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n. 3-2003 - © copyright.

TAR LAZIO, SEZ. I – Sentenza 17 marzo 2003 n. 2065 - Pres. Calabrò, Est. Gaviano - A. (Avv.ti M. Sanino, C. Celani e L. Miani) c. Consiglio Superiore della Magistratura, Ministero della Giustizia ed altri (Avv. Stato G. Arena) - (dichiara inammissibile il ricorso per carenza di interesse).

1. Giustizia amministrativa - Ricorso giurisdizionale - Interesse all’impugnazione - Accertamento dell’utilità concreta che il ricorrente trarrebbe dall’accoglimento del ricorso - Necessità.

2. Giustizia amministrativa - Ricorso giurisdizionale - Atto impugnabile o no - Atti preparatori, infraprocedimentali, o comunque meramente prodromici - Non sono da ritenere immediatamente impugnabili - Ragioni.

3. Giustizia amministrativa - Ricorso giurisdizionale - Atto impugnabile o no - Atto di contestazione di addebiti - Non è autonomamente impugnabile.

4. Giustizia amministrativa - Ricorso giurisdizionale - Generica impugnativa degli atti presupposti o comunque connessi - Non può ricomprendere gli atti non nominati.

1. Ai fini dell’ammissibilità di un ricorso giurisdizionale amministrativo occorre, in base al principio generale espresso dall’art. 100 del cod. proc. civ., che la sua proposizione sia sorretta da un corrispondente interesse ad agire e che, quindi, il ricorrente denunzi una lesione concreta ed attuale e richieda al giudice adito l’adozione di una pronuncia suscettibile di arrecargli una utilità, ovviando alla lesione stessa.

2. Sussiste la possibilità di una concreta lesione soltanto in presenza di un provvedimento immediatamente efficace; non sussiste vicaversa l’interesse ad impugnare (oltre che gli atti non ancora emanati) gli atti preparatori ed infraprocedimentali o comunque meramente prodromici, per l’ovvia ragione che gli stessi, essendo improduttivi di effetti esterni, non sono suscettibili di incidere concretamente nella sfera giuridica degli amministrati, e che unicamente dal provvedimento conclusivo della sequenza procedimentale potrà scaturire la concreta lesione di un interesse (1).

3. Non è impugnabile l’atto di contestazione degli addebiti, potendo questo essere gravato solo unitamente al successivo provvedimento finale (2); altrettanto è da ritenersi per l’atto con il quale un’amministrazione ha stabilito di instaurare un determinato procedimento disciplinare (3).

4. La formula di stile inserita nel ricorso secondo cui lo stesso deve intendersi proposto anche avverso tutti gli atti presupposti, connessi, conseguenti et similia, non vale ad estendere l’oggetto di un gravame fino a farvi ricomprendere atti non nominati e dei quali non sia possibile ricavare l’individuazione e la contestazione dal testo dell’atto introduttivo del giudizio (4).

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(1) Cfr., tra le tante, C.G.A., 2 giugno 1988, n. 103; sez. IV, 26 febbraio 1985, n. 60 e 26 giugno 1980, n. 715.

(2) Cons. Stato, sez. V, 29 luglio 1977, n. 822.

(3) Cons. Stato, sez. V, 6 giugno 1990, n. 490.

Alla stregua del principio il T.A.R. ha ritenuto non impugnabili gli atti di una inchiesta preliminare interna che avevano dato luogo all’inizio di un procedimento disciplinare nei confronti di un magistrato della I Sezione civile della Corte di Cassazione, a seguito dell’esposto di una funzionaria concernente fatti di molestie sessuali.

(4) Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 9 novembre 1993 n. 981 e 6 giugno 1983, n. 401; sez. VI, 13 aprile 1994, n. 512.

 

 

(omissis)

per l’annullamento

- degli atti e provvedimenti, di data ed estremi sconosciuti, con i quali è stata disposta un’inchiesta interna nei confronti del ricorrente da parte del Primo Presidente e del Procuratore generale della Suprema Corte di Cassazione;

- di ogni altro atto a questi annesso, connesso, presupposto e/o consequenziale, ivi compreso quello con il quale il Procuratore generale ha delegato il Presidente della Corte a svolgere la suddetta inchiesta.

(omissis)

FATTO e DIRITTO

Con il ricorso in epigrafe, notificato in data 25/7/2001 e ritualmente depositato, il dott. M. A., magistrato della I Sezione civile della Corte di Cassazione, insorgeva avverso gli atti con i quali era stata disposta e condotta a suo carico un’inchiesta interna da parte del Primo Presidente e del Procuratore generale della stessa Corte, a seguito dell’esposto di una funzionaria in data 6/7/2000 concernente fatti di molestie sessuali.

A fondamento dell’impugnativa veniva dedotto un unico, articolato motivo di gravame, con il quale venivano ascritti agli atti impugnati vari profili di violazione di legge e di eccesso di potere. In sintesi, nel ricorso si osservava: che titolari della potestà disciplinare sono soltanto il Ministro della Giustizia ed il Procuratore generale, e che i relativi procedimenti possono essere condotti unicamente dagli organi medesimi, senza possibilità di deleghe; che a maggior ragione doveva ritenersi illegittima la subdelega all’uopo conferita dal Primo Presidente della Corte ad un dirigente di cancelleria; che, infine, l’avvio del procedimento avrebbe dovuto essere preceduto dalla comunicazione prevista dall’art. 7 della legge n. 241/1990, non ricorrendo ragioni di urgenza.

L’Avvocatura generale dello Stato, costituitasi in giudizio per le amministrazioni intimate, eccepiva la inammissibilità sotto più profili e deduceva comunque l’infondatezza del ricorso, formulando le conseguenti conclusioni.

Dalla documentazione da essa allegata risultava, in particolare: che dopo gli accertamenti che formano oggetto di contestazione, che avevano avuto la funzione di una verifica preliminare di attendibilità dell’esposto, il 20 luglio del 2000 il Procuratore generale aveva promosso l’azione disciplinare a carico dell’interessato per violazione dell’art. 18 del r.d.l. 31/5/1946 n. 511, per avere tenuto in ufficio, abusando delle proprie qualità e funzioni, una condotta (appunto, di molestie sessuali sul personale amministrativo) tale da renderlo immeritevole della fiducia e della considerazione di cui avrebbe dovuto godere, compromettendo altresì il prestigio dell’ordine giudiziario; che nel frattempo per gli stessi fatti era stato avviato un procedimento penale, che si era concluso in primo grado con sentenza del G.I.P. di Roma in data 13/3/2001 di condanna del ricorrente alla pena di un anno di reclusione; che l’interessato era stato indi collocato a riposo con delibera consiliare in data 5/4/2001 su sua domanda; che in considerazione di quest’ultima circostanza lo stesso Consiglio Superiore della Magistratura aveva concluso il procedimento disciplinare a suo carico con deliberazione dell’8/6-3/7/2001 di non doversi procedere per effetto della cessazione dell’appartenenza dell’incolpato all’Ordine giudiziario; che, infine, il ricorso proposto dal dott. A. avverso tale decisione era stato dichiarato inammissibile dalle SS.UU. con sentenza n. 11201/2002.

La parte ricorrente con due successive memorie controdeduceva alle eccezioni avversarie ed insisteva per l’accoglimento dell’impugnativa, che alla pubblica udienza del 15/1/2003 veniva trattenuta in decisione.

Osserva il Tribunale che il gravame – che non si ravvisano ragioni per riunire al n. 7461/2001- è inammissibile per carenza di interesse a ricorrere.

E’ noto, invero, che ai fini dell’ammissibilità di un ricorso giurisdizionale amministrativo occorre, in base al principio generale espresso dall’art. 100 del cod. proc. civ., che la sua proposizione sia sorretta da un corrispondente interesse ad agire.

E’ necessario, pertanto, che il ricorrente denunzi una lesione concreta ed attuale, e richieda al giudice adito l’adozione di una pronuncia suscettibile di arrecargli una utilità ovviando alla lesione stessa.

In applicazione di tali pacifici principi la giurisprudenza ravvisa la possibilità di una concreta lesione soltanto in presenza di un provvedimento immediatamente efficace. Si suole escludere, quindi, l’interesse ad impugnare (oltre che gli atti non ancora emanati) gli atti preparatori ed infraprocedimentali, o comunque meramente prodromici, per l’ovvia ragione che gli stessi, essendo improduttivi di effetti esterni, non sono suscettibili di incidere concretamente nella sfera giuridica degli amministrati, e che unicamente dal provvedimento conclusivo della sequenza procedimentale potrà scaturire la concreta lesione di un interesse (si vedano, a puro titolo esemplificativo: C.G.A., n. 103 del 2/6/1988; IV, n. 60 del 26/2/1985 e n. 715 del 26/6/1980; VI, n. 345 del 7/7/1982; V, n. 101 del 5/2/1976). Di tali atti, dunque, si esclude l’autonoma impugnabilità. La lesione degli interessi in giuoco potrà eventualmente verificarsi soltanto attraverso l’adozione dell’atto conclusivo del procedimento, contro il quale, pertanto, dovrà essere rivolta l’impugnativa giurisdizionale, salva la possibilità, in tale occasione, di impugnare congiuntamente l’atto preparatorio viziato e viziante.

Facendo applicazione dei principi esposti al procedimento amministrativo disciplinare, è agevole osservare che è soltanto con il provvedimento che lo definisce che può prodursi un effetto giuridico –e, quindi, materializzarsi un’apprezzabile lesione- nella sfera del dipendente. La giurisprudenza, perciò, ha escluso l’impugnabilità dell’atto di contestazione degli addebiti, insegnando che esso poteva essere gravato solo unitamente al successivo provvedimento finale (C.d.S., V, n. 822 del 29/7/1977); e la stessa impostazione è stata seguita sull’impugnativa avverso l’atto con il quale un’amministrazione aveva stabilito di instaurare un determinato procedimento disciplinare (C.d.S., V, n. 490 del 6/6/1990).

Pertanto, gli atti di inchiesta preliminare interna che formano oggetto della presente impugnativa non erano suscettibili di autonomo gravame. D’altra parte, la formula di stile per cui un ricorso deve intendersi proposto anche avverso tutti gli atti presupposti, connessi, conseguenti et similia, non vale ad estendere l’oggetto di un gravame fino a farvi ricomprendere atti non nominati e dei quali non sia possibile ricavare l’individuazione e la contestazione dal testo dell’atto introduttivo del giudizio (cfr. ad es. C.d.S., IV, n. 981 del 9/11/1993 e n. 401 del 6/6/1983; VI, n. 512 del 13/4/1994). Da tutto ciò consegue che il ricorso risulta inammissibile: conclusione che tanto più si impone se si considera che questo è stato proposto dopo il pensionamento dell’interessato, e addirittura dopo la chiusura del procedimento disciplinare a suo carico, quando il medesimo non era quindi più in servizio (considerazione che vale a maggior ragione ad escludere che l’impugnativa potesse arrecare una qualche effettiva utilità).

Se si considera, infine, che il ricorrente è volontariamente cessato dal rapporto di servizio in pendenza del procedimento disciplinare (presentando domanda di collocamento a riposo, e nello stesso tempo rimanendo anche ingiustificatamente assente dal servizio, per invocare poi l’istituto della decadenza), sì da provocare attraverso la propria volontaria cessazione dell’appartenenza all’Ordine giudiziario l’inevitabile estinzione del procedimento stesso, si comprende come il presente ricorso non potrebbe trovare ragione d’essere neppure nella tutela di un eventuale interesse di ordine morale all’accertamento della verità dei fatti.

Per le ragioni esposte, in conclusione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

Si rinvengono ragioni tali da giustificare la compensazione delle spese processuali tra le parti.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Sezione I, dichiara inammissibile il ricorso in epigrafe per carenza di interesse.

Spese compensate.

La presente decisione sarà eseguita dall'Autorità amministrativa.

Così deciso in Roma, Camera di consiglio del 15/1/2003.

Il Presidente

L'estensore

Depositata in segreteria in data 17 marzo 2003.

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