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n. 11-2002 - © copyright.

TAR LAZIO, SEZ. I – Sentenza 31 ottobre 2002 n. 9366 - Pres. Calabrò, Est. Gaviano - Cappugi (Avv. Clarizia) c. Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa e Presidenza del Consiglio dei Ministri (Avv.ra Stato) - (annulla la deliberazione del Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa adottata nella seduta del 18 dicembre 2001 e definitivamente approvata nella seduta del 10 gennaio 2002, nelle seguenti parti: art. 1 cpv.; art. 3, comma 2°, 2° parte; per quanto di ragione, art. 4, comma 1°, lett. h, nonché, laddove vi si richiamano, artt. 11 e 14; art. 15, comma 2°; art. 17, comma 2° ; art. 16, comma 3°; art. 26; per gli altri motivi del ricorso, dispone incombenti istruttori).

1. Giustizia amministrativa - Ricorso giurisdizionale - Atto impugnabile o no - Disposizioni contenute in un atto generale - Che siano immediatamente lesive - Debbono ritenersi immediatamente ed autonomamente impugnabili.

2. Pubblico impiego - Magistrati - Magistrati amministrativi - Incarichi extraistituzionali - Limitazioni previste con la deliberazione del Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa adottata nella seduta del 18 dicembre 2001 - Debbono ritenersi immediatamente impugnabili.

3. Pubblico impiego - Magistrati - Magistrati amministrativi - Incarichi extraistituzionali - Limitazioni previste con la deliberazione del Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa adottata nella seduta del 18 dicembre 2001 - Circostanza che alcune di esse siano riproduttive di altre in precedenza fissate - Non può far assumere alla deliberazione in questione natura meramente confermativa.

4. Pubblico impiego - Magistrati - Magistrati amministrativi - Incarichi extraistituzionali - Limitazioni e divieti - Possono essere previsti solo dalla legge - Fissazione di ulteriori divieti in sede di autodeterminazione amministrativa - Impossibilità.

5. Pubblico impiego - Magistrati - Magistrati amministrativi - Incarichi extraistituzionali - Limitazioni previste con la deliberazione del Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa adottata nella seduta del 18 dicembre 2001 - Illegittimità nella parte in cui si traducano, nella sostanza, in veri e propri casi di ulteriori divieti, aggiuntivi a quelli fissati dalla normativa primaria e secondaria.

1. Nel caso in cui l’atto di carattere generale contenga disposizioni che, per la loro natura ed immediatezza, incidano già sugli interessi di soggetti ben individuabili, è pacifico che a questi ultimi sia consentita una immediata reazione in via giurisdizionale avverso la capacità offensiva dell’atto generale, senza che occorra (né sia possibile) attendere l’emanazione di eventuali atti applicativi (1).

2. Debbono ritenersi immediatamente impugnabili i divieti di conferimento di incarichi extraistituzionali contenuti nella deliberazione del Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa adottata nella seduta del 18 dicembre 2001, atteso che, da un lato, l’incidenza sfavorevole dei divieti in questione è già diretta ed attuale e che, dall’altro, i divieti stessi sono chiari ed univoci, ragion per cui la lesività degli stessi non potrebbe essere neppure esclusa in ragione di una ipotetica equivocità dei loro contenuti (2).

3. La circostanza che molte delle statuizioni contenute nella deliberazione del Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa adottata nella seduta del 18 dicembre 2001 sembrano puramente riproduttive di criteri già vigenti in forza di precedenti deliberazioni dell'organo di autogoverno, non può fare ritenere la delibera stessa come meramente confermativa, atteso che con essa il Consiglio di Presidenza ha proceduto ad riesame ab imis e ad un’analisi globale di tutta la problematica degli incarichi.

4. Ai sensi del combinato disposto della legge n. 421/1992 (art. 2, 1° comma, lett. p), del d. lgs. n. 29/1993 (art. 58, commi 2° e 3°) e del d.P.R. n. 418/1993 (art. 2, 1° comma), la determinazione delle ipotesi in cui gli incarichi extraistituzionali possono essere vietati in via aprioristica ai magistrati amministrativi è rigorosamente riservata dal legislatore alle fonti normative primarie e secondarie, con la conseguenza che si deve escludere che ulteriori divieti di siffatta natura possano essere introdotti in sede di autodeterminazione amministrativa (3). Deve pertanto ritenersi che il secondo ed il terzo comma dell'art. 2 nonché l'art. 5 del d.P.R. n. 418/1993, laddove demandano al Consiglio di Presidenza il potere di valutare l'espletabilità degli incarichi sulla base dei criteri fissati dallo stesso regolamento, o predeterminati dall'organo di autogoverno, vanno intesi nel senso di riferirsi alla fissazione da parte dello stesso Consiglio di principi idonei a stabilire caso per caso, in ossequio al principio di imparzialità e trasparenza amministrativa, la sussistenza dei presupposti (anche di opportunità) per assentire o negare singoli incarichi, restando però esclusa la possibilità di introdurre per questa via altre ipotesi astratte di incompatibilità non previste dall'ordinamento.

5. Le "norme generali" contenute nella delibera del Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa adottata nella seduta del 18 dicembre del 2001 sono da ritenere illegittime tutte le volte in cui trascendano la portata propria di semplici criteri di massima e si traducano, nella sostanza, in veri e propri casi di ulteriori divieti, aggiuntivi a quelli fissati dalla normativa primaria e secondaria (4).

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(1) Cfr. Cons. Stato, sez. V, 25 marzo 1983, n. 112; VI, 31 ottobre 1992, n. 841 e 7 dicembre 1994, n. 1743.

Ha aggiunto il T.A.R. Lazio che, tuttavia, in materia, sul giudice amministrativo incombe il non sempre agevole compito di verificare caso per caso se il singolo atto generale (regolamentare o meno) abbia un’attitudine lesiva immediata, occorrendo a tal fine indagare sull’entità e sulle modalità dell’incidenza effettuale, e non semplicemente ipotetica ed eventuale, dell’atto stesso sulla sfera degli interessi individuali dei ricorrenti (Cons. Stato, sez. IV, nn. 279 del 24/3/1981 e 897 del 19/10/1993; Sez. VI, n. 556 del 6/6/1995).

(2) Cfr. Cons. Stato, sez. V, 10 giugno 1989, n. 372.

Ha osservato in proposito il T.A.R. Lazio che le limitazioni in questione, con il loro sistematico atteggiarsi in termini di "divieti" per il magistrato, piuttosto che di elastici criteri di massima assegnati dall’organo a se stesso, si presentano oggettivamente sin dall’intitolazione come precetti tesi, piuttosto che a regolare la futura condotta dell’Amministrazione, senz’altro a modificare la sfera giuridica dei terzi (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 19 ottobre 1993, n. 897): con il loro escludere a priori, quindi, l'autorizzabilità/conferibilità, e perciò l'espletabilità, di certe attività, o delle attività che sarebbero prestate in certe condizioni, i divieti in questione risultano conclusivamente dirette, in sostanza, ad operare una immediata conformazione dell’ambito delle facoltà individuali.

Le prospettate lesioni per le sfere della ricorrente, di conseguenza, non dipendono, per venire ad esistenza, dall’emanazione di pedissequi atti individuali di applicazione concreta della delibera, ma scaturiscono già da questa. All’atto generale, che ha modificato ad immagine di sé la morfologia della sfera giuridica dei magistrati della categoria interessata, gli atti applicativi non potrebbero aggiungere, invero, alcuna nota di ulteriore offensività (per un’applicazione del criterio della fonte della lesione cfr. Cons. Stato, sez. VI, n. 512 del 29/3/1996; IV, n. 1558 del 12/10/1999 e n. 2459 del 27/4/2001).

(3) Nella motivazione della sentenza, si richiama a conforto dell’assunto, quanto affermato in precedenza dallo stesso T.A.R. Lazio, Sez. I, con sentenza 27 gennaio 1995, n. 110, in Foro amm. 1995, 1073.

(4) Alla stregua del principio nella specie sono state ritenute illegittime le disposizioni contenute nella deliberazione del Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa adottata nella seduta del 18 dicembre 2001 e definitivamente approvata nella seduta del 10 gennaio 2002, nelle seguenti parti: art. 1 cpv.; art. 3, comma 2°, 2° parte; per quanto di ragione, art. 4, comma 1°, lett. h, nonché, laddove vi si richiamano, artt. 11 e 14; art. 15, comma 2° ; art. 17, comma 2°; art. 16, comma 3° ; art. 26

Per la disamina delle singole disposizioni si fa rinvio alla motivazione della sentenza.

 

 

per l'annullamento

- della deliberazione del Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa adottata nella seduta del 18 dicembre del 2001 e definitivamente approvata nella seduta del 10 gennaio 2002, successivamente comunicata, recante "norme generali per il conferimento o l'autorizzazione di incarichi non compresi nei compiti e nei doveri d'ufficio dei magistrati amministrativi";

- degli atti connessi, presupposti e conseguenziali, ivi compresi la richiesta di "verifica della scheda personale degli incarichi" di cui alla nota dell'Ufficio Servizi del Consiglio di Presidenza n. 105 del 21 gennaio 2002, e l'interpello per il conferimento degli incarichi.

(omissis)

FATTO

Con il presente ricorso, notificato in data 14 marzo 2002 e ritualmente depositato, la nominata in epigrafe, consigliere di Stato, insorge avverso la deliberazione assunta dal Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa nella seduta del 18 dicembre del 2001, definitivamente approvata il successivo 10 gennaio 2002, recante "norme generali per il conferimento o l'autorizzazione di incarichi non compresi nei compiti e nei doveri d'ufficio dei magistrati amministrativi".

Espone introduttivamente l'interessata che il Consiglio di Presidenza, nella seduta del 10 gennaio del 2002, aveva deliberato di rinviare la trattazione della sua richiesta di autorizzazione alla prosecuzione dell'incarico di consulenza in corso quale esperto giuridico presso il Ministero degli Affari Esteri al fine di acquisire la situazione complessiva dei suoi incarichi in via di espletamento, situazione da lei prontamente rappresentata con lettera del successivo giorno 18.

Il seguente 5 febbraio la stessa interessata aveva poi richiesto di essere autorizzata a ricoprire anche l'incarico di Commissario straordinario del Governo per il decentramento amministrativo, contentualmente rinunziando, peraltro, ai fini del rispetto delle nuove regole dettate dall'organo di autogoverno (che formano oggetto del presente ricorso), all'incarico in atto come consulente per gli adempimenti connessi alla liquidazione della Federconsorzi.

Il successivo 20 febbraio, infine, nell'insistere per l'autorizzazione dei già detti incarichi di Commissario straordinario e di esperto presso il M.A.E., la suddetta aveva dichiarato al Consiglio di Presidenza di rinunziare ad ogni altro incarico, riservandosi, tuttavia, l'impugnativa delle "norme generali" introdotte con la cennata delibera del 18 dicembre del 2001.

Osserva infatti la ricorrente che tale provvedimento, impedendo in modo tassativo il conferimento o l'autorizzazione di determinati incarichi, e vietandone l'assegnazione ai magistrati versanti in particolari condizioni soggettive, deve reputarsi comunque anche ex se direttamente lesivo dei suoi diritti ed interessi. Questo sia perché molte delle regole dettate dal Consiglio di Presidenza sono strutturate -formalmente e sostanzialmente- come veri e propri divieti, suscettibili di vincolare le successive determinazioni concrete dello stesso organo senza far residuare alcun margine di discrezionalità; sia perché le statuizioni della delibera incidono direttamente sullo status professionale di essa ricorrente; sia, infine, perché lo spirito ingiustificatamente restrittivo della disciplina introdotta condurrebbe, a monte, ad una riduzione delle chances di collaborazione concretamente accessibili per la categoria dei magistrati amministrativi (a tutto vantaggio delle altre, quelle dei magistrati contabili ed ordinari, degli avvocati dello Stato, ecc.).

La ricorrente, dopo avere puntualizzato tutto ciò, e premessa una prima censura di carattere generale intesa a negare l'esistenza di un potere del Consiglio di Presidenza di introdurre nella materia degli incarichi delle nuove "norme" (piuttosto che dei semplici criteri di orientamento), svolge altri venti motivi d'impugnazione, diretti all'analitica dimostrazione dell'illegittimità (per contrasto con la disciplina sovraordinata o per eccesso di potere sotto vari profili) di cospicua parte dei 29 articoli di cui si compongono le suddette "norme generali".

Si è costituita in giudizio per le amministrazioni intimate in resistenza all'impugnativa l'Avvocatura Generale dello Stato, la quale ne ha eccepito la inammissibilità sotto molteplici profili: per la carenza di un interesse immediato ed attuale in capo alla ricorrente (sia per la mancanza di provvedimenti applicativi dell'atto generale impugnato, sia per la portata indiscriminata e globale del ricorso, teso nella sostanza a promuovere un controllo astratto di legittimità sull'intero provvedimento); per la omessa impugnazione da parte sua della fonte regolamentare superiore, il d.P.R. 6 ottobre 1993 n. 418, del quale la delibera in contestazione sarebbe meramente applicativa; perché, infine, molte delle clausole di quest'ultima sarebbero puramente riproduttive di criteri già vigenti. La resistente difesa ha dedotto ed argomentato, inoltre, l'infondatezza delle censure svolte dalla ricorrente, e ha concluso per la declaratoria di inammissibilità e comunque per la reiezione del gravame.

La ricorrente con una successiva memoria ha replicato alle eccezioni avversarie (sottolineando, sul punto del suo interesse a ricorrere, di essere stata costretta dalla nuova disciplina a rinunziare a quasi tutti gli incarichi in atto, con i relativi emolumenti) e ripreso le proprie doglianze, insistendo per l'accoglimento dell'impugnativa.

Alla pubblica udienza del 19 giugno del 2002 il ricorso è stato trattenuto in decisione.

D I R I T T O

1. Come è già emerso nella precedente narrativa, l'Avvocatura Generale dello Stato ha eccepito la inammissibilità della presente impugnazione per carenza di interesse in capo alla parte ricorrente sotto molteplici profili.

1a Principalmente, la difesa erariale si è richiamata all’indirizzo giurisprudenziale secondo il quale, perché un atto amministrativo di carattere generale possa incidere su situazioni giuridiche individuali, occorre che siano emanati gli atti applicativi diretti a dare concretezza alle sue previsioni, in assenza dei quali non è normalmente riscontrabile alcuna lesione.

Nella fattispecie, quindi, la mancanza di provvedimenti applicativi dell'atto generale impugnato non potrebbe che condurre all'inammissibilità del ricorso; questa soluzione, soggiunge l'Avvocatura Generale, troverebbe conferma nella portata indiscriminatamente globale dell’impugnativa, estesa a quasi tutti gli articoli del testo della deliberazione avversata e quindi rivolta, nella sostanza, a promuovere un controllo astratto di legittimità sull'intero provvedimento in carenza di concreti e precisi interessi personali da difendere.

1aa Rileva il Tribunale che questa eccezione risulta confutata dalle deduzioni svolte dalla parte ricorrente sia nell'originario atto d'impugnazione, sia, in modo più articolato, nella memoria che lo ha seguito, con le quali è stato fatto notare che le regole fissate dal Consiglio di Presidenza devono essere considerate, nel loro insieme, direttamente lesive per le seguenti ragioni.

La gran parte di tali regole si compone di precetti che risultano formalmente e sostanzialmente strutturati come veri e propri divieti, idonei a vincolare, senza lasciare margini di discrezionalità, le successive decisioni concrete dell'organo di autogoverno.

1ab Questo vale, innanzi tutto, per le regole che precludono l'autorizzabilità di alcune tipologie di incarichi: sicché, nelle ipotesi rientranti nel campo di applicazione di tali precetti, una eventuale domanda di autorizzazione non potrebbe essere evasa dal Consiglio di Presidenza se non con un diniego.

E a questo riguardo la ricorrente, oltre a richiamarsi alla recente tendenza della pratica ad anticipare il momento della tutela giurisdizionale nei confronti delle attività amministrative procedimentalizzate, ha rammentato che la giurisprudenza tradizionale è già univoca nell'affermare l'esistenza di un onere di immediata impugnativa dell'atto generale (senza, quindi, che sia consentito attendere l'intermediazione del pedissequo atto applicativo), ad esempio, a proposito delle prescrizioni di inedificabilità dettate dai piani regolatori generali per determinate zone di territorio, ed altresì in presenza di clausole di bandi di gara o di concorso che precludano la partecipazione di determinati soggetti al procedimento selettivo.

1ac La conclusione della immediata lesività vale, del pari, per le regole della deliberazione in epigrafe attinenti al conferimento di incarichi da parte dello stesso Consiglio (regole la cui rigidità dà vita ad un meccanismo di per sé idoneo ad individuare, senza incertezza, il magistrato al quale si dovrebbe attribuire volta per volta l'incarico).

I divieti di conferimento esprimono sin d'ora una lesione della sfera degli interessi della ricorrente, perché già le precludono il conseguimento degli incarichi del tipo considerato, senza la necessità di passare attraverso appositi atti individuali di diniego.

Con riferimento, poi, al meccanismo adottato per l'individuazione su basi obiettive dei magistrati cui i singoli incarichi andrebbero volta per volta assegnati, non avrebbe senso imporre all’interessato un onere di impugnare tutti gli atti di conferimento a terzi degli incarichi distribuiti dal Consiglio (atti, comunque, strettamente esecutivi dell'iter stabilito dalla delibera, che perciò anche sotto questo profilo dovrebbe essere assoggettata ad impugnazione immediata). Il singolo conferimento, invero, non sarebbe lesivo dell'interesse fatto valere dalla ricorrente, la quale non agisce in questo giudizio avendo di mira il conseguimento di questo o quel particolare incarico, né, ovviamente, per ottenere la totalità degli incarichi astrattamente possibili, bensì si propone il ben diverso fine di mettere in discussione la legittimità dei criteri di conferimento dei quali l’organo di autogoverno si è dotato.

1ad Ad avviso del Tribunale occorre tenere presente che l’indirizzo, a base dell’eccezione erariale, della inimpugnabilità immediata degli atti amministrativi di portata generale (aventi o meno contenuto normativo), non è espressione di un principio consustanziale a tale categoria di atti e perciò inderogabile (quasi che questa fosse ontologicamente sottratta alla possibilità di un immediato gravame), ma ha un valore solo indicativo e tendenziale, riflettendo soltanto il più comune modo di atteggiarsi di fronte a tali atti dell’interesse a ricorrere nei suoi requisiti della concretezza e dell’attualità.

Normalmente, infatti, gli atti in discorso non hanno carattere immediatamente lesivo delle posizioni soggettive individuali: ed è a questi casi, appunto, che si attaglia la regola della loro impugnabilità differita, occorrendo attendere l’atto che ne faccia applicazione.

La natura degli atti in questione, tuttavia, non ne esclude l’immediata impugnabilità allorché gli stessi si rivelino, per converso, immediatamente lesivi delle posizioni soggettive degli interessati. Ove l’atto di carattere generale contenga, perciò, disposizioni che, per la loro natura ed immediatezza, incidano già sugli interessi di soggetti ben individuabili, è pacifico che a questi ultimi sia consentita una immediata reazione in via giurisdizionale avverso la capacità offensiva dell’atto generale, senza che occorra (né sia possibile) attendere l’emanazione di eventuali atti applicativi (C.d.S., V, n. 112 del 25/3/1983; VI, n. 841 del 31/10/1992 e n. 1743 del 7/12/1994).

In questa materia, pertanto, sulla giurisprudenza incombe il non sempre agevole compito di verificare caso per caso se il singolo atto generale (regolamentare o meno) abbia un’attitudine lesiva immediata, occorrendo a tal fine indagare sull’entità e sulle modalità dell’incidenza effettuale, e non semplicemente ipotetica ed eventuale, dell’atto stesso sulla sfera degli interessi individuali dei ricorrenti (C.d.S., IV, nn. 279 del 24/3/1981 e 897 del 19/10/1993; VI, n. 556 del 6/6/1995).

Ora, facendo applicazione alla fattispecie controversa dei criteri esposti emerge, appunto, che l’incidenza sfavorevole del complesso delle disposizioni impugnate è già diretta ed attuale.

Occorre subito notare che l’effettività dei pregiudizi prospettati dalla ricorrente non è qui messa in forse da fattori di incertezza legati all’avverarsi di avvenimenti futuri o comunque men che sicuri; in particolare, i pregiudizi lamentati non sono rinviati a (né quindi dipendono da) future valutazioni discrezionali da assumere nei singoli casi concreti, dal momento che la portata vincolante della gran parte delle disposizioni che saranno esaminate esclude in radice (per lo meno, per i profili che interessano il presente giudizio) che l’organo di autogoverno abbia conservato, sui corrispondenti punti regolati dall’atto impugnato, ambiti di discrezionalità.

La lesività delle disposizioni delle quali si tratta, d’altra parte, non potrebbe essere neppure esclusa in ragione di una ipotetica equivocità dei loro contenuti (cfr. C.d.S., V, n. 372 del 10/6/1989), i quali, come si avrà modo di vedere, sono sufficientemente chiari ed univoci.

Nulla impedisce, perciò, di reputare nel loro insieme immediatamente lesive le nuove statuizioni del Consiglio di Presidenza. E questa valutazione, anzi, a ben vedere si impone, in quanto le stesse, con il loro sistematico atteggiarsi (come si vedrà meglio nei paragrafi successivi) in termini di "divieti" per il magistrato, piuttosto che di elastici criteri di massima assegnati dall’organo a se stesso, si presentano oggettivamente sin dall’intitolazione come precetti tesi, piuttosto che a regolare la futura condotta dell’Amministrazione, senz’altro a modificare la sfera giuridica dei terzi (cfr. C.d.S., IV, n. 897 del 19/10/1993): con il loro escludere a priori, quindi, l'autorizzabilità/conferibilità, e perciò l'espletabilità, di certe attività, o delle attività che sarebbero prestate in certe condizioni, le statuizioni impugnate risultano conclusivamente dirette, in sostanza, ad operare una immediata conformazione –secondo la ricorrente, ovviamente, di taglio riduttivo- dell’ambito delle facoltà individuali.

Le prospettate lesioni per le sfere della ricorrente, di conseguenza, non dipendono, per venire ad esistenza, dall’emanazione di pedissequi atti individuali di applicazione concreta della delibera, ma scaturiscono già da questa. All’atto generale, che ha modificato ad immagine di sé la morfologia della sfera giuridica dei magistrati della categoria interessata, gli atti applicativi non potrebbero aggiungere, invero, alcuna nota di ulteriore offensività (per un’applicazione del criterio della fonte della lesione cfr. C.d.S. VI, n. 512 del 29/3/1996; IV, n. 1558 del 12/10/1999 e n. 2459 del 27/4/2001).

1ae Per quanto si è detto, questa prima eccezione può essere superata.

1b Altra ragione di inammissibilità del gravame risiederebbe, secondo la resistente difesa, nella mancata impugnazione della fonte regolamentare sovraordinata, il d.P.R. 6 ottobre 1993 n. 418, della quale la delibera in contestazione sarebbe meramente applicativa.

In contrario, però, è facile opporre che la ricorrente, lungi dal contestare -anche solo mediatamente- la legittimità di disposizioni del detto regolamento, semmai le invoca come parametri del sindacato da lei promosso in ordine alla legittimità delle previsioni del provvedimento in epigrafe, di talune delle quali viene appunto dedotta l’incompatibilità con la normativa superiore. Donde l’insussistenza dell’ipotizzato onere di gravame avverso il regolamento.

1c E' stato eccepito, infine, che molte delle statuizioni recate dal provvedimento in esame sarebbero puramente riproduttive di criteri già vigenti in forza di precedenti deliberazioni dell'organo di autogoverno, che il provvedimento stesso si sarebbe sostanzialmente limitato a raccogliere ed ordinare in un corpo unitario, a guisa di testo unico. Di qui la tardività delle censure avversanti articoli della delibera meramente riproduttivi di criteri preesistenti, e semplicemente riproposti con una nuova veste formale.

Non pare dubbio, tuttavia, che la riformulazione di uno o più precetti, da parte del Consiglio di Presidenza, nel contesto di un riesame ab imis e di un’analisi globale di tutta la problematica degli incarichi (anche la difesa erariale ha ammesso che la delibera non ha mancato di apportare innovazioni ai pregressi criteri, pur con la precisazione che esse interesserebbero solo dei "punti marginali"), non possedeva certo carattere di atto meramente confermativo, bensì natura di nuova manifestazione di volontà, e di riflesso non poteva non avere l’effetto di riaprire i termini per le impugnative giurisdizionali.

Per questo motivo, anche quest’ultima eccezione deve essere respinta.

1d Le considerazioni che precedono forniscono ragione dell'ammissibilità del ricorso nel suo impianto di insieme (salvo quanto dovrà dirsi a proposito di taluni suoi specifici motivi). Agli argomenti già esposti seguiranno, quando occorrerà, ulteriori rilievi tesi ad evidenziare la diretta ed autonoma lesività di singole disposizioni formanti oggetto di gravame.

2 Nel merito, il ricorso, che limitatamente alla trattazione del dodicesimo motivo -e dei successivi che ad esso si richiamano- abbisogna di incombenti istruttori, e quindi non potrà essere interamente definito mediante la presente sentenza, è per buona parte fondato.

3 Il primo motivo riflette un vizio che secondo la ricorrente percorrerebbe l'intera deliberazione in epigrafe.

Con esso viene dedotto che nell’attuale contesto ordinamentale al Consiglio di Presidenza non spetta il compito di fissare norme di stampo regolamentare volte a stabilire in termini generali ed astratti quali siano per la magistratura amministrativa gli incarichi consentiti e quelli vietati. L’organo di autogoverno ha in questa materia una competenza ben differente, che riguarda la sola definizione dei criteri applicativi delle disposizioni normative vigenti (e segnatamente di quelle del d.P.R. 6 ottobre 1993 n. 418, recante il regolamento degli incarichi dei magistrati amministrativi), con lo scopo di circoscrivere i confini della discrezionalità da esercitare al momento della concreta adozione dei provvedimenti individuali in tema di autorizzazione o conferimento di incarichi. I criteri di sua competenza non potrebbero mai tradursi, perciò, in nuove disposizioni materialmente e sostanzialmente normative, idonee ad ampliare o restringere il ventaglio delle ipotesi disciplinate a livello legislativo e regolamentare, ma dovrebbero soltanto, nel fedele rispetto dell’alveo tracciato dalle norme giuridiche vigenti, valere ad orientare le valutazioni discrezionali dell’organo nell’esplicazione del suo potere di determinare le sorti dei singoli incarichi.

Contrariamente a tutto ciò, osserva la ricorrente che la deliberazione impugnata è proprio rivolta ad introdurre ulteriori casi di divieto (esplicitamente indicati come tali), nonché condizioni e limiti all’attribuzione degli incarichi tanto stringenti e tassativi da tradursi anch’essi, sul piano sostanziale, in inammissibili divieti aggiuntivi rispetto a quelli posti in sede normativa.

3a Ai fini di un completo inquadramento della problematica così sollevata è opportuno ricordare i referenti normativi della disciplina della materia.

Occorre prendere le mosse, al riguardo, dall'art. 2, comma primo, lett. p), della legge 23 ottobre 1992, n. 421, il quale ha delegato il Governo ad emanare, tra l'altro, norme dirette a "prevedere che qualunque tipo di incarico a dipendenti della pubblica amministrazione" potesse essere conferito "in casi rigorosamente predeterminati".

All'attuazione di tale delega ha provveduto il d.lgs. 3 febbraio 1993 n. 29 e successive modificazioni ed integrazioni, il quale, all'art. 58, dopo aver stabilito (comma 2°) il divieto, per le pubbliche amministrazioni, di conferire ai dipendenti incarichi non compresi nei compiti e doveri di ufficio, che non siano espressamente previsti o disciplinati da legge o altre fonti normative o che non siano espressamente autorizzati, ha preso specificamente in considerazione, al 3° comma, i magistrati ordinari, amministrativi, contabili e militari, nonché gli avvocati e procuratori dello Stato, prevedendo che, ai fini della applicazione della disposizione generale di cui al precedente secondo comma, dovesse provvedersi all’emanazione di appositi regolamenti ex art. 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, recanti norme "dirette a determinare gli incarichi consentiti e quelli vietati" alle anzidette categorie.

Il quinto comma del medesimo art. 58 ha statuito, poi, riferendosi a tutti i pubblici dipendenti, che, in ogni caso, il conferimento operato direttamente dall'amministrazione, nonché l'autorizzazione all'esercizio di incarichi, debbano essere disposti dai rispettivi organi competenti "secondo criteri oggettivi e predeterminati, che tengano conto della specifica professionalità, tali da escludere casi di incompatibilità, sia di diritto che di fatto, nell'interesse del buon andamento della pubblica amministrazione".

Nei riguardi dei magistrati amministrativi la previsione del citato art. 58 è stata realizzata attraverso l'emanazione del d.P.R. 6 ottobre 1993, n. 418, rivolto, per espressa affermazione del suo art. 1, primo comma, a disciplinare, appunto, "gli incarichi di cui al comma 2 dell'art. 58 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, non compresi nei compiti e nei doveri di ufficio dei magistrati del Consiglio di Stato e dei tribunali amministrativi regionali"

Tale regolamento ribadisce, innanzi tutto (art. 2, primo comma), che "i magistrati amministrativi non possono ricoprire cariche, né svolgere incarichi. di cui all'art. 1..., se non nei casi espressamente previsti da leggi dello Stato o dal...regolamento" stesso.

I criteri cui attenersi per il conferimento o l'autorizzazione degli incarichi (evidentemente, in via di principio, quelli consentiti) sono a loro volta contemplati dall'art. 2, secondo comma, del medesimo decreto presidenziale, il quale stabilisce che gli stessi non possono essere conferiti né autorizzati quando il loro espletamento " … sia suscettibile di determinare una situazione pregiudizievole per l'indipendenza e l'imparzialità del magistrato, o per il prestigio e l'immagine della magistratura amministrativa".

In questa logica, il successivo terzo comma demanda al Consiglio di Presidenza la previa adozione di criteri oggettivi per valutare, fra l'altro, "la natura ed il tipo di incarico, il suo fondamento normativo, la compatibilità con l’attività d’istituto, anche sotto il profilo della durata dell’incarico medesimo e dell’impegno richiesto, il numero complessivo dei magistrati amministrativi utilizzati dall’amministrazione richiedente, l’adeguatezza dell’incarico alla qualificazione ed al prestigio del magistrato, il numero e la qualità degli incarichi espletati dal magistrato interessato nell’ultimo quinquennio, avendo speciale riguardo agli incarichi in corso di svolgimento, nonché all’opportunità che l'incarico venga espletato in relazione all'eventuale pregiudizio che possa derivare, anche di fatto, al prestigio e all'immagine del magistrato, a tal fine tenuto conto delle situazioni locali".

La disciplina è completata, infine, dall'art. 5, che, con specifico riguardo agli incarichi attribuiti da enti o amministrazioni operanti nell'ambito della regione ove ha sede l'ufficio di appartenenza del magistrato, stabilisce che "l'autorizzazione del Consiglio di presidenza è deliberata avuto riguardo, oltre che ai criteri e principi generali di cui... al regolamento, nonché agli ulteriori criteri di massima da esso stesso eventualmente fissati, agli speciali problemi che si possono porre in concreto in relazione allo svolgimento della funzione giurisdizionale nel medesimo ambito territoriale".

3b Nella vigenza dell’esposto quadro normativo di riferimento, questo Tribunale ha avuto già modo di occuparsi della questione della possibilità che il Consiglio di Presidenza, in occasione dell’emanazione dei "criteri oggettivi" previsti dall'art. 2, terzo comma, del d.P.R. n. 418/1993, introduca in via generale ed astratta dei nuovi divieti (sentenza n. 110/1995 della Sezione).

Le conclusioni allora enunciate, non essendo state offerte ragioni per discostarsene, devono essere confermate.

Con riguardo all'estensione dei poteri spettanti all’organo nella fissazione dei suddetti criteri la Sezione reputa, quindi, di dover ribadire il proprio avviso secondo il quale non può prescindersi dal principio emergente dal combinato disposto della legge n. 421/1992 (art. 2, 1° comma, lett.p), del d. lgs. n. 29/1993 (art. 58, commi 2° e 3°) e del d.P.R. n. 418/1993 (art. 2, 1° comma), sopra riportati, alla stregua del quale la determinazione delle ipotesi in cui gli incarichi possono essere vietati in via aprioristica ai magistrati amministrativi è rigorosamente riservata dal legislatore alle fonti normative primarie e secondarie, con la conseguenza che, conformemente all’assunto dei ricorrenti, si deve escludere che ulteriori divieti di siffatta natura possano essere introdotti in sede di autodeterminazione amministrativa.

Alla luce di questa incontestabile premessa, il secondo ed il terzo comma dell'art. 2 nonché l'art. 5 del d.P.R. n. 418/1993, laddove demandano al Consiglio di Presidenza il potere di valutare l'espletabilità degli incarichi sulla base dei criteri fissati dallo stesso regolamento, o predeterminati dall'organo di autogoverno, vanno intesi nel senso di riferirsi alla fissazione da parte dello stesso Consiglio di principi idonei a stabilire caso per caso, in ossequio al principio di imparzialità e trasparenza amministrativa, la sussistenza dei presupposti (anche di opportunità) per assentire o negare singoli incarichi, restando però esclusa la possibilità di introdurre per questa via altre ipotesi astratte di incompatibilità non previste dall'ordinamento.

Per quanto detto, si deve convenire con la parte ricorrente che le "norme generali" in contestazione incorrono nel vizio dedotto le quante volte trascendano la portata propria di semplici criteri di massima (nel senso che in precedenza è stato esposto) e si traducano, nella sostanza, in veri e propri casi di ulteriori divieti, aggiuntivi a quelli fissati dalla normativa primaria e secondaria.

Non potrà che essere puntualizzato caso per caso, peraltro, in sede di esame delle singole disposizioni deliberate dal Consiglio di Presidenza, quando esattamente ricorra una situazione quale quella descritta. Nella considerazione analitica delle previsioni impugnate che nel prosieguo verrà condotta, quindi, non si mancherà di sottolineare il profilarsi degli estremi di questa specifica causa di invalidità.

4 Diversamente dal primo (che aveva carattere per così dire generale), tutti i motivi successivi attengono a vizi propri di singole disposizioni.

Il secondo mezzo d'impugnativa verte sull'art. 1 della deliberazione in contestazione, che, nel suo secondo comma, individua le "motivate ragioni che possono consentire, ai sensi dell'art. 3, comma quarto, del medesimo decreto presidenziale (n.d.r.: il d.P.R. n. 418 del 1993) l'attribuzione di incarichi su richiesta nominativa, ... esclusivamente nei seguenti casi: a) incarico di collaborazione diretta prevista dall'art. 13 del decreto legge 12 giugno 2001 n. 217, convertito con modifiche dalla legge 3 agosto 2001 n. 317, ovvero incarico equiparabile presso organi costituzionali o di rilevanza costituzionale che, per i compiti da svolgere, presupponga un rapporto strettamente fiduciario con il soggetto da cui proviene la designazione; b) incarico di docenza; c) incarico che richieda il possesso di oggettive e specifiche competenze, acquisite dal soggetto designato nominativamente. I soggetti designanti devono, in ogni caso, esplicitare le ragioni che, avuto riguardo al contenuto dell'attività oggetto dell'incarico stesso, richiedono il possesso delle predette competenze."

Il motivo va esaminato congiuntamente al successivo, che censura la medesima previsione della delibera nella parte in cui, facendo riferimento, tra le ipotesi in cui è permessa l'attribuzione di incarichi su richiesta nominativa, soltanto agli incarichi di collaborazione diretta presso organi costituzionali o di rilevanza costituzionale, tratta in modo deteriore gli incarichi di analogo contenuto ricopribili presso autorità indipendenti o di garanzia (siccome privi di diretta copertura costituzionale) nonché quelli attribuibili dalle regioni e dagli enti locali (anche in queste ipotesi, secondo la ricorrente, la natura fiduciaria del rapporto dovrebbe costituire, almeno di regola, ragione sufficiente per giustificare il carattere nominativo della relativa richiesta).

4a In punto di ammissibilità di questi motivi, a completamento ed integrazione delle considerazioni di carattere generale svolte nel paragr. 1, appare opportuno evidenziare la specifica lesività delle previsioni di cui si tratta.

Già si è detto della immediata lesività dei nuovi divieti sanciti dal Consiglio di Presidenza, discendente dal fatto che gli stessi, escludendo a priori l'espletabilità di certe attività, o di quelle che sarebbero prestate in determinate condizioni, operano una diretta conformazione in senso riduttivo dell'ambito delle facoltà del soggetto. Deve essere aggiunto, qui, che un immediato interesse all'impugnativa va parimenti ravvisato in presenza di disposizioni le quali (come quelle che formano oggetto dei motivi in esame), pur non sostanziandosi in diretti divieti di attività, dettano una disciplina procedurale che, per la sua impostazione restrittiva, è verosimilmente in grado di tradursi, in punto di fatto, in un fattore di limitazione delle opportunità di collaborazione istituzionale che sono aperte ai magistrati amministrativi.

Nella specie, tutte le amministrazioni non rientranti nelle tre ipotesi nelle quali solo è stata permessa la richiesta nominativa si vedrebbero negata la possibilità di avvalersi dell’ausilio di magistrati amministrativi per posizioni presupponenti "un rapporto strettamente fiduciario con il soggetto da cui proviene la designazione", e perciò reclamanti un’opzione nominativa basata sull’intuitus personae. In una situazione siffatta, allora, è fatale che le scelte di tali amministrazioni per l’instaurazione di rapporti del genere indicato finirebbero per essere distolte dalla categoria di appartenenza dei ricorrenti, e per incanalarsi verso professionalità di categorie diverse (avvocati dello Stato, magistrati ordinari o contabili, professori universitari), per il solo fatto che nell'ambito di queste, diversamente che nella prima, una opzione fiduciaria –e, quindi, nominativa- potrebbe trovare accoglimento.

Regole come quelle in discussione, perciò, sono suscettibili di determinare una più che probabile restrizione delle opportunità per i magistrati amministrativi di ricoprire incarichi non compresi nei doveri d'ufficio. E questo rende possibile comprendere l'immediatezza della presente reazione giurisdizionale contro tali regole, motivata dall’altrettanto immediato effetto di perdita di chances ad esse riconducibile; d’altra parte, un differimento dell’accesso degli interessati alla tutela giurisdizionale al successivo momento della trattazione di una loro domanda di autorizzazione non sarebbe qui neppure praticabile, proprio per la ragione che di quest'ultima potrebbe mancare, in concreto, l'occasione.

4b Riconosciuta l'ammissibilità dei due motivi in esame, non è difficile evidenziare la loro fondatezza.

Il Consiglio di Presidenza, avendo stabilito che le "motivate ragioni" che permettono di autorizzare incarichi facendo seguito a richieste nominative sussistano unicamente nei tre casi tassativamente indicati, con le disposizioni in contestazione rinuncia a priori alla possibilità di effettuare una valutazione della specificità dell'incarico di volta in volta richiesto, e di trattare in modo simile, così, fattispecie che potrebbero essere sostanzialmente analoghe alle dette tre, siccome parimenti imperniate sulla decisiva rilevanza di un elemento di intuitus personae.

Una volta che sia stato riconosciuto quale possibile causa giustificativa di richieste di autorizzazione nominativa l'elemento della fiduciarietà di un incarico, peraltro, è ben difficile trovare razionale la sottoposizione ad un regime diametralmente opposto di altre fattispecie di collaborazione istituzionale, ugualmente connotate da tale elemento.

Se, quindi, le tre situazioni selezionate dal Consiglio di Presidenza si presentano indubbiamente meritevoli di particolare attenzione, e la richiesta di autorizzazione nominativa che rientri nel loro ambito appare ragionevolmente definibile a priori come sorretta da "motivate ragioni", è illogico, tuttavia, escludere senza eccezioni la possibilità di ogni altra richiesta nominativa, negando al di fuori di tali ipotesi persino quella valutazione caso per caso che è presupposta come evenienza normale dall'art. 3 del d.P.R. n. 418/1993. E questa conclusione si impone con particolare evidenza per le situazioni che sono state addotte con il terzo motivo di ricorso, che richiama gli incarichi presso le autorità indipendenti e di garanzia nonché quelli attribuiti dalle regioni e dagli enti locali, i quali siano assimilabili per il loro contenuto (in relazione alle caratteristiche della posizione che dovrebbe essere ricoperta) a quelli di collaborazione diretta previsti dall'art. 13 del decreto legge 12 giugno 2001 n. 217 e presuppongano perciò un rapporto strettamente fiduciario, fattispecie che più di ogni altra presentano marcati tratti di affinità rispetto a quelle privilegiate dal Consiglio di Presidenza.

Queste considerazioni conducono a ritenere illegittime le previsioni impugnate.

A loro difesa, d’altra parte, non vale invocare il favor per le richieste non nominative che pur si trae dall'art. 3, commi 2 e 4, del d.P.R. n. 418/1993, posto che il detto favore trova limite, nella stessa normativa che lo enuncia, nell’esistenza di semplici "motivate ragioni" in senso contrario, e tra queste, anche secondo il Consiglio di Presidenza, deve essere annoverata, appunto, la caratterizzazione tipicamente fiduciaria che costituisce il proprium di determinate tipologie di collaborazione istituzionale.

I due motivi vanno, pertanto, accolti.

5 Il quarto motivo attinge l'art. 3, commma secondo, seconda parte, della deliberazione.

Qui, dopo la premessa che "Non possono essere disposti il conferimento o l'autorizzazione nei casi in cui l'incarico da svolgere, per le modalità, la natura, od il contenuto delle funzioni che la stessa comporta, non si dimostri confacente allo status del magistrato e, in ogni caso, al prestigio dell'ordine cui appartiene", viene specificato che "A tale fine non sono conferibili o autorizzabili incarichi nei quali la posizione del magistrato sia gerarchicamente subordinata rispetto ad autorità che non sia di vertice dell'amministrazione e/o ad altro magistrato di qualifica meno elevata." Ed è proprio questa specificazione che forma oggetto di impugnativa, sotto più profili.

L’ammissibilità del motivo riposa sulle considerazioni che sono state svolte nel paragr. 1.

Nel merito, esso va accolto per quanto di ragione.

Ad avviso del Tribunale non merita critiche la lamentata -ma comunque relativa- oscurità della nozione posta a base della regola impugnata: le incertezze che pur si annidano nel concetto di "gerarchia" (non più che in altri di comune uso) non integrano alcun rilevante ostacolo alla sua applicazione concreta, e tanto meno la rendono impossibile.

Né potrebbe dirsi che la limitazione posta sia in se stessa inaccettabile. Le previsioni in esame si propongono di difendere il prestigio dello status magistratuale, e sono in generale sicuramente coerenti con tale fondamentale valore.

Ciò che merita censura, però, è la rigidità ed astrattezza delle regole di cui si tratta, che da criteri di massima, da applicare come ausilii per orientare valutazioni da compiere caso per caso, trascendono indebitamente a veri e propri divieti, come è stato premesso al paragrafo n. 3.

Va osservato, infatti, come anche in questa materia occorra pur sempre un giudizio di specie, onde verificare se nelle circostanze del caso concreto la dignità della funzione giurisdizionale sia effettivamente esposta a minaccia (secondo quanto i criteri dettati lascerebbero presumere). E questo vale con particolare riguardo all'eventualità che la posizione del magistrato interessato possa presentarsi prima facie come gerarchicamente subordinata rispetto ad "altro magistrato di qualifica meno elevata", atteso che il principio costituzionale per cui i magistrati si distinguono solo per la diversità delle funzioni ricoperte fa sì che le differenze di qualifica tra loro, specie quando gli stessi debbano essere adibiti a funzioni diverse da quelle giurisdizionali, assumano una significatività relativa.

Sotto il limitato profilo indicato anche questa disposizione deve, perciò, trovare annullamento.

6 La doglianza successiva riguarda l'art. 4, comma primo, lettera c), della delibera, dove viene escluso in modo categorico che possa essere conferito o autorizzato qualsiasi incarico ai magistrati "in anno sabbatico o in aspettativa, sino a quando non rientrino in servizio".

Il mezzo risulta inammissibile per difetto di interesse.

Nel ricorso ci si duole della penalizzazione, asseritamente gratuita ed immotivata, che questa previsione comporterebbe nei riguardi del magistrato collocato in aspettativa o in anno sabbatico. La ricorrente, peraltro, non ha dedotto di versare –né di essere in procinto di trovarsi- in una posizione corrispondente a quelle indicate, evenienze, del resto, del tutto straordinarie per un magistrato amministrativo. Di conseguenza, la previsione impugnata non può essere intesa come causa di una lesione corredata del requisito dell'attualità.

7 Con i motivi sesto, settimo, ottavo e nono viene dedotta l'illegittimità sotto molteplici profili dell'art. 4, comma primo, lettera h), della delibera, attinente alla tematica del cumulo degli incarichi.

La sovraordinata disciplina regolamentare (art. 4 d.P.R. n. 418/1993) dispone sull’argomento quanto segue:

1. I magistrati amministrativi possono svolgere un solo incarico che comporti attività di carattere continuativo. 2. Ai fini dell'applicazione della disposizione di cui al comma 1 non si tiene conto degli incarichi di partecipazione ad organi giurisdizionali, degli incarichi di insegnamento, di studio e di ricerca, e degli incarichi di collaborazione istituzionale che non comportino comunque un rilevante impegno di lavoro".

Il tenore delle previsioni impugnate, di contro, è il seguente: "Non può essere conferito od autorizzato alcun incarico ai magistrati che ... h) abbiano in corso, anche in posizione di fuori ruolo, un incarico continuativo: -presso l'amministrazione interessata all'incarico stesso; -presso altra amministrazione, se abbiano altresì in corso, in diversa amministrazione, un altro incarico non continuativo."

"Ai fini della presente norma si intende per incarico continuativo quello di diretta collaborazione con organi di governo (capo di gabinetto, capo ufficio legislativo, consulente giuridico ministeriale), o quello allo stesso equiparabile presso le altre amministrazioni pubbliche indicate nell'art. 3 del d.P.R. 6 dicembre 1993 n. 418, l'incarico che comporti un'applicazione superiore a due giorni alla settimana, nonché, in generale, l'incarico di docenza che comporti, complessivamente, un impegno superiore alle 140 ore nell'arco dell'anno."

"Resta fermo il divieto di cumulo di cui al primo comma dell'art. 4 del d.P.R. 6 dicembre 1993 n. 418."

Richiamati i contenuti delle disposizioni in rilievo, si può passare subito in rassegna questo gruppo di doglianze, la cui ammissibilità riposa –oltre che sulle considerazioni già svolte al n. 1- sulla constatazione che, come è emerso in narrativa, la ricorrente è già stata costretta dalla nuova disciplina a rinunziare a quasi tutti gli incarichi in atto, con i relativi emolumenti.

7a Il sesto motivo investe specificamente la previsione che nega ai magistrati aventi in corso, anche in posizione di fuori ruolo, un incarico continuativo presso una certa amministrazione, ogni altro incarico presso l'amministrazione stessa.

Questa forma di incompatibilità così introdotta praeter legem è effettivamente illegittima.

Ciò non solo perché il Consiglio di Presidenza, configurandola, ha travalicato il proprio compito di definire dei semplici criteri orientativi, fissando un vero e proprio divieto aggiuntivo rispetto a quelli contemplati dall'art. 4 del regolamento, ma anche per più penetranti ragioni attinenti alla sostanza della preclusione.

Non è dato rinvenire, infatti, alcuna apprezzabile ragione logico-giuridica che possa esonerare il Consiglio di Presidenza, in casi come quello del quale si occupa la norma, dal compiere una valutazione concreta della specifica situazione esistente, alla luce dei parametri posti dalla disciplina regolamentare, al fine di accertare se il nuovo incarico sia intrinsecamente autorizzabile.

La circostanza che un magistrato rivesta già un incarico continuativo presso un’amministrazione, invero, oltre, ed anzi ancor prima di poter essere riguardata come occasione di ipotetici abusi (che, come ha fatto notare la ricorrente, l'organo di autogoverno potrebbe tenere agevolmente sotto controllo, svolgendo il sindacato di propria competenza sulle "motivate ragioni" da addurre comunque a giustificazione della nuova richiesta nominativa), impone di osservare come non vi sia alcunché di patologico nell’eventualità che la considerazione da lui acquisita presso l'amministrazione possa indurre all'estensione della collaborazione in atto ad ulteriori ambiti.

Non senza dire, poi, dei casi in cui l’ "incarico ulteriore" presso la stessa amministrazione potrebbe non avere un’autentica valenza di attività aggiuntiva rispetto a quella già autorizzata, ma essere sostanzialmente o addirittura strumentalmente connesso a taluni aspetti della medesima, sì da poter essere considerato come una sua proiezione sostanziale.

In definitiva, quindi, ferma la centralità del prudente apprezzamento delle specificità dei singoli casi da parte del Consiglio di Presidenza, la circostanza dell'essere titolare di un incarico continuativo presso una certa amministrazione non può porre il magistrato, il quale aspiri a vedersi autorizzato presso di essa un ulteriore incarico, in posizione diversa e deteriore rispetto a quella in cui verserebbe qualora il nuovo incarico dovesse essere prestato presso un'amministrazione diversa.

7b Altrettando fondato è il settimo motivo.

Il mezzo riguarda la previsione del provvedimento impugnato che fa divieto di ottenere ulteriori incarichi al magistrato che sia già titolare di un incarico continuativo nonché di un qualsiasi altro incarico di natura diversa.

E' opportuno ricordare che la disciplina regolamentare di riferimento, sul punto, se stabilisce che "I magistrati amministrativi possono svolgere un solo incarico che comporti attività di carattere continuativo", prosegue, però, precisando che ai fini dell'applicazione di questa regola non si tiene conto degli incarichi giurisdizionali, di quelli di insegnamento, di studio e di ricerca, e soprattutto "degli incarichi di collaborazione istituzionale che non comportino comunque un rilevante impegno di lavoro".

L'indicazione impartita a livello regolamentare, dunque, è nel senso che la materia del cumulo delle attività debba trovare il proprio cardine in una valutazione caso per caso dello spessore dell'impegno lavorativo specificamente richiesto dal singolo incarico.

Posta questa premessa, appare evidente il conflitto della disposizione impugnata con l’impostazione dettata dal regolamento.

La deliberazione, infatti, alla prospettiva di valutazione prescritta dalle norme superiori, che raccomandavano un puntuale apprezzamento del peso specifico degli incarichi, intende sostituire una valutazione del tutto diversa, ben a ragione definita dalla ricorrente come meccanica e cieca, basata sulla valorizzazione del loro numero anziché del loro contenuto di impegno.

Né può revocarsi in dubbio che questa diversità di angolazione effettivamente sussista e si traduca in un elemento di conflitto. L'esperienza comune insegna, invero, che gli oneri connessi agli incarichi possono essere in pratica assai profondamente differenziati, potendo perciò verificarsi che più attività, di modestissima entità, richiedano tutte insieme energie minori di quelle assorbite da un solo incarico pur parimenti non continuativo.

Neppure in questa materia il Consiglio di Presidenza può dunque esimersi da un accurato apprezzamento caso per caso, tenendo conto dell'impegno richiesto dai singoli incarichi e del grado di puntualità con cui l'interessato attende ai propri doveri istituzionali.

7c L'ottavo motivo, di contro, è per gran parte infondato.

Vengono in rilievo, qui, i criteri con i quali la deliberazione impugnata ha definito, ai fini dell'applicazione della normativa sul cumulo degli incarichi, il concetto di "incarico continuativo" ("si intende per incarico continuativo quello di diretta collaborazione con organi di governo (capo di gabinetto, capo ufficio legislativo, consulente giuridico ministeriale), o quello allo stesso equiparabile presso le altre amministrazioni pubbliche indicate nell'art. 3 del d.P.R. 6 dicembre 1993 n. 418, l'incarico che comporti un'applicazione superiore a due giorni alla settimana, nonché, in generale, l'incarico di docenza che comporti, complessivamente, un impegno superiore alle 140 ore nell'arco dell'anno.").

Ora, non pare dubbio che il d.P.R. n. 418 abbia affidato al Consiglio di Presidenza il compito di stabilire quando ricorra un "incarico continuativo", e, ancor prima, cosa debba intendersi con tale espressione.

Ciò posto, nulla di anomalo si può certamente scorgere nel fatto in sé che l’organo si dia dei criteri per definire il suddetto concetto, come (né più né meno) con la disposizione trascritta è stato fatto.

L'attenzione va concentrata, perciò, sui criteri definitori all'uopo adottati: e questi non tardano a presentarsi, eccetto l'ultimo, come frutto di opzioni ermeneutiche immuni da vizi.

La circostanza che le fattispecie rientranti nel perimetro della nozione adottata possano assumere consistenze differenziate non toglie che le stesse -salvo quanto si dirà dell'ultima- siano comunque accomunabili in ragione dell'elemento della non occasionalità né marginalità dell'impegno da tutte loro implicato, e possano perciò essere inscritte nella nozione in questione (la quale deve pur essere riempita di contenuto).

Quanto, poi, alla presunta oscurità del limite temporale dei "due giorni alla settimana", la sua lamentata scarsa chiarezza non si rinviene. La parte ricorrente assume che tale limite "potrebbe significare un impegno totale ed assorbente nel corso delle due giornate, così come potrebbe indicare (invece) un impegno riferito alla sola presenza fisica in ufficio". Una oggettiva e serena interpretazione della previsione fa approdare, tuttavia, ad un risultato sufficientemente sicuro ed univoco: il significato del recepimento, quale metro, di un'applicazione lavorativa superiore a due giorni alla settimana non può che essere quello per cui occorre avere riguardo a giornate lavorative intere di normale intensità.

Come si è anticipato, coglie nel segno invece, la critica che è stata portata con il ricorso alla definizione quali incarichi continuativi delle docenze che comportino un impegno complessivo superiore alle 140 ore nell'anno. Tale qualificazione, invero, confligge manifestamente con la superiore norma regolamentare secondo la quale ai fini dell'applicazione della disposizione che tollera solo un incarico continuativo "non si tiene conto ... degli incarichi di insegnamento" (e, ancora una volta, solo un’approfondita e motivata valutazione caso per caso potrebbe far emergere l’atipicità di eventuali eccezionali casi-limite).

Soltanto per quest'ultimo aspetto, perciò, l’ottavo motivo può trovare accoglimento.

7d Il nono motivo è infondato.

Il ricorso è diretto per questa parte a colpire il trattamento che, sempre in tema di cumulo degli incarichi, la delibera riserva ai magistrati in posizione di fuori ruolo.

Viene qui affermato che il Consiglio di Presidenza avrebbe operato una "preconcetta penalizzazione" del magistrato fuori ruolo. In realtà, tuttavia, la deliberazione in epigrafe si limita ad equiparare la posizione del medesimo a quella del collega in ruolo titolare di un incarico continuativo, con la conseguenza che la lamentata "penalizzazione" non si evince.

L’equiparazione di principio così disposta, inoltre, è espressione di un orientamento discrezionale del Consiglio di Presidenza che non può essere considerato in sé nemmeno manifestamente illogico od irragionevole, come viene asserito in modo meramente lapidario ed apodittico nell'atto di gravame.

Il motivo, quindi, deve essere disatteso. Il che non esclude, peraltro, la possibilità che, nell'ambito delle valutazioni delle singole fattispecie di competenza dell'organo di autogoverno (e specialmente in dipendenza di quanto è stato deciso al n. 7b), la posizione di fuori ruolo rivestita da un magistrato venga fatta rientrare nella cerchia degli elementi ritenuti meritevoli di ponderazione.

7e Esaurita la disamina delle doglianze relative alla materia del cumulo degli incarichi, vanno per connessione affrontati ora anche l'undicesimo e -in parte qua- il tredicesimo motivo, che censurano l'art. 11 e l'art. 14 della delibera nella parte in cui vi sono richiamati, confermandosene l'operatività, i criteri impeditivi di cui alle lettere c) ed h) dell'art. 4 anche per gli incarichi arbitrali (l'art. 14 occupandosi di quelli di rilevante entità); lo stesso vale per il quattordicesimo motivo, che analogamente contesta l'art. 15, comma secondo, della delibera, a proposito degli incarichi nelle commissioni di concorso, ed infine anche -in parte qua- per il diciottesimo mezzo, che critica l'art. 17, il quale pure per gli incarichi di studio e gli altri incarichi non diversamente regolati richiama i criteri impeditivi dell'art. 4.

Per le ragioni che sono state esposte nei paragrafi 7a, 7b e 7c (e nei limiti in cui le censure di parte vi hanno trovato accoglimento), il richiamo all'art. 4 fatto dai susseguenti articoli appena elencati è affetto da invalidità derivata, data l'illegittimità che inficia le previsioni richiamate. Sotto i rimanenti profili, invece, questi ulteriori motivi non possono che essere disattesi per le ragioni che sono state viste nei paragrafi 6, 7c e 7d.

8 Con il decimo motivo viene sostenuta l'illegittimità dell'art. 6 della delibera, il quale stabilisce che "Non possono essere conferiti od autorizzati, per la durata di un anno solare, altri incarichi nei confronti di quei magistrati che abbiano percepito complessivamente nell'anno solare precedente -per incarichi di qualsiasi natura- emolumenti superiori alla retribuzione media della qualifica di appartenenza dei magistrati stessi. Tale criterio potrà essere derogato a seguito dell'istituzione del fondo perequativo di cui al d.P.R. 6 ottobre 1993 n. 418, nonché per gli incarichi di cui all'art. 13 del decreto legislativo n. 217 del 2001, convertito dalla legge n. 317 del 2001".

Il motivo è inammissibile per la mancata allegazione di un attuale interesse a ricorrere.

E' pur vero che la disposizione contiene una innovativa norma di divieto. Il Tribunale non può non tenere conto, però, del fatto che, atteggiandosi tale previsione secondo il modello di una clausola –per così dire- condizionale, l'operatività del divieto da essa introdotto non è certa né immediata, ma solo futura ed eventuale. Posto, quindi, che la ricorrente non ha allegato di –anche soltanto poter- versare personalmente nella situazione ipotizzata dalla delibera, soluzione obbligata è quella dell’inammissibilità della doglianza per carenza di un attuale interesse, esito che con forza ancora maggiore si impone se si pone mente alla circostanza che il divieto opposto è espressamente previsto, per giunta, come derogabile.

9 Dell'undicesimo motivo si è detto al n. 7e.

10 Il dodicesimo mezzo investe la disciplina recata dall'art. 12 della delibera per il conferimento degli incarichi di presidente di collegio arbitrale, per i quali è previsto che l'individuazione del magistrato da designare avvenga attraverso l'applicazione di una particolare formula matematica.

Il motivo può essere esaminato unitamente a quello immediatamente successivo (per quanto di esso residua dopo quello che è stato detto al n. 7e), riguardante l'art. 14 della delibera, che dispone che l'arbitrato "di rilevante entità e in ogni caso di petitum pari o superiore ai cinquantamilioni di euro" possa essere conferito, sempre in base alla formula dell'art. 12, fra i magistrati che abbiano maturato il trattamento economico inerente alle funzioni direttive superiori.

A proposito di questi motivi, preliminare all'esame dei molteplici rilievi con essi mossi è una completa comprensione del meccanismo operativo e delle conseguenze pratiche (identificate dalle parti in causa in termini contrastanti) discendenti dall'applicazione della complessa formula matematica adottata dal Consiglio di Presidenza.

Di qui, riservando al definitivo ogni questione inerente anche in rito ai motivi in discorso, l'opportunità di acquisire elementi istruttori, nella forma di una relazione di chiarimenti sulle concrete modalità di funzionamento della formula con specifico riguardo alle applicazioni che la stessa ha fin qui avuto nelle attività amministrative -anche solo istruttorie- dell'organo di autogoverno.

L'istruttoria dovrà essere eseguita nei termini fissati dal dispositivo della presente sentenza, restando naturalmente sospesa, nelle more, ogni determinazione.

L’incombente vale anche per il diciottesimo motivo, nella parte in cui lo stesso ripropone, avverso l'art. 17 della delibera, le doglianze avanzate contro la formula matematica del precedente art. 12.

11 Il quattordicesimo motivo è stato già affrontato al n. 7e.

12 Va preso ora in considerazione il quindicesimo motivo.

Il mezzo, che merita accoglimento, si prefigge di contrastare l'art. 15, comma secondo, della delibera, con il quale è stato disposto che "non possono essere conferiti incarichi nelle commissioni di concorso ai magistrati che abbiano ottenuto dal Consiglio di Presidenza, nello stesso anno solare, il conferimento di un incarico di identica natura".

Deduce la ricorrente che questo criterio, con la sua rigidità, preclude in modo incondizionato la possibilità di partecipare a più di una commissione di concorso anche in presenza di oggettive ragioni che potrebbero, invece, giustificare una deroga al principio.

Il rilievo è stato esteso anche al secondo comma dell'art. 17 della delibera, che detta una preclusione simile con riferimento agli incarichi di studio e di ricerca per i magistrati che nello stesso anno solare se ne siano già visti conferire uno.

Ora, non è difficile avvedersi che anche in questo caso, come rispetto a precedenti censure, il Consiglio di Presidenza, travalicando l'alveo del proprio potere di darsi dei criteri di massima come ausilii per le proprie determinazioni relative ai casi concreti, è addivenuto alla formulazione di divieti.

Nessun particolare ostacolo impedirebbe che previsioni come quelle in contestazione venissero adottate come semplici criteri di massima, e che a loro l'organo di autogoverno ispirasse la propria azione, anche in omaggio ed in attuazione del principio di equa ripartizione giustamente richiamato dalla difesa erariale. Ancora una volta, però, merita censura la categoricità delle regole che con la deliberazione l’organo si è dato.

L’elevazione delle previsioni a fonti di un vero e proprio divieto (come qui è stato fatto), a parte le considerazioni che sono state svolte in occasione dell’esame del primo motivo di ricorso, presta il fianco anche alla dedotta censura di eccesso di potere ed irragionevolezza: basti pensare alla possibile opportunità per l'interesse pubblico di aggregare procedure concorsuali (o, eventualmente, incarichi di studio) in rapporto di connessione tra loro, e alla circostanza che la parità di trattamento e la stessa equa ripartizione possono ben esigere che incarichi omogenei di entità particolarmente modesta vengano accorpati; non si può escludere, infine, per le presidenze di commissioni di concorso, che un cumulo di incarichi potrebbe risultare talora perfino imposto dalla penuria di aspiranti "legittimati".

Per quanto detto, ambedue le disposizioni, nei termini in cui sono state formulate, devono essere annullate.

13 Con le due censure successive viene avversato il disposto dell'art. 16, comma terzo, della delibera, il quale recita " ... sono comunque vietati gli incarichi di studio, ricerca e collaborazione presso le regioni, nonché presso gli enti territoriali e locali".

Anche di questi motivi si impone uno scrutinio favorevole.

Si è visto nel precedente paragrafo 3 che il Consiglio di Presidenza non può introdurre divieti aggiuntivi rispetto a quelli enunciati nel d.P.R. n. 418/1993 (o, eventualmente, nella disciplina ad esso sovraordinata).

E’ agevole osservare, ora, che il divieto delineato dall’art. 16 ult. comma delle nuove regole adottate dal Consiglio non trova riscontro nel regolamento, le norme del quale non escludono affatto l’espletabilità di incarichi da parte di magistrati amministrativi presso le regioni e gli altri enti territoriali.

L’art. 5 del regolamento, infatti, proprio con riferimento agli incarichi da svolgere in ambito locale, si limita a richiamare la necessità che la valutazione di competenza del Consiglio di Presidenza venga effettuata avendo riguardo, oltre che ai criteri e principi generali di cui al regolamento ed a quelli di massima da esso organo eventualmente fissati, "agli speciali problemi che si possono porre –si noti- in concreto in relazione allo svolgimento della funzione giurisdizionale nel medesimo ambito territoriale".

Con ciò, quindi, questo articolo afferma la possibilità di una rilevanza solo "in concreto" dei problemi indicati, e non già come fattispecie la cui sussistenza sia di per sè preclusiva dello svolgimento dell'incarico.

A maggior ragione una preclusione non può esserci, allora, quando il magistrato interessato non svolga le proprie funzioni d’istituto nel bacino dell’ente territoriale interessato.

Sicché l’art. 5, per il fatto di essersi occupato della materia degli incarichi in sede locale senza dettare divieti di principio, ma solo rinviando ad una valutazione caso per caso quando siano interessati all’incarico magistrati incardinati nella medesima circoscrizione territoriale, al fine di evitare problemi di incompatibilità, ha implicitamente inscritto con ciò stesso gli incarichi della suddetta tipologia –per lo meno le quante volte un problema di incompatibilità non possa sorgere- tra gli incarichi di regola consentiti.

Se il legislatore, dunque, pur essendosi riservata la determinazione delle ipotesi in cui gli incarichi debbano essere vietati, non ha ritenuto di far assurgere a motivo di preclusione assoluta neppure lo svolgimento della funzione giurisdizionale nel medesimo ambito territoriale di riferimento dell'incarico, attribuendo a tale situazione il limitato effetto di richiamare l'attenzione dell'organo competente sulla possibilità che si determinino in concreto situazioni di appannato prestigio (per il magistrato o per l'Istituzione nel suo complesso), va conseguentemente escluso che tra i poteri dell'organo stesso rientri quello di vietare tout court tutti gli incarichi di studio, ricerca e collaborazione presso le regioni nonché presso gli enti territoriali e locali.

La scelta del potere regolamentare non è, del resto, priva di senso. Dal punto di vista della difesa dei valori di indipendenza e di terzietà della giurisdizione –sulla cui basilarità nessun dubbio è ammissibile-, un incarico in sede regionale o infraregionale può ben dare adito a valutazioni e ad un trattamento simile a quello dettato per gli incarichi a livello statale, laddove, per converso, sarebbe proprio una regolamentazione delle due tipologie di incarichi in termini aprioristicamente contrapposti, e perciò contraddittori, ad avere una dubbia giustificazione logica.

La preclusione dettata dalla Consiglio di Presidenza, oltre che priva di copertura regolamentare, risulta infine ispirata a criteri contraddittori anche rispetto al vigente assetto costituzionale della Repubblica, soprattutto alla luce della riorganizzazione delle competenze legislative ed amministrative appena introdotta con la legge costituzionale n. 3 del 18/10/2001 sotto il segno del ridimensionamento delle prerogative statali proprio a vantaggio delle regioni e degli altri enti pubblici territoriali.

14 Il diciottesimo motivo di ricorso investe l’art. 17 della delibera.

A proposito di questo articolo, con riferimento ai rinvii da esso compiuti agli artt. 4 e 12 dello stesso provvedimento non resta che richiamare quanto è stato detto nei precedenti paragrafi 7e e 10; quanto alla preclusione, posta dal secondo comma dell'art. 17, secondo la quale gli incarichi di studio e gli altri non diversamente regolati " ... non possono essere conferiti ... ai magistrati che abbiano ottenuto dal Consiglio di Presidenza, nello stesso anno solare, il conferimento di un incarico di identica natura", la sua invalidità è stata già accertata al paragrafo 12.

15 Il diciannovesimo mezzo attiene alle disposizioni poste in tema di partecipazione a seminari dall'art. 22 della delibera.

Questo, nel suo contenuto originario, in sintesi prevedeva: che la partecipazione a seminari di impegno superiore alle tre giornate era soggetta alla sola presa d'atto (primo comma); che per i seminari di impegno inferiore alle tre giornate ed i convegni non occorreva neppure tale forma di assenso (secondo comma); che, tuttavia, per i seminari implicanti anche solo in parte attività di docenza era necessaria un'autorizzazione (terzo comma).

Avverso questa disciplina è stato obiettato che essa lasciava priva di regolamentazione l'ipotesi dei seminari di durata di tre giorni, ed altresì che doveva ritenersi illogico e contraddittorio il disposto del terzo comma dell'articolo, in quanto tutti i seminari comporterebbero un’attività di docenza.

Come ha fatto notare la difesa erariale, peraltro, la disciplina contenuta nell'art. 22 è stata nelle more modificata. Ed è agevole notare che la nuova versione dell'articolo non offre più appiglio alle critiche surriferite: essa riguarda, infatti, tutti i seminari, convegni et similia non superiori alle tre giornate (e quindi anche quelli che abbiano esattamente tale durata); risulta abbandonata, inoltre, la precedente, contestata distinzione, nell'ambito dei seminari, tra quelli aventi contenuto didattico e quelli privi di tale natura, e la partecipazione ad essi è assoggettata in ogni caso alla medesima disciplina prevista per i corsi di formazione, di aggiornamento e perfezionamento (e dunque per le attività didattiche).

Sicché da quanto detto emerge un'assorbente improcedibilità del motivo per sopravvenuta carenza di interesse.

16 Il penultimo mezzo ha per oggetto la disciplina dettata dalla delibera sul tema della pubblicità degli incarichi.

Sull'argomento il d.P.R. n. 418/1993 stabilisce, all'art. 7, il seguente regime:

"1. Presso il Consiglio di Presidenza della giustizia amministrativa è tenuto un elenco nominativo, aggiornato sino al mese precedente, di tutti gli incarichi, conferiti o autorizzati, e dei relativi compensi. Di tale elenco possono prendere visione tutti i magistrati amministrativi, con le modalità previste dal Consiglio medesimo e, in ogni caso, con obbligo di riservatezza."

"2. Chi abbia un interesse giuridicamente rilevante, ai sensi della legge 7 agosto 1990 n. 241, e del decreto del Presidente della Repubblica 27 giugno 1992 n. 352, può prendere visione, secondo i criteri e le modalità stabilite dal Consiglio di Presidenza medesimo, dei dati risultanti in elenco."

"3. E' in ogni caso pubblico l'elenco degli incarichi in corso di svolgimento con la sola indicazione degli estremi del conferimento o dell'autorizzazione."

Il regolamento, pertanto, a proposito dell'elenco degli incarichi dei magistrati amministrativi, distingue l'accesso al documento nella sua interezza (accordandolo, oltre che a tutti i magistrati della categoria, solo a chi sia in grado di allegare in concreto un interesse giuridicamente rilevante ai sensi della normativa in materia di accesso) dalla vera e propria pubblicità, che il terzo comma appena visto vuole circoscritta ad una porzione limitata dell'elenco: vale a dire, alla "sola indicazione degli estremi del conferimento o dell'autorizzazione" degli incarichi in corso di svolgimento.

Di contro, nell'art. 26 della delibera del Consiglio di Presidenza si legge: "Fermo restando quanto previsto dall'art. 7, comma primo e secondo, del d.P.R. 6 dicembre 1993 n. 418, ai fini dell'attuazione del terzo comma dello stesso articolo, alla bacheca riservata, presso ogni T.A.R. od il Consiglio di Stato, alle comunicazione riguardanti gli avvocati, deve essere affisso l'avviso che presso l'ufficio del segretario generale del tribunale o della sezione del Consiglio stesso è disponibile l'elenco degli incarichi conferiti o autorizzati nei confronti dei magistrati in servizio presso la sede giurisdizionale o consultiva di appartenenza".

La deliberazione impugnata, dunque, introduce una disciplina dichiaratamente intesa a dare attuazione alla forma di pubblicità prevista dal terzo comma dell'art. 7 del regolamento (onde già per questo è fuori strada la tesi difensiva che invoca come norma facultizzante il secondo comma dell'art. 7, nella parte che prevede la fissazione di criteri e modalità in tema, però, di accesso) che tuttavia ignora, obliterandoli, i limiti oggettivi che tale terzo comma aveva imposto, giacché, a differenza di questo, prefigura una misura di pubblicità riferita alla totalità delle indicazioni contenute nell'elenco degli incarichi dei magistrati in servizio nella singola sede.

Il citato art. 26, violando i limiti posti dalla normativa alla quale avrebbe dovuto assicurare attuazione, vi confligge. In ragione di questo conflitto, ed entro i confini di esso, anche questo articolo deve essere, pertanto, annullato.

17 Il ventunesimo ed ultimo mezzo d'impugnativa concerne il conclusivo art. 29 del provvedimento, il quale recita: "I presenti criteri entrano in vigore il 1° gennaio 2002".

La tesi svolta nel ricorso è che la delibera non avrebbe potuto investire le domande che all'epoca della sua entrata in vigore erano già pendenti presso il Consiglio, ma avrebbe potuto trovare applicazione unicamente per le pratiche aperte dopo tale momento.

La ricorrente avrebbe un potenziale interesse a far valere la censura, in quanto alla data del 1° gennaio 2002 era -a quanto emerge- già pendente la sua domanda di autorizzazione a proseguire l'incarico di consulenza presso il Ministero degli Affari Esteri, e lei stessa si è doluta di essere stata costretta a rinunziare ad altri incarichi in corso (pur con riserva di gravame) per conformarsi alle restrizioni introdotte dal nuovo regime del cumulo degli incarichi.

L'interesse rilevato alla base della censura risulta in concreto, però, assorbito dall'accoglimento, sopra disposto, del settimo motivo di ricorso, che conduce il Tribunale ad annullare il divieto, recato dalla delibera, di autorizzare ulteriori incarichi in favore dei magistrati già titolari di due incarichi di cui uno continuativo.

Si può quindi concludere per la sopravvenuta carenza di interesse a sostegno di quest'ultima doglianza.

18 In conclusione, il dodicesimo motivo, nonché il tredicesimo ed il diciottesimo (nella parte in cui si richiamano al primo), richiedono incombenti istruttori; i motivi quinto e decimo risultano inammissibili per carenza di interesse; il diciannovesimo ed il ventunesimo sono improcedibili per sopravvenuto difetto di interesse; l'ottavo motivo, nella parte indicata al paragr. 7c, ed il nono mezzo nella sua interezza, devono essere respinti nel merito; i motivi undicesimo, quattordicesimo, nonché -per i profili non interessati dall'istruttoria- tredicesimo e diciottesimo vanno disattesi nei limiti e nei termini che sono stati appena indicati per i motivi 5°, 8° e 9°, sui quali erano stati parzialmente modellati; i rimanenti motivi devono essere accolti.

Il regolamento delle spese processuali resta riservato alla pronuncia definitiva.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Sezione I, parzialmente pronunziando sul ricorso in epigrafe, così dispone:

- riservata al definitivo ogni pronunzia in rito, nel merito e sulle spese sui motivi dodicesimo, nonché tredicesimo e diciottesimo (nella parte in cui si richiamano al primo), ordina al Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa il deposito degli elementi istruttori di cui al paragr. 10 della motivazione, da effettuarsi presso la Segreteria della Sezione nel termine di giorni quaranta dalla notificazione o comunicazione in via amministrativa della presente sentenza;

- dichiara i motivi contemplati nel paragr. 18 della motivazione inammissibili, improcedibili ed infondati nei termini ivi rispettivamente indicati;

- accoglie il ricorso per quanto residua, e per l'effetto annulla la deliberazione impugnata nelle seguenti parti: art. 1 cpv.; art. 3, comma 2°, 2° parte; per quanto di ragione, art. 4, comma 1°, lett. h, nonché, laddove vi si richiamano, artt. 11 e 14; art. 15, comma 2° ; art. 17, comma 2° ; art. 16, comma 3° ; art. 26, per quanto di ragione.

Fissa per la prosecuzione del giudizio la udienza pubblica del 29/1/2003.

La presente decisione sarà eseguita dall'Autorità amministrativa.

Così deciso in Roma, Camera di consiglio del 19/6/2002.

Depositata in Segreteria il 31 ottobre 2002.

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