TAR LOMBARDIA-MILANO, SEZ. III – Sentenza 29 giugno 2000 n. 4652 - Pres. Mariuzzo, Est. Deodato - Rovella (Avv. Battagliese) c. Ministero delle Finanze e Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria (Avv.ra Stato)- (accoglie).
Giustizia amministrativa - Ricorso giurisdizionale - Motivi - Esame preliminare dei motivi riguardanti questioni sostanziali - Necessità - Ragioni.
Giustizia tributaria - Commissioni tributarie - Incompatibilità prevista dell’art.8 lett. I) D. Lgs. 545/92 - Per attività di consulenza - Casi in cui si verifica - Requisiti dell’abitualità, della professionalità e della continuatività - Debbono sussistere.
Giustizia tributaria - Commissioni tributarie - Incompatibilità prevista dell’art.8 lett. I) D. Lgs. 545/92 - Per attività di consulenza - Nozione di consulenza - Individuazione.
Giustizia tributaria - Commissioni tributarie - Incompatibilità prevista dell’art.8 lett. I) D. Lgs. 545/92 - Per attività di consulenza - Casi in cui si verifica - Personalità della prestazione - Necessità.
Nell’esame dei vizi denunciati con un ricorso giurisdizionale occorre dare la precedenza alle questioni di legittimità sostanziale sollevate, piuttosto che a quelle di carattere formale, atteso che il giudicato di annullamento di un atto amministrativo per vizi formali non elimina né riduce il potere discrezionale dell’amministrazione di provvedere sull’oggetto del giudizio (1) con la conseguenza che non può reputarsi elusiva delle statuizioni contenute nel giudicato la reiterazione dell’atto negativo depurato dai vizi formali (2).
Deve ritenersi che l’applicazione dell’art.8 lett. I) del D. Lgs. 545/92 (il quale prevede l’incompatibilità con l’esercizio delle funzioni di Giudice Tributario dell’attività di consulenza) postula indefettibilmente che l’attività di consulenza presenti i caratteri dell’abitualità, della professionalità e della continuatività (3), in mancanza dei quali non risulta integrata, nei suoi elementi essenziali, la situazione di incompatibilità positivamente considerata; di contro, deve ritenersi che un’attività di consulenza marginale, non presenti alcun pericolo per la terzietà e l’imparzialità del giudice.
Dove riconoscersi la situazione di incompatibilità prevista dall’art.8 lett. I) D. Lgs. 545/92 in tutte le ipotesi in cui l’attività ordinaria del professionista non si limiti alla semplice individuazione degli elementi costitutivi, modificativi ed estintivi del rapporto di imposta ma si estenda fino all’interpretazione della normativa primaria e secondaria, sovente complessa e difficilmente leggibile, alla valutazione delle conseguenze fiscali delle diverse scelte rimesse al contribuente nella gestione della sua attività contabile, commerciale e aziendale e, infine, al consiglio circa la strategia più conveniente per la realizzazione degli interessi del cliente.
Non v’è dubbio che la disposizione che stabilisce l’incompatibilità nel caso di svolgimento di attività di consulenza, in quanto diretta a preservare la terzietà e l’imparzialità dell’organo giudicante, deve intendersi riferita esclusivamente e personalmente al professionista nominato componente della Commissione Tributaria, con la conseguenza che la situazione di incompatibilità, perché sia concretamente ravvisabile, dev’essere realizzata direttamente dall’interessato quale libero professionista, a nulla rilevando che il professionista stesso appartenga ad uno studio associato; lo studio associato, infatti, non risulta titolare di alcuna soggettività giuridica né di posizioni soggettive, attive o passive (4), risolvendosi, a ben vedere, in una sorta di associazione tra professionisti.
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(1) Cons. Stato, Sez. VI, 7 gennaio 1998 n. 29.
(2) Cons. Stato, Sez. V, 17 marzo 1998 n. 297.
(3) Cfr. in termini Cons. Stato, Sez. V, 4 gennaio 1993 n. 27, in una fattispecie analoga di incompatibilità di un dipendente pubblico.
(4) Cass.Civ., Sez. Lav., 21 ottobre 1997, n. 10354.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso n.153/2000 proposto da
Rovella Nicolò
rappresentato e difeso dall’Avv. G. Battagliese ed elettivamente domiciliato presso lo stesso in Milano, C.so Porta Vittoria n.17;
contro
il Ministero delle Finanze e il Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria, costituiti in giudizio, rappresentati e difesi dall’Avvocatura Distrettuale dello Stato con domicilio ex lege presso la sua sede in Milano, Via Freguglia n.1;
e nei confronti
della Commissione Tributaria Provinciale di Milano, costituita in giudizio, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Distrettuale dello Stato con domicilio ex lege presso la sua sede in Milano, Via Freguglia n.1;
per l’annullamento
del decreto del Ministero delle Finanze con cui il ricorrente è stato dichiarato decaduto dall'incarico di Presidente di Sezione della Commissione Tributaria Provinciale di Milano; della delibera del Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria del 20.7.99 nonchè di tutti gli atti connessi;
Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero intimato;
Visti gli atti tutti della causa;
Viste le memorie prodotte in giudizio dalle parti a sostegno delle proprie difese;
Udito, alla pubblica udienza del 12 maggio 2000, il relatore dott.Carlo Deodato;
Uditi, altresì, i procuratori delle parti;
Ritenuto in fatto e diritto quanto segue:
FATTO
Con ricorso ritualmente notificato e depositato Nicolò Rovella impugnava gli atti con cui il Ministero resistente aveva accertato la sussistenza di una situazione di incompatibilità con l’esercizio delle funzioni di Giudice Tributario dichiarando, conseguentemente, la propria decadenza dall’incarico di Presidente di Sezione della Commissione Provinciale di Milano. Assumeva il ricorrente l’illegittimità dei provvedimenti impugnati deducendo, a sostegno dell’assunto, la sussistenza di vizi procedimentali, contestando la ricorrenza del presupposto della decadenza, rilevando un difetto di istruttoria e di motivazione nella delibera conclusiva ed eccependo, in via subordinata, l’illegittimità costituzionale dell’art.8 lett.I) D. Lgs. 545/92. Concludeva per l’annullamento degli atti impugnati e per la condanna del Ministero resistente al risarcimento in proprio favore dei danni patiti in conseguenza dell’adozione dei provvedimenti controversi.
Il Ministero delle Finanze e gli altri organi intimati, costituitisi in giudizio, contestavano la sussistenza delle violazioni denunciate nel ricorso e concludeva per la reiezione del ricorso.
Con ordinanza resa nella camera di consiglio del 27 gennaio 2000 veniva concessa la tutela cautelare invocata dalla ricorrente e alla pubblica udienza del 12 maggio 2000 la causa veniva trattenuta in decisione.
DIRITTO
Le parti controvertono in ordine alla legittimità della dichiarazione di decadenza del ricorrente dall’incarico di giudice tributario decretata dal Ministro delle Finanze sulla base dell’accertamento della situazione di incompatibilità contemplata dall’art.8 lett. I) D. LGS. 545/92, e cioè l’esercizio dell’attività di consulenza tributaria, dibattendo, sostanzialmente, sulla definizione dei limiti e dei caratteri della condizione di incompatibilità e, quindi, sulla stessa ricorrenza del presupposto di fatto degli atti controversi.
Deve preliminarmente rilevarsi che l’analisi dei vizi procedimentali denunciati dal ricorrente, ancorchè idonea in astratto a condurre all’annullamento degli atti impugnati sotto il peculiare profilo della mancata notifica della necessaria diffida all’interruzione dell’attività incompatibile (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 29 ottobre 1996 n.1416 su un caso analogo al presente), può reputarsi assorbita, per il loro carattere formale e, dunque, di per sé inidoneo ad assegnare una tutela effettivamente satisfattiva degli interessi del ricorrente, dal giudizio sulla legittimità sostanziale dei provvedimenti di decadenza. Risulta ormai definitivamente recepito, infatti, il principio per cui il giudicato di annullamento di un atto amministrativo per vizi formali non elimina né riduce il potere discrezionale dell’amministrazione di provvedere sull’oggetto del giudizio (Cons. Stato, Sez. VI, 7 gennaio 1998 n.29) con la conseguenza che non può reputarsi elusiva delle statuizioni contenute nel giudicato la reiterazione dell’atto negativo depurato dai vizi formali (Cons. Stato, Sez. V, 17 marzo 1998 n.297). Ulteriore corollario di detti principi è costituito dall’assenza di concreta effettività e satisfattività per gli interessi sostanziali del ricorrente di una pronuncia di annullamento motivata dalla verifica di vizi formali, inidonea, come tale, ad assegnare all’interessato il bene della vita perseguito con la proposizione dell’azione giudiziaria, e cioè, nel caso di specie, la verifica dell’insussistenza del presupposto sostanziale della dichiarazione di decadenza impugnata. Pare, di conseguenza, opportuno esaminare preliminarmente la fondatezza delle questioni di legittimità sostanziale sollevate dal ricorrente.
Si osserva, in proposito, che la disamina delle censure formulate dal ricorrente si risolve nell’esegesi della norma che stabilisce l’incompatibilità e postula la preliminare risoluzione della questione ermeneutica sottesa alla lettura del suo ambito applicativo e del suo reale contenuto precettivo. Occorre, in sintesi, indagare e precisare i rapporti tra la disposizione che autorizza i liberi professionisti a comporre le Commissioni Tributarie (art.4 D. Lgs. 545/92) e quella, apparentemente anitnomica (art.8 lett.I), che vieta ai componenti dei predetti organi l’esercizio della consulenza tributaria, definendo siffatta attività quale causa di incompatibilità con lo svolgimento delle funzioni di giustizia tributaria e stabilendo, quale conseguenza di quella situazione, la decadenza dall’incarico.
Posto che tra i professionisti che possono accedere alle Commissioni Tributarie figurano anche i Ragionieri ed i Dottori Commercialisti e che, per comune esperienza, l’opera professionale ordinaria delle predette categorie comprende, pressochè necessariamente (e con la rara eccezione di particolare specializzazione del professionista in materie diverse), l’espletamento dell’attività di consulenza fiscale, ove intesa in senso ampio, si rileva che tra le due disposizioni emerge, prima facie, un contrasto apparentemente insanabile ed insuperabile. Non può, invero, negarsi il conflitto del combinato disposto di due disposizioni, peraltro inserite nello stesso provvedimento legislativo, che, per un verso, legittima i Commercialisti a comporre le Commissioni Tributarie e, per un altro, ove si acceda ad un’interpretazione letterale, impedisce, di fatto, l’espletamento di quell’attività, svuotando, praticamente, di contenuto e di efficacia attuativa la prima norma.
Appare, di conseguenza, evidente che spetta al giudice interprete (cfr. Corte Costituzionale, Ord. N.361, 21 novembre 1997) il doveroso compito, per evitare la rimessione della questione alla Corte Costituzionale per irragionevolezza, pur invocata, in via subordinata, dal ricorrente, di leggere le due norme in modo da armonizzarne il contenuto dispositivo e di pervenire, quindi, ad un’esegesi delle stesse che ne permetta la coesistenza nell’ordinamento, che renda possibile la contestuale applicazione di entrambi i precetti e, in definitiva, che elimini, per via ermeneutica, gli, altrimenti fondati, sospetti di irragionevolezza della disposizione. Ne discende che, non potendosi utilmente intervenire in via interpretativa sulla portata applicativa della disposizione che prevede la nomina di professionisti quali membri delle Commissioni, occorre, evidentemente, procedere a definire i caratteri ed i limiti della consulenza tributaria prevista quale causa di incompatibilità dalla disposizione citata. Appare, infatti, evidente, come già segnalato, che se si attribuisce al concetto di consulenza tributaria un significato ampio e comprensivo di ogni attività professionale di formulazione di pareri, studi, interpretazioni o consigli attinenti la materia dei rapporti delle persone fisiche o delle imprese con l’amministrazione finanziaria si perviene, conseguentemente, all’inaccettabile risultato di escludere qualsivoglia ipotesi di valida e legittima partecipazione dei professionisti considerati all’esercizio della funzione giudiziaria tributaria. Ciò che deve reputarsi inammissibile per le ragioni già chiarite. Risulta, pertanto, necessario fornire del concetto di consulenza tributaria, quale causa di incompatibilità, una lettura che ne riduca e ne limiti l’ampiezza letterale, definendo, a tal fine, le condizioni ed i requisiti necessari perché si realizzi la fattispecie prevista dall’art.8 lett. I) D. Lgs. 545/92. La predetta attività ermeneutica deve, peraltro, fondarsi, oltre chè sui noti criteri interpretativi letterali, logici e sistematici, sulla preliminare individuazione della ratio della disposizione e degli interessi generali da quella protetti e salvaguardati con il suo contenuto precettivo, al fine di leggere quest’ultimo in funzione della realizzazione dello scopo perseguito dal legislatore e non in contrasto con le finalità perseguite con la disposizione in esame. Risulta, invero, agevole concludere che il divieto per un giudice, ancorchè onorario quale quello tributario, di svolgere contestualmente attività di consulenza a tutela degli interessi generalmente difesi da una delle parti normalmente contendenti viene giustificato dall’esigenza di evitare che il giudice, oltre chè apparire parziale, risulti, di fatto, portatore di una formazione di parte, determinata dall’abituale difesa delle posizioni dei contribuenti, e, in definitiva, di un interesse, ancorchè non specifico della causa trattata, alla tutela delle ragioni della parte antagonista all’Amministrazione Finanziaria. Se correttamente intesa ed applicata, la disposizione analizzata dovrebbe impedire che l’equità e l’imparzialità del giudizio del professionista componente delle Commissioni Tributarie vengano irrimediabilmente compromesse e pregiudicate dalla sensibilità e dalla formazione intellettuale acquisita dal commercialista nell’ordinario espletamento della sua opera libero professionale che, ove vertente sulla materia fiscale, potrebbe condizionare il professionista, nella sua veste di giudice, nel senso di indurlo a valutare la controversia accordando naturalmente preferenza e prevalenza agli interessi da lui normalmente difesi quale prestatore d’opera intellettuale, ancorchè solo consultiva e stragiudiziale. Ciò posto, deve procedersi all’esegesi della norma tenendo conto di dette precipue finalità e nella preoccupazione che, all’esito dell’interpretazione, le garanzie di imparzialità di giudice tributario, sottese alla norma sull’incompatibilità, risultino, comunque, ampiamente assicurate.
Va immediatamente rilevato che il problema dell’antinomia e la conseguente questione ermeneutica sono stati, evidentemente, già esaminati e, per taluni profili, risolti già dall’organo di autogoverno della Giustizia Tributaria il quale con le risoluzioni nn.3 e 7 del 1998 ha precisato che l’attività di consulenza tributaria perché assurga a causa di incompatibilità deve presentare gli indefettibili caratteri della professionalità, dell’abitualità e della continuatività, chiarendo, al contempo, che il suo esercizio occasionale e sporadico non integra gli estremi della situazione incompatibile. Già detta prima limitazione del concetto di consulenza tributaria, da valersi quale valutazione autolimitativa del Consiglio di Presidenza nell’attività di accertamento delle causa di incompatibilità, si appalesa giustificata dall’esigenza di restringere l’ambito applicativo della disposizione alle sole ipotesi che rappresentino effettivamente una minaccia per l’imparzialità del giudice. Non può, invero, dubitarsi che, mentre la terzietà del giudice risulta sicuramente pregiudicata da un'attività di consulenza svolta in via abituale e professionale, determinando quell’alterazione, già evidenziata, della necessaria serenità e dell’indispensabile disinteresse del giudice nell’esaminare e giudicare le questioni trattate, oltrechè della sua immagine esterna di organo terzo, altrettanto certamente l’esercizio occasionale e discontinuo dell’attività di consiglio in materia fiscale risulta del tutto inidoneo a ledere gli interessi primari sopra evidenziati, posto che, perlomeno in astratto, la consulenza sporadica, proprio per questo suo carattere, deve reputarsi incapace di incidere significativamente sulla formazione intellettuale del professionista e di condizionarne la sua attività di giudizio in modo da escludere l’indefettibile distacco dagli interessi contrapposti nel giudizio.
In ordine, pertanto, all’aspetto puramente quantitativo, ma tuttavia significativo, della consulenza, si deve concludere, in armonia con le risoluzioni del Consiglio di Presidenza, che l’applicazione dell’art.8 lett. I) postula indefettibilmente che l’attività in esame presenti i caratteri dell’abitualità, della professionalità e della continuatività (cfr. in termini Cons. Stato, Sez. V, 4 gennaio 1993 n.27 in una fattispecie analoga di incompatibilità di un dipendente pubblico), in mancanza dei quali non risulta integrata, nei suoi elementi essenziali, la situazione di incompatibilità positivamente considerata e la conseguente esclusione dell’ipotesi della decadenza non comporta, anche in presenza di un’attività di consulenza marginale, alcun pericolo per la terzietà e l’imparzialità del giudice.
Ciò posto in ordine ai profili quantitativi della consulenza, occorre, tuttavia, procedere nell’indagine ermeneutica al fine di definire, con sufficiente precisione, i limiti qualitativi dell’attività incompatibile. Si tratta, in sostanza, di distinguere e chiarire la natura delle prestazioni d’opera intellettuale che possono definirsi di consulenza, e, come tali, rilevanti ai fini che qui interessano, escludendo tutte quelle forme di attività professionale che, ancorchè apparentemente assimilabili al concetto di consulenza, risultano, tuttavia, a questa estranee. Anche questa delicata opera di discernimento va illuminata e guidata dal criterio e dalla regola di giudizio sopra espressi, e cioè la conformità dell’interpretazione alla ratio della norma e la garanzia di realizzazione degli interessi da quella tutelati. Occorre, inoltre, preferire una lettura restrittiva del concetto di consulenza anche sotto il profilo in esame, posto che, com’è evidente, se si reputa riconducibile alla situazione di incompatibilità ogni attività di studio, consiglio e parere concernente, genericamente, questioni di natura fiscale ed attinenti indistintamente a qualsivoglia rapporto del contribuente con l’Amministrazione Finanziaria, si perviene all’inaccettabile conclusione di impedire al professionista anche l’espletamento di attività meramente conoscitive ed applicative, e, come tali, vincolate, della normativa tributaria, difficilmente assimilabili al concetto di consulenza. Con l’ulteriore conseguenza che i semplici limiti quantitativi sopra segnalati dovrebbero ritenersi inidonei a circoscrivere convenientemente, e cioè in maniera equamente e parimenti satisfattiva dei diversi interessi considerati, la portata applicativa del divieto esaminato.
Occorre, pertanto, individuare un diverso discrimine tra le prestazioni d’opera intellettuale che possono realmente nuocere alla terzietà del giudice e quelle che, viceversa, risultano del tutto estranee alla preoccupazione del legislatore e, quindi, del tutto inidonee a pregiudicare il corretto svolgimento della giustizia tributaria.
Il concetto di consulenza, invero, per la sua stessa radice etimologica, suppone l’esercizio di un’attività di consiglio e di parere, che a sua volta appare configurabile solo in presenza della possibilità di una scelta tra comportamenti diversi, distinta ed ulteriore rispetto alla semplice indicazione al cliente dei presupposti normativi di applicabilità degli istituti tributari considerati, quali imposte, esenzioni, detrazioni, agevolazioni, rimborsi, sanzioni ecc. Appare, pertanto, logicamente più agevole definire a contrario il concetto in esame, individuando le attività che sicuramente non costituiscono esercizio della consulenza in senso stretto. Si tratta, evidentemente, delle attività vincolate dalla conoscenza e dall’applicazione della disciplina normativa e regolamentare della fattispecie portata all’attenzione del professionista, nelle quali risultano esclusi ogni ulteriore valutazione, apprezzamento o giudizio del commercialista circa la convenienza e gli effetti di diverse opzioni o scelte, di natura commerciale, negoziale, aziendale, societaria ecc., riservate al contribuente. Là dove il professionista sia chiamato esclusivamente a svolgere un’attività intellettuale o esecutiva che comporti la mera individuazione della normativa applicabile al caso del cliente, la conseguente indicazione degli effetti della disciplina e la compilazione degli atti e delle dichiarazioni strumentali al conseguimento del risultato, l’opera prestata si risolve nello svolgimento di un’attività conoscitiva ed ausiliare del tutto vincolata e, come tale, estranea, ai fini che qui interessano, al concetto di consulenza che postula, invero, per essere ravvisato un quid pluris rispetto all’attività ordinaria sopra riportata e descritta. Dovrà, invece, riconoscersi la situazione di incompatibilità in tutte le ipotesi in cui l’attività ordinaria del professionista non si limiti alla semplice individuazione degli elementi costitutivi, modificativi ed estintivi del rapporto di imposta ma si estenda fino all’interpretazione della normativa primaria e secondaria, sovente complessa e difficilmente leggibile, alla valutazione delle conseguenze fiscali delle diverse scelte rimesse al contribuente nella gestione della sua attività contabile, commerciale e aziendale e, infine, al consiglio circa la strategia più conveniente per la realizzazione degli interessi del cliente. In questi casi, invero, appare chiaro come il professionista eserciti un’attività intellettuale, per certi versi creativa ed innovativa, che mira direttamente alla tutela, seppur in via sostanziale, degli interessi del contribuente e che si risolve nella difesa della posizione soggettiva di una delle parti del rapporto d’imposta. Ne consegue che, quando il professionista studia e consiglia le scelte più efficaci, là dove l’ordinamento offra questo spazio, per ottenere al cliente un vantaggio nei rapporti con l’Amministrazione Finanziaria, non può dubitarsi che eserciti un’attività di consulenza tributaria vera e propria, rilevante ai fini dell’incompatibilità con l’incarico di giudice tributario. Nelle ipotesi dinanzi considerate, infatti, l’abituale e continuativa difesa degli interessi dei contribuenti in contrapposizione con quelli pubblici perseguiti dall’Amministrazione genera ed induce nella formazione del professionista un habitus mentale ed un modo di ragionare che possono condurlo naturalmente ad accordare preferenza agli interessi ed alle ragioni di una delle parti abituali del processo tributario, con grave nocumento dell’imparzialità del giudizio e della stessa credibilità del sistema della giustizia tributaria. Tanto osservato in via astratta e generale, si rileva che, ancorchè la distinzione proposta possa apparire difficilmente applicabile ai diversi casi concreti che si presentato all’attenzione del Consiglio di Presidenza, se rettamente inteso, il criterio discriminatorio indicato risulta idoneo a ravvisare le ipotesi di consulenza in senso stretto, e, come tali, pregiudizievoli per gli interessi generali, e quelle di consulenza in senso lato, inidonee, come tali, a minacciare la terzietà del giudice ed a realizzare la situazione di incompatibilità analizzata.
A titolo meramente esemplificativo si reputa, a tal fine, utile offrire un ulteriore strumento di valutazione individuando due tipiche prestazioni richieste ai commercialisti e definendo la natura e le conseguenze delle attività esaminate.
Premesso che tutte le attività esercitate dai commercialisti possono essere svolte anche direttamente dai soggetti interessati, non esistendo attività riservate per legge alla predetta categoria professionale, e che l’opera prestata da quelli si risolve in un semplice aiuto nell’espletamento di taluni adempimenti di natura perlopiù contabile e fiscale, la compilazione della dichiarazione dei redditi, ad esempio, deve reputarsi, perlomeno ordinariamente, attività meramente esecutiva, atteso che l’indicazione dei redditi e degli oneri deducibili risulta rigidamente predeterminata per legge e che nessuno spazio risulta riservato alla libera determinazione del contribuente, con la conseguenza che l’opera prestata dal commercialista si manifesta come ausiliaria ed applicativa e non consultiva.
Diversamente nel caso in cui il cliente richiede al professionista un parere circa gli strumenti giuridici maggiormente efficaci, al fine di conseguire un preciso risultato economico, per ottenere un risparmio di imposta o, addirittura, un’elusione, lecita, della stessa. Presentando, invero, il nostro ordinamento una molteplicità di operazioni e di negozi giuridici, soprattutto nel campo commerciale ed in quello societario, idonei al conseguimento di scopi analoghi e risultando, viceversa, vincolata l’applicazione di un’imposta alla realizzazione di un preciso presupposto di diritto, risulta evidente la possibilità di conseguire la stessa finalità giuridico-economico utilizzando diversi percorsi negoziali, con conseguenti differenti conseguenze fiscali. L’opera del commercialista, in queste ipotesi, si risolve nell’individuazione dello strumento tecnico che arrechi al cliente il maggior vantaggio tributario consigliandolo di operare con le modalità che gli consentono, secondo l’ordinamento, di pagare il meno possibile all’Amministrazione Finanziaria. Siffatta attività intellettuale, sicuramente lecita, postula, evidentemente, l’esercizio di un’attività di studio, di ricerca e di valutazione, fondata sulla cultura giuridica e sull’esperienza del professionista, che non può non definirsi a tutti gli effetti consulenza tributaria.
Ciò posto, la regola di comportamento individuabile per l’operato del Consiglio di Presidenza può precisarsi nei termini che seguono. Al fine di verificare la ricorrenza della situazione di incompatibilità in esame, l’organo di autogoverno della Giustizia Tributaria dovrò procedere ad indagare la natura effettiva dell’opera consultiva prestata abitualmente dal professionista e concludere, in applicazione del criterio di giudizio dianzi chiarito, per l’accertamento dell’espletamento dell’attività di consulenza solo nei casi in cui dall’esame del numero dei clienti ordinari, della consistenza della loro posizione contabile ed economica, della complessità dell’attività gestita, della natura degli istituti trattati e dell’oggetto concreto dell’assistenza prestata, per come ricavabile dall’analisi delle fatture emesse dal professionista e di ogni altro elemento utile a tal fine, possa evincersi, con sufficiente certezza, che il commercialista eserciti continuativamente e professionalmente l’attività di consulenza con le modalità e nei termini sopra specificati.
In difetto degli indici, significativi ed univoci, sopra segnalati, la regola di comportamento sopra precisata impone al Consiglio di escludere la sussistenza della situazione di incompatibilità, non potendosi pervenire in via presuntiva, ma solo, alle suesposte condizioni, per via induttiva, all’accertamento dell’esercizio di un’attività, di fatto, vietata dall’ordinamento, nella ricorrenza della specifica situazione in cui versa il ricorrente.
Occorre, ancora, verificare se l’attività di consulenza, per come definita, debba necessariamente essere svolta personalmente e direttamente dal professionista, perché rilevi ai fini che qui interessano, ovvero se la partecipazione del giudice tributario ad uno studio associato, ove altro professionista svolge l’opera consultiva interdetta all’interessato, possa condurre alla grave conseguenza della decadenza. La questione risulta rilevante, ai fini della decisione, atteso che gli atti impugnati risultano fondati anche sul rilievo della riferibilità al ricorrente, quale causa di incompatibilità, dell’attività di consulenza svolta da altro professionista a lui associato. Posto che le cause di incompatibilità presentano un carattere soggettivo e personale, nel senso che si riferiscono solo al giudice che si trova nella situazione contemplata in astratto, e che le relative disposizioni esigono, per il loro carattere latu sensu eccezionale, un’interpretazione stretta e letterale, risultando, di conseguenza, impedita dai noti principi ermeneutici logico-sistematici una loro lettura estensiva, si osserva che la naturale personale del contratto d’opera professionale, l’inconfigurabilità di una società propriamente intesa, perlomeno nel caso che ci occupa, la natura peculiare dell’associazione tra professionisti e l’inammissibilità di una responsabilità, chè di questo si tratterebbe in definitiva, per fatto altrui impongono di escludere in via generale, pur ammettendosi l’ipotizzabilità di diverse ipotesi specifiche, l’assimilabilità dell’espletamento personale dell’attività di consulenza alla partecipazione ad uno studio professionale dove altro commercialista presta abitualmente quell’opera.
Non v’è dubbio, innanzitutto, che la disposizione che stabilisce l’incompatibilità, in quanto diretta a preservare la terzietà e l’imparzialità dell’organo giudicante, deve intendersi riferita esclusivamente e personalmente al professionista nominato componente della Commissione Tributaria, con la conseguenza che la situazione di incompatibilità, perché sia concretamente ravvisabile, dev’essere realizzata direttamente dall’interessato quale libero professionista.
A prescindere dalla complessa questione dell’ammissibilità nel nostro ordinamento di società di professionisti, irrilevante ai fini della decisione della presente controversia, si osserva che, comunque, allo stato, la prestazione d’opera intellettuale va giudicata come strettamente personale, fiduciaria nonché basata sull’intuitus personae in virtù dell’art.2232 C.C. (Cass.Civ., Sez. I, 13 luglio 1993, n.7738) con la conseguenza che il rapporto contrattuale viene intrattenuto, pure nei casi di studi associati, direttamente, anche ai fini dell’eventuale responsabilità per inadempimento, con uno dei professionisti dell’associazione, che si obbliga personalmente a svolgere la prestazione richiesta e che acquista, altrettanto personalmente, il diritto al compenso.
Lo studio associato, invero, non risulta titolare di alcuna soggettività giuridica né di posizione soggettive, attive o passive (Cass.Civ., Sez. Lav., 21 ottobre 1997, n,10354), risolvendosi, a ben vedere, in una sorta di associazione tra professionisti che consente ai medesimi, in via convenzionale ed interna, di ripartire gli utili e le spese della comune gestione dello studio ma che non gode di alcuna autonomia giuridicamente rilevante rispetto ai singoli soci. Ne consegue che, quand’anche venissero divisi tra tutti gli associati i guadagni di ogni partecipante, l’attività professionale svolta singolarmente da ogni socio non potrebbe in alcun modo, ed a nessun fine, imputarsi anche agli altri, difettando ogni fondamento giuridico di siffatta presunta riferibilità comune delle prestazioni personali. Anche tenuto conto della peculiare ratio della disposizione sull’incompatibilità si perviene alla medesima conclusione. La circostanza che un socio svolga abitualmente attività di consulenza fiscale, seppur nelle forme significative sopra rilevate, non incide, infatti, in alcun modo sull’imparzialità dell’interessato, in veste di giudice, posto che la possibile alterazione della necessaria serenità di giudizio può derivare esclusivamente dalla diretta e personale difesa di parte degli interessi coinvolti nelle controversie da giudicare, mentre l’evenienza che un professionista associato si occupi ordinariamente di questioni tributarie, senza che tra le attività gestite dai soci vi sia rilevante scambio e reciproca influenza, non appare idonea ad inficiare l’imparzialità de commercialista che si occupa abitualmente di altro e che si limita a dividere spese ed utili con il collega consulente.
Ciò posto, deve ulteriormente rilevarsi che gli interessi generali sottesi alla norma sull’incompatibilità risultano, comunque, adeguatamente salvaguardati e garantiti, quantomeno nei casi concreti di interesse nella controversia, dal combinato disposto degli artt. 6 D. Lgs. 546/92, 51 n.5 e 52 c.p.c., della cui applicabilità al caso di specie non può dubitarsi intendendo in senso ampio il concetto di associazione non riconosciuta, che dovrebbe imporre, se correttamente inteso, al giudice tributario di astenersi dal giudizio, con corrispettivo diritto alla sua ricusazione dalla parte che vi ha interesse, nelle ipotesi in cui lo studio associato di cui egli fà parte ha interesse nella causa da trattare.
Si osserva, in conclusione, che, in mancanza di diversi e sicuri elementi che offrano la certezza circa la concreta riferibilità, per il modo con cui sono gestiti i rapporti interni degli associati e divisi i compiti professionali in seno allo studio, a tutti gli associati delle prestazioni d’opera svolte singolarmente dai soci, dovrebbe escludersi la correttezza della presunzione della comune ed indistinta imputabilità dei rapporti a tutti i professionisti e concludersi per l’insussistenza della causa di incompatibilità in capo a chi non svolge personalmente l’attività interdetta.
Così precisati i limiti, la natura ed i caratteri indefettibili della consulenza fiscale prevista come incompatibile con le funzioni giurisdizionali tributarie, occorre esaminare se il Consiglio di Presidenza ed il Ministro, negli atti di rispettiva competenza, hanno fatto buon governo delle norme di azione sopra delineate riscontrando in concreto la ricorrenza della situazione di incompatibilità, e cioè dello stesso presupposto della decadenza deliberata, ovvero se i provvedimenti controversi siano stati adottati in mancanza della puntuale verifica della condizione legittimante e di tutti i requisiti necessari alla sua integrazione.
Dalla lettura dei due atti che concorrono alla formazione della determinazione conclusiva del procedimento (la delibera del Consiglio di Presidenza ed il Decreto del Ministro) si ricava, invero, piuttosto chiaramente che la sussistenza della situazione di incompatibilità è stata accertata e giudicata in violazione dei principi sopra enunciati e che la conseguente pronuncia della decadenza risulta illegittimamente adottata in carenza di istruttoria ed in difetto del presupposto legittimante.
Quanto ai profili quantitativi dell’attività di consulenza basti osservare che negli stessi atti controversi risulta rilevata la sua misura accessoria e marginale e che, pertanto, le determinazioni impugnate appaiono violative, sotto questo profilo, dei medesimi criteri stabiliti, quali istruzioni o direttive, dallo stesso Consiglio di Presidenza in via interpretativa con le risoluzioni nn.3 e 7 del 1998, attesa l’evidente incompatibilità dei caratteri sopra segnalati con quelli, indefettibili, di professionalità ed abitualità. Ne discende che, aldilà della rilevata intrinseca contraddittorietà delle valutazioni poste a base delle determinazioni controverse con le indicazioni interpretative del concetto di consulenza precedentemente offerte dallo stesso organo di autogoverno, non può non rilevarsi la carenza di qualsivoglia accertamento puntuale e specifico in ordine alla riconoscibilità dei caratteri della continuatività e dell’abitualità nell’attività di consulenza svolta dal ricorrente. Né vale evidenziare, come risulta dalla lettura del decreto ministeriale, che il Dr. Rovella ha assistito le imprese nella compilazione dei bilanci, posto che, come sopra rilevato, la mera attività esecutiva di redazione e formazione di scritture contabili non appare idonea, in difetto di diverse e specifiche indicazioni circa un’attività propriamente valutativa e di indirizzo delle scelte aziendali, societarie e commerciali in relazione alle loro conseguenze di natura fiscale, ad integrare il requisito della consulenza tributaria.
La situazione di incompatibilità non risulta, pertanto, correttamente giudicata e verificata sia sotto il profilo strettamente quantitativo, mancando i caratteri della professionalità e dell’abitualità, sia sotto quello propriamente qualitativo, difettando la natura tipica delle prestazioni specificamente consultive.
Quanto all’imputazione al ricorrente dell’attività di consulenza svolta da un socio di studio basti richiamare le ragioni già esposte circa l’erroneità, in mancanza di diversi elementi che convincano del contrario (nella specie insussistenti), del riferimento all’interessato, ai fini dell’incompatibilità, dell’opera professionale svolta personalmente da un commercialista a lui associato.
Risulta, da ultimo, logicamente scorretta l’argomentazione allegata al riguardo nei provvedimenti di decadenza e consistente nel rilievo che "…i clienti dell’interessato, comunque, si avvalgono, della consulenza dello studio". Siffatta motivazione risulta erronea in quanto ignora, supponendo, anzi il contrario, sia la natura personale e fiduciaria dell’attività professionale sia l’inconfigurabilità dell’associazione professionale quale centro autonomo e distinto di imputazione di diritti ed interessi. Inoltre, la circostanza che i medesimi clienti si rivolgano ad uno o all’altro professionista dello studio per la risoluzione di distinte questioni non solo appare inidonea ad incidere sull’imparzialità del professionista, nello svolgimento delle funzioni giudiziarie tributarie, ma conferma che la ripartizione dei compiti all’interno dell’associazione può salvaguardare la corretta impostazione e formazione dell’interessato di talchè questi potrà affrontare, con la necessaria serenità, le questioni sottoposte al suo giudizio, senza che l’assistenza personale e abituale dei contribuenti possa nuocere alla sua imparzialità.
In accoglimento del ricorso, vanno, pertanto, annullati gli atti impugnati, in quanto illegittimamente adottati in carenza di istruttoria ed in difetto del presupposto legittimante.
Quanto, infine, alla pretesa risarcitoria azionata dal ricorrente si rileva il difetto di giurisdizione di questo Giudice a conoscere della predetta domanda. Posto, infatti, che l’art.35 I comma D.Lgs. 80/98 limita espressamente, in armonia con il più generale criterio di riparto, la capacità giurisdizionale cognitiva del Giudice Amministrativo in ordine alle questioni risarcitorie alle sole controversie che risultano devolute alla sua giurisdizione esclusiva ai sensi degli artt.33 e 34, non può non concludersi che, in mancanza di qualsivoglia attribuzione positiva espressa alla giurisdizione amministrativa delle controversie aventi ad oggetto il rapporto sostanziale (peraltro difficilmente qualificabile) corrente tra lo Stato ed i giudici tributari, esula dalla sfera cognitiva riservata a questo Giudice il potere di decidere la domanda diretta ad ottenere il risarcimento dei danni patiti in conseguenza dell’illegittima risoluzione di quel vincolo.
Ne consegue che, in applicazione del generale criterio di riparto, la giurisdizione sulla domanda risarcitoria spetta al Giudice Ordinario, anche tenuto conto che in questa sede si verte in tema di validità dell’atto di decadenza e che la cognizione delle relative questioni risulta riservata al G.A. dalla clausola generale relativa alla giurisdizione di legittimità dei provvedimenti amministrativi.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia - Sez.III, definitivamente pronunciando sulla causa indicata in epigrafe, disattesa ogni diversa istanza, eccezione e deduzione, così provvede:
Accoglie il ricorso e, per l’effetto, annulla la delibera del Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria in data 20.7.99 ed il Decreto del Ministero delle Finanze in data 12.11.99;
Dichiara il proprio difetto di giurisdizione, in favore del Giudice Ordinario, relativamente alla domanda di risarcimento dei danni;
Condanna il Ministero resistente a rifondere in favore del ricorrente le spese processuali che liquida in complessive L.5.000.000.
Così deciso in Milano, il 12 maggio 2000, dal Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia in Camera di Consiglio, con l'intervento dei signori:
Francesco Mariuzzo - Presidente
Raffaello Sestini - Referendario
Carlo Deodato - Referendario Est.