Giust.it

Giurisprudenza
n. 1-2002 - © copyright.

TAR LAZIO, SEZ. III BIS - Sentenza 17 dicembre 2001 n. 11405 - Pres. ed Est. Scognamiglio - C. (Avv. Funari) c. Azienda U.S.L. di Latina (Avv. Ulisse) e P. (Avv. Sanino).

Giurisdizione e competenza - Concorsi - Sanitari - Conferimento incarico dirigenziale secondo livello - Mediante concorso esterno - Controversie - A seguito dell’art. 68 3 febbraio 1993 n. 29 e successive mod. - Giurisdizione amministrativa - Sussiste.

Rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo, ai sensi dell'art. 68 D.L.vo 3 febbraio 1993 n. 29, come modificato prima con l'art. 33 D.L.vo 23 dicembre 1993 n. 546 e poi con l'art. 29 D.L.vo 31 marzo 1998 n. 80, così come integrato con l'art. 18 D.L.vo 29 ottobre 1998 n. 387, una controversia relativa alla procedura di conferimento, da parte dell'Azienda Unità sanitaria locale, dell'incarico dirigenziale di secondo livello ad un medico dipendente, trattandosi di concorso esterno diretto all'assunzione in un diverso ruolo (con contestuali dimissioni da quello precedente) che implica una valutazione di idoneità presupposta ad una scelta largamente discrezionale del direttore generale dell'Azienda (1).

---------------------------

(1) Come lealmente si dà atto nella sotto riportata motivazione, la questione non è affatto pacifica in giurisprudenza; v. in part. in senso opposto da ult. Cons. Stato, Sez. V, 15 marzo 2001 n. 1519 (secondo cui rientra nella giurisdizione dell'A.G.O. una controversia riguardante il conferimento di incarichi dirigenziali), in questa rivista, n. 06/2001, con nota di L. OLIVERI, Il riparto della giurisdizione in merito al conferimento degli incarichi dirigenziali: una nuova araba fenice e Cass. civ., Sez. Unite Civili, 11 giugno 2001 n. 7859 (secondo cui sussiste la giurisdizione dell’A.G.O. in tutti i casi in cui, ancorchè siano impugnati atti, l’azione sia diretta ad ottenere l’assunzione in servizio; la giurisdizione dell’AGO sussiste anche per le procedure di conferimento degli incarichi dirigenziali), ivi, n. 7-8/2001; v. sul punto la successiva nota di L. OLIVERI, La giurisdizione relativa alle assunzioni alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche.

 

 

DIRITTO

1 - Il tema è il conferimento dell'incarico quinquennale di dirigente medico di secondo livello del ruolo sanatorio in una azienda sanitaria.

Il ricorrente, nella specie, impugna il provvedimento col quale il direttore generale dell'azienda resistente ha nuovamente conferito l'incarico apicale nella disciplina di medicina e chirurgia di accettazione e urgenza al medesimo controinteressato di un precedente giudizio tra le stesse parti, che si era definito con l'annullamento dell'atto di incarico (sentenza 23 giugno 2000 n. 5141).

2 - Nel corso del giudizio, incardinato con atto notificato in data 8 novembre 2000 e definito alla pubblica udienza del 30 aprile 2001, è intervenuta la decisione del Consiglio di Stato, Sezione quinta, 15 marzo 2001 n. 1519 che, nell'annullare la sentenza del TAR del Friuli-Venezia Giulia 10 maggio 1999 n. 601 su una controversia analoga, ha declinato la giurisdizione del giudice amministrativo.

Si è anche avuta notizia della decisione 2609 in forma semplificata pronunciata dalla medesima Sezione quinta alla camera di consiglio del 30 marzo 2001 (pubblicata il 9 maggio 2001) su appello contro la sentenza del TAR della Calabria, Sede, 17 gennaio 2001 n. 37.

Se pure le anzidette pronunce non possono ancora essere considerate espressione di un orientamento consolidato del giudice amministrativo di appello, la Sezione non può non averle in doverosa considerazione, se è il caso, per riesaminare il proprio convincimento espresso in maniera implicita nel precedente giudizio a favore della giurisdizione amministrativa.

3 - Sull'argomento si erano manifestati orientamenti contrastanti tra i giudici amministrativi di prima istanza.

Hanno trattenuto la competenza, oltre al TAR del Friuli-Venezia Giulia, il TAR del Piemonte (Sezione II, 11 giugno 1998 n. 246, 14 febbraio 1999 n. 60 e 25 novembre 1999 n. 606); il TAR della Calabria, Sede di Catanzaro (26 ottobre 1999 n. 1150, poi declinata con la ricordata sentenza 17 gennaio 2001 n. 37); il TAR dell'Abruzzo (Sezione di Pescara, 26 febbraio 2000 n. 132 e Sede 3 agosto 2000 n. 605); il TAR della Valle d'Aosta (23 giugno 2000 n. 113); il T.R.G.A. del Trentino-Alto Adige (Sezione autonoma di Bolzano, 28 luglio 2000 n. 205) e il TAR della Puglia (Sede, 30 dicembre 1999 n. 2105, 2 febbraio 2000 n. 412 e 17 febbraio 2000 n. 606).

Hanno declinato la giurisdizione il TAR della Campania (Sede, Sezione V, 12 ottobre 1999 n. 2642; ma non la Sezione III, 1° giugno 2000 n. 1757); il TAR della Liguria (3 luglio 2000 n. 748); il TAR della Lombardia (Sezione di Brescia, 25 febbraio 2000 n. 115; 8 luglio 2000 n. 618).

Il Collegio intende mantenere la giurisdizione, pure consapevole che con il giudice d'appello non si forma contrasto di giurisprudenza.

La questione è, pertanto, riproposta puntando su talune premesse che nella sentenza 12 luglio 1999 n. 2125 in TAR 1999, I, 3112 (peraltro non appellata) erano rimaste inespresse perché ritenute implicitamente rivolte ad affermare la giurisdizione del giudice amministrativo.

4 - La sentenza del TAR del Friuli-Venezia Giulia, annullata dal Consiglio di Stato, discriminava la giurisdizione sulla base della posizione soggettiva coinvolta nella controversia: aveva perciò affermata la competenza del giudice amministrativo quando è in discussione la procedura diretta a individuare il soggetto al quale il direttore generale attribuisce l'incarico, trattandosi di controversia che coinvolge posizioni di interesse legittimo.

Diversa sarebbe la investitura di un incarico dirigenziale a un soggetto legato all'amministrazione da un rapporto di lavoro già costituito: poiché risultano coinvolti diritti e doveri reciproci, essa cadrebbe nelle mani del giudice ordinario.

Da queste considerazioni, pure nella corretta impostazione del problema (che distingue la natura dell'incarico dirigenziale da conferire: se esterno, ovvero interno a un rapporto di lavoro già costituito), sembrerebbe che il TAR del Friuli-Venezia Giulia avesse inteso scindere la materia tra i due giudice sulla base della posizione giuridica tutelata, con ritorno alla situazione anteriore al Regio decreto 30 dicembre 1923 n. 2840, che proprio per ovviare alle incertezze incontrate in sede di riparto della giurisdizione, aveva attribuito il pubblico impiego alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

Sul punto la citata sentenza del V Sezione del Consiglio di Stato ha correttamente inteso l'art. 68 del decreto legislativo 3 febbraio 1993 n. 29 nella sua attuale formulazione (dopo essere stato modificato prima dell'art. 33 del decreto legislativo 23 dicembre 1993 n. 546 e successivamente dal decreto legislativo 31 marzo 1998 n. 80, poi integrato dall'art. 18 del decreto legislativo 29 ottobre 1998 n. 387) come disposizione che ha devoluto le controversie relative al pubblico impiego in ragione della materia, istituendo in definitiva una giurisdizione esclusiva del giudice ordinario: la stessa che spettava al giudice amministrativo prima di tale norma.

Il limite alle generale devoluzione al giudice ordinario delle controversie anzidette è costituito dall'art. 68, comma quarto, del decreto legislativo 29 del 1993 che, in base alla delega contenuta nell'art. 2 della legge 23 ottobre 1992 n. 421, conserva al giudice amministrativo le questioni relative alle procedure concorsuali per l'assunzione dei dipendenti della pubblica amministrazione perché ritenute attinenti al profilo pubblicistico dell'organizzazione amministrativa.

Da questa premessa è affermato con sicura coerenza che la giurisdizione del giudice ordinario sul rapporto di pubblico impiego risulta instaurata "successivamente alla procedura concorsuale, a partire dal contratto di lavoro, che rappresenta il momento iniziale di ogni rapporto di lavoro", come chiarisce lo stesso art. 68, comma primo, quando indica le controversie relative alle "assunzioni al lavoro" fra quelle demandate al giudice ordinario.

Che l'incarico di dirigente di secondo livello, afferente alla posizione apicale della dirigenza sanitaria, abbia natura di atto interno a un rapporto di lavoro già costituito sarebbe provato dal fatto che al detto incarico possono aspirare solo i dirigenti del servizio sanitario nazionale ("si tratta, pertanto, di un incarico che presuppone la qualifica di dirigente sanitario, che viene conferito e si svolge all'interno del rapporto di impiego del personale sanitario").

Inoltre, il giudice d'appello è convinto che sia una conferma alla propria tesi la integrazione disposta dall'art. 18 del decreto legislativo 29 ottobre 1998 n. 387 che, all'elenco delle specifiche materie affidate al giudice ordinario, aggiunge la voce "conferimento e revoca degli incarichi dirigenziali".

A dire il vero, la detta integrazione non è neppure ritenuta essenziale, atteso che "le liti relative a tale incarico sarebbero risultate di competenza del giudice ordinario, indipendentemente dallo specifico e testuale riferimento aggiunto dall'art. 18 del decreto legislativo 29 ottobre 1998 n. 387 all'art. 68, comma 1, in quanto avrebbero comunque configurato controversie relative al rapporto di pubblico impiego".

A tutto concedere - in questi termini volge alla conclusione il ragionamento del giudice d'appello - nella procedura di conferimento dell'incarico disciplinato dall'art. 15 del decreto legislativo 30 dicembre 1992 n. 502, come modificato dall'art. 16 del decreto legislativo 7 dicembre 1993 n. 517, e dal regolamento approvato con d.P.R. 10 dicembre 1997 n. 484, non si rinvengono gli elementi che caratterizzano una procedura concorsuale o una procedura selettiva a esse assimilabile.

D'altro canto, di selezione non si può parlare quando manca nel procedimento di affidamento dell'incarico apicale una scelta fondata sulla prevalenza, in termini di maggiore idoneità all'esercizio delle nuove funzioni, di alcuni candidati su altri concorrenti: scelta che è invece propria di una procedura concorsuale o di tipo concorsuale.

Infine, esulerebbe dalla stessa nozione di procedura concorsuale l'assegnazione dell'incarico sulla base di una scelta discrezionale dell'amministrazione.

5 - Se queste ultime affermazioni (la procedura ha natura interna perché interessa soggetti già legati da rapporto di impiego; il conferimento dell'incarico non ha il carattere di una procedura concorsuale perché ha fondamento in una scelta discrezionale della amministrazione) sono la base sulla quale poggia il convincimento del giudice d'appello, non sono allora da sottovalutare le preoccupazioni espresse dal TAR del Friuli-Venezia Giulia: "Ogni diversa interpretazione lascerebbe i candidati privi di un giudice dinnanzi a cui tutelare la propria aspirazione a ricoprire l'incarico o a fare valere l'illegittimità di quello affidato ad altri, con palese elusione del dettato costituzionale".

La giurisprudenza amministrativa, sia quella favorevole che la contraria, concentrano troppo l'attenzione sul dato letterale delle norme coinvolte (da ultimo, l'art. 68 del decreto legislativo 29 del 1993, sostituito dall'art. 29 del decreto legislativo 31 marzo 1998 n. 80 e integrato dall'art. 18 del decreto legislativo 29 ottobre 1998 n. 387) finendo col perdere di vista la realtà dei nuovi fenomeni giuridici, che male sopportano l'incastonamento negli schemi di vecchi istituti.

Allo spirito coraggiosamente innovativo del legislatore che ha recepito istanze della dottrina da tempo manifestate, deve seguire una giurisprudenza duttile e maggiormente sensibile a forme differenti dell'essere giuridico.

6 - Il primo punto (si parla delle due affermazioni che costituirebbero il centro della tesi del giudice d'appello) è collegato al genere di incarico dirigenziale da conferire.

E' da premettere che nella riforma della pubblica amministrazione, attuata dal decreto legislativo 3 febbraio 1993 n. 29 e dalle successive modificazioni e integrazioni, la dirigenza delle amministrazioni pubbliche è stata articolata su due fasce di un unico ruolo (art. 15 nella ultima formulazione introdotta dall'art. 10 del decreto legislativo 31 marzo 1998 n. 80).

Gli incarichi di direzione presentano rilevanti differenze secondo che si tratti di uffici dirigenziali generali ovvero degli altri uffici dirigenziali (art. 19 del provvedimento citato).

Nel campo sanitario la differenza è ancora più netta.

L'art.13 del decreto legislativo 19 giugno 1999 n. 229, di modifica dell'art. 15 del decreto legislativo 30 dicembre 1992 n. 502, colloca la intera dirigenza sanitaria in un ruolo unico, nominalmente articolato in un solo livello, ma in concreto suddiviso in tre figure in relazione alle differenti responsabilità professionali e di gestione: il dirigente sanitario (assimilabile all'immagine dell'assistente); il dirigente responsabile di struttura semplice, poi divenuto solo "responsabile" per effetto dell'art. 15 - terdecies del decreto legislativo 502 del 1999, modificato dall'art. 13 del decreto legislativo 229 del 1999 e introdotto dall'art. 1 del decreto legislativo 28 luglio 2000 n. 254 (aiuto); il dirigente responsabile di struttura complessa, divenuto ora "direttore" per effetto del citato decreto legislativo 254 del 2000 (primario).

Con analoghe difficoltà di comprendere i nuovi ruoli del personale medico, con denominazioni poco chiare, ci si dimena attraverso la normativa contrattuale relativa al quadriennio 1998-2001 (su G.U. 117 del 22 luglio 2000: supplemento ordinario alla G.U. 170 della stessa data), nella quale sono indicate modalità diverse di accesso alle funzioni dirigenziali variamente graduate.

Alla qualifica di assistente (o, se si vuole, alla prima assunzione nella posizione di dirigente sanitario) si perviene a seguito di concorso pubblico (esterno) e stipula di contratto individuale di lavoro, col quale le parti instaurano un rapporto a tempo pieno e indeterminato.

All'atto della loro prima assunzione, sono conferiti ai dirigenti solo incarichi di natura professionale con precisi limiti di autonomia (da esercitare nel rispetto degli indirizzi del dirigente responsabile della struttura) e sono attribuite funzioni di collaborazione e corresponsabilità nella gestione delle attività sanitarie.

Gli incarichi sono conferiti dalla azienda su proposta dal dirigente della struttura di appartenenza, decorso il periodo di prova, con atto che integra il contratto individuale di lavoro a suo tempo stipulato.

E' il caso di sottolineare che l'incarico di dirigente è conferito dopo la conclusione del procedimento concorsuale diretto alla assunzione del sanitario e solo successivamente non solo alla stipula del contratto di lavoro, ma anche al decorso positivo del periodo di prova.

L'attribuzione dell'incarico è, pertanto, l'atto che definisce con carattere di completezza il contenuto del rapporto di lavoro instaurato con l'azienda sanitaria dopo la conclusione della procedura di assunzione. Ad eccezione di quello di dirigenza apicale (di cui si dirà appresso), gli altri incarichi di natura professionale (anche di alta specializzazione), di consulenza, di studio e ricerca, di ispezione, verifica e di controllo, nonché in particolare l'incarico di direzione di strutture semplici (che per il loro carattere potrebbero essere assimilati a quelli una volta conferiti alla posizione dell'aiuto), sono attribuiti all'interno della struttura e nel corso della gestione del rapporto di lavoro: diretti, come sono, alla sua migliore organizzazione e al massimo impiego della professionalità acquisita dal medico, della quale l'assegnazione di un incarico superiore costituisce doveroso riconoscimento.

Gli incarichi anzidetti sono da conferire ai dirigenti dopo cinque anni di attività con valutazione positiva, espressa a chiusura di una particolare procedura di verifica, che concerne le attività professionali svolte e i risultati raggiunti.

E' chiaro che anche il conferimento di questi incarichi intermedii (in aggiunta a quello primo, innanzi visto) costituisce atto di gestione di un rapporto di lavoro già costituito.

Non cambia la natura di atto interno di gestione la eventualità che vi siano più aspiranti all'incarico dirigenziale (intermedio) da conferire.

Sul punto la Sezione ha avuto modo di chiarire (sentenza 2125 del 12 luglio 1999 cit.) che la selezione tra una pluralità di candidati, espletata all'interno della struttura in applicazione di normativa contrattuale (anche se implica la formazione di graduatorie), non muta la sostanza di fatto interno perché collegato al processo di gestione plurima dei rapporti individuali di lavoro.

In tale caso l'azienda procede sulla base di una rosa di idonei selezionati dai dirigenti responsabili delle strutture dopo avere formulato in via preventiva, previa concertazione con le rappresentanze sindacali, i criteri e le procedure per il suo affidamento.

Tutto si svolge oltre la barriera del momento genetico del rapporto di lavoro.

Con una formula tutta diversa si presenta l'accesso alle funzioni dirigenziali di vertice.

Alla qualifica primariale si perviene a seguito di concorso pubblico esterno ("previo avviso da pubblicare nella G.U."), pure se modellato in maniera completamente nuova (come verrà spiegato più innanzi), e attraverso la stipula di un contratto individuale di lavoro di durata definita, con facoltà di rinnovo per uno stesso periodo o per un periodo più breve.

E' il caso di osservare che l'azienda sanitaria, che indice l'avviso pubblico per il conferimento dell'incarico di dirigente sanitario con funzioni di direzione di struttura complessa (come con dispendio tipografico è denominata dal decreto legislativo 19 giugno 1999 n. 229 la posizione del "primario") ovvero per il conferimento dell'incarico di "direttore" (come in modo ancora meno chiaro traduce l'art. 1 del decreto legislativo 28 luglio 2000 n. 254, che distingue simile figura dal "responsabile"), è in cerca di nuovo personale da reclutare sul posto vacante in pianta organica di dirigente di secondo livello "nel limite del numero stabilito dall'atto aziendale".

Che non si tratti di un mero passaggio di qualifica del personale già in servizio ovvero di una diversa distribuzione degli incarichi attribuiti per migliorare l'organizzazione delle risorse e che, quindi, non sia un mero atto di gestione di un rapporto di lavoro già costituito (circostanza che sicuramente radicherebbe la giurisdizione esclusiva del giudice ordinario) è provato dal fatto che l'avviso pubblico è rivolto ai medici del servizio sanitario nazionale anche all'esterno della struttura che bandisce il concorso.

Ed invero, in caso di vittoria, l'incaricato deve dimettersi dalla posizione precedentemente ricoperta e stipulare un nuovo contratto individuale di lavoro: questa volta a tempo determinato, con un proprio particolare trattamento economico e non con una semplice indennità aggiuntiva di dirigenza.

Per questo motivo non sembra potere essere condivisa la tesi che, partendo dalla (giusta) considerazione che alla posizione apicale della dirigenza sanitaria possono aspirare solo i dirigenti del servizio sanitario nazionale, perviene ad affermare che, essendo presupposto dell'incarico da conferire la qualifica di "dirigente sanitario", esso "viene conferito e si svolge all'interno del rapporto di impiego del personale sanitario". In presenza di enti diversi non si riesce a cogliere l'idea di quella operazione "all'interno del rapporto di impiego del personale sanitario".

Deve essere, infine, escluso che si tratti di un fenomeno di mobilità.

Si è dinnanzi a un tipo concorso di secondo grado rivolto a medici (anche) di altre strutture sanitarie, con le quali, come si è ricordato, il vincitore deve risolvere il precedente rapporto di lavoro.

Poiché l'incarico di dirigente apicale è conferito all'atto della stipula del contratto di assunzione e non in un momento successivo, la sua attribuzione si confonde con l'assunzione medesima.

Si intende dire che l'attribuzione degli incarichi non apicali costituisca atto di gestione di un rapporto di lavoro già in essere, successivo alla stipula del contratto; dove l'attribuzione degli incarichi apicali è il risultato della procedura selettiva che si conclude con l'atto di scelta del direttore generale "sulla base di una rosa di candidati idonei selezionati da una apposita commissione", al quale segue attraverso la stipula del contratto l'assunzione vera e propria.

Pertanto, la stipula del contratto resta il crinale che divide quanto avviene prima della costituzione di un nuovo rapporto di lavoro e quanto concerne la gestione di esso: momenti affidati a due giuridici differenti.

E' infine da osservare che alla scadenza dell'incarico, nei casi in cui l'amministrazione non proceda al suo rinnovo, si verifica la risoluzione del rapporto di impiego e non un mero ritorno alle mansioni esercitate sul posto anteriormente ricoperto ed eventualmente presso l'ente di provenienza.

E' il caso di ripetere che di origine ben diversa sono gli incarichi dirigenziali distribuiti, per la miglior organizzazione del lavoro, nel caso di un rapporto già costituito e che riguardano la posizione iniziale della dirigenza sanitaria e quella intermedia.

Pure dovendosi riconoscere la difficoltà di individuare figure professionali e istituti nella ambiguità del linguaggio (e nella confusione delle idee) dei decreti legislativi che hanno caratterizzato l'ultima riforma del servizio sanitario nazionale, l'attribuzione dell'incarico di direzione intesa come formula per l'accesso alla qualifica di vertice, con un proprio contratto, un proprio trattamento economico inerente a un nuovo e diverso rapporto di lavoro, con proprie peculiari responsabilità professionali e di gestione, rimane distinta dalla assegnazione di compiti e mansioni al personale in servizio, come anche sancisce l'art. 15, comma secondo, del decreto legislativo 30 dicembre 1992 n. 502, modificato dall'art. 16 del decreto legislativo 7 dicembre 1993 n. 517.

Detta disposizione, dopo avere spiegato come spettino al personale medico del secondo livello "funzioni di direzione ed organizzazione della struttura da attuarsi anche mediante direttive a tutto il personale operante nella stessa e l'adozione dei provvedimenti relativi, necessari per il corretto espletamento del servizio", aggiunge con evidente riferimento agli incarichi dirigenziali non apicali, quali invece erano i primi citati) che gli incarichi dirigenziali riferiti ai settori o moduli organizzativi di cui agli articoli 47 e 116 del Dpr 23 novembre 1990 n. 384, ridefiniti ai sensi degli artt. 30 e 31 del decreto legislativo 29 del 1993, "sono conferiti dal direttore generale su proposta dei dirigenti di secondo livello, con le procedure di cui all'art. 19 del medesimo decreto".

Gli art. 47 e 116 del d.P.R. 384 del 1990 regolavano l'affidamento della responsabilità di un servizio, di un settore, di un modulo organizzativo o funzionale all'interno dell'organizzazione divisionale o dipartimentale al personale medico di ruolo appartenente alle posizioni funzionali intermedie.

Gli incarichi dirigenziali ora ricordati sono affidati "ferme restando le competenze e le attribuzioni del personale apicale", con provvedimento del direttore generale su proposta dei dirigenti di secondo livello e "previa selezione", alla quale sono ammessi i dipendenti di ruolo in possesso di requisiti di servizio e di titoli professionali e di cultura determinati.

Ai sensi dell'art. 19, comma primo, del decreto legislativo 29 del 1993, come sostituito dall'art. 13 del decreto legislativo 80 del 1998, al conferimento dei detti incarichi e al passaggio a incarichi diversi, non si applica l'art. 2103, comma primo, del cod. civ. anche nei casi in cui l'incarico dovesse configurare mansioni in qualche modo superiori a quelle prima espletate.

Si tratta, all'evidenza, di un sistema ispirato al principio della rotazione degli incarichi (art. 13 del decreto legislativo 80 del 1998): palese espressione della gestione di un rapporto di lavoro già costituito.

Inoltre, le disposizioni ora ricordate, imponendo anche l'individuazione delle funzioni sulla base delle reali esigenze di servizio in relazione alla organizzazione del lavoro, intendono evidentemente porre un freno al fenomeno che per anni ha ruotato attorno alle equivoche figurazioni delle "sezioni autonome", alle quali una generosa giurisprudenza ha dato inopportuno avallo.

7 - Vi è, pertanto, un differente modo di attribuire gli incarichi di funzione dirigenziale: uno pubblico-selettivo (per il direttore-primario), rimesso alla competenza del giudice amministrativo; l'altro legato alla distribuzione e alla progressione delle mansioni ovvero ispirato al principio della rotazione degli incarichi (art. 13 del decreto legislativo 80 del 1998), come regolato dal contratto collettivo nazionale di lavoro sul modello della struttura degli uffici privati e, per essere inerente allo sviluppo del rapporto individuale di lavoro già costituito, di competenza del giudice ordinario.

E' anche da soggiungere che ogni mutamento di carriera ovvero ogni pretesa di inquadramento in fascia funzionale superiore, che non si risolve automaticamente in un mero passaggio verticale in applicazione del contratto collettivo, ma che si svolga sulla base di procedure concorsuali aperte a una pluralità di soggetti esterni e interni, è attratto nella sfera di cognizione del giudice amministrativo in quanto implica la costituzione di un nuovo e diverso contratto individuale di lavoro.

Solo dalla stipula di quest'ultimo si radica la giurisdizione del giudice civile, competente su tutte le questioni che ineriscono alla gestione del rapporto (cfr.: questa Sezione, 12 luglio 1999 n. 2125, già citata).

Proprio riferendosi a queste differenti attribuzioni di incarichi, la giurisprudenza amministrativa ha affermato, tra l'altro, che: sono devolute al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, le controversie che investono i provvedimenti di nomina dei coordinatori di settore in quanto riconducibili all'interno delle determinazioni di organizzazione degli uffici e delle misure inerenti alla gestione del rapporto di lavoro (TAR della Sardegna 2 maggio 2000 n. 388 in TAR 2000, I, 3557); esula dalla giurisdizione del giudice amministrativo la controversia relativa a concorsi interni finalizzata alla progressione in carriera di soggetti che sono già dipendenti della pubblica amministrazione, in quanto si tratta di vicende modificative del rapporto di lavoro già instaurato e non di procedure concorsuali per l'assunzione su posti di pubblico impiego (TAR della Basilicata 21 giugno 2000 n. 373 in TAR 2000, I, 4097).

Le considerazioni fin qui svolte dovrebbero condurre a dirimere ogni dubbio sulla portata dell'art. 18 del decreto legislativo 29 ottobre 1998 n. 387 che, integrando l'art. 68, comma primo, del decreto legislativo 3 febbraio 1993 n. 29 nella formulazione introdotta, in sostituzione di quella originaria, dall'art. 29 del decreto legislativo 31 marzo 1998 n. 80, aggiunge che sono devolute al giudice ordinario oltre alle controversie concernenti l'assunzione al lavoro, anche quelle relative al "conferimento e revoca degli incarichi dirigenziali e la responsabilità dirigenziale".

Non si tratta, all'evidenza, di una aggiunta superflua, come sostenuto da quanti ritengono che "le liti relative a tale incarico sarebbero risultate di competenza del giudice ordinario indipendentemente dallo specifico e testuale riferimento aggiunto dall'art. 18", ma di una necessaria precisazione introdotta allo scopo di fugare le incertezze di chi vede nell'affidamento di qualsiasi incarico la costituzione di un nuovo rapporto di lavoro.

La disposizione interpretativa ha inteso scindere, da quelli esterni, il conferimento degli incarichi interni, visti come distribuzione di compiti e funzioni con l'eventuale riconoscimento di speciali indennità compensative.

D'altro canto, gli elementi che sono alla base dei diversi incarichi dirigenziali non possono confondersi.

Quelli che si ritrovano nell'ambito di un rapporto individuale di lavoro, già costituito, attengono al profilo interno del rapporto sinallagmatico, che ha la sua fonte regolatrice nel contratto, accettato e sottoscritto dal dipendente.

8 - Il secondo punto (si parla ancora delle due affermazioni che costituirebbero il centro della tesi del giudice di appello) è collegato al carattere della procedura che conduce alla scelta del soggetto al quale conferire l'incarico apicale, avendo presente che "restano devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo le controversie in materia di procedure concorsuali per l'assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni" (art. 68, comma quarto, decreto legislativo 29 del 1993 nella sua ultima versione).

La delicatezza del tema e, sopra tutto, il compito che si è assunto il Collegio suggeriscono di ripercorrere taluni passaggi della precedente sentenza 5141 del 23 giugno 2000 cit. (anche se con formula lontana dallo stile giudiziario).

9 - Con le ultime riforme sul funzionamento della pubblica amministrazione, il legislatore, manifestando la tendenza a rendere agile e semplice l'azione di quella e a dare valore alla sostanza delle cose, ha inciso profondamente sui modi di reclutamento del personale pubblico.

Convinto che i sistemi tradizionali non garantiscano in modo adeguato la selezione e per essere coerente con la trasformata natura del rapporto che lega il dipendente al datore di lavoro pubblico, l'ordinamento ricorre a strumenti propri del diritto privato. Per questi motivi va ad affermarsi il sistema di affidare a terzi (società, enti specializzati) il compito di selezionare i candidati, dove all'amministrazione è solo riservata la scelta finale sulla base delle esigenze che essa intende concretamente soddisfare.

Pure, la tendenza ora indicata impone all'interprete un prudente intervento per ridurre alle giuste dimensioni i facili entusiasmi e, soprattutto, garantire che in fondo non sia tradita la riforma nel momento della sua applicazione.

Per questo non sono da trascurare i limiti che essa incontra: tra i quali, con ruolo fondamentale, i limiti costituzionali. Sono questi ultimi a non fare perdere di vista che gli strumenti di diritto privato adottati nel pubblico impiego, sia pure con conseguenze inevitabili sulla disciplina del rapporto, non valgono a trasformare il datore di lavoro pubblico in datore di lavoro privato e i prestatori di lavoro in dipendenti di imprese private.

Si fa leva su questa elementare considerazione per affermare con forza che la assunzione dei dipendenti di una pubblica amministrazione deve basarsi sulla scelta dei migliori.

Gli articoli 51, 54 e 97 della Costituzione impongono che la scelta cada su coloro che vantino titoli di maggiore pregio e dimostrino, nelle prove selettive, di essere più capaci e meglio preparati degli altri.

L'esigenza di offrire prove selettive serie e significative induce a ritenere che l'adozione delle tradizionali prove scritte, pratiche e orali (sulla base di una scelta legislativa che potrebbe non essere da tutti condivisa) rende più complesso l'impegno delle pubbliche amministrazioni, che attraverso strumenti differenti (come, ad esempio, un colloquio e l'esame del curricolo del candidato), devono egualmente raggiungere il risultato di scegliere il candidato migliore: risultato al quale i tradizionali strumenti selettivi, a onore del vero, erano in grado di pervenire con sicura obiettività e collaudata competenza (il discorso, come è ovvio, si ferma ai casi fisiologici; non interessa quelli patologici dei concorsi truccati). Di contro, sono certamente da guardare con sospetto i sistemi pseudo-selettivi dei quesiti a risposta multipla, i quali, ben lontani dai sistemi americani di selezione attitudinale, si limitano a premiare i più fortunati in luogo di identificare i più capaci.

Per limitare il discorso alla materia del presente ricorso è da ricordare che il regolamento governativo emanato con d.PR 10 dicembre 1997 n. 484 ha dettato la nuova disciplina per le selezioni concorsuali ai fini del conferimento, tra l'altro, degli incarichi di dirigente medico di secondo livello (primario).

La detta normativa è diretta al personale del servizio sanitario nazionale che esercita funzioni del ruolo sanitario nelle discipline relative ai profili professionali di grado primariale elencate nell'art. 4 dello stesso d.P.R. 484 del 1997.

Il regolamento 484 del 1997 ha la sua fonte nell'art. 2, comma primo-bis, del decreto-legge 18 novembre 1996 n. 583, convertito con modificazioni nella legge 17 gennaio 1997 n. 4, che reca disposizioni urgenti in materia sanitaria.

La disposizione citata aveva demandato al Governo, con procedimento di delegificazione, la potestà di emanare uno o più regolamenti che determinassero i requisiti e i criteri per l'accesso al secondo livello dirigenziale al fine di realizzare una semplificazione normativa della materia in sostituzione della disciplina introdotta dall'art. 20 del d.P.R. 20 dicembre 1979 n. 761 e di alcune disposizioni del decreto legislativo 30 dicembre 1992 n. 502, come modificate dal decreto legislativo 7 dicembre 1993 n. 517. Ed invero, l'art. 5 del citato d.P.R. 484 del 1997 indica le condizioni minime soggettive e oggettive per partecipare al nuovo tipo di selezione introdotto dall'art. 15, comma terzo, del decreto legislativo 502 del 1992, come modificato dal decreto legislativo 517 del 1993.

Tra le condizioni per partecipare assume rilievo particolare il possesso di un curricolo, nel quale siano documentati, nel loro complesso, da un lato le esperienze maturate nelle attività professionali svolte, i risultati conseguiti negli impegni di studio e di insegnamento, l'affermazione personale nella direzione e organizzazione di attività lavorative e di studio nei settori e con le modalità indicate (come settori e modalità di riferimento) dall'art. 8, comma terzo, del d.P.R. 484 del 1997 (lettere da "a" a "f"); dall'altro, una adeguata capacità raggiunta nell'esercizio dell'attività professionale specifica espletata nella disciplina alla quale si riferisce l'incarico primariale messo a concorso, da dimostrare nei modi indicati dall'art. 6 dello stesso p.P.R. 484 del 1997.

Ed invero, l'aspirante all'incarico deve dare la prova di avere nei fatti cumulato, in una delle discipline ricompresse nelle diverse aree della categoria professionale dei medici (area medica e delle specialità mediche; area chirurgica e delle specialità chirurgiche; area della medicina diagnostica e dei servizi; area di sanità pubblica), una particolare "casistica" (parola mutata dalla teologia per indicare la soluzione dei casi difficili) secondo coefficienti determinati da un decreto del Ministro della sanità.

Le casistiche, opportunamente attestate, devono essere riferite al decennio precedente alla data di pubblicazione del bando.

Il terzo comma dell'art. 6 in esame fissa il termine di novanta giorni, dalla data di entrata in vigore del regolamento, per l'adozione dei decreti ministeriali ora ricordati.

Il curricolo e gli altri titoli, oltre ai requisiti fissi indicati nell'art. 5 del d.P.R. 484 del 1997 (iscrizione all'albo, dove esiste; anzianità di servizio; attestato di formazione di dirigente) sono rispettivamente valutati (curricolo e altri titoli di merito) e accertati (requisiti fissi), assieme ai risultati di un colloquio, dalla commissione prevista dall'art. 15, comma terzo, del decreto legislativo 502 del 1992, come modificato dal decreto legislativo 517 del 1993.

La commissione è composta dal direttore sanitario e da due esperti nella disciplina che costituisce oggetto dell'incarico messo a concorso, nominati dal direttore generale dell'azienda sanitaria.

La commissione predispone l'elenco dei candidati ritenuti idonei con uso dei criteri fissati nell'art. 8 del dPR 484 del 1997.

La parte valutativa dell'attività della commissione procede, attraverso l'esame delle capacità professionali del candidato nella specifica disciplina con riferimento anche alle esperienze professionali documentate, nonché attraverso l'accertamento delle capacità di gestire, di organizzare e dirigere il lavoro che afferisce all'incarico da svolgere.

Per quanto riguarda la valutazione del curricolo professionale, la commissione concentra l'attenzione oltre che sui "contenuti valutabili" indicati nel già ricordato art. 8, comma terzo del dPR 484 del 1977, anche sulla produzione scientifica strettamente pertinente alla disciplina relativa all'incarico messo a concorso. A questo scopo l'art. 8, comma quarto, del dPR 484 del 1997 chiarisce che la rilevanza della produzione scientifica come contenuto valutabile del curricolo professionale è tratta da due elementi: da un lato la pubblicazione su riviste italiane o straniere ben conosciute nell'ambiente medico e note per il rigore scientifico da garantire un serio filtro nell'accettazione dei lavori validi dal punto di vista della ricerca e dell'aggiornamento professionale; dall'altro, l'impatto dell'opera nella comunità scientifica, come provano le manifestazione di apprezzamento di illustri clinici e soprattutto la citazione in altri lavori scientifici della medesima serietà. Tutto il resto non serve.

Oltre ai criteri generali di valutazione dei risultati del colloquio e del curricolo professionale indicati nella disposizione ora esaminata, la commissione è tenuta a predisporre preliminarmente (quindi prima di procedere al colloquio e alla valutazione del curricolo) i criteri particolari di valutazione tenendo conto delle specificità proprie del posto da ricoprire.

L'attività della commissione (di certo non semplice) si conclude, sulla base di una valutazione complessiva, con un giudizio di idoneità del candidato a ricoprire l'incarico.

Il giudizio di idoneità espresso dalla commissione ha valore di parere per il direttore generale, al quale l'elenco degli idonei è comunicato.

Il direttore generale sceglie il candidato al quale attribuire l'incarico "sulla base del parere" anzidetto (art. 15, comma terzo, del decreto legislativo 502 del 1992, come modificato dal decreto legislativo 517 del 1993).

Le cose non cambiano con il decreto legislativo 19 giugno 1999 n. 229, che all'art. 15 - ter affida l'attribuzione dell'incarico primariale al direttore generale "sulla base di una rosa di candidati idonei selezionati da una apposita commissione".

Per completare il quadro è utile sottolineare che l'intervento dell'amministrazione (nella specie del direttore generale) nella procedura selettiva affidata ad apposita commissione di esperti, è decisivo per la scelta del vincitore. Infatti, a differenza del sistema precedente, nel quale l'amministrazione si limitava a controllare le regolarità delle operazioni svolte della commissione di concorso ed era vincolata a nominare vincitore il candidato che si era collocato nella posizione più elevata della graduatoria degli idonei formulata alla conclusione delle prove, nel sistema attuale la commissione non forma una graduatoria dei candidati idonei: essa si limita a identificare i candidati ai quali l'incarico può essere attribuito in aderenza all'interesse pubblico. In altre parole, la commissione ha il compito di garantire che astrattamente non si determini alcun contrasto con l'interesse pubblico se la scelta dovesse cadere su uno qualsiasi dei candidati qualificati idonei.

Nel sistema precedente si sarebbe determinato un contrasto con l'interesse pubblico se fosse stato nominato vincitore il candidato in posizione meno elevata (illegittimità della nomina).

E' a questo punto che, come si è detto, diventa decisivo e ben più complesso il compito dell'amministrazione (nella specie del direttore generale dell'azienda sanitaria).

E' peraltro da rilevare che la mancata predisposizione dei candidati secondo un ordine di graduatoria non comporta affatto un appiattimento delle loro differenze.

Compito del direttore generale è proprio quello di fare emergere in concreto le differenze tra i candidati.

L'attuale sistema si discosta da quello precedente perché la scelta non cade sul migliore inteso nel senso tradizionale. La scelta deve, difatti, cadere sul migliore inteso in relazione alle esigenze concrete dell'amministrazione.

Ed invero, la mancanza di graduatoria consente al direttore generale, nell'operare la scelta, di attribuire prevalenza ai valori, messi in evidenza dalla commissione nell'esame del candidato, considerati meglio rispondenti all'interesse pubblico concreto che l'amministrazione intende soddisfare.

In questa fase il direttore generale assegna il giusto rilievo agli obiettivi che gli sono stati affidati in seguito alla trasformazione in azienda degli enti che erogano servizi sanitari. In particolare, egli deve tenere conto delle risorse che gli sono attribuite e delle finalità perseguite dalla programmazione sanitaria nazionale (per il triennio 1998/2000 sono quelle approvate con il dPR 23 luglio 1998) e da quella regionale.

Il raccordo tra le qualità del candidato, indicate dalla commissione nelle apposite schede di valutazione, e la scelta da parte del direttore generale è costituito dall'elemento della fiducia. Appare del tutto superfluo chiarire che questa non ha natura personale, né investe una affinità di carattere o (peggio ancora) politica.

Si tratta di fiducia rigorosamente tecnica, che ha fondamento in un giudizio sulla piena affidabilità del candidato e sulla sua sicura capacità di collaborare al conseguimento degli obiettivi di gestione che, in stretta aderenza all'interesse pubblico, il direttore generale ritiene di dovere perseguire in adempimento al suo mandato, assumendosene la responsabilità politica.

Interpretata in questo modo la normativa in esame, appare evidente come non risponda al vero l'idea che non debba essere prescelto il candidato migliore nel rispetto dei principi costituzionali in materia di accesso agli impieghi pubblici. E' poi evidente che il direttore generale tanto più si spinge a dare valore preminente a elementi che il giudizio della commissione non ha qualificato di grado elevato, quanto maggiormente è tenuto a dare puntuale ed esauriente motivazione della sua scelta anche in un esame comparativo con i corrispondenti elementi, di eguale o di differente grado, presenti nelle schede degli altri concorrenti.

La scelta del direttore generale non è libera, né tanto meno sottratta al sindacato del giudice amministrativo. Al contrario, essa è fortemente vincolata dai risultati della commissione, tanto da rendere più pressante l'esigenza di adeguata motivazione per discostarsene.

D'altra parte, è da rilevare che l'elemento della formazione dirigenziale, sul quale tanto insiste la relazione ministeriale di accompagnamento allo schema di decreto concernente la determinazione dei requisiti e dei criteri per l'accesso al secondo livello dirigenziale per il personale del ruolo sanitario costituisce uno degli elementi da prendere in esame: non il solo e, probabilmente, il meno importante.

Ed invero, la esaltazione della funzione dirigenziale della dirigenza sanitaria; l'attribuzione al personale sanitario del ruolo di fulcro del nuovo sistema "anche per gli aspetti finanziari"; il riconoscimento delle possibilità di condizionare, attraverso la utilizzazione più o meno corretta dei fattori di produzione attribuiti all'unità operativa di cui il dirigente medico è responsabile, la gestione complessiva dell'azienda di appartenenza; l'invito ad abituarsi a coniugare, nella propria attività, esigenze di carattere eminentemente sanitario con esigenze di carattere aziendale proprie delle dirigenza di imprese private ("dovrà familiarizzare con la gestione su base budgetaria") appaiono piuttosto un accrescimento oltre misura e sproporzionato dei compiti del primario ospedaliero, nonché un allontanamento dalla sua naturale funzionale, che è quella di assicurare il buon funzionamento del servizio, l'efficacia degli interventi e la soddisfazione degli utenti (cfr. dPR 23 luglio 1998 sul supplemento ordinario alla G.U. del 10 dicembre 1998, pag. 10).

Nell'assistenza agli infermi il dirigente sanitario deve continuare a dimostrare la sua preparazione professionale. Alla gestione delle risorse e al raggiungimento degli obiettivi aziendali è preposto il direttore generale, che ha origine squisitamente politica, coadiuvato dalla direzione sanitaria-aziendale.

E' l'incarico di direttore sanitario a dovere sommare le qualità tecniche del medico alle capacità del dirigente di azienda.

L'incarico di direzione sanitaria aziendale è, difatti, conferito dal direttore generale in seguito a una sua valutazione, che comprende l'accertamento del possesso dei requisiti indicati nell'art. 1, comma primo, del dPR 484 del 1997.

La scelta del direttore sanitario è, quindi, in via mediata una scelta politica (più esattamente, una scelta tecnica e politica) nella quale prevale l'aspetto dirigenziale su quello sanitario.

Costituisce, difatti, solo "titolo preferenziale" il possesso della specializzazione in una delle discipline dell'area di sanità pubblica. Requisito essenziale è, invece, il conseguimento dell'attestato di formazione dirigenziale previsto dal successivo art. 7.

Il direttore sanitario deve essere un buon amministratore di azienda con le opportune conoscenze tecniche.

Il primario deve, invece, essere in primo luogo un buon medico. Per quanto riguarda le sue capacità di dirigere la struttura sanitaria che gli è affidata, il primario deve sapere organizzare il lavoro, dirigere il personale ed essere consapevole delle esigenze di conduzione aziendale del direttore sanitario e, al vertice della struttura, del direttore generale.

Il buon primario chiede la fornitura degli strumenti effettivamente necessari alla propria attività, indica la marca dei beni che servono sulla base di un criterio merceologico serio, non condizionato da fattori estranei.

In parole semplici, non è compito del primario preoccuparsi di rendere attivo il bilancio della azienda.

Anche se esiste una differente redditività dei diversi interventi di diagnosi e cura, il primario deve avere come obiettivo unicamente le reali esigenze sanitarie degli utenti.

Non è certo suo compito (né di altri) giungere a manipolare la tipologia delle prestazioni necessarie per rendere pingue il bilancio dell'azienda.

Le ulteriori considerazioni della relazione ministeriale citata ("nel 1992, con l'introduzione...... di alcuni principi aziendalistici, si è ritenuto opportuno sostituire ai concorsi per titoli ed esami, nei quali la scelta era spesso subita dall'amministrazione ed era effettuata da terzi, che non avevano alcuna responsabilità nella gestione delle strutture poi affidate al vincitore, un tipo di selezione che garantisce maggiore autonomia e responsabilità agli organi di gestione - previa verifica di una commissione e scelta non vincolata del direttore generale - ...............") offrirebbero una visione distorta del sistema di selezione dei dipendenti della pubblica amministrazione (ancorché reso più semplice per effetto della normativa ora introdotta), in contrasto con i principi della Costituzione, se ad esse non fosse attribuito il più modesto significato di invito a evitare gli sprechi.

Per definire con maggiori particolari la disciplina nella quale va inquadrata la controversia in esame, occorre inoltre fermare l'attenzione sull'art. 8, comma sesto, del dPR 484 del 1997, che impone alla commissione di prestabilire i criteri di valutazione del colloquio e del curricolo tenendo conto delle "specificità proprie del posto da ricoprire". Le "specificità proprie del posto dal ricoprire" sono costituite dal complesso delle esigenze che l'amministrazione intende concretamente soddisfare.

La identificazione delle "specificità proprie del posto da ricoprire" non è, pertanto, compito della commissione, che è organo tecnico.

E' l'organo politico a fissare le esigenze che il candidato dichiarato idoneo dalla commissione deve essere in grado di fronteggiare, avuti presenti gli obiettivi affidati e le risorse attribuite.

E' il direttore generale il responsabile politico della scelta che egli andrà a effettuare tra la rosa di candidati dichiarati idonei. Il procedimento di selezione degli idonei commissionato a un collegio altamente tecnico indubbiamente alleggerisce il peso della responsabilità del direttore generale, ma non conduce a una sua inesistente scelta arbitraria, assolutamente incompatibile con i principi costituzionali in materia.

Da quanto detto, appare evidente che nell'atto di nomina della commissione (art. 15, comma terzo, del decreto-legislativo 502 del 1992 e successive modificazioni), il direttore generale deve indicare, in termini chiari e inequivocabili, quale affidamento l'amministrazione intende riporre sul candidato da scegliere, quali le esigenze collegate alle specificità proprie del posto da ricoprire, quali gli obiettivi in corrispondenza anche con i piani sanitari, nonché i particolari problemi (comprese le minute difficoltà, la situazione ambientale, logistica, organizzativa, i rapporti col personale) che definiscono in concreto la natura dell'incarico da conferire e le corrispondenti caratteristiche che si richiedono al designando.

Sulla base di queste indicazioni la commissione predispone i criteri di valutazione "tenendo conto delle specificità del posto da ricoprire".

Le stesse indicazioni, inoltre, costituiscono i criteri ai quali il direttore generale rimane pubblicamente vincolato nella scelta, essendo impensabile che il legislatore abbia creato un complesso sistema di selezione a copertura di una attività arbitraria, fuori da ogni controllo.

La mancata indicazione di criteri ai quali il direttore generale intende vincolarsi significa in modo inequivocabile che la scelta andrà a cadere sul candidato che, tra gli idonei, risulterà migliore degli altri (inteso nel senso tradizionale).

E' agevole comprendere che il concorrente con maggiore esperienza, migliori titoli, vere pubblicazioni scientifiche, alte capacità sia il più idoneo a ricoprire l'incarico di primario e risponda in misura piena all'interesse pubblico.

Non si è mai sentito dire che il vincitore in pubblico concorso, che si afferma nelle prove selettive per i propri meriti, costituisca una "scelta subita dall'amministrazione" imposta da "terzi che non avevano alcuna responsabilità nella gestione delle strutture poi affidate al vincitore": sono queste proposizioni di rozzezza giuridica! Decisamente diverso è il sistema attuale, che integra la scelta del migliore con il soddisfacimento di esigenze pubbliche particolari dell'amministrazione datrice di lavoro.

Il metodo consente di preferire il candidato, tra i migliori, che in aggiunta ai suoi meriti risponda a quelle esigenze particolari nel modo più adatto.

A ben vedere, l'anzidetto sistema non è volto a mortificare la discrezionalità del direttore generale; anzi, la esalta per avere conferito all'accesso al primariato il carattere di una operazione delicata e seria basata sulla eleva sensibilità tecnico-amministrativa di quell'organo.

10 - L'ampliamento del discorso si è reso necessario per offrire un quadro esaustivo della tesi sostenuta dalla Sezione.

Tornando a verificare la natura del procedimento, ad avviso del Collegio non si tratta di trovare analogie o assimilazioni col procedimento concorsuale: esso stesso è un concorso.

In attesa di una nuova costruzione dottrinaria che tenga il passo alle innovazioni introdotte dal legislatore nelle figure giuridiche tradizionali, deve riconoscersi che si è dinnanzi a una forma nuova di concorso, così come vi sono sempre state modalità differenti di selezione (concorso per esami; per soli titoli; per titoli ed esami; per titoli e colloquio).

Attraverso le procedure di affidamento dell'incarico primariale si opera una selezione tra una pluralità di aspiranti finalizzata alla assunzione in posto vacante in organico: tanto è sufficiente per qualificare la procedura come "concorso".

Risalta la differenza con la distribuzione, all'interno dell'azienda, degli incarichi dirigenziali al personale in dotazione.

Come in ogni concorso, esso si snoda, sia pure con le differenze che verranno messe in rilievo, attraverso le fasi della indizione, della nomina della commissione esaminatrice, la selezione dei concorrenti, il controllo dell'amministrazione sulla regolarità della procedura e la nomina dei vincitori.

Nella fase della indizione l'amministrazione deve indicare in modo preciso non solo i requisiti per la partecipazione, che sono quelli di carattere generale predeterminati dalla normativa vigente (d.PR 10 dicembre 1997 n. 484), ma anche i caratteri specifici che l'aspirante deve possedere per rispondere alle particolari esigenze che l'amministrazione ritiene di soddisfare attraverso la copertura del posto.

Va da sé che la selezione è diretta a individuare il migliore tra i candidati in possesso dei requisiti e dei caratteri specifici richiesti.

La indicazione di questi ultimi è compito del direttore generale, al quale la normativa accorda una posizione assimilabile al dirigente di una azienda privata che sceglie i sanitari destinati a comporre la squadra dei suoi più stretti collaboratori, impegnato ciascuno a operare in un proprio settore nei limiti delle risorse attribuite con l'intento di perseguire, in collaborazione, i risultati programmati per la struttura da dirigere, quali elementi parziali, ma pur sempre concorrenti alla realizzazione degli obiettivi complessivi dell'ente sanitario, in conformità agli impegni che il direttore generale, sotto la propria responsabilità dirigenziale si è assunto.

Questo non comporta, ovviamente, che all'amministrazione sia consentito non scegliere il migliore tra i candidati.

E' il concetto di "migliore" che cambia: non migliore in senso assoluto (il più preparato, il più esperto, il più impegnato negli studi, nella ricerca, nella introduzione di innovazioni scientifiche), ma migliore anche in relazione alle attitudini necessarie per gestire, organizzare e dirigere il lavoro che afferisce all'incarico da ricoprire, nonché in relazione alle capacità specificamente richieste per affrontare le esigenze che l'amministrazione in concreto intende soddisfare.

Nell'operare la scelta del migliore in senso relativo, il direttore generale potrà attribuire prevalenza ai valori, messi in evidenza dalla commissione tecnica nell'esame del candidato, considerati meglio rispondenti all'interesse pubblico concreto che egli si è impegnato a realizzare.

L'indicazione nel bando delle particolari caratteristiche richieste a quanti aspirano all'incarico, oltre a costituire limite alla discrezionalità del direttore generale, è un elemento indispensabile di trasparenza dell'azione amministrativa, da portare a conoscenza dei futuri candidati, i quali devono essere messi in grado di riconoscersi nelle richieste dell'ente e di accettare a partecipare alla gara con la consapevolezza di avere i numeri per riuscire vincitori.

Se i particolari obiettivi che il direttore generale ha in animo di perseguire escono fuori nel caso di un intimo colloquio con i singoli candidati, condotto separatamente e in segreto (come pure sembra avere preso piede nella prassi) l'intera operazione si rivela una beffa.

A chi partecipa alla gara (e partecipare costa) deve essere garantita una condizione di parità con gli altri candidati.

La concorrenza deve essere vera.

Nella procedura in esame, la successiva fase di nomina della commissione tecnica si distingue dalle forme tradizionali di concorso per il fatto che quest'ultima deve essere messa in grado di conoscere quali siano le specificità proprie del posto da ricoprire, come si è ampiamente indicato nelle pagine precedenti, per modellare anch'essa i propri criteri di selezione.

Dove mancano nel bando precise indicazioni, la commissione ha le mani libere nel compilare le schede, vincolata solo ad attribuire il giudizio di idoneità ai candidati migliori, come inteso nel tradizionale significato dalla parola.

Questa fase si distingue, inoltre, da quella delle normali procedure perché non si conclude con la formulazione di una graduatoria.

Il fatto non è negabile, come è innegabile che con essa si operi una selezione.

Ed invero, la commissione tecnica nominata dal direttore generale soppesa la idoneità degli aspiranti a ricoprire il particolare incarico da conferire a mezzo della valutazione sia di elementi oggettivi e storici, quali quelli confluiti nel curricolo professionale degli aspiranti medesimi, sia dell'esito del colloquio con ciascuno di essi.

La predisposizione di un elenco degli idonei, accompagnati da un giudizio complessivo motivato con riferimento alla preparazione professionale e alle capacità organizzative dei singoli aspiranti, sia pure non ordinato in graduatoria (come pure chiarisce la circolare ministeriale 10 maggio 1996 n. 1221), è lontana da essere una meccanica a acritica raccolta di elementi istruttori da sottoporre al vaglio del direttore generale, come farebbe l'ufficio del personale (oggi rigorosamente denominato, con dispendio di parole inutili, "unità operativa per il reclutamento e lo sviluppo delle risorse umane" o simili").

La predisposizione dell'elenco implica, infatti, un rilevante momento valutativo finalizzato alla individuazione (imparziale e neutrale) dei candidati idonei e alla contestuale redazione di un loro profilo professionale in modo da orientare la scelta finale del direttore generale (T.A.R. Piemonte, Sez. II, 11 giugno 1998 n. 246; 14 febbraio 1999 n. 60; 25 novembre 1999 n. 606 cit.).

Ciò posto, non può essere revocato in dubbio che la commissione nell'esame dei candidati scarta i non idonei e presceglie quelli ritenuti in grado di ricoprire l'incarico in gara, con attività tipicamente concorsuale.

La differenza è, semmai, nel metro di giudizio, che comprende, come si è avuta occasione di dire, anche l'accertamento della attitudine a gestire, organizzare e dirigere il lavoro che afferisce all'incarico da ricoprire, nonché la valutazione delle capacità specificamente richieste per affrontare le esigenze che l'amministrazione in concreto intende soddisfare.

E' utile ancora ripetere che i parametri di riferimento del giudizio della commissione sono quelli elencati nella normativa vigente (d.P.R. 10 dicembre 1997 n. 484) e quelli eventualmente indicati dallo stesso direttore generale, che ha in mente le caratteristiche delle quali vuole sia dotato il soggetto da assumere: qualità che rappresentano gli elementi fondamentali della fiducia tecnica che lo deve legare nel rapporto di collaborazione.

I soggetti ritenuti idonei dalla commissione sono i migliori tra i candidati: tra questi il direttore generale andrà a scegliere il migliore in concreto, cioè con riferimento alle esigenze concrete della amministrazione.

Se, pertanto, l'opera della commissione ha natura selettiva, resta smentita la tesi di quanti negano la selezione per il fatto che manchi la graduatoria.

Se vi è selezione, vi è anche giurisdizione del giudice amministrativo.

Alla fase ora descritta segue l'attività dell'amministrazione (nell'ufficio del direttore generale) svolta sul fondamento dell'operato della commissione.

E' questo il momento di maggiore distacco dalla procedura concorsuale di tipo tradizionale, che ha causato un certo disorientamento nell'interprete.

Si è detto che compito della commissione è quello di identificare i candidati ai quali l'incarico può essere attribuito in aderenza all'interesse pubblico senza differenze.

In luogo di limitarsi a verificare la regolarità del procedimento di selezione per poi giungere alla nomina del vincitore (attualmente nella forma della stipula del contratto individuale di lavoro), all'amministrazione (per essa, al direttore generale) è demandata la scelta discrezionale del vincitore tra gli aspiranti risultati idonei nella precedente fase: scelta che non discende in modo vincolato dalla posizione occupata degli aspiranti nella graduatoria (proprio perché essa manca), ma scaturisce da una operazione di valutazione comparativa delle diverse posizioni degli idonei rapportate alle esigenze che l'ufficio si era prefigurato di soddisfare.

Non possono esservi dubbi sul fatto che il processo logico seguito dal direttore generale, pure svolto sullo sfondo di una ampia discrezionalità, sia inevitabilmente diretto alla scelta del candidato migliore: del migliore tra gli idonei.

L'operazione, che prima era della commissione giudicatrice, è ora dell'amministrazione.

In caso contrari non acquisterebbe colore la fase precedente, nella quale si chiede ai candidati, attraverso la produzione del curricolo, di documentare le esperienze lavorative, i risultati conseguiti negli impegni di ricerca e di insegnamento, l'affermazione personale nella direzione e organizzazione delle attività lavorative e di studio.

All'evidenza i dati anzidetti non costituiscono i requisiti minimi, tra loro indistinti, richiesti per raggiungere la idoneità, ma rappresentano elementi per una più raffinata valutazione.

La circostanza che gli idonei non siano disposti in ordine decrescente non vale ad appiattire i candidati stessi su posizioni indistinguibili.

Per loro stessa natura i dati sopra citati sono elementi dai quali risultano le differenze tra i diversi aspiranti.

E proprio dalla necessità di una puntuale motivazione si trae che la scelta del direttore generale non è svincolata dalla considerazione delle diversità tra i partecipanti.

Nella realtà è la scelta del direttore generale il momento conclusivo della selezione: è essa stessa selezione del migliore. Nel fare emergere le differenze, il direttore generale crea la graduatoria.

Ma i vincoli incontrati da quest'ultimo costituiscono precisi limiti al suo potere discrezionale, sopra i quali il giudice esercita pieno il proprio sindacato.

Il primo limite è il giudizio della commissione tecnica, che costituisce la base fondamentale e vincolante per le scelte del direttore generale.

Dove la commissione, ad esempio giudica "elevato" il livello di autonomia decisionale di un candidato per il direttore generale quel livello rimane "elevato": non può scadere alla (risibile) considerazione che, in fondo "elevato" è una oggettivazione appena superiore a "buono". Elevato è cosa diversa da buono.

Gli altri limiti sono quelli generali di logicità, coerenza e imparzialità comuni a ogni attività amministrativa discrezionale, comprese (in questo è la novità) le esigenze di interesse pubblico particolari che sono al centro del programma che l'amministrazione si è proposta di realizzare: esigenze che devono essere perseguite con scelte rispettose dei canoni del corretto modo di amministrare.

La discrezionalità del direttore generale si manifesta, infatti, nel procedimento logico diretto a individuare, tra gli idonei, il candidato che collima con gli interessi particolari dell'amministrazione: operazione che sicuramente ha margini di scelta amministrativa e tecnica.

Per questa parte l'attività del direttore generale segue una direzione propria, che non ha agganci con le valutazioni della commissione.

Pure, le novità del procedimento non valgono a trasformare la discrezionalità amministrativa in una scelta di merito, che consenta al direttore generale di essere arbitro unico e indiscusso della scelta, senza vincoli con la precedente attività espletata dalla commissione.

Vale la pena di ricordare che "amministrare" significa scegliere, tra più soluzioni in pari misura possibili (e ovviamente lecite), quella più adatta a raggiungere gli obiettivi che il soggetto che amministra ha il compito di perseguire.

L'amministratore di una società che sceglie la strategia da seguire tirando una monetina, affida le sorti dell'ente alla alternativa del "testa o croce", ma non amministra.

Se pure l'amministrare comporta una libertà di scelta tra soluzioni possibili, idonee e lecite, esso non è mai affidato al capriccio dell'amministratore.

Questo potrebbe, al limite, essere per l'amministratore privato, che rischia di proprio.

Peraltro anche il buon amministratore privato sarà portato naturalmente a scegliere nel modo professionalmente più corretto per meglio curare gli interessi propri e dei soggetti per conto dei quali egli amministra.

Pure dovendosi riconoscere al privato, nel compimento delle attività destinate ad avere effetti giuridici nella realtà in cui esso opera, una libertà di scelta molto ampia, l'ordinamento giuridico asseconda gli interessi perseguiti, dal punto di vista sostanziale, solo se riconosciuti e, dal punto di vista processuale, sole se ritenuti meritevoli di tutela.

Questo non accade nelle ipotesi nelle quali il perseguimento dell'interesse privato deborda dai limiti imposti da "norme imperative", dall'ordine pubblico e dal buon costume (art. 1343 cod. civ.).

La libertà di scelta del soggetto pubblico è, invece, molto più limitata perché diretta a soddisfare solo l'interesse pubblico: fine esclusivo al quale, per avere riconoscimento e tutela, l'attività può essere diretta.

I limiti alla scelta dell'amministratore pubblico sono di tre specie: limiti imposti dalla legge; limiti importi dalle regole del buon amministrare; limiti imposti da ragioni di opportunità.

E' utile aiutarsi con un esempio.

La norma attribuisce all'amministrazione la potestà di sanzionare l'illecito del pubblico dipendente con la sospensione dal servizio fino a trenta giorni.

Trenta giorni è il confine esterno del potere attribuito, superato il quale il provvedimento sanzionatorio è illegittimo per violazione di legge.

La scelta in concreto della sanzione da applicare entro il limite massimo non è affidata al capriccio dell'amministratore, ma deve essere coerente con le regole del buon amministrare, nella sintesi indicata dall'art. 97 della Costituzione.

La sanzione deve perseguire in modo idoneo, concreto e puntuale la funzione che ad essa l'ordinamento assegna.

La sanzione deve essere giusta, logica, proporzionata.

Il dipendente (anche se non di buon grado) deve percepire la sanzione come corretta reazione dell'ordinamento alla sua condotta illecita.

La sanzione ingiusta (troppo grave ovvero troppo lieve rispetto all'illecito commesso) rappresenta una scomposta reazione dell'ordinamento, che in luogo di avere fini educativi (insegnare al dipendente a rispettare i propri doveri) raggiunge effetti opposti.

Il limite interno dell'osservanza dell'interesse pubblico impone alla amministrazione di scegliere la misura della sanzione (sia pure nel rispetto del limite esterno) tra il massimo e il minimo in misura tale da infliggere una sanzione giusta, proporzionata, imparziale (non inquinata da motivi personali), che non crei disparità di trattamento, logica, diretta a perseguire il fine del potere esercitato (punire il dipendente nei giusti limiti, non colpirlo perché scomodo).

Per non incorrere nel vizio di eccesso di potere (vizio della funzione esercitata) l'amministrazione deve muoversi entro i limiti interni del potere esercitato.

E' a questo punto che emerge l'ultima operazione da compiere nella scelta concreta della sanzione da applicare: è la scelta residuale tra più comportamenti (possibili e leciti), tutti rispettosi sia nei limiti esterni imposti dalla legge, sia dei limiti interni imposti dall'interesse pubblico.

Se l'illecito commesso dal dipendente è lieve, la scelta deve cadere su una sanzione lieve.

Pure, nella scala delle sanzioni applicabili non può essere messo in dubbio che è sanzione lieve - ad esempio - la sospensione nel limite di 1, 2, 3, 4 o 5 giorni (superato il quale la sanzione comincia ad essere meno lieve e, quindi, potrebbe configgere con l'esigenza di proporzionalità con l'illecito commesso).

La scelta concreta dei giorni (da uno a cinque) evidentemente esula da problemi di legittimità in quanto tutte e cinque le soluzioni rispettano in eguale misura la legge (limite esterno) e l'interesse pubblico (limite interno).

Subentra, a questo punto, una valutazione di opportunità che incide nel modo migliore di perseguire l'interesse pubblico.

Si entra in una area di stretta competenza dell'organo che amministra, inerendo la scelta concreta all'essenza stessa dell'amministrare nel pieno rispetto della legge e dei canoni di buona amministrazione.

L'opportunità della scelta è una prerogativa che spetta in modo esclusivo alla amministrazione: è un fatto squisitamente interno all'attività istituzionale, non sindacabile all'esterno della struttura.

Solamente l'amministrazione può intervenire sulle opportunità della scelta compiuta: in via di autotutela ovvero, al massimo, in via contenziosa nel (solo) ricorso gerarchico, che comunque mantiene la lite tra le mura dell'amministrazione stessa.

Per tornare al discorso principale, è il caso di osservare che dire che la commissione indica gli idonei e il direttore generale poi sceglie senza incontrare limiti di legittimità significa assegnare alla anzidetta operazione il connotato di una scelta di merito, cioè di opportunità.

Pure, il vero pericolo di questa tendenza a esaltare nella nomina del vincitore la natura privata di atto aziendale non discende dalla conseguenza del passaggio della giurisdizione ad altro giudice: nelle mani del giudice ordinario il candidato escluso otterrebbe piena ed anche migliore tutela.

La conseguenza di una operazione bastata sulla assoluta libertà di scelta del direttore generale risiede nel fatto che la stessa, impingendo nella opportunità dell'azione amministrativa, resterebbe sottratta a qualunque giudice, con manifesto contrasto con i principi costituzionali secondo le non infondate preoccupazioni espresso dai giudici del TAR del Friuli-Venezia Giulia.

Né può trarre in inganno una lettura stretta dell'art. 15-ter, comma secondo, del decreto legislativo 19 giugno 1999 n. 229 ("l'attribuzione dell'incarico di direzione di struttura complessa è effettuata dal direttore generale..... sulla base di una rosa di candidati idonei selezionata da una apposita commissione"), atteso che i nominativi degli idonei non sono tra loro alternativi (è falso pensare che la commissione riesca a individuare dei cloni), ma solo la base sulla quale il direttore generale in modo motivato, trasparente e rispettoso sia dei criteri di buona amministrazione, che di quelli espressi preventivamente in sede di autolimitazione del proprio potere di scelta, risolve la conflittualità delle posizioni naturalmente differenziate dei candidati.

La scelta del direttore generale non è una scelta politica: è una scelta tecnica saldamente ancorata a parametri di professionalità rispondenti alle peculiari esigenze connesse al posto da ricoprire.

La presenza di limiti ben definiti alla scelta del direttore generale, soggetta al sindacato del giudice di legittimità dell'azione amministrativa, induce a privilegiare una interpretazione della normativa la più aderente ai precetti costituzionali.

11 - Per riassumere, deve essere osservato che sia le operazioni della commissione (che pure non dà punteggi, non opera una valutazione comparativa dei singoli candidati, dei loro titoli o dell'esito del colloquio, non stila graduatorie di merito, ma esprime un giudizio complessivo sulla idoneità di ciascun candidato, individualmente considerato, a ricoprire l'incarico di dirigente apicale), sia l'attività del direttore generale, che assegna l'incarico in base a una scelta discrezionale, rientrano nella nozione di procedimento concorsuale, costituito da una seguenza di operazioni fondate sostanzialmente sulla prevalenza, in termini di maggiore idoneità all'esercizio delle nuove funzioni, di un candidato sugli altri.

La novità è nel concetto stesso di "maggiore idoneità", che tiene conto anche delle esigenze concrete di interesse pubblico che l'amministrazione intende soddisfare.

Quest'ultima valutazione, tecnica e discrezionale, di competenza del direttore generale giustifica la mancata predisposizione di una graduatoria da parte della commissione.

L'attività logica di allogare i candidati idonei secondo i meriti e le caratteristiche in un ordine di graduatoria "virtuale" (anche se, nella sua applicazione, l'operazione si ferma non appena individuati i vincitori in relazione ai posti messi a concorso, senza la materiale compilazione dei elenchi ordinati) poggia su termini di riferimento della idoneità ed elementi di comparazione del tutto peculiari rispetto a quelli delle forme tradizionali di procedure concorsuali, ma non per questo è affidata al caso o al capriccio del direttore generale ovvero (peggio ancora) al rispetto degli indirizzi di partito.

Si tratta di scelte che devono essere comprensibili, lecite, trasparenti, adeguatamente rese pubbliche e, in ogni caso, soggette al sindacato pieno di un giudice: si ritiene nella specie del giudice amministrativo in quanto inerenti all'ingresso (in secondo grado) in un posto vacante nell'organico del pubblico impiego.

E' utile, infine, rimarcare che la dichiarazione di idoneità riferita a una pluralità di soggetti non ne sancisce la intercambiabilità (come a dire che sia indifferente la scelta dell'uno in luogo dell'altro), atteso che è compito del direttore generale individuare, tra gli idonei, il candidato che maggiormente risponde alle esigenze peculiari (rese pubbliche) della amministrazione.

Questa operazione, che deve svolgersi entro precisi limiti, è soggetta a sindacato giurisdizionale.

Se così non fosse e atteso che ai ricorrenti deve essere data ragione della scelta (se non altro come corrispettivo dell'impegno a sottoporsi alle prove selettive e dell'imbarazzo nel proprio ambiente di lavoro per non tornare vincitori), tanto varrebbe affidarsi a una estrazione a sorte.

Nella scelta del direttore generale è insita una selezione e dove l'amministrazione omette di indicare le caratteristiche, che devono essere possedute per rispondere alle peculiari esigenze di cui si è detto, la scelta non può che cadere sul candidato migliore nel senso tradizionale siccome soggetto che vanta maggiori titoli e sia ritenuto in grado di soddisfare tutte le aspettative dell'amministrazione.

12 - Ai limiti della stesura di questa sentenza si ha notizia della autorevole pronuncia della Cassazione SS.UU. 11 giugno 2001 n. 7859 in Cons. Stato 2001, II, 1469, che rivendica al giudice ordinario la giurisdizione in tema di conferimento dell'incarico di dirigente di secondo livello del ruolo sanitario.

E' una decisione da leggere con molta attenzione per non cadere nell'equivoco di ritenere la soluzione adottata di carattere generale, laddove a una più meditata analisi essa appare chiaramente proposta per un caso di specie.

Ed invero, la fattispecie esaminata dalla Suprema Corte, come pare di comprendere, rientra nei casi nei quali sussiste un diritto alla assunzione.

Si tratta, quindi, di una ipotesi analoga a quella esaminata nella sentenza delle stesse Sezioni Unite 15 dicembre 2000 n. 1267 in Cons. Stato 2000, II, 401, con la quale, correggendo l'errore di questa Sezione per avere ritenuta la propria giurisdizione nei primissimi tempi di applicazione della nuova normativa, è stata affermata la competenza del giudice ordinario nella controversia proposta per dedurre il diritto al conferimento dell'incarico di direttore amministrativo di una università sulla base di apposita norma della legge 15 maggio 1997 n. 127, che in prima applicazione riservava l'incarico dirigenziale anzidetto in favore del direttore amministrativo in carica.

Questo e gli altri casi analoghi, nei quali sussista un diritto alla nomina (si pensi al primo di una graduatoria concorsuale scalzato dalla nomina del secondo ovvero ai casi di assunzione obbligatoria a favore degli appartenenti alle categorie protette), rientrano tra le controversie concernenti la "assunzione al lavoro", che ai sensi dell'art. 68, comma primo, del testo aggiornato del decreto legislativo 3 febbraio 1993 n. 29 spettano al giudice ordinario.

E' il caso di aggiungere che l'equivoco non si annida neppure nel tema della distribuzione degli incarichi dirigenziali "interni", atteso che nella decisione della Suprema Corte si legge che:"La disciplina della privatizzazione dei rapporti di impiego pubblico si impernia sul principio per cui gli atti che si collocano al di sotto della soglia di configurazione strutturale degli uffici pubblici e che riguardano il funzionamento degli apparati sono espressione della capacità di diritto privato e, correlativamente, i poteri di gestione del personale rispondono nel lavoro pubblico, come in quello privato, a uno schema normativamente unificato, che non è quello del potere pubblico ma quello dei poteri privati. (......) Il conferimento dell'incarico ai dirigenti si iscrive in quest'area gestionale e costituisce esso medesimo esercizio di un potere privato perché presuppone già compiute dai competenti organi di indirizzo le scelte organizzative di tipo strutturale, identificative dell'ufficio alla cui copertura il conferimento stesso è destinato".

Un possibile equivoco potrebbe esserci, invece, nel discorso che riguarda le procedure strumentali alla costituzione del rapporto di impiego del dirigente apicale del suolo sanitario.

In primo luogo deve essere osservato che l'attribuzione della idoneità da parte della commissione agli aspiranti all'incarico di dirigente apicale non attribuisce ad alcuno il diritto a essere nominato (più correttamente: a stipulare il contratto).

Questo non tanto perché il candidato valutato come "idoneo" resta titolare di un interesse legittimo al conferimento dell'incarico dirigenziale (invero, la suddivisione della giurisdizione in ragione della materia rende in sé irrilevante la natura della posizione giuridica rivestita), quanto per il fatto che il diritto vero e proprio al conferimento dell'incarico (con radicamento della giurisdizione del giudice ordinario) sorge dopo la conclusione del procedimento di selezione, che al momento della attribuzione della idoneità non è ancora giunto alla sua completa definizione. Ed invero, diventa essenziale nell'argomento trattato l'esigenza di capire quando si passa dalla fase propriamente selettiva, di competenza del giudice amministrativo, alla concreta costituzione del rapporto di impiego: momento che apre la competenza del giudice ordinario fino alla estinzione del rapporto stesso, comprendendovi nell'intero arco di tempo ogni eventuale vicenda modificativa intermedia, anche se finalizzata alla progressione in carriera e realizzata attraverso una vicenda selettiva di tipo concorsuale.

Certamente non può dirsi non esatta l'osservazione che, in generale, il provvedimento finale o conclusivo di un procedimento concorsuale è costituito dalla approvazione della graduatoria definitiva e non già dall'atto di nomina o, comunque, dall'atto costitutivo (ora contratto individuale) del rapporto di impiego con i vincitori del concorso.

In luogo di quella giusta osservazione non è, invece, esatto identificare nel giudizio di idoneità formulato dalla commissione all'esito del colloquio con ciascun candidato e della valutazione del relativo curricolo l'atto conclusivo della fase selettiva propriamente detta; dove il conferimento dell'incarico, che avviene a opera del direttore generale sulla base del detto giudizio, concreterebbe la costituzione del rapporto.

A una attenta analisi della normativa appare non dubbio che il (nuovo) rapporto di impiego scaturisce dalla sottoscrizione del contratto.

L'attribuzione dell'incarico di dirigente apicale del ruolo sanitario da parte del direttore generale, della quale parla la normativa nel modo da ingenerare possibili equivoci, è figura giuridica ben diversa dalla attribuzione dell'incarico interno.

Quest'ultima, che si svolge all'interno di categorie di personale già dipendente ed è perciò funzionale a una modificazione o a un diverso assetto di rapporti già costituiti, avviene a opera di atti non più accreditabili della natura propria dei provvedimenti amministrativi e riconducibili, invece, al modello contrattuale di tipo privatistico.

In altri termini, gli incarichi, le mansioni, i compiti da espletare, nell'ambito di precise competenze, all'interno della struttura sanitaria, procedono da un atto unilaterale di attribuzione del direttore generale, che ha natura di atto di organizzazione di diritto privato (atto di carattere aziendale: cioè rivolto al migliore funzionamento dell'azienda sanitaria).

Il destinatario dell'incarico non deve prestare il suo consenso alla attribuzione di compiti motivata da esigenze di servizio.

La prima figura, invece, pure definita come "attribuzione dell'incarico apicale da parte del direttore generale" non è altro che l'atto di individuazione del contraente del futuro contratto che l'amministrazione andrà a stipulare.

Ora che l'atto di nomina non esiste più. perché sostituito dalla sottoscrizione del contratto, alla operazione del direttore generale non può che riconoscersi il significato di atto col quale è scelto il soggetto da assumere: operazione che rientra sicuramente nella piena attività amministrativa dell'ente (attività di natura pubblica perché "attinente al profilo pubblicistico dell'organizzazione dell'amministrazione, posto come limite generale alla c.d. privatizzazione del pubblico impiego dall'art. 2, lett. a), della legge 421 del 1992": come recita la sentenza della VI Sezione del Consiglio di Stato, n. 1519 del 2001).

E' ora necessario analizzare il procedimento logico della scelta del contraente.

Al momento di individuare i candidati idonei, la commissione non dà rilievo alle loro differenze, ma si limita a scoprire il possesso dei requisiti minimi richiesti per essere possibili soggetti del rapporto di lavoro che l'amministrazione si appresta a costituire.

Il parere della commissione è atto interno del procedimento selettivo, che perviene alla sua conclusione quando il direttore generale, in luogo di scegliere uno qualsiasi degli idonei sulla base di ragioni di opportunità (nel quale caso si avrebbe una scelta di merito), individua il migliore degli idonei in relazioni alle puntuali esigenze dell'amministrazione.

Questo potrebbe accadere anche con la scelta di un candidato meno dotato di altri in certe competenze, laddove motivatamente è dato risalto a differenti qualità possedute in misura maggiore in talaltri settori.

Assume, invece, decisivo rilievo il fatto che la scelta avvenga nel rigoroso rispetto dei canoni di legittimità che sono a capo dell'attività discrezionale della pubblica amministrazione.

Con il corretto esercizio del suo potere, il direttore generale provvede a "graduare" gli idonei, cioè a disporli secondo un ordine (decrescente) legittimo, in modo che risulti selezionato il candidato migliore.

In fondo, quando la Suprema Corte, nella sentenza 7859 del 2001, trae la conclusione che "alla stregua della comune disciplina di diritto privato, ed in particolare delle regole generali di correttezza e buona fede, vanno esaminate e giudicate le pretese di chi, dopo avere superato una selezione concorsuale, conclusasi con l'accertamento della sua idoneità all'incarico, assuma che altri gli stato illegittimamente preferito", non afferma altro che l'attività di scelta deve procedere secondo i canoni del corretto esercizio del potere amministrativo.

E', difatti, da escludere che la procedura possa concludersi con la preferenza di un candidato per effetto di una illegittima scelta discrezionale.

D'altra parte non può neppure ritenersi che la scelta di un diverso candidato, rispetto al candidato che denuncia di essere stato indebitamente pretermesso, possa configurarsi come operata in violazione di un atto dovuto: la pretesa di colui che ha conseguito il giudizio di idoneo da parte della commissione rimane una legittima aspettativa all'assegnazione dell'incarico, del tutto analoga alla posizione degli altri aspiranti egualmente ritenuti "idonei" dalla stessa commissione.

Si ripete col dire che, se la scelta del direttore generale venisse configurata come esercizio di poteri di merito, neppure il giudice ordinario avrebbe giurisdizione sulla scelta inopportuna.

L'equivoco è, quindi, nell'avere ritenuto che concretasse la costituzione del rapporto "secondo lo schema negoziale configurato dalle norme sulla privatizzazione" non già la sottoscrizione del contratto, ma l'atto amministrativo di individuazione del sanitario contraente. Detto provvedimento amministrativo deve rispettare i limiti dell'attività discrezionale della pubblica amministrazione e deve essere collocato nella fase antecedente alla costituzione del rapporto in quanto è parte della procedura concorsuale, sia pure di forma e caratteristica del tutto nuova rispetto ai tradizionali schemi di selezione del personale pubblico.

A questo punto appare oltre misura opportuno richiamare la efficace semplificazione compiuta dal T.A.R. della Campania (sentenza 14 marzo 2001 n. 1114 della Sede, Sezione seconda): "come appare evidente dalla semplice lettura della richiamata disposizione normativa (art. 68 del decreto legislativo 29 del 1993, come sostituito dall'art. 29 del decreto legislativo 80 del 1998), nella materia del pubblico impiego privatizzato occorre distinguere, ai fini del riparto della giurisdizione, tra controversie relative ai rapporti di lavoro in atto (attribuite al giudice ordinario) e controversie relative all'attività amministrativa finalizzata all'instaurazione dei rapporti stessi (devolute al giudice amministrativo)".

Nelle stesso modo appare utile richiamare, dalla sentenza 12 luglio 1999 n. 2125 cit. di questa Sezione, le seguenti proposizioni: "Il fattore genetico, che incardina la competenza del giudice ordinario, è il contratto individuale accettato e sottoscritto.

Soltanto da quest'ultimo nasce la pretesa (della consistenza del diritto soggettivo) all'inserimento nell'organizzazione pubblica: fatto che radica la competenza del giudice ordinario a decidere le conseguenti controversie relative alla gestione del rapporto di lavoro secondo i poteri del privato datore di lavoro".

Si osserva, per concludere, che l'attività del direttore generale è parte della complessa, ma unitaria, procedura di selezione finalizzata alla assunzione di nuovo personale in posti vacanti in pianta organica, il quale muta il proprio stato e si lega all'amministrazione con nuovo e diverso contratto di lavoro.

Atteso il discrimine della giurisdizione a opera della sottoscrizione del contratto di lavoro, appare evidente come non possa parlarsi di forza attrattiva di una giurisdizione sull'altra quando sussista un nesso di presupposizione tra le due fasi del pubblico impiego (la prima che concerne la procedura selettiva; la seconda che riguarda la gestione del rapporto costituito) nelle ipotesi in cui la controversia investa nella sostanza la costituzione del rapporto, anche se la prospettazione della parte si esprima in senso impugnatorio di atti prodromici riferibili alla fase concorsuale.

E' evidente che si è al di fuori dei casi nei quali vengono in questione atti amministrativi presupposti, che l'art. 68, comma primo, del decreto legislativo 29 del 1993 risolve con la disapplicazione da parte del giudice ordinario.

La previsione del potere attribuito a quest'ultimo di disapplicare gli atti amministrativi illegittimi, se rilevanti ai fini della decisione, non contraddice il discrimine voluto dal legislatore in modo netto e inequivocabile.

Gli atti amministrativi presupposti, rilevanti ai fini della decisione, cui fa riferimento l'art. 68 richiamato, non possono essere gli atti a contenuto generale (organizzativi e concorsuali), coperti da riserva ed esterni al rapporto di lavoro che, quand'anche impugnati in quanto recanti lesione diretta, immediata e personale a un singolo oppure a una pluralità di lavoratori, non sono causa di sospensione del processo dinnanzi al pretore del lavoro.

Tali atti, infatti, per non essere pertinenti alla gestione del rapporto individuale di lavoro, devono essere assunti per quelli che sono, senza possibilità alcuna di contaminazione in virtù della separazione funzionale delle competenze giurisdizionali attribuite per la diversità della fonte regolatrice (contratto collettivo e decentrato), dove l'organizzazione della pubblica amministrazione è subordinata solo alla legge, ovvero per le separate procedure che presiedono in modo indipendente alla definizione e interpretazione autentica o giudiziaria, da un lato, del provvedimento amministrativa e, dall'altro, delle clausole di un contratto individuale o accordo collettivo sottoscritto dall'ARAN (Agenzia per la rappresentanza nazionale delle pubbliche amministrazioni), ovvero ancora per le pregiudiziali modalità conciliative di raffreddamento delle controversie individuali di lavoro, evidentemente non rinvenibili nel campo delle potestà pubbliche, che sono a causa vincolata (e non libera, come in diritto comune) e che pertanto non sono nella disponibilità delle parti e non possono costituire oggetto di transazione negoziale (né il problema può essere confuso con gli accordi procedimentali dell'art. 11 della legge 7 agosto 1990 n. 241 che, come pure dimostra il loro insuccesso, sono tutt'altra cosa), oppure ancora per la non operatività dell'istituto della disapplicazione da parte del giudice ordinario nei riguardi di un atto amministrativo dichiarato legittimo dal giudice amministrativo (più correttamente: per non essere stato annullato perché accertato legittimo) come ha statuito la Suprema Corte (Cass. Civ., I Sez., 27 marzo 1997 n. 2721), ovvero in ultimo per assumere rilevanza l'istituto della disapplicazione unicamente se si controverte in materia di diritti, dove l'organizzazione pubblica è espressione della potestà discrezionale della pubblica amministrazione, dal cui esercizio possono nascere (almeno di solito, salva espressa previsione legislativa) soltanto aspettative legittime.

Anzi, le conclusioni ora rassegnate relativamente alla separazione per materia tra giudice ordinario e giudice amministrativo consentono di ricondurre in termini di sola apparenza la problematica insorta sui limiti di cui agli artt. 4 e 5 della legge 2248 all. E del 1865 (sulla abolizione del contenzioso amministrativo): non hanno, infatti, più ragioni di essere le discussioni nate attorno al potere del giudice ordinario di condannare la pubblica amministrazione a un fare specifico (nella specie, in materia di pubblico impiego).

A ben vedere, la possibilità per il giudice ordinario di adottare, nei confronti delle pubbliche amministrazioni, tutti i provvedimenti di accertamento, costitutivi e di condanna, richiesti dalla natura dei diritti tutelati in materia di lavoro di impiego pubblico (art. 68, comma secondo, decreto legislativo 29 del 1993 citato), non discende tanto dalla espressa previsione normativa che ha chiaro contenuto esplicativo, quanto dalla nuova struttura del rapporto di impiego pubblico contrattualizzato.

Ne deriva che solo gli atti amministrativi presupposti nello svolgimento del rapporto individuale, in quanto su questo incidenti, sono suscettibili di disapplicazione: ossia quegli atti che attengono al profilo interno del rapporto sinallagmatico "datore di lavoro - lavoratore", quando il primo faccia uso del proprio potere potestativo.

Si pensi agli ordini di servizio e, in particolare, agli atti organizzativi interni che i dirigenti responsabili della gestione possono adottare, ove ne sussistano i presupposti, per il raggiungimento degli obiettivi e per la migliore produttività ed efficienza delle risorse umane e finanziarie assegnate.

Con la conseguenza, in base a principi consolidati, che la disapplicazione, nella singola controversia, di un tale atto amministrativo presupposto, non ha effetto in altre eventuali controversie di identico oggetto (alla quale potrebbe perciò essere riservata una diversa soluzione), né implica la caducazione dell'atto amministrativo organizzativo (interno) disapplicato.

Ciò è peraltro diverso dal regime impugnatorio proprio della giurisdizione amministrativa e dalle fonti di organizzazione degli uffici che operano nelle materie che il citato art. 2, comma primo, del decreto legislativo 29 del 1993 riserva alla legge o ad atti normativi o amministrativi in base alla legge, nel rispetto della riserva relativa di cui all'art. 97 della Costituzione a tutela degli atti e degli assetti organizzativi generali (veri e propri), i cui effetti, in caso di annullamento giurisdizionale, sono di norma efficaci verso tutti.

Ciò nonostante, la giurisdizione del giudice amministrativo non è negata in via di principio nei confronti e limitatamente ai suddetti atti organizzativi interni che, in quanto provvedimenti amministrativi (atti di potestà pubblica), ben possono essere oggetto di impugnazione (con i limiti propri della giurisdizione di legittimità e in alternativa al meccanismo incidentale della disapplicazione).

Pure, laddove ciò si verifichi, la vicenda processuale dinnanzi al giudice amministrativo non influisce sul processo in corso innanzi al giudice ordinario, salvo gli effetti del giudicato: questa - come i relativi riflessi - è peraltro questione diversa e qui non mette conto occuparsene. (cfr.: questa Sezione, 12 luglio 1999 n. 2125 cit.).

Quanto detto comporta che le volte in cui la prospettazione della parte coinvolga una valutazione di legittimità delle operazioni selettive, che si concludono non già con l'approvazione per delibera del direttore generale dei lavori della commissione, ma si protendono fino alla scelta del migliore degli idonei (atto che prende corpo attraverso la proposta di contratto che è sottoposto al candidato col quale l'amministrazione intende instaurare il rapporto di lavoro), la giurisdizione è del giudice amministrativo ai sensi dell'art. 68, comma quarto, del decreto legislativo 29 del 1993, rimanendo irrilevante il fine del ricorrente di pervenire alla propria assunzione.

Non può, difatti, parlarsi di concomitante operatività delle due giurisdizioni in presenza di una normativa che attribuisce in maniera netta alla residua ed esclusiva competenza del giudice amministrativo le procedure strumentali alla costituzione del rapporto di lavoro con la amministrazione pubblica.

13 - Con delibera 27 settembre 2000 n. 1240 il direttore generale dell'azienda sanitaria resistente, nel dichiarato intento di dare esecuzione alla sentenza 23 giugno 2000 n. 5141 cit. di questa Sezione, riconfermava il controinteressato nell'incarico quinquennale di dirigente medico di secondo livello a suo tempo bandito con delibera 7 settembre 1998 n. 2095.

I motivi posti a fondamento del ricorso sono nel loro complesso da condividere.

Ed invero, l'amministrazione ha tratto erronee conseguenze dalla lettura della sentenza che dichiarava di volere eseguire e che, per non averla impugnata, costituisce limite alla sua potestà di rinnovazione.

In primo luogo appare evidente che l'individuazione del candidato al quale conferire l'incarico messo a concorso non poteva essere rimessa all'attuale direttore generale, il cui giudizio è irrimediabilmente alterato dal colloquio indebitamente avuto con i candidati separamene e in segreto (pag. 19 del ricorso introduttivo).

Non era poi tanto difficile comprendere che l'amministrazione avrebbe dovuto chiedere alla Regione l'intervento di un commissario per concludere il procedimento.

La sentenza aveva, inoltre, creduto alla ipotesi della esistenza di un documento del direttore generale che avesse indicato le specifiche esigenze alle quali avrebbe dovuto corrispondere la professionalità del candidato da nominare.

Il documento si è rivelato inesistente: ragione per la quale il giudizio sui candidati andava svolto esclusivamente alla luce dei criteri che la commissione aveva elaborato ai fini della ricerca del candidato migliore.

Non vi è dubbio che alla luce dei criteri fissati dalla commissione e dei giudizi dalla stessa espressi nelle schede, non può concludersi che a favore del ricorrente.

Ed infatti, tenendo conto della valutazione comparative dei due candidati rimasti in lizza sulla base dei titoli posseduti, della anzianità di servizio, della maturità scientifico-professionale comprovata dai diplomi di specializzazione, della vasta e indiscussa esperienza acquisita nell'attività gestionale e di direzione svolta per circa un decennio proprio nel posto in questione, non può essere messa in dubbio la prevalenza del ricorrente e la sua sicura affidabilità tecnica rispetto agli obiettivi perseguiti dall'amministrazione.

Che sia fondato il rilievo del ricorrente sulla pervicace volontà del direttore generale di reiterare il conferimento dell'incarico al controinteressato superando, peraltro in modo maldestro, i criteri dettati con la sentenza 5141 del 2000 cit., passata in giudicato, è tra l'altro dimostrato dalle argomentazioni di modesta consistenza con le quali è stato ritenuto di porre l'amministrazione al riparo da una ulteriore censura al proprio operato.

E' sufficiente a tale proposito riferirsi alla valutazione sulla qualità della produzione scientifica dei concorrenti: valutazione non messa in luce dalla commissione e che al direttore generale non spetta perché estranea alle proprie competenze.

Né la commissione parla di "dinamismo culturale" secondo una formula introdotta per la prima volta dal direttore generale senza spiegare di cosa si tratti.

Non è neppure il caso di prendere in seria considerazione la valutazione sul livello di autonomia decisionale (senza dubbio di evidente importanza nel concorso in argomento) espressa in manifesto contrasto con i risultati della commissione: il giudizio di "elevato" adottato dalla commissione non è da intendersi come valutazione "appena superiore a quella di buono".

Restano conclusivamente inespresse le ragioni per le quali in un giudizio complessivo sia da "prescegliersi per l'affidamento dell'incarico predetto" il medico controinteressato, così come in mancanza di criteri predeterminati sia da considerare "maggiormente meritevole di interesse per l'amministrazione l'esperienza professionale" di quest'ultimo in presenza di inequivocabili apprezzamenti in senso diametralmente opposto espressi sul punto dalla commissione competente.

Né, infine, appare sufficiente a capovolgere il giudizio della commissione l'innegabile punto a favore del controinteressato conseguito nel colloquio. Non risulta, infatti, che tale elemento, di importanza non decisiva per le molteplici ragioni che possono avere determinato un esito non proprio eccellente, abbia inciso nella considerazione, nel suo complesso positiva, della personalità del candidato, del quale sono state messe in buona evidenza le doti professionali, le capacità tecniche e di carattere tali da attribuire al medesimo una posizione sicuramente più vantaggiosa rispetto a quella del controinteressato.

Per le ragioni esposte, ritenuta la giurisdizione, il ricorso merita di essere accolto con vittoria di spese nei termini indicati in dispositivo.

(omissis)

Depositata il 17 dicembre 2001.

Copertina Clicca qui per segnalare la pagina ad un amico