. 116, «è necessario tener presente che ogni segreto può
proteggere, in momenti diversi o contemporaneamente, più di un
interesse; pertanto è necessario di volta in volta individuare quale
sia in quel momento l’interesse protetto in via primaria e, dunque,
il soggetto che in quella fase è il vero “maitre du secret”».
[9] Così A. Baldassarre, Privacy e Costituzione, Roma,
1974, p. 472.
[10] Così S. Battini, B. G. Mattarella, A.
Sandulli, Il procedimento, in G. Napolitano (a cura di), Diritto amministrativo comparato, Milano, 2007, p. 161, i
quali parlano espressamente di “origini scandinave” dell’open
governement.
[11] Cfr. Presidenza del Consiglio dei Ministri
(a cura di), L’accesso ai documenti amministrativi 12.2,
Roma, 2009, p. 15.
[12] L’art. 105, lett. b), della Costituzione
spagnola del 1978 stabilisce che “la ley regularà […] el
acceso de los ciudadanos a los archivos y registros administrativos,
salvo en lo que afecte a la seguridad y defensa del Estado, la
averiguación de los delitos y la intimidad de las personas”.
[13] Per questa considerazione, cfr. A. Bonomo, La
trasparenza amministrativa: riflessioni di diritto comparato, in Annali delle Facoltà di Giurisprudenza di Taranto, n. 2,
Bari, 2008, p. 69.
[14] In questo senso, ad es., E. Carloni, La “casa di vetro” e le riforme. Modelli e paradossi della
trasparenza amministrativa, in Diritto pubblico, 2009,
pp. 779 ss., part. pp. 784 ss., il quale evidenzia altresì
l’influenza, non valutata positivamente, che il modello francese ha
esercitato nei riguardi del legislatore italiano del 1990.
[15]
Così A. Bonomo, La trasparenza amministrativa: riflessioni di
diritto comparato, cit., p. 67.
[16] Così A. Bonomo, La
trasparenza amministrativa: riflessioni di diritto comparato,
cit., pp. 55 ss., part. p. 62; la legge britannica in tema di
protezione dei dati personali è, invece, anteriore di circa un
ventennio: si tratta del Data Protection Act del 1984.
[17] Freedom of Information Act 2000, Chapter 36.
[18] Cfr.
Presidenza del Consiglio dei Ministri (a cura di), L’accesso ai
documenti amministrativi 10.1, Roma, 2006, p. 45.
[19] V. al
riguardo N. Turchini, Trasparenza e accesso nell’esperienza
inglese, in F. Merloni (a cura di), La trasparenza
amministrativa, Milano, 2008, pp. 499 ss., part. pp. 520 ss.;
l’A. evidenzia, altresì, (p. 524) come l’art. 44 del FOIA britannico
preveda che “il duty to confirm or deny così come il dovere
di divulgazione siano soggetti a esenzione assoluta laddove il loro
adempimento sia proibito dalla legge”, sicché “quella che potrebbe
sembrare una semplice formula di chiusura stabilisce in realtà che
il FOIA non influisce di per sé sulle precedenti norme che
limitavano o negavano il diritto di accesso”.
[20] In questi
termini A. Bonomo, La trasparenza amministrativa: riflessioni di
diritto comparato, cit., p. 64.
[21] Cfr. ad es. il sito www.foia.it, in cui sono illustrate le proposte portate
avanti da Iniziativa per l’adozione di un Freedom of Information
Act in Italia, una rete di associazioni e di singoli di cui
fanno parte anche eminenti giuristi (tra cui Gregorio Arena, Enzo
Cheli, Valerio Onida, Aldo Sandulli). Cfr., ad es., la Relazione di
accompagnamento della proposta di legge (A.S. 2045) presentata al
Senato della Repubblica il 2 marzo 2010, nel corso della XVI
legislatura, dal senatore Pietro Ichino ed altri, in cui si afferma
che “un principio di trasparenza totale, ispirato ai principi della full disclosure già da tempo praticata dagli anni ’70 in
Svezia e poi negli Stati Uniti d’America e in Gran Bretagna con i Freedom of Information Acts, dovrebbe essere posto a
fondamento di tutto il regime delle amministrazioni pubbliche”.
[22] 5 U.S.C. § 552, Public Law 89-487, 80 Stat. 250, più volte
modificato dopo la sua prima entrata in vigore.
[23] FOIA (a)2D:
“each agency, in accordance with published rules, shall make
available for public inspection and copying […] copies of all
records, regardless of form or format, which have been released to
any person under paragraph (3) and which, because of the nature of
their subject matter, the agency determines have become or are
likely to become the subject of subsequent requests for
substantially the same records”.
[24] Il principio di una full disclosure, in verità, non risulta espressamente
affermato nel FOIA. Da questo punto di vista, almeno apparentemente
e con riguardo alla mera dichiarazione di principio, il legislatore
italiano sembra essere andato oltre la linea raggiunta da quello
nordamericano; infatti, sia nella l. n. 15/2009 (art. 4, comma 7),
sia nel d.lgs. n. 33/2013 (art. 1, comma 1), si stabilisce che la
trasparenza – che i due atti normativi intendono assicurare – è da
intendersi come accessibilità totale delle informazioni
concernenti l’organizzazione e l’attività delle pubbliche
amministrazioni.
[25] Le exemptions sono previste nello
stesso FOIA, (b) 1-9, a partire dal caso in cui la richiesta di
accesso riguardi documenti “specifically authorized under
criteria established by an Executive order to be kept secret in the
interest of national defense or foreign policy”; sul tema
specifico, cfr. G.F. Ferrari, L’accesso ai dati della pubblica
amministrazione negli ordinamenti anglosassoni, in G. Arena (a
cura di), L’accesso ai documenti amministrativi, Bologna
1991, pp. 117 ss.
[26] Gli atti legislativi più rilevanti, al
riguardo, sono il c.d. USA Patriot Act del 2001 (Public Law
107-56, 115 Stat. 272) e l’Homeland Security Act del 2002
(Public Law 107-296, 116 Stat. 2135); per quanto concerne la
giurisprudenza della Corte Suprema, v. ad es. la sentenza del 12
gennaio 2004, caso n. 3-472, Center for National Security
Studies c. United States Department of Justice, nella
quale in sostanza la Corte conferma la legittimità per
l’Amministrazione di mantenere segreti i nomi dei prigionieri con
imputazione di terrorismo: sulla questione, cfr. M. Tondini, J.P.
Pierini, Tavole di legislazione e giurisprudenza comparata sul
fenomeno del terrorismo internazionale (luglio 2007), in www.forumcostituzionale.it.
[27] Per una ricostruzione
storica cfr. G. Arena, Il segreto amministrativo. Profili storici
e sistematici, Padova, 1984, p. 101 e ss..
[28] E. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2004, p. 410,
rileva che, in passato, il problema della tutela della riservatezza
«era meno sentito in quanto la non divulgazione dei dati in
possesso dell’amministrazione, che costituiva la regola generale
dell’agire amministrativo, di fatto impediva la configurazione di
una lesione della riservatezza dei terzi in forza di un
comportamento del soggetto pubblico». R. Villata, La
trasparenza dell’azione amministrativa, in Dir. Proc.
Amm., ha descritto siffatto sistema come antitetico ai principi
di buon andamento e imparzialità dell’azione amministrativa.
[29] G. Arena, La trasparenza dell’azione amministrativa e il
diritto di accesso ai documenti amministrativi, in Id., (a cura
di), L’accesso ai documenti amministrativi, cit., p. 15 e
ss..
[30] C. Mucio, Codice della privacy e pubblica
amministrazione. Diritto di accesso e riservatezza nella p.a. e
negli enti locali, Milano 2005, p. 238 e ss.; nello stesso senso
G. Cassano, M. Del Vecchio, Diritto alla riservatezza e accesso
ai documenti amministrativi, Milano 2001, p. 36 e ss., rilevano
come il principio di trasparenza dell’azione amministrativa consiste
nel «rendere visibile a tutti gli interessati il processo
decisionale mediante il quale l’amministrazione dispone l’assetto
degli interessi e definisce il fine pubblico del caso concreto».
Cfr. anche S. Cimini, Accesso ai documenti amministrativi e
riservatezza: il legislatore alla ricerca di nuovi equilibri, in
V. Cuffaro, R. D’Orazio, V. Ricciuto (a cura di), Il codice del
trattamento dei dati personali, Torino, 2007, p. 325 e ss..
[31] Sul punto cfr. F. Caringella, R. Garofoli, M.T. Sempreviva, L’accesso ai documenti amministrativi, Milano, 2003, p. 3 e
ss.; G. Arena, Il segreto amministrativo. Profili teorici,
cit., p. 84. In giurisprudenza si veda, per prima, Cons. St., ad.
plen., 4.2.1987, n. 5, in Foro it., 1997, III, p. 199 e ss.,
con commento di M. Bombardelli; sul tema v. anche A. Sandulli, La
riduzione dei limiti all’accesso ai documenti amministrativi, in Giorn. Dir. Amm., 1997, p. 1022 e ss..
[32] Si è
osservato, in dottrina, che la l. n. 241/1990 ha attuato una vera e
propria «rivoluzione copernicana» nei rapporti tra P.A. e
cittadini, edificando nel nostro ordinamento «un nuovo sistema di
valori che, ribaltando l’impostazione tradizionale ancorata al
segreto amministrativo, eleva il diritto di accesso e la pubblicità
a regola dell’azione amministrativa, relegando il segreto a ruolo di
eccezione»: S. Cimini, op. ult. cit., p. 326.
[33] Tra gli
Autori che hanno approfondito la materia vanno citati: G. Alpa, La normativa sui dati personali. Modelli di lettura e problemi
esegetici, in V. Cuffaro, V. Ricciuto, V. Zeno-Zencovich, (a
cura di), Trattamento dei dati e tutela della persona,
Milano, 1998, p. 21; M. Ambrosoli, La tutela dei dati personali e
la responsabilità civile, in Riv. Dir. Priv., 1998, p.
297 e ss.; M. Atelli, Riservatezza (diritto alla) (diritto
costituzionale), in Enc. Giur. Treccani, XXVII,
aggiornamento, Roma, 2002, spec. p. 2 e ss.; A. Bartolini, Pubblicità delle informazioni e diritto di accesso, in B.
Cavallo (a cura di), Il procedimento amministrativo tra
semplificazione partecipata e pubblica trasparenza, Torino,
2000, p. 249; T. Bucalo, Implicazione della persona e “privacy”
nel rapporto di lavoro. Considerazioni sullo Statuto dei diritti dei
lavoratori, in Riv. Giur. Lav., 1976, I, spec. p. 517 e
ss.; C. Camardi, Mercato delle informazioni e privacy.
Riflessioni generali sulla legge n. 675/1996, in Europa Dir.
Priv., 1998, p. 1059 e ss.; S. Cimini, Diritto di accesso e
riservatezza: il legislatore alla ricerca di nuovi equilibri, in Giust. Civ., 2005, p. 582; G.P. Cirillo, La tutela della
privacy nel sistema del nuovo codice sulla protezione dei dati
personali, Padova, 2004, p. 63; G.P. Cirillo, Diritto
all’accesso e diritto alla riservatezza: un difficile equilibrio
mobile, in www.giustizia-amministrativa.it; M.
Clarich, Diritto di accesso e tutela della riservatezza: regole
sostanziali e tutela processuale, in Dir. Proc. Amm.,
1996, p. 458; M. Clarich, Trasparenza e protezione dei dati
personali nell’azione amministrativa (intervento al Convegno
dell’11.2.2004, Roma, Palazzo Spada), in Foro Amm.: TAR,
2004, p. 3890; G. Comandè, Commento all’art. 18 della
legge 31 dicembre 1996, n. 675, in Nuove leggi civ.
comm., 1999, p. 478 e ss.; V. Cuffaro, V. Ricciuto, La
disciplina del trattamento dei dati personali, Torino, 1997, p.
216 e ss.; A. Ferrucci, Diritto di accesso e riservatezza:
osservazioni sulle modifiche alla l. n. 241 del 1990, par. 6, in www.giustamm.it; C. Francomanno, La tutela amministrativa
davanti la Commissione per l’accesso, in R. Tomei (a cura di), La nuova disciplina dell’accesso ai documenti amministrativi.
Commento alla legge n. 241 del 1990 e al d.P.R. n. 184 del 2006,
Padova, 2007, p. 278 e ss; G. Giacobbe, L’identità personale tra
dottrina e giurisprudenza. Diritto sostanziale e strumenti di
tutela, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 1985, p. 855 e
ss.; Lugaresi, Il trattamento dei dati nella pubblica
amministrazione, in J. Monducci, G. Sartor (a cura di), Il codice in materia di protezione dei dati personali,
Padova, 2004, p. 1 e ss. e p. 242 e ss.; R. Montinaro, Tutela
della riservatezza e risarcimento del danno nel nuovo «Codice in
materia di protezione dei dati personali», in Giust.
Civ., 2004, p. 247 e ss.; M. Occhiena, I diritti di accesso
dopo la riforma della l. n. 241 del 1990, in F. Manganaro, A.
Romano Tassone (a cura di), I nuovi diritti di cittadinanza: il
diritto d’informazione (Atti del Convegno di Studi di Copanello,
25-26 giugno 2004), Torino, 2005; M. Occhiena, I poteri della
Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi. In
particolare, la funzione giustiziale ex lege n. 241/1990 e
d.P.R. n. 184/2006, in www.giustamm.it.; R. Panetta, Note critiche in tema di lesione della responsabilità
extracontrattuale, tra legge n. 675/96 e d.lgs. n. 196/2003, in Riv. Crit. Dir. Priv., 2003, p. 637 e ss.; gli autori citati
da R. Pardolesi, Dalla riservatezza alla protezione dei dati
personali: una storia di evoluzione e discontinuità, in R.
Pardolesi (a cura di), Diritto alla riservatezza e circolazione
dei dati personali, I, Milano, 2003, p. 1 e ss.; M.A. Sandulli, Accesso ai documenti amministrativi, in Enc. Dir.,
aggiornamento, IV, Milano, 2000, p. 18 e ss.; L. Saporito, Artt.
59 e 60, in S. Sica, P. Stanzione (a cura di), La nuova
disciplina della privacy, Torino, 2005, p. 274 e ss.; A.
Traversi, Il diritto dell’informatica, Milano, 1985, p. 301;
Warren, Brandeis, The right to privacy, in Arward Law
Review, 1890, p. 193 e ss.; V. Zeno-Zencovich, I diritti
della persona dopo la legge sulla tutela dei dati personali, in Studium iuris, 1997, p. 468 e ss..
[34] R. Villata, La
trasparenza dell’azione amministrativa, in Aa. VV., La
disciplina generale del procedimento amministrativo. Contributi alle
iniziative legislative in corso (Atti del XXXII Convegno di
studi di scienza dell’amministrazione, Varenna, 18-20 settembre
1986), Milano, 1989, p. 151; S. Tarullo, Diritto di accesso
ai documenti amministrativi e diritto alla riservatezza: un
difficile rapporto, in Jus, 1996, p. 232 e ss.; F.
caringella, Corso di diritto amministrativo, II, Milano,
2010, p. 1745.
[35] Vedi in particolare Cons. St., ad. pl.,
4.2.1997, n. 5.
[36] La versione originaria dell’art. 24 della
l. n. 241/1990 escludeva l’accesso «per i documenti coperti da
segreto di stato ai sensi dell’art. 12 della legge 24 ottobre 1877,
n. 801, nonché nei casi di segreto o di divieto di divulgazione
altrimenti previsti dall’ordinamento».
[37] La giurisprudenza è
ancora incerta in ordine alla natura di diritto soggettivo (in
questo senso, ad es., Cons. St., 12.4.2005, n. 1679) o di interesse
legittimo (così, ad es., Cons. St., 10.2.2009, n. 741) del diritto
di accesso. A favore dell’inquadramento nell’ambito dei diritti
soggettivi è l’art. 25 della l. n. 241/1990 che prevede un
procedimento giurisdizionale che può concludersi con un ordine di
esibizione del documento e non solo nel mero annullamento dell’atto
di diniego. Sul tema, cfr. S. Fiorenzano, Il diritto di accesso
ai documenti amministrativi dopo la legge 11 febbraio 2005, n. 15:
nuove regole sostanziali e giustiziali, in F. Merloni (a cura
di), La trasparenza amministrativa, Milano, 2008, p. 463 e
ss..
[38] Vedi tra le altre: Cons. St., n. 5105, 2000; Cons.
St., n. 1893, 2001.
[39] Sotto il profilo del fondamento
costituzionale del diritto d’accesso, un’altra opinione
giurisprudenziale riconduce il diritto all’informazione all’art. 21
della Costituzione, valutando non tanto il diritto a informare
(valenza attiva del diritto), quanto il diritto a essere informati
(valenza passiva).
[40] Successivamente alla l. n. 241/1990 si
segnalano la l. n. 15/2005, la l. n. 69/2009, il d.lgs. n. 150/2009
e il d.lgs. n. 104/2010. Ma già prima del 1990 l’affermazione del
diritto di accesso si riscontra sia pure in specifiche normative di
settore: art. 56, r.d. n. 444/1942, modificato dal d.P.R. 1988, n.
250/1988 (Regolamento per l’esecuzione della legge sul Consiglio di
Stato); gli artt. 9 e 10 della l. n. 765/1967 (in materia
urbanistica); l’art. 20 della l. n. 833/1978 (istitutiva del
Servizio Sanitario Nazionale); l’art. 25 della l. n. 816/1985
(relativa allo status di amministratori locali); l’art. 14
della l. n. 349/1986 (istitutiva del Ministero dell’Ambiente). In
generale, sugli “antecedenti” della disciplina dell’accesso
introdotta nel 1990, cfr. L.A. Mazzarolli, L’accesso ai documenti
amministrativi. Profili sostanziali, Padova, 1998, p. 6 e ss.;
B. Selleri, Il diritto all’informazione in Italia prima delle
leggi n. 142 del 1990 e n. 241 del 1990, in G. Arena (a cura
di), L’accesso ai documenti amministrativi, cit., p. 95 e
ss..
[41] Si segnala la non troppo risalente sentenza del TAR
Lazio, 17.1.2005, n. 308 che affronta il rapporto di valore tra il
diritto di accesso e la privacy.
[42] Il Codice ha
ridisegnato il quadro legislativo relativo alle amministrazioni
pubbliche. In particolare, per quanto qui rileva, nella Parte I,
Titolo III, capo II (artt. 18-22), si introducono una serie di
regole cui tutti i soggetti pubblici, indicati all’art. 22, devono
attenersi, nel trattamento dei dati. Ancora, nella Parte II, Titolo
IV (artt. 59-74), viene regolato in maniera puntuale il trattamento
dei dati in ambito pubblico, compresa la disciplina relativa
all’accesso ad atti e informazioni in possesso della P.A..
[43]
TAR Campania, 7.12.2004, n. 18532.
[44] TAR Lazio, 8.11.2004, n.
12659.
[45] Cons. St., sez. IV, 9.8.2005, n. 4216.
[46] TAR
Sardegna, sez. II, 19.1.2006, n. 29.
[47] Si vedano, a titolo
esemplificativo, Cons. St., 29.4.2002, n. 2283, in Foro it.,
2002, III, p. 577 e ss.; Cons. St., 13.12.1999, n. 2109, in Foro
Amm., 1999, p. 2514 e ss..
[48] A. Romano Tassone, A chi
serve il diritto di accesso? (Riflessioni su legittimazione e
modalità di esercizio del diritto di accesso nella legge n. 241 del
1990), in Dir. amm., 1995, p. 319, definisce la formula
normativa «tra le più infelici, forse, la peggiore
possibile».
[49] Ex multis si v. Cons. St.,
29.11.2004, n. 7805, in Giust. civ., 2001, I, p. 1413 e ss.,
e, prima ancora, Cons. St., 4.2.1997, n. 82, in Giur. it.,
1997, III, p. 385 e ss..
[50] È pacifico che la protezione della
riservatezza vada a soddisfare non già un generico interesse
pubblico, quanto “l’esigenza di tutela della sfera privata della
persona, mediante l’utilizzazione dello strumento tecnico giuridico
del diritto soggettivo”: così, ad es., G. Giacobbe, Riservatezza
(diritto alla), Milano, 1989, p. 1243; può aggiungersi che tale
diritto soggettivo “attiene alla protezione del cittadino
(tendenzialmente anche del non cittadino) in quanto tale,
disancorato da contenuti economici e patrimoniali”: in questi
termini, G. Pascuzzi, Il trattamento dei dati personali per fini
di giustizia civile, in Id. (a cura di), Giustizia civile e
diritto di cronaca, Trento, 2003, p. 23.
[51] Si può anzi
aggiungere che “nel contesto dello Stato di diritto e, a
fortiori, nello Stato costituzionale il segreto di Stato deve
trarre fondamento in determinati valori fondamentali, è soggetto al
principio di legalità e, quindi, deve essere regolato positivamente
e in maniera organica, sia per ridurre la naturale ampiezza delle
valutazioni ad esso inerenti, sia per rendere effettivo il principio
di separazione dei poteri in vista della garanzia del sistema”: così
A. Morrone, Il nomos del segreto di Stato, in
G. Illuminati (a cura di), Nuovi profili del segreto di Stato e
dell’attività di intelligence, Torino, 2010, p. 12. Più in
generale, nello Stato costituzionale l’individuazione delle ipotesi
di prescrizione del segreto deve fondarsi su interessi tutelati da
specifiche norme costituzionali e non su un generico e non meglio
definito “interesse pubblico”: in questo senso, cfr. A. Anzon, Segreto d’ufficio (dir. amm.), in Enc. giur., XXVIII,
Roma, 1992, p. 2.
[52] Tale segretezza può perfino essere
qualificata come doverosa: “ in base al principio salus
rei publicae suprema lex il sovrano per diritto divino o per
diritto di natura o per diritto di conquista ha il dovere di tener
celati quanto più gli è possibile i suoi disegni”, sicché “nello
Stato autocratico il segreto di stato non è l’eccezione ma la
regola: le grandi decisioni politiche debbono essere prese al riparo
degli sguardi indiscreti di un qualsiasi pubblico”: così N. Bobbio, La democrazia e il potere invisibile, in Rivista italiana
di scienza politica, 1980, p. 190, ripubbl. in Id., Il futuro
della democrazia, Torino, 1995, p. 82 e ss..
[53] Cfr.
ancora N. Bobbio, La democrazia e il potere invisibile, cit.,
p. 191.
[54] Pone l’accento su quest’ultimo aspetto, ad es., A.
Morrone, Il nomos del segreto di Stato, cit.,
p. 5 e ss., part. p. 7, il quale richiama la considerazione di M.
Weber, Parlamento e governo. Per la critica politica della
burocrazia e del sistema dei partiti (1918), Tr. It., Bari,
1993, p. 62, secondo cui “la pubblicità dell’amministrazione imposta
in forza di un controllo parlamentare effettivo, è il requisito
preliminare di ogni fecondo lavoro parlamentare e di ogni educazione
politica”.
[55] T. Hobbes, Leviatano (1651), Tr. It.,
Bari, 1992, p. 157 e ss..
[56] G.D. Romagnosi, La scienza
delle Costituzioni, Torino, 1849, p. 30; su questo aspetto del
pensiero di Romagnosi, cfr. G. Arena, Il segreto amministrativo.
Profili teorici, cit., p. IX e ss..
[57] Principio fatto
proprio dall’ordinamento italiano a livello costituzionale, con
riguardo tanto alla legislazione, quanto alla giurisdizione e
all’amministrazione. Per la legislazione, esso è espresso all’art.
64, comma 2, Cost. ai sensi del quale la regola è quella della
pubblicità delle sedute delle Camere. Con riguardo alla
giurisdizione, il principio va tratto, anzitutto, dalla prescrizione
dell’art. 101, comma 1, Cost. secondo cui la giustizia è
amministrata in nome del popolo, e la sua vigenza è stata
riconosciuta dalla Corte costituzionale in diverse pronunce (cfr.,
ad es., Corte cost., sent. n. 212/1986, in Giur. cost., 1986,
p. 344 e ss.). Per quanto attiene all’amministrazione, infine, il
principio appare desumibile sul piano costituzionale “dal ruolo
complessivamente affidato dalla Costituzione all’amministrazione nel
contesto dello stato di diritto” (in questi termini C. Cudia, Trasparenza amministrativa e diritti di informazione del
cittadino nei riguardi delle amministrazioni regionali, in F.
Merloni (a cura di), La trasparenza amministrativa, Milano,
2008, p. 133) e rappresenta una diretta conseguenza del carattere
eccezionale del segreto, sicché “tutte le informazioni non protette
dal segreto amministrativo devono poter circolare liberamente”:
così, G. Arena, Il segreto amministrativo. Profili teorici,
cit., p. 239 s..
[58] Quel che si rileva in riferimento allo
Stato assoluto vale anche per lo Stato totalitario, nel quale “il
privato è eroso e distrutto, l’individuo diventa elemento e
strumento dello Stato etico, lo Stato penetra nelle più riposte
dimensioni della vita personale”: cfr. U. Scarpelli, La
democrazia e il segreto, in Aa.Vv., Il segreto nella realtà
giuridica italiana, Padova, 1983, p. 643.
[59]
L’osservazione è di P. Barile, Democrazia e segreto, in Quad. cost., 1987, p. 29.
[60] Tale principio, nelle
parole di Giuseppe Dossetti durante l’intervento del 9 settembre
1946 nella I Sottocommissione della Commissione per la Costituzione,
istituita in seno all’Assemblea costituente, si fondava sulla
“anteriorità della persona” rispetto allo Stato; mentre il 10
settembre 1946 il Presidente della Sottocommissione, U. Tupini,
ricordava agli altri membri che” la precedenza della persona umana
di fronte allo Stato, il quale deve considerarsi al servizio di
quella, fu un punto acquisito nella discussione di ieri”. Sul
principio personalistico nella Costituzione italiana la letteratura
è amplissima; si v., anche per ulteriori indicazioni bibliografiche,
P. Caretti, I diritti fondamentali, Torino, 2011, p. 136 e
ss..
[61] Per riprendere le parole utilizzate dalla Corte
costituzionale nella ben nota sent. n. 366/1991, in Giur.
cost., 1991, p. 2918.
[62] In questo senso è stato rilevato
in dottrina che “se è vero che il diritto alla riservatezza non può
essere inserito nel catalogo dei diritti garantiti direttamente
dalla Costituzione, non è meno vero che l’àmbito di operatività che
di esso è proprio deve essere definito dal legislatore ordinario, il
quale ha discrezionalità sul quomodo ma non sull’an,
dovendo ritenere che una sfera di tutela della vita privata del
soggetto ‘deve’ essere garantita, in quanto espressione (necessaria)
della rilevanza costituzionale che la persona ha acquisito nel
sistema della Costituzione”: così G. Giacobbe, Riservatezza
(diritto alla), cit., p. 1252 s..
[63] Cfr. G. Guzzetta,
F.S. Marini, Diritto pubblico italiano ed europeo, Torino,
2008, p. 646, i quali rilevano che ai sensi dell’art. 2 Cost. e
dell’inviolabilità dei diritti in esso prescritta, sono i principi
costituzionali, ivi incluso il principio personalistico, “che si
desumono dai diritti a essere sottratti a revisione costituzionale
(in pejus): con la conseguenza che anche una revisione
costituzionale che conservasse il singolo diritto, ma ne
restringesse la portata ed il contenuto al punto tale da incidere
sul principio che da esso si induce, dovrebbe ritenersi vietata”.
[64] Gli strumenti informatici, potenziando la possibilità di
elaborare , classificare e far circolare i dati relativi ad un
soggetto, rappresentano un fattore di rischio non trascurare per la
riservatezza; un qualunque dato, “considerato a sé, può essere poco
o nulla significativo: meglio, poco o nulla dice al di là della
specifica questione cui direttamente si riferisce. Nel momento in
cui diviene possibile conoscere contemporaneamente e connettere
tutta la massa delle informazioni riguardanti una determinata
persona, ecco che dall'intreccio delle informazioni emerge un
profilo complessivo del soggetto considerato, che ne permette la
valutazione da parte di chi dispone del mezzo idoneo a effettuare
tali operazioni”: cfr., per questo rilievo, già negli anni Settata
del secolo scorso, S. Rodotà, Elaboratori elettronici e controllo
sociale, Bologna, 1973, p. 14 e ss..
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(pubblicato il
18.10.2013)
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