TAR LAZIO, SEZ. III – Sentenza 16 ottobre 2002 n. 8720 – Pres. Cossu, Est. Savo Amodio - Tecnosoa – Società Organismo di Attestazione S.p.a. (Avv.ti Torchia, Di Nitto e Romanucci) c. Autorità per la Vigilanza sui Lavori Pubblici (Avv. Stato Corsini) e con l’intervento ad adiuvandum di Di Persio Costruzioni S.a.s. (Avv. Fazzini), Ditta "Cericola Carlo" (Avv. Natarella) e Cecim S.a.s. (Avv. Astorino) – (accoglie il ricorso).
1. Giustizia amministrativa – Ricorso giurisdizionale – Legittimazione attiva – Delle S.O.A. – Nel caso impugnativa di determinazioni dell’Autorità di Vigilanza che interpretano la normativa e che precludono di svolgere determinate attività – Va riconosciuta.
2. Opere pubbliche - Società Organismo di Attestazione (S.O.A.) – Attestazione – Beneficio premiante ex art. 19 D.P.R. 25 gennaio 2000 n. 34 – Applicabilità anche alle società diverse dalle s.p.a. – Sussiste.
3. Giustizia amministrativa – Risarcimento dei danni – Derivanti da lesione di interessi legittimi – Danno per contrazione dell’attività svolta dal ricorrente – Dimostrazione del nesso eziologico tra provvedimento e danno – Necessità – Mancanza – Inammissibilità della richiesta.
4. Giustizia amministrativa – Risarcimento dei danni – Derivanti da lesione di interessi legittimi – Danno all’immagine – E’ da ritenere risarcito attraverso l’annullamento dell’atto.
1. Poichè le Società Organismo di Attestazione (S.O.A.) previste dal D.P.R. 25 gennaio 2000 n. 34 hanno il compito primario di applicare le disposizioni normative di riferimento nell’espletamento dell’incarico di attestazione, contrattualmente assunto con le singole imprese, alle Società stesse è da riconoscere la legittimazione ad impugnare le determinazioni dell’Autorità di Vigilanza sui LL.PP. non solo sotto il profilo dell’esattezza dell’interpretazione fornita dall’Autorità stessa, ma sotto quello della sussistenza del potere esercitato.
2. L’art. 19 del D.P.R. 25 gennaio 2000, n. 34, disciplinante il sistema di qualificazione per gli esecutori di lavori pubblici, il quale prevede il beneficio dell’incremento convenzionale premiante, è da ritenere applicabile a tutte le imprese in possesso di determinati requisiti e, quindi, anche a quelle che non siano società di capitali. Sono pertanto illegittimi gli atti adottati dall’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici, che hanno negato l’applicabilità della norma in questione alle imprese che non siano società per azioni (1).
3. E’ inammissibile e comunque infondata la domanda di risarcimento dei danni derivanti dalla lesione di interessi legittimi, nel caso in cui sia stato lamentato che l’adozione dell’atto illegittimo ha comportato una contrazione dell’attività svolta dal ricorrente ma non sia stata fornita alcuna prova del nesso causale tra l’azione amministrativa e la contrazione dell’attività svolta, ben potendo quest’ultima essere l’effetto della difficile congiuntura economica generale ovvero di difficoltà specifiche del ricorrente stesso.
4. Il danno all’immagine derivato dall’adozione di un provvedimento amministrativo illegittimo è da ritenere reintegrato attraverso l’annullamento giurisdizionale del provvedimento stesso.
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(1) Come risulta dalla motivazione della sentenza in rassegna, il T.A.R. Lazio ha ritenuto di condividere la tesi della ricorrente secondo cui l’interpretazione fornita dall’Autorità si scontrerebbe non solo con la lettera, ma anche con la ratio sottesa all’art. 19 del D.P.R. n. 34 del 2000, ingenerando un’inammissibile disparità di trattamento all’interno della categoria unitaria delle imprese da qualificare.
L’art. 19 cit., infatti, riferisce il beneficio in parola, puramente e semplicemente, all’<<impresa>>, la cui latitudine applicativa si ricava dall’art. 10 comma 1 della legge n. 109 del 1994 (cui fa rinvio l’art. 1 lett. t) del D.P.R. n. 34 del 2000), il quale, tra le altre, contempla, alla lett. a), proprio le imprese individuali.
Pertanto, il Regolamento in questione, tanto in linea di principio, quanto con specifico riguardo all’incremento premiante, ha considerato unitariamente la categoria dei soggetti operanti nel settore dei lavori pubblici. Così facendo, la fonte secondaria ha, in primo luogo, assicurato la par condicio fra le imprese che siano comunque in grado di dare dimostrazione del possesso dei richiesti "requisiti ed indici economico finanziari"; nel contempo, essa si pone pienamente in linea con la normativa sovraordinata dalla quale promana, atteso che l’art. 8 della legge n. 109 del 1994 non ha previsto alcuna possibile differenziazione – ai fini del riconoscimento del beneficio de quo – in ragione della natura giuridica posseduta dalle imprese offerenti.
Nè per giungere a conclusioni diverse è possibile fare riferimento alla circostanza che vengono richiamati gli artt. 2424 e all’art. 2425 del codice civile, atteso che tale richiamo è operato al solo scopo di identificare, con precisione, le due nozioni di capitale netto e di reddito netto di esercizio, elementi dai quali trarre la prova dell’esistenza dei requisiti prescritti.
Tale conclusione è avvalorata, in primo luogo, dalla circostanza che il riferimento dell’art. 19 del D.P.R. n. 34 cit. è limitato solo ad alcune delle numerose voci delle quali entrambe le norme codicistiche si compongono.
Inoltre, essa risulta pienamente conforme alla ratio legis che emerge dalla relazione di accompagnamento allo schema di regolamento, che è quella di introdurre un meccanismo premiante per le imprese che compiano uno sforzo nel senso di incrementare gli indici di qualità aziendale in termini di solidità economico-finanziaria, tra i quali compare, appunto, il possesso, da parte dell’impresa, di indici di capitale netto in misura ampiamente superiore ai limiti richiesti.
Di tale ratio, evidentemente, non possono non giovarsi le imprese che, pur senza essere società per azioni, abbiano fatto lo "sforzo" richiesto, testimoniato nei modi indicati dall’art. 19, più volte citato.
per l'annullamento
a) dell’atto di diffida n. 15/6/02 del 9 gennaio 2002, trasmesso con nota prot. n. 1745/02/SEGR, datata 11 gennaio 2002;
b) della nota prot. n. 7824/02/SEGR, datata 31 gennaio 2002, avente per oggetto "procedimento di revoca ai sensi dell’articolo 10 del D.P.R. 34/2000;
c) dell’atto di diffida n. 19/6/02 del 13 febbraio 2002, trasmesso con nota prot. n. 11741/02/SEGR, datata 18 febbraio 2002;
d) di ogni altro atto comunque connesso a quelli innanzi indicati;
(omissis)
FATTO
La Tecnosoa – Società Organismo di Attestazione s.p.a. - espone che, a seguito di un’ispezione disposta dall’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici ed effettuata nell’ottobre 2001, emergevano varie problematiche sulla corretta applicazione del D.P.R. 25 gennaio 2000 n. 34, disciplinante il sistema di qualificazione per gli esecutori di lavori pubblici.
Uno degli aspetti controversi riguardava il cosiddetto incremento convenzionale premiante, che, secondo la sua interpretazione, andava riconosciuto a tutte le imprese in possesso di determinati requisiti e, quindi, anche a quelle che non fossero società di capitali.
Con l’atto n. 15/6/02 del 9 gennaio 2002, l’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici, reputando inaccettabile tale conclusione, diffidava la Tecnosoa a provvedere alla sostituzione dell’attestato rilasciato all’Impresa Guzzi Ermanno.
Nonostante la successiva nota di replica, con contestuale richiesta di differimento del termine ad adempiere, l’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici, con nota del 29 gennaio 2002, comunicava alla Tecnosoa che, in data 31 gennaio-1 febbraio 2002, avrebbe proceduto ad una seconda ispezione presso la sua sede.
Nel frattempo, la Tecnosoa ottemperava alla prima diffida.
Mentre era in corso la suddetta ispezione, l’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici, con la nota del 31 gennaio 2002, comunicava l’avvio del procedimento di revoca dell’autorizzazione allo svolgimento dell’attività di attestazione, dando termine per controdedurre.
Con l’ulteriore nota del 13 febbraio 2002, l’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici trasmetteva una seconda diffida, con la quale, in relazione alla seconda visita ispettiva, ordinava alla Tecnosoa di assumere tutte le iniziative necessarie per la sostituzione delle attestazioni, specificamente indicate nel verbale di visita, rilasciate in base alla contestata interpretazione del D.P.R. n. 34 citato.
Di qui la proposizione del ricorso in esame, nel quale si deduce:
1) Eccesso di potere per mancanza dei presupposti. Errata e falsa applicazione dell’art. 19 del D.P.R. 25 gennaio 2000 n. 34, in quanto entrambi gli atti di diffida difetterebbero di un valido fondamento normativo, atteso che l’art. 19 del D.P.R. n. 34 del 2000 non precluderebbe alle imprese, non costituite in società di capitali, di ottenere l’incremento convenzionale premiante.
2) Incompetenza dell’Autorità di vigilanza per i lavori pubblici a porre interpretazioni vincolanti. Violazione dell’art. 4 della legge 11 febbraio 1994 n. 109 e dell’art. 14 del D.P.R. n. 34 del 2000 cit.. Violazione dell’art. 3 del D.P.R. 21 dicembre 1999 n. 554, in quanto la normativa epigrafata non assegnerebbe all’Autorità in questione il compito di fornire l’interpretazione delle norme giuridiche di settore e, conseguentemente, il potere di indirizzo dell’attività degli organi di attestazione, ma, esclusivamente, un potere di controllo su di essi.
3) Tardività degli atti di diffida e difetto di motivazione in relazione alla ponderazione delle situazioni soggettive consolidate. Violazione dell’art. 23 del regolamento interno dell’Autorità di vigilanza per i lavori pubblici, essendo gli atti di diffida intervenuti allorché era già spirato il termine di trenta giorni "dalla conoscenza della violazione" che l’art. 23 epigrafato prevede per la contestazione delle violazioni poste in essere dalle società di attestazione.
4) Difetto di istruttoria. Illogicità. Violazione dell’art. 14 del D.P.R. n. 34 del 2000, in quanto non sarebbe stato effettuato un adeguato approfondimento sul controverso punto di diritto, in contraddittorio con la Tecnosoa e con gli altri organismi di attestazione.
5) Violazione dell’art. 3 comma 3 del D.P.R. n. 554/99 cit., non essendo stato notificato il primo atto di diffida, in spregio a quanto stabilito dalla norma epigrafata.
6) Contraddittorietà tra provvedimenti. Violazione del principio di proporzionalità, atteso che l’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici, anziché riscontrare l’istanza di differimento dei termini, consentendo così un’adeguata difesa della posizione assunta dalla Tecnosoa, avrebbe avviato una seconda ispezione e, a seguire, una seconda diffida.
Si è costituita in giudizio l’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici eccependo, in via preliminare, l’inammissibilità del ricorso per difetto di interesse e, nel merito, deducendo l’infondatezza dei motivi di doglianza.
Spiegano intervento ad adiuvandum la DI PERSIO COSTRUZIONI S.a.s. e le Ditte "CERICOLA CARLO" e CECIM S.a.s., quali imprese beneficiarie della contestata interpretazione del D.P.R. n. 34 del 2000.
Parte ricorrente ha prodotto memoria conclusionale, nella quale controdeduce all’eccezione di rito e ribadisce le tesi esposte con l’atto introduttivo del giudizio.
DIRITTO
1) Va, innanzi tutto, esaminata l’eccezione di inammissibilità.
Sostiene l’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici (successivamente indicata come Autorità) che gli atti impugnati non recherebbero effetti pregiudizievoli per la Tecnosoa per un duplice ordine di ragioni. In primo luogo, perché si tratterebbe di semplici atti preparatori ed istruttori rispetto all’eventuale provvedimento finale – la revoca dell’autorizzazione alla S.O.A. – per la cui emanazione difetterebbe oramai il presupposto, avendo la ricorrente ottemperato alle diffide inoltratele dall’Autorità. In secondo luogo, la Tecnosoa non avrebbe interesse a che prevalga una determinata interpretazione del sistema normativo, non ricavandone alcun vantaggio concreto.
Entrambi gli argomenti addotti non sono condivisibili.
In merito al primo, è agevole rilevare che i due atti di diffida impugnati recano un preciso obbligo di fare per la ricorrente, consistente nella sostituzione delle attestazioni rilasciate, in disparte ed indipendentemente dalla possibilità – solo paventata – di avviare il procedimento per l’applicazione delle sanzioni previste dall’art. 4 comma 7 della legge 11 febbraio 1994 n. 109.
Tale iniziativa implica, intanto, la sussistenza di un potere di indirizzo, anche interpretativo, vincolante in capo all’Autorità, che è puntualmente contestato nel ricorso in esame. Inoltre, l’ottemperanza alla diffida comporta un effetto pregiudizievole immediato e diretto, in quanto ha una ricaduta sui rapporti contrattuali instaurati con le imprese da qualificare; da ultimo, poiché l’Autorità ha puntualmente indicato le ragioni giuridiche a sostegno della sua posizione, l’eventuale, immediato annullamento - disposto dal giudice per ragioni non meramente procedurali - comporterebbe due vantaggi: di chiudere definitivamente la vicenda senza ulteriori effetti sanzionatori e di fissare la "regula iuris" per i successivi, futuri comportamenti della Tecnosoa nella sua attività istituzionale.
In merito alla seconda ragione di inammissibilità, è agevole osservare che le Società Organismo di Attestazione hanno il compito primario di applicare le disposizioni normative di riferimento nell’espletamento dell’incarico di attestazione, contrattualmente assunto con le singole imprese. Sarebbe, pertanto, quanto meno singolare, a fronte del potere di fornire l’esatta e vincolante interpretazione di tali disposizioni, che l’Autorità si riconosce, di escludere la possibilità per i destinatari di tale competenza di contestare, in sede giurisdizionale, non solo l’esattezza dell’interpretazione fornita, ma la sussistenza stessa del potere esercitato.
Da ultimo, l’Autorità, nella sua memoria, si dilunga a negare la legittimazione a ricorrere delle imprese destinatarie delle attestazioni, con evidente riferimento a quelle costituitesi nel presente giudizio.
Deve osservarsi, peraltro, che, nella specie, le tre imprese hanno assunto la ben più modesta veste di interventrici ad adiuvandum, affiancando l’iniziativa giudiziaria della Tecnosoa, che aveva provveduto a rilasciare loro l’attestazione. Pertanto, la loro legittimazione a stare in giudizio discende dalla sussistenza di un interesse di mero fatto, riscontrabile, nella specie, nei suesposti effetti degli atti di diffida.
2) Il primo motivo di ricorso propone la questione centrale, riguardante l’esatta latitudine del beneficio dell’incremento convenzionale premiante, contemplato dall’art. 19 del D.P.R. 25 gennaio 2000 n. 34.
L’Autorità, nella diffida datata 9 gennaio 2002, nega l’applicabilità della norma in questione alle imprese che non siano società per azioni, atteso che l’art. 19 innanzi citato:
a) si riferirebbe ad un bilancio che deve seguire l’approvazione da parte degli organi appropriati, a termini degli artt. 2424 e 2425 del codice civile;
b) richiamando le disposizioni del codice civile, confermerebbe l’intenzione di ammettere un’approvazione "solo tecnica" del bilancio, allo stato possibile esclusivamente per le società di capitali.
La tesi della ricorrente è che l’interpretazione fornita dall’Autorità si scontrerebbe non solo con la lettera, ma anche con la ratio sottesa alla disposizione in esame, ingenerando un’inammissibile disparità di trattamento all’interno della categoria unitaria delle imprese da qualificare.
Replica parte resistente, nella sua memoria, ribadendo la legittimità della posizione assunta nei provvedimenti impugnati.
Per fornire la corretta soluzione interpretativa, occorre partire dall’art. 19, che subordina l’applicazione del beneficio convenzionale premiante al possesso di almeno tre dei seguenti requisiti ed indici economico finanziari:
a) capitale netto, costituito dal totale della lettera A del passivo dello stato patrimoniale di cui all'articolo 2424 del codice civile dell'ultimo bilancio approvato, pari o superiore al 5% della cifra di affari media annuale richiesta ai fini di cui all'articolo 18, comma 2, lettera b);
b) indice di liquidità, costituito dal rapporto tra liquidità ed esigibilità correnti dell'ultimo bilancio approvato, pari o superiore a 0,5; le liquidità comprendono le rimanenze per lavori in corso alla fine dell'esercizio;
c) reddito netto di esercizio, costituito dalla differenza tra il valore ed i costi della produzione di cui all'articolo 2425 del codice civile, di valore positivo in almeno due esercizi tra gli ultimi tre;
d) requisiti di cui all'articolo 18, comma 1, lettere c) e d), di valore non inferiori ai minimi stabiliti al medesimo articolo, commi 8 e 10; i valori degli importi di cui all'articolo 18, commi 2, lettera b), e 5, lettere b) e c), posseduti dall'impresa sono figurativamente incrementati in base alla percentuale determinata secondo quanto previsto dall'allegato F; gli importi così figurativamente rideterminati valgono per la dimostrazione dei requisiti dei suddetti commi dell'articolo 18." (Così testualmente si esprime l’art. 19 cit.).
La tesi esposta dalla Tecnosoa risulta più convincente, in base all’interpretazione, sia letterale che finalistica, del testo normativo.
L’art. 19 riferisce il beneficio in parola, puramente e semplicemente, all’<<impresa>>, la cui latitudine applicativa si ricava dall’art. 10 comma 1 della legge n. 109 del 1994 (cui fa rinvio l’art. 1 lett. t) del D.P.R. n. 34 del 2000), il quale, tra le altre, contempla, alla lett. a), proprio le imprese individuali.
Pertanto, il Regolamento in questione, tanto in linea di principio, quanto con specifico riguardo all’incremento premiante, ha considerato unitariamente la categoria dei soggetti operanti nel settore dei lavori pubblici. Così facendo, la fonte secondaria ha, in primo luogo, assicurato la par condicio fra le imprese che siano comunque in grado di dare dimostrazione del possesso dei richiesti "requisiti ed indici economico finanziari"; nel contempo, essa si pone pienamente in linea con la normativa sovraordinata dalla quale promana, atteso che l’art. 8 della legge n. 109 del 1994 non ha previsto alcuna possibile differenziazione – ai fini del riconoscimento del beneficio de quo – in ragione della natura giuridica posseduta dalle imprese offerenti.
Tale criterio ermeneutico deve essere seguito anche nell’esame dei due punti dell’art. 19, più volte citato, nei quali compare un riferimento alla normativa civilistica, vale a dire la lett. a), in relazione al capitale netto, e la lett. c), riferita al reddito netto di esercizio.
A tal proposito, il contrasto è tra la posizione della ricorrente, la quale sostiene che il rinvio all’art. 2424 e all’art. 2425 del codice civile costituisce null’altro che una modalità di individuazione dei requisiti richiesti (avendo una valenza solo oggettiva), e la tesi dell’Autorità, che intende le espressioni normative in senso stretto, affermando che solo le società per azioni assicurerebbero le garanzie economico finanziarie alle quali l’art. 19 stesso ancora la concessione del beneficio premiale.
Prima di prendere posizione sul punto, occorre fare un chiarimento, che serve poi anche a delimitare il campo dell’accertamento che il Collegio può effettuare in questa sede. La tesi della Tecnosoa si fonda sul presupposto di fatto, enunciato nel ricorso introduttivo del giudizio e ribadito nelle successive memorie, che non è messo in discussione da controparte, che i soggetti beneficiari delle attestazioni rilasciate dalla ricorrente, pur non essendone obbligati de iure, abbiano proceduto all’approvazione di un bilancio nell’osservanza dei principi civilistici applicabili alle società di capitali, sì da fornire alla S.O.A. elementi in tutto equivalenti a quelli desumibili dai bilanci di cui agli artt. 2424 e 2425 del codice civile.
La questione che va risolta è, quindi, di stabilire, in linea di principio, se, in presenza di documenti contabili del tipo suindicato, sia legittimo differenziare la posizione delle società per azioni da quella di tutte le altre imprese aspiranti alla qualificazione.
La prospettazione di parte ricorrente lascia giustamente nell’ombra l’ulteriore problema riguardante l’idoneità tecnica dei documenti probatori cui la stessa si riferisce, atteso che gli atti impugnati non affrontano minimamente il punto, ma si limitano ad una mera interpretazione letterale dell’art. 19 citato.
La formula usata sia dalla lett. a) che dalla lett. c) di quest’ultimo, peraltro, letta alla luce del significato da attribuire alla nozione di impresa, su cui ci si è soffermati in precedenza, convince che il richiamo agli artt. 2424 e 2425 del codice civile è operato al solo scopo di identificare, con precisione, le due nozioni di capitale netto e di reddito netto di esercizio, elementi dai quali trarre la prova dell’esistenza dei requisiti prescritti.
Tale conclusione è avvalorata, in primo luogo, dalla circostanza che il riferimento dell’art. 19 del D.P.R. n. 34 cit. è limitato solo ad alcune delle numerose voci delle quali entrambe le norme codicistiche si compongono.
Inoltre, essa risulta pienamente conforme alla ratio legis che emerge dalla relazione di accompagnamento allo schema di regolamento, che viene riportata sia dalla ricorrente che dall’Autorità nella sua memoria difensiva: introdurre un meccanismo premiante per le imprese che compiano uno sforzo nel senso di incrementare gli indici di qualità aziendale in termini di solidità economico-finanziaria, tra i quali compare, appunto, il possesso, da parte dell’impresa, di indici di capitale netto in misura ampiamente superiore ai limiti richiesti.
Di tale ratio, evidentemente, non possono non giovarsi le imprese che, pur senza essere società per azioni, abbiano fatto lo "sforzo" richiesto, testimoniato nei modi indicati dall’art. 19, più volte citato.
In conclusione, il primo motivo di ricorso è fondato. Conseguentemente, gli atti impugnati – consistenti nelle due diffide e nella nota di avvio del procedimento di revoca – vanno annullati, con pieno soddisfacimento della pretesa azionata in giudizio.
Può, pertanto, tralasciarsi l’esame delle restanti doglianze, la cui eventuale condivisione non comporterebbe alcun vantaggio ulteriore per la ricorrente.
Residua l’esame della richiesta risarcitoria, riferita ad un presunto danno patrimoniale e di immagine.
In merito al primo, la Tecnosoa adduce la circostanza che, nel periodo immediatamente successivo all’inoltro delle diffide, ha subito un calo considerevole dei contratti in questione. La ricorrente quantifica il pregiudizio in € 223.820,74, corrispondenti al mancato fatturato ricavato dal confronto tra la media mensile dei contratti stipulati dall’inizio dell’attività fino al mese di marzo 2002 e i contratti stipulati nel mese di aprile 2002, moltiplicato per il valore medio di un contratto stipulato (€ 5.890,23).
La pretesa è quanto meno indimostrata, atteso che non è stata fornita alcuna prova del nesso causale (che pure è elemento imprescindibile per l’affermazione della responsabilità risarcitoria della P.a.) tra l’azione amministrativa e la contrazione dell’attività di attestazione svolta, ben potendo quest’ultima essere l’effetto della difficile congiuntura economica generale ovvero di difficoltà specifiche della stessa ricorrente.
Quanto al danno all’immagine, è agevole rilevare che la reintegrazione della posizione attorea è assicurata dalla sentenza annullatoria che si va ad emettere.
Infine, quanto alle spese di giudizio, la novità della questione di diritto trattata porta a reputare equo procedere all’integrale compensazione delle stesse fra le parti.
P.Q.M.
il Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio, Sez. III, accoglie il ricorso in epigrafe indicato e, per l’effetto, annulla i provvedimenti impugnati.
Rigetta la domanda di risarcimento del danno.
Compensa integralmente fra le parti le spese di giudizio, comprese quelle della fase cautelare.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio del 12 giugno 2002.
Luigi COSSU PRESIDENTE
Antonino SAVO AMODIO CONSIGLIERE est.
Depositata in segretaria il 16 ottobre 2002.