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TAR FRIULI-VENEZIA GIULIA - Sentenza 28 marzo 2000 n. 314 - Pres. Bagarotto, Est. Di Sciascio - Vendrame e c.ti (Avv.ti Longo e Verbari) c. Comune di Fiume Veneto (Avv.ti Barel e Sbisà) e Vendrame ed altro (Avv.ti Castiglione e Blasigh).

Nonostante il fatto che l’art. 35, comma 2°, del D. Lgs. 31.3.1998 n. 80 imponga al giudice amministrativo di provvedere sulla domanda di risarcimento danni, qualora essa sia avanzata in una controversia devoluta alla sua giurisdizione esclusiva ai sensi dei precedenti artt. 33 e 34, anche attraverso l’indicazione soltanto dei criteri attraverso cui l’amministrazione soccombente può proporre all’avente diritto il pagamento di una somma adeguata, deve ritenersi che, così come accade nelle controversie devolute alla giurisdizione ordinaria, spetti al proponente l’onere di provare di aver subito un danno e di provare altresì il suo ammontare, pur spettando al giudice la decisione finale.

Nelle materie rientranti nella giurisdizione esclusiva ex artt. 33 e 34 del D.L.vo n. 80/1998, allorchè sia stata avanzata una domanda di risarcimento del danno, non può quindi ritenersi che al ricorrente spetti soltanto l’onere di un principio di prova in argomento, come nell’ordinario giudizio di impugnazione, purché sufficiente ad attivare i poteri istruttori, anche d’ufficio, del giudice. Tale disciplina attenuata dell’onere probatorio nel giudizio amministrativo è infatti connessa indissolubilmente ai gravi limiti che la parte privata incontra, fuori dei rari casi di giurisdizione di merito, in materia di prova, essendo assai limitati i mezzi a sua disposizione, quasi esclusivamente documentali, ed essendo del resto non amplissimi quelli a disposizione dello stesso giudice (richiesta di documenti o di chiarimenti alla P.A. e verificazioni).

L’art. 35, comma 3°, del citato D. Lgs. n. 80/98 concede invece al giudice amministrativo, ove chiamato a decidere su una domanda di risarcimento del danno, di disporre l’assunzione di pressoché tutti i mezzi di prova previsti dal codice di procedura civile, il che significa che, di norma, in base al principio dispositivo, che informa di sé, salvo espresse eccezioni, anche il giudizio amministrativo, dev’essere la parte a chiedere che detti mezzi vengano assunti.

La domanda di risarcimento del danno deve pertanto contenere:

le ragioni in base al quale l’illegittimo provvedimento o comportamento della P.A. o delle altre parti intimate ha comportato un pregiudizio, ad essi legato da nesso causale, al ricorrente;

l’ammontare per equivalente di detto pregiudizio, ove non si chieda la sola reintegrazione in forma specifica;

i mezzi di prova a sostegno sia dell’affermazione che un danno è stato provocato e che sia attribuibile alla parte intimata, sia del suo ammontare.

 

 

Ric. n. 501/99 R.G.R. N.314/2000 Reg. Sent.

Repubblica italiana

In nome del popolo italiano

Il Tribunale amministrativo regionale del Friuli - Venezia Giulia, nelle persone dei magistrati:

Giancarlo Bagarotto - Presidente

Umberto Zuballi - Consigliere

Enzo Di Sciascio - Consigliere, relatore

ha pronunciato la seguente

S e n t e n z a

sul ricorso n. 501/99 proposto da Vendrame Claudio, Zucchet Maria Lucia, Vendrame Fortunato, Vendrame Riccardo, rappresentati e difesi dagli avv.ti Francesco Longo e Giovanni Battista Verbari, con domicilio eletto presso il secondo in Trieste, piazza Tommaseo 4, come da mandato a margine del ricorso;

c o n t r o

il Comune di Fiume Veneto, in persona del Sindaco in carica, rappresentato e difeso dagli avv.ti Bruno Barel e Giuseppe Sbisà, con elezione di domicilio presso il secondo in Trieste, via S. Francesco 11, come da deliberazione giuntale n. 231 del 15.9.1999 e da mandato a margine dell'atto di costituzione;

e nei confronti

di Vendrame Angelo e Cozzarin Gerardina, rappresentati e difesi dagli avv.ti. Franco Castiglione e Giampiero Blasigh, con domicilio eletto presso la Segreteria del T.A.R., come da mandato a margine dell’atto di costituzione;

per l’annullamento

del provvedimento sindacale prot. n. 6188 del 14.5.1999 di rinnovazione e convalida della concessione edilizia n. 86/1997 del 2.9.1997 e della concessione in sanatoria n. 86S del 19.12.1997, rilasciate ai controinteressati ed annullate da questo T.A.R. con sentenza n. 150 dell’1.3.1999;

per il risarcimento

a’ sensi degli artt. 34 e 35 del D. Lgs. 31.3.1998 n. 80, del danno patito per effetto dell’illegittimo provvedimento impugnato, nella misura risultante dall’applicazione dei criteri stabiliti dal giudice adito, in base alla quantificazione, che ci si riserva di effettuare in corso di causa;

Visto il ricorso, ritualmente notificato e depositato presso la Segreteria generale con i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio dell’amministrazione intimata e dei controinteressati;

Visti gli atti tutti di causa;

Data per letta alla pubblica udienza del 10 marzo 1999 la relazione del consigliere Enzo Di Sciascio ed uditi altresì i difensori delle parti costituite;

Ritenuto e considerato in fatto ed in diritto quanto segue:

F a t t o

Espongono i ricorrenti di essere proprietari di una casa di abitazione confinante con il fabbricato, destinato ad uso produttivo, dei controinteressati che, con le concessioni indicate in epigrafe, è stato dapprima ampliato e ristrutturato, con alcune demolizioni, e quindi, risultando demolita una parte più ampia di quella autorizzata, soggetto a sanatoria degli abusi commessi.

Le concessioni in questione sono state impugnate dinanzi a questo T.A.R. ed annullate con la sentenza, pure menzionata in epigrafe, in quanto è stata ampliata, con modifica della volumetria e dell’altezza, anche la parte per cui, nel progetto presentato, era prevista la sola ristrutturazione, che non consente la modificazione dei citati parametri, nemmeno in via di sanatoria.

Con l’atto in questa sede impugnato il Comune ha disposto la "rinnovazione e convalida" delle concessioni annullate in base:

alla domanda in tal senso proposta il 5.5.1999 dai controinteressati;

all’art. 106 della L.R. 19.11.1991 n. 52, che consentirebbe di rimuovere i vizi, inerenti al procedimento amministrativo di rilascio di una concessione edilizia illegittima;

nell’erronea valutazione, riportata nella sentenza da eseguire, secondo cui sarebbe illegittima una modificazione di volume del fabbricato, nella parte soggetta a ristrutturazione, dal momento che le NN.TT.AA. del P.R.G.C. per la zona omogenea D3/E contemplerebbero come parametri urbanistici soltanto la superficie coperta e l’altezza, e non la volumetria.

L’atto predetto, siccome illegittimo, andrebbe annullato in quanto viziato per:

violazione dell’art. 6 della L. 8.6.1990 n. 142 e delle norme sul giusto procedimento in quanto del procedimento volto all’esecuzione della sentenza n. 150/99 di questo Tribunale avrebbe dovuto essere dato avviso ai ricorrenti, suscettibili di essere incisi dalla determinazione finale, affinché proponessero le proprie deduzioni e osservazioni;

eccesso di potere per travisamento dei fatti e falsità dei presupposti in quanto erroneamente il controverso intervento sarebbe configurato come ristrutturazione ed ampliamento, trattandosi invece o di una nuova costruzione o di una costruzione non disciplinata dalle NN.TT.AA., per cui sarebbe insuscettibile di essere autorizzato, anche in sanatoria, ovvero convalidato;

eccesso di potere per contraddittorietà in quanto il Comune contraddittoriamente riterrebbe legittimo un intervento, che viceversa questo Tribunale ha considerato illegittimo, mentre, se dissente, come risulta dal provvedimento oggetto di gravame, dalla sentenza che si propone di attuare, avrebbe dovuto esperire i necessari mezzi di impugnazione, anziché riproporre un atto dal contenuto corrispondente a quelli annullati, tenendo altresì presente che i parametri edilizi, cui esso si richiama (superficie e altezza) sarebbero fissati proprio per calcolare la volumetria dell’intervento, i cui limiti sarebbero pertanto richiamati pertanto legittimamente dal T.A.R., contrariamente a quanto asserito dal provvedimento impugnato;

violazione degli artt. 63 e 65 della L.R. n. 52/91 in quanto l’edificio realizzato eccederebbe i limiti del progetto approvato, che prevede una ristrutturazione ed un ampliamento, non prevedendo la prima modificazioni alle caratteristiche fondamentali dell’esistente né il secondo la demolizione di quanto in precedenza realizzato, per cui il provvedimento impugnato, nell’autorizzare un ampliamento con manutenzione e parziale demolizione, violerebbe le norme in rubrica e realizzerebbe una nuova costruzione;

eccesso di potere per contraddittorietà in quanto, rientrando come presupposti istruttori del procedimento, conclusosi con l’atto di convalida impugnato, i precedenti progetti, oggetto di annullamento da parte del T.A.R., si sarebbe voluto concedere ora un intervento che non si distinguerebbe da quello ritenuto illegittimo e, in particolare, si sarebbe voluto autorizzare un ampliamento con demolizione, che non potrebbe essere oggetto di legittima concessione.

Si è costituita in giudizio l’amministrazione intimata, che ha preliminarmente eccepito l’inammissibilità della domanda di risarcimento di danni non quantificati né provati, sostenendo quindi l’infondatezza del ricorso.

Si sono altresì costituiti i controinteressati, che in via pregiudiziale hanno eccepito l’inammissibilità del ricorso per difetto di interesse attuale e per genericità, nonché l’inammissibilità della domanda risarcitoria, per difetto di esposizione delle ragioni della pretesa, della sua quantificazione e della prova del danno.

D i r i t t o

Il Collegio deve preliminarmente occuparsi delle eccezioni in rito, proposte dagli intimati, con esclusione, per ora, di quelle relative alla domanda di risarcimento del danno, di cui mette conto occuparsi solo in caso di accoglimento nel merito del ricorso.

Dette eccezioni vanno disattese.

Invero non può essere fondatamente sostenuto il difetto di interesse attuale dei ricorrenti che, lesi come proprietari confinanti dalle illegittime concessioni interessanti il fabbricato dei controinteressati rischiano, per effetto del provvedimento sindacale oggetto di gravame, di vederlo realizzare o mantenere tal quale, pur dopo aver visto annullare i provvedimenti, che ne autorizzavano la ristrutturazione ed ampliamento.

Nemmeno pare al Collegio in alcun modo generico il presente gravame, le cui censure possono o meno essere condivise, ma sono perfettamente comprensibili e sono state adeguatamente formulate sia nelle premesse in fatto che nell’esposizione in diritto.

Nel merito il ricorso è fondato.

E’ innanzitutto pienamente da condividersi il terzo motivo di gravame, nella sua prima parte, con cui si contesta al Comune di aver contraddittoriamente riproposto, sotto il pretesto di eseguire la sentenza n. 150/99, emendando le concessioni annullate dai vizi formali riscontrati, un provvedimento analogo a quelli ritenuti illegittimi dal T.A.R..

Tale censura sostanzialmente addebita al Comune un’attività elusiva della sentenza in questione e in tal senso può essere qualificata dal Collegio.

Non può infatti riconoscersi, sotto i molteplici profili che di seguito si vengono ad illustrare, che con l’atto impugnato si sia posta in essere una corretta attività esecutiva ed anzi che ci si sia veramente proposto di agire in tal senso.

Deve essere premesso, in primo luogo, che l’art. 106 della L.R. n. 52/91, che costituisce il presupposto normativo dell’atto impugnato, disciplinando l’attività dell’amministrazione in seguito all’annullamento della concessione illegittimamente rilasciata, sia in esecuzione di pronuncia giurisdizionale sia in seguito ad atto di autotutela, prevede le seguenti ipotesi alternative:

se l’annullamento dipende da vizi formali o procedurali, la P.A. provvederà alla rinnovazione dell’atto con la rimozione dei suddetti vizi;

negli altri casi provvederà alla riduzione in pristino;

se non sia possibile attuare nessuna delle procedure prima descritte disporrà l’irrogazione di una sanzione pecuniaria, commisurata al valore venale delle opere abusive, la cui integrale corresponsione produce gli effetti di una concessione in sanatoria.

Ove peraltro si tratti, come nella specie, di esecuzione di una sentenza di annullamento del giudice amministrativo a’ sensi dell’art. 33 della L. 6.12.1971 n. 1034, va tenuto fermo che, in via automatica, a detto annullamento conseguono (cfr. ex multis C.D.S. VI Sez. 12.3.1994 n. 332) anche in pendenza dell’appello e purché l’esecutività della sentenza non sia sospesa in base a ordinanza cautelare del Consiglio di Stato:

la caducazione, che opera retroattivamente, degli effetti dell’atto annullato;

la preclusione, per l’amministrazione, ad emanare provvedimenti, che in quello trovino fondamento e giustificazione;

la preclusione ad adottare atti contrari alle statuizioni, contenute nella sentenza.

I precitati effetti conseguono infatti di diritto alle sentenze c.d. autoesecutive, aventi cioè efficacia di per sé ripristinatoria della posizione giuridica della parte istante preesistente all’atto lesivo annullato (cfr. p. es. T.A.R. Lazio, Sez. II, 8.5.1992 n. 1190) quale quella in esame che, di per sé, non consente l’edificazione, secondo il progetto originario, dell’edificio a confine, lesivo degli interessi dei ricorrenti.

Anche in diversa ipotesi, quando comunque si proponga di eseguire una sentenza di annullamento l’amministrazione deve, nelle more del giudizio di secondo grado, mantenersi nei ristretti limiti segnati dagli artt. 65, n. 5., e 88 del R.D. 17.8.1907 n. 642, senza porla in discussione o sindacarla in alcun modo e senza rivalutare i fatti e i presupposti, quali sono stati accertati dalla sentenza, o riesaminare i punti di diritto con essa decisi (cfr. ex multis T.A.R. Sicilia, Sez. staccata di Catania, Sez. II, 8.2.1993 n. 92).

Con l’atto impugnato l’amministrazione intimata non solo non ha eseguito la sentenza, cui essa dichiara di voler dare esecuzione, ma non si è nemmeno attenuta, nel dispositivo, agli stessi presupposti invocati in premessa.

In primo luogo infatti dev’essere sottolineato che la sentenza n. 150/95 non ha annullato gli atti, oggetto di gravame in quella sede, per vizi di forma o procedura, per cui il provvedimento impugnato incongruamente richiama per questa parte l’art. 106 della L.R. n. 52/91, che consente di rilasciare nuovamente le concessioni annullate, eliminando i vizi del tipo suddetto (quali, ad esempio, il difetto di motivazione di fronte a un parere contrario, o l’omissione di un passaggio necessario dell’iter procedimentale o una scorrettezza nella forma ecc.).

E’ stata invece constatato il rilascio delle concessioni in ipotesi non consentite dalla legge, in quanto è stato autorizzato, contro il disposto dell’art. 65 della L.R. n. 52/91, un progetto che, nella parte in cui prevedeva che un fabbricato venisse soltanto ristrutturato (in altra parte ne era previsto infatti l’ampliamento) ne contemplava altresì l’aumento dell’altezza e della volumetria, non consentiti in sede di ristrutturazione.

Si è per giunta autorizzata, con concessione in sanatoria una non prevista radicale demolizione della preesistenza, con riedificazione ex novo comportante modifica di volumetria e altezza di una parte di edificio in cui detti interventi non erano possibili, essendone stata richiesta la sola ristrutturazione.

In relazione a queste premesse il Sindaco, senza richiamarsi a pretese irregolarità formali, qualora avesse inteso eseguire questa pronuncia - al che non era di per sé tenuto, potendo gravarsi in appello chiedendone inoltre la sospensione - avrebbe dovuto provvedere in rinnovazione sulle originarie domande di concessione e di concessione in sanatoria, disponendo la restituzione in pristino o la sanzione pecuniaria, nei termini indicati dal medesimo art. 106 della L.R. n. 52/91.

Pur non avendo appellato (a un tanto hanno provveduto i controinteressati, che peraltro non hanno chiesto la sospensione della sentenza) il Comune ha provveduto su di una nuova domanda di concessione, che chiedeva, a differenza di quelle originarie, di qualificare tutti gli interventi in progetto, anche quelli inizialmente volti alla sola ristrutturazione dell’immobile, come ampliamento dello stesso, disponendo la pretesa "rinnovazione e convalida", a mezzo dell’atto impugnato, delle concessioni annullate.

Il fatto che si sia provveduto su una nuova domanda ha comportato la riqualificazione dell’intervento come "ampliamento del fronte ovest e manutenzione edilizia del fronte est, con parziale demolizione, aumento della quota d’imposta della struttura di copertura, senza aumento della superficie coperta e senza incidenza nei parametri urbanistici previsti dalle norme di attuazione per la zona omogenea D3/E allegate al P.R.G.C.".

Non meraviglia che, impostato su queste basi, il provvedimento in questione frontalmente ed esplicitamente debba opporsi, per trovare giustificazione, alla sentenza che, stando a quanto in esso dichiarato, si propone di attuare, il che non è, ovviamente, consentito in sede di esecuzione.

Esso infatti osserva che non è ammissibile ritenere, come invece ha fatto la sentenza n. 150/99, incompatibile la ristrutturazione con un aumento di volumetria "visto che l’intervento edilizio è stato realizzato nel rispetto delle norme di attuazione allegate al Piano Regolatore Generale Comunale relative alla zona omogenea D3/E, considerato che i parametri urbanistici sono relativi alla superficie coperta e all’altezza, e non, come riportato nella sentenza del T.A.R., relativi al volume".

Così disponendo non si pone in essere un atto esecutivo delle statuizioni della sentenza, ma si ripropone contraddittoriamente, come denunziato in ricorso, sotto lo schermo dell’esecuzione, un provvedimento del tutto analogo a quelli annullati, con palese intento elusivo, tant’è vero, come si è sopra rilevato, che:

viene qualificato come annullamento per "vizi delle procedure amministrative" ex art. 106 della L.R. n. 52/91 quello disposto dalla sentenza eseguenda, che invece qualifica come illegittimo il rilascio di concessioni per contrasto di parte del progetto con norme sostanziali, che non consentono che esse siano assentite nei termini in cui sono state richieste;

l’attività di rinnovazione si svolge su di una nuova domanda, contenente una nuova qualificazione giuridica degli interventi, illegittima, come si è visto, in sede di esecuzione, e non su quella originaria;

viene violato il divieto, tipico dell’attività esecutiva, di riproporre un provvedimento contrario alle statuizioni della sentenza;

come logica conseguenza, una siffatta attività di esecuzione si concreta in una inammissibile critica della sentenza da eseguire.

Il Collegio non può che riaffermare il diritto di ritenere infondata una sentenza e di gravarsi in appello contro di essa, osservando peraltro che, nelle more, ove essa non sia sospesa, va eseguita.

Pure il Collegio consente sul fatto che l’amministrazione, dopo l’annullamento e in attesa dell’esito dell’appello, ancorché da altri proposto, può procedere alla rinnovazione dell’atto annullato nel rispetto delle statuizioni della sentenza di primo grado.

Tale attività di rinnovazione peraltro deve svolgersi, in mancanza di norme o fatti nuovi, ora per allora, cioè in presenza dei presupposti di fatto e di diritto, sussistenti al momento dell’adozione dell’atto annullato, mentre non è consentito qualificare come tale l’adozione di un atto, che si basi su presupposti diversi (nuova domanda e nuova qualificazione dell’intervento) non sussistenti originariamente.

Se un’attività siffatta si conclude con un atto di contenuto analogo a quello annullato, in base per giunta ad una critica della pronuncia in esecuzione, il Collegio non può che concludere che si sia inteso eludere e non eseguire, come dichiarato, la sentenza di questo T.A.R. n. 150/99, per le ragioni sopra diffusamente enunciate e condividere sul punto il ricorso.

Anche a voler prescindere dall’accoglimento di tale assorbente censura il gravame è egualmente fondato in base ad altri fra i rimanenti motivi esposti.

Invero appare innanzitutto fondato il terzo motivo di gravame anche nella sua seconda parte (anch’essa illustrata a pag. 8 del ricorso).

Con detta censura si contesta l’atto impugnato per aver violato sia la legge che le norme tecniche di attuazione della zona D3/E del P.R.G.C. di Fiume Veneto, ritenendo, contrariamente a quanto affermato dal T.A.R., ad essi conforme il contestato progetto.

Se infatti si considera che tale atto assume a presupposto gli stessi elaborati grafici delle concessioni annullate da questo T.A.R. non potrebbe il Sindaco ritenere che per l’edificio, cui detti elaborati si riferiscono, possa essere rilasciata una legittima concessione (il che è il risultato della "rinnovazione e convalida" delle concessioni preesistenti) per il solo fatto che la superficie coperta e l’altezza sono ricomprese nei limiti di zona, pur aumentando la volumetria, che, secondo l’amministrazione, non sarebbe disciplinata dalla normativa di zona, dal momento che i primi due parametri sono menzionati proprio per calcolare il volume degli edifici, in base al loro prodotto.

La censura convince il Collegio, in base all’esame di quanto si è inteso operare con l’atto, oggetto del presente gravame.

Questo T.A.R. ha infatti annullato sia la concessione che la concessione in sanatoria, precedentemente rilasciate, in quanto consentivano che, in una parte del fabbricato dei controinteressati, destinata in progetto a sola ristrutturazione, si aumentasse la volumetria e l’altezza, contro il concetto stesso di ristrutturazione, che presuppone la conservazione delle caratteristiche fondamentali dell’edificio, e contro il dettato dell’art. 65 della L.R. n. 52/91 che impone il "rispetto delle volumetrie preesistenti" dell’immobile ristrutturato, senza accogliere alcuna censura relativa alla parte di fabbricato per cui in progetto era previsto un ampliamento.

Con l’atto impugnato, su domanda dei controinteressati, l’intervento è stato allora qualificato in parte come ampliamento e in parte come manutenzione straordinaria, cioè, per quanto qui più interessa, l’ampliamento è stato esteso anche alla parte prima qualificata come oggetto di ristrutturazione che, ciononostante, si elevava a maggior altezza della preesistenza, e, probabilmente, alla parte costruita in più rispetto al demolito (v. relazione allegata sub 5 al ricorso).

Detta maggior altezza, se conseguente ad un ampliamento, non pone, considerata di per sé sola, problemi di conformità alla normativa, se contenuta, come afferma l’amministrazione, entro i limiti previsti nella zona.

Peraltro alla maggior estensione in altezza dell’edificio consegue un inevitabile aumento di volume, che l’amministrazione nega essere rilevante, in quanto detto parametro non sarebbe contenuto nelle NN.TT.AA del P.R.G.C. relative alla zona D3/E, in cui sorge il fabbricato de quo.

Non è peraltro legittimo inferirne che questo T.A.R. ha errato nel censurare la maggior volumetria del costruito rispetto al progettato e che sia legittimo, nel silenzio della normativa di zona, assentirne una maggiore, una volta qualificato diversamente l’intervento.

Tale assunto non può essere condiviso per le ragioni indicate in ricorso, non potendo il Collegio che concordare con i ricorrenti che la prescrizione di una superficie coperta massima e di una altezza massima, che si rinvengono nelle prescrizioni di zona, non può che comportare quella di una volumetria massima, consistente nel loro prodotto.

Va altresì tenuto conto che la disciplina di piano va integrata con le norme di legge, applicabili nella fattispecie, per cui in una zona soggetta anche a ristrutturazione va senz’altro ritenuto applicabile, per i relativi interventi, l’art. 65 della L.R. n. 52/91, che non consente incrementi volumetrici, onde è in sé errato ritenere, come fa il Comune intimato, che non sussistano in assoluto limiti di volume nella zona predetta.

Inoltre, ed è questa la considerazione decisiva, tutti questi parametri non vanno considerati soltanto in astratto, ma vanno riferiti al concreto progetto, dal momento che la normativa della zona D3/E prevede che "la concessione edilizia è comunque subordinata alla presentazione di un progetto che definisca complessivamente spazi, funzioni e attrezzature dell’intero ambito di intervento".

Pertanto dal momento che il progetto (tav. 3) ancora distingue, negli stessi termini esaminati dai ricorsi, conclusi con la sentenza n. 150/99 di questo T.A.R., dato che è sostanzialmente lo stesso, un "capannone in ampliamento" da un "capannone esistente", quest’ultimo, con tutta evidenza, non può essere fatto oggetto di ampliamento, in difformità dalle stesse previsioni progettuali.

Nella parte progettata conforme alla preesistenza il fabbricato non può quindi estendersi ulteriormente in volume, oltre che elevarsi in altezza - il che è possibile soltanto nella parte in ampliamento nei limiti previsti dalle tavole progettuali - e tanto meno può farlo in virtù di un atto che si denomina di "rinnovazione e convalida" delle concessioni annullate, che prevedevano la sola ristrutturazione, nell’ambito della volumetria preesistente, ex art. 65 della L.R. n. 52/91, della menzionata porzione dell’edificio.

In tal senso devono ritenersi violate anche le NN.TT.AA. del P.R.G.C. relative alla zona in cui esso si colloca.

E’ inoltre fondato il primo motivo di gravame.

In base all’art. 6, comma 2°, della L. n. 142/90, che regola con norma speciale la partecipazione procedimentale negli enti locali "nel procedimento relativo all’adozione di atti, che incidono su situazioni giuridiche soggettive, devono essere previste forme di partecipazione degli interessati, secondo le modalità stabilite dallo statuto".

Per quanto qui interessa lo statuto del Comune di Fiume Veneto disciplina, all’art. 12, la comunicazione dell’avvio del procedimento, disponendo che essa, con le modalità previste nel successivo art. 16, comma 2°, è dovuta:

ai soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti;

a quelli che, per legge, devono intervenire nel procedimento;

a soggetti individuati o facilmente individuabili, diversi dai suoi diretti destinatari, a cui possa derivare un pregiudizio dal provvedimento finale.

I ricorrenti in questa sede devono essere ricompresi nella prima o quanto meno nell’ultima categoria.

Invero il provvedimento di esecuzione di una sentenza è destinato a produrre effetti diretti nei confronti di tutte le parti in causa.

Anche ove si volesse, in inconcessa ipotesi, sostenere che, nel caso di atto di esecuzione di sentenza di annullamento, gli unici direttamente incisi sono, a parte l’autorità emanante, i controinteressati, che hanno un interesse diretto alla conservazione dell’atto annullato, non si possono non annoverare, specie quando l’attività esecutiva, come nella specie, si concluda con un atto le cui statuizioni sono sostanzialmente riproduttive di quello annullato, i ricorrenti quanto meno fra i soggetti, facilmente individuabili, cui può derivare un pregiudizio dall’atto in questione.

In base agli artt. 12 e16 del citato statuto comunale pertanto illegittimamente ai ricorrenti non è stato dato avviso, con indicazione dell’oggetto e del responsabile del procedimento e dell’ufficio, dove prendere visione degli atti, dell’inizio del procedimento di esecuzione della sentenza.

Infatti né l’adozione di un simile atto è scontata, potendo essere richiesta la sospensione in sede di appello della sentenza, né il suo contenuto, che può essere il più vario, è vincolato, mentre non può essere negato che da esso possa derivare un pregiudizio (e il presente ricorso è palese dimostrazione di tale possibilità).

La constatata fondatezza, in base ai motivi esaminati ed accolti, assorbita ogni altra censura, del gravame, nella parte in cui richiede l’annullamento dell’atto impugnato, induce il Collegio all’esame di quella consequenziale di risarcimento del danno.

Essa non può, peraltro, andare considerata nel merito.

Invero, nonostante l’art. 35, comma 2°, del D. Lgs. 31.3.1998 n. 80 imponga al giudice amministrativo di provvedere su detta domanda, qualora, come nel caso di specie, essa sia esposta in una controversia devoluta alla sua giurisdizione esclusiva a’ sensi dei precedenti artt. 33 e 34, anche attraverso l’indicazione soltanto dei criteri attraverso cui l’amministrazione soccombente può proporre all’avente diritto il pagamento di una somma adeguata, deve ritenersi che, così come accade nelle controversie devolute alla giurisdizione ordinaria, spetti al proponente l’onere di provare di aver subito un danno e di provare altresì il suo ammontare, pur spettando al giudice la decisione finale.

Non può invero ritenersi che all’istante spetti soltanto l’onere di un principio di prova in argomento, come nell’ordinario giudizio di impugnazione, purché sufficiente ad attivare i poteri istruttori, anche d’ufficio, del giudice.

Tale disciplina attenuata dell’onere probatorio nel giudizio amministrativo è infatti connessa indissolubilmente ai gravi limiti che la parte privata incontra, fuori dei rari casi di giurisdizione di merito, in materia di prova, essendo assai limitati i mezzi a sua disposizione, quasi esclusivamente documentali, ed essendo del resto non amplissimi quelli a disposizione dello stesso giudice (richiesta di documenti o di chiarimenti alla P.A. e verificazioni).

L’art. 35, comma 3°, del citato D. Lgs. n. 80/98 concede invece al giudice amministrativo, ove chiamato a decidere su una domanda di risarcimento del danno, di disporre l’assunzione di pressoché tutti i mezzi di prova previsti dal codice di procedura civile, il che significa che, di norma, in base al principio dispositivo, che informa di sé, salvo espresse eccezioni, anche il giudizio amministrativo, dev’essere la parte a chiedere che detti mezzi vengano assunti.

La domanda di risarcimento del danno deve pertanto contenere:

le ragioni in base al quale l’illegittimo provvedimento o comportamento della P.A. o delle altre parti intimate ha comportato un pregiudizio, ad essi legato da nesso causale, al ricorrente;

l’ammontare per equivalente di detto pregiudizio, ove non si chieda la sola reintegrazione in forma specifica;

i mezzi di prova a sostegno sia dell’affermazione che un danno è stato provocato e che sia attribuibile alla parte intimata, sia del suo ammontare.

Nel presente caso gli istanti hanno genericamente sostenuto che vi è un danno "conseguente al diminuito valore che le abitazioni dei ricorrenti hanno subito, causalmente collegato all’intervento edilizio illegittimamente concesso dal Comune di Fiume Veneto, danni che verranno quantificati in corso di processo".

Non è spiegato né perché detta diminuzione di valore sussista, né a quanto ammonti, né perché sia in nesso causale con il provvedimento qui impugnato e non con quelli precedenti, che esso si limita a convalidare, né soprattutto vengono indicati i mezzi di prova sull’an e sul quantum.

La domanda di risarcimento è pertanto articolata in maniera così generica e gratuita da non consentire un utile contraddittorio con le parti intimate, sicché va ritenuta inammissibile.

Il ricorso va, di conseguenza, in parte dichiarato inammissibile ed in parte accolto, con annullamento dell’atto impugnato.

Le spese seguono la prevalente soccombenza e vanno liquidate come da dispositivo.

p. q. m.

il Tribunale amministrativo regionale del Friuli - Venezia Giulia, definitivamente pronunziando sul ricorso in premessa, respinta ogni contraria istanza ed eccezione, lo accoglie e, di conseguenza, annulla il provvedimento sindacale prot. n. 6188 del 14.5.1999.

Condanna l’amministrazione intimata e i controinteressati, in solido tra loro, al rimborso delle spese e competenze giudiziali a favore della parte ricorrente, che liquida in complessive £ 20.000.000 (venti milioni).

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Trieste, in camera di consiglio, il 10 marzo 1999.

Giancarlo Bagarotto - Presidente

Enzo Di Sciascio – estensore

Depositato nella segreteria del Tribunale il giorno 28/03/2000

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