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TAR LOMBARDIA-BRESCIA – Sentenza 28 aprile 2003 n. 462 - Pres. Conti, Est. Morri - Gabbiani (Avv. Rizzo) c. Comune di Solarolo Rainerio (Avv. Storti) - (respinge).

1. Comune e Provincia - Dirigenti - Responsabili di servizi - Che non siano dipendenti del Comune ma incaricati esterni - Competenza ad emettere provvedimenti amministrativi - Sussiste.

2. Comune e Provincia - Dirigenti - Responsabili di servizi - Competenza ad emettere provvedimenti di provvedimenti di autorizzazione, concessione o analoghi - Sussiste.

3. Comune e Provincia - Dirigenti - Responsabili di servizi - Conferimento di incarichi a soggetti esterni all’Amministrazione - A seguito dell’art. 110, comma 6, del Tuel - Possibilità.

1. Legittimamente viene emesso un provvedimento (nella specie, in materia edilizia) dal responsabile del servizio tecnico comunale che non sia anche dipendente dell'Amministrazione, ma mero incaricato esterno attraverso un rapporto di collaborazione, allorchè risulti che tale incarico sia stato conferito, con apposita delibera, ai sensi dell'art. 36, comma 5-ter, della L. 8 giugno 1990 n. 142 (v. ora art. 50, comma 10, del Tuel approvato con decreto legislativo 18 agosto 2000 n. 267).

2. Il soggetto incaricato dal Sindaco ai sensi dell'art. 36, comma 5-ter, della L. 8 giugno 1990 n. 142, per poter rispondere dei risultati gestionali conseguiti in attuazione degli obiettivi assegnati, deve poter esercitare tutte quelle funzioni di competenza dirigenziale, ivi compreso il rilascio di provvedimenti di autorizzazione, concessione o analoghi, così come previsto dall’art. 51, comma 3, lettera f), della citata L. n. 142 del 1990.

3. A seguito dell’art. 110, comma 6, del Tuel, che ha confermato l’art. 51, comma 7°, della L. n. 142 del 1990 (il quale già prevedeva la possibilità di costituire collaborazioni esterne ad alto contenuto di professionalità, mediante convenzioni a termine, per l'attuazione di obiettivi determinati) deve ritenersi che, per obiettivi determinati e con convenzioni a termine, gli enti locali possano prevedere collaborazioni esterne ad alto contenuto di professionalità (2).

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(1) Ha osservato in particolare il T.A.R. Lombardia che il soggetto incaricato di funzioni e responsabilità dirigenziali, non deve necessariamente essere un dipendente dell'ente legato ad esso con un rapporto di lavoro subordinato, ma l'incarico può anche essere attribuito ad un soggetto legato all'ente attraverso rapporti di lavoro cosiddetti atipici.

A favore di quest'ultima ipotesi milita, in linea di principio, l'avvenuta privatizzazione del rapporto di lavoro, in forza della quale cade il principio secondo cui le funzioni pubbliche non potrebbero risultare compatibili con un rapporto di lavoro di tipo negoziale, ossia caratterizzato da una contrapposizione di interessi su un piano paritario dei rapporti di forza.

La riconduzione al modello privatistico del rapporto che lega l'ente al prestatore di lavoro apre, pertanto, la strada all'introduzione di modelli contrattuali flessibili, che si aggiungono al tradizionale rapporto tipico di lavoro subordinato.

Ciò risulta coerente con la logica della temporaneità dell'incarico dirigenziale per la direzione di strutture organizzative, indipendentemente dal fatto che detto incarico venga attribuito a un dipendente dell'ente con contratto di lavoro a tempo indeterminato o determinato.

In sostanza l'attuale disciplina che regola la funzione dirigenziale è impostata sulla costituzione di due tipi di rapporti negoziali, come la dottrina ha posto in evidenza. Attraverso il c.d. contratto base l'amministrazione recluta la forza lavorativa, costituendo con essa rapporti a tempo determinato, indeterminato, di parasubordinazione o altre tipologie negoziali atipiche. Con il contratto di incarico l'amministrazione affida al dirigente, per un tempo determinato, uno specifico incarico dirigenziale, che può comportare la direzione di un ufficio o l'espletamento di attività d'ispezione, verifica, collaborazione o supporto. Attraverso il sistema di verifica dei risultati e di valutazione dell'attività e della prestazione dirigenziale, l'amministrazione decide poi se confermare o revocare il contratto di incarico, fermo restando il contratto base, che comunque risente anch'esso dei risultati del procedimento valutativo (risoluzione del rapporto per giusta causa a fronte di responsabilità particolarmente gravi o reiterate).

(2) Ha osservato il T.A.R. Lombardia che, anche se sotto la vigenza dell’art. 51 della Legge n. 142 del 1990 potevano sussistere dubbi sulla possibilità di utilizzare il relativo comma 7 per l'attribuzione di responsabilità di uffici e di servizi, con la successiva emanazione del Tuel qualsiasi dubbio è stato superato, anche con valenza interpretativa delle norme pregresse confluite nel detto Testo Unico, avendo lo stesso natura compilativa.

L'ultimo comma (comma 6) dell'art. 110 del Tuel (ex comma 7 dell'art. 51 della Legge n. 142 del 1990) consente infatti che, per obiettivi determinati e con convenzioni a termine, il regolamento possa prevedere collaborazioni esterne ad alto contenuto di professionalità.

Detta norma appare significativa al fine di legittimare l'attribuzione di incarichi dirigenziali attraverso rapporti di lavoro cosiddetti atipici, in questo caso di collaborazione, sotto i seguenti profili:

a) è inserita nell'art. 110 del Tuel, che disciplina il conferimento di incarichi dirigenziali o di alta specializzazione fuori dallo schema tradizionale del rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato;

b) l’art. 110, trattando di incarichi dirigenziali, non può che far riferimento allo svolgimento delle funzioni e all'assunzione delle responsabilità di cui all'art. 107 dello stesso Tuel (ex art. 51 commi 1-4 della Legge 142 del 1990), con ciò legittimando la piena equiparazione fra dirigenti cosiddetti di ruolo e dirigenti legati all'ente attraverso rapporti negoziali temporanei;

c) il citato comma 6 si riferisce all'attuazione di obiettivi determinati, valorizzando, quindi, quel legame inscindibile fra funzione dirigenziale e attività di indirizzo e controllo che spetta all'organo di governo, rappresentato proprio dagli obiettivi assegnati al dirigente, per il raggiungimento dei quali il responsabile deve necessariamente poter svolgere tutte le funzioni e le competenze che il ruolo gli attribuisce;

d) il rapporto di collaborazione con la pubblica amministrazione rientra ormai in quell'ampio fenomeno c.d. di parasubordinazione, la cui forma tipica è rappresentata dalla collaborazione coordinata continuativa, quale tertium genus fra rapporto di lavoro subordinato e lavoro autonomo.

 

Commento di

LUIGI OLIVERI

Le differenze intercorrenti tra le collaborazioni esterne e gli incarichi dirigenziali a contratto

Le considerazioni svolte dalla sentenza in rassegna rispetto alla possibilità di conferire gli incarichi di dirigente negli enti locali mediante forme contrattuali appaiono pregevoli e condivisibili.

La sentenza appare, da questo punto di vista, un eccellente chiarimento delle conseguenze derivanti dalla contrattualizzazione del rapporto di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione, dalla quale deriva la possibilità di utilizzare sostanzialmente tutte le forme flessibili offerte dal sistema anche per la copertura dei posti dirigenziali.

Se, dunque, non può che concordarsi sulla ricostruzione della natura giuridica della fonte costitutiva del rapporto di lavoro dirigenziale, al contrario le conclusioni tratte dalla sentenza, che ritiene possibile regolare gli incarichi dirigenziali con l'articolo 110, comma 6, del d.lgs 267/2000, appaiono non coerenti con la ricostruzione proposta, non corrette e non condivisibili.

Nel redigere la sentenza, il T.A.R. sembra si sia lasciato prendere la mano, nell'affermare che l'articolo 110, comma 6, legittimi “l'attribuzione di incarichi dirigenziali attraverso rapporti di lavoro cosiddetti atipici, in questo caso di collaborazione”.

Non è, infatti, da mettere in discussione che il rapporto di lavoro dei dirigenti (non l'incarico dirigenziale) possa essere regolato anche in forme diverse dal contratto di lavoro a tempo indeterminato disciplinato dalle norme dei d.lgs 267/2000 e 165/2001, nonché dai contratti collettivi del comparto enti locali.

E', anzi, da ritenere che questa possibilità, ormai scontata a seguito della contrattualizzazione del rapporto di lavoro, sia sottolineata e confermata dai commi 1 e 2 dell'articolo 110 del testo unico sull'ordinamento locale, che consentono il primo la “copertura” di posti in organico mediante contratti a termine di “diritto privato” ed il secondo la creazione di figure dirigenziali extra organico con contratti a termine. Tali contratti sono da considerare “di diritto privato” perchè ad essi non si applica la disciplina normativa e contrattuale tipica del rapporto di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, come risultante dal combinato disposto dei contratti collettivi del comparto pubblico e dal d.lgs 165/2001, bensì regole contrattuali non influenzate dalla contrattazione collettiva, ma dalla disciplina del codice civile e della legislazione privatistica in senso proprio.

Tuttavia, una cosa è prendere atto che il rapporto di lavoro dei dirigenti possa instaurarsi con forme flessibili; altro è confondere il rapporto di lavoro dirigenziale, sia pure a tempo determinato, sia pure, magari, interinale, sia pure disciplinato in base alle regole del telelavoro e del part-time, con le collaborazioni esterne.

Il rapporto di lavoro dirigenziale, infatti, appare assolutamente incompatibile con la configurazione di un rapporto di parasubordinazione esterna, ipotesi sostanzialmente regolata dall'articolo 110, comma 6, del testo unico, per una semplice ma ineluttabile circostanza: occorre necessariamente l'inserimento del dirigente nell'organizzazione dell'impresa-ente locale, affinchè possa aversi realmente l'immedesimazione organica che sola può permettere l'esplicazione dei poteri gestionali propri della dirigenza.

Non bisogna, infatti, confondere la fattispecie del comma 6 dell'articolo 110, con quelle dei precedenti commi 1 e 2, anche se vengono trattate nell'ambito del medesimo articolo.

Il comma 6 è chiarissimamente riferito a "collaborazioni esterne", come esplicitamente è scritto. Queste sono certamente collaborazioni coordinate e continuative o incarichi professionali, qualificabili agli effetti fiscali come lavoro para subordinato, che però impediscono radicalmente ai soggetti incaricati di instaurare un rapporto organico con l'ente e, quindi, di manifestarne e formarne la volontà, nell'esercizio dei poteri dirigenziali.

Il comma 6, infatti, fissa un criterio che distingue in modo marcato il tipo di incarico che disciplina dal rapporto di lavoro subordinato: si tratta dell'estraneità all'organizzazione dell'ente, derivante dalla qualificazione di "collaborazioni esterne". Esterno vuol dire che il collaboratore non entra a far parte dell'organico, né in ruolo, né fuori ruolo ma pur sempre nell'ambito di una dotazione organica, sia pure accresciuta in via straordinaria entro il limite del 5%, come consente il comma 2 dell'articolo 110.

Nell'ambito delle analisi compiute dalla giurisprudenza dei criteri caratterizzanti il rapporto di lavoro subordinato e le collaborazioni, sono state sottolineate alcune caratteristiche distintive. Da un lato sono valutati come caratteri distintivi delle collaborazioni:

la sottoposizione al potere gerarchico del datore di lavoro;

l'assunzione della responsabilità di risultato

l'obbligazione a compiere comunque un certo quantitativo di lavoro

sono considerati in generale elementi propri del rapporto di lavoro subordinato. Per altro verso:

la mancanza di un precipuo rapporto gerarchico;

l'assunzione della sola responsabilità professionale;

l'obbligazione di conseguire solo l'obiettivo e di non vincolarsi personalmente al datore di lavoro.

Tuttavia, nelle collaborazioni o incarichi professionali, talvolta, si assiste ad obbligazioni più ampie: il consulente può vincolarsi ad una presenza determinata in ufficio, ad una prestazione oraria determinata, ad una disciplina delle assenze, ad una retribuzione prestabilita ed erogata periodicamente. Tutte caratteristiche che avvicinano la collaborazione al lavoro subordinato, proprie del lavoro para subordinato che è visto come tertium genus, ulteriore fonte del rapporto organico.

Però, in realtà, il problema non consiste nell'individuazione della fonte da cui deriva il rapporto organico tra persona fisica ed ente, essendo scontato, come visto sopra, che detto rapporto non discende esclusivamente dal un contratto di lavoro subordinato.

Occorre, allora, comprendere se un collaboratore coordinato e continuativo o un incaricato professionale, come certamente è l'incaricato ai sensi dell'articolo 110, comma 6, possa esercitare le funzioni pubblicistiche dell'organo amministrativo.

Ma, al di là degli organi elettivi e straordinari, sono solo i "dirigenti" (o in loro assenza i responsabili di servizio, previa applicazione dell'articolo 109, comma 2, del testo unico) a svolgere le funzioni di organi gestionali e ciò in funzione della loro stabile collocazione nell'ambito dei ranghi "aziendali".

L'articolo 110, allora, mentre introduce modalità maggiormente flessibili di reclutamento e gestione del rapporto con i dirigenti, non li trasforma, tuttavia, in professionisti esterni o in prestatori d'opera.

Anche se i commi 1 e 2 non parlano espressamente di contratto di lavoro subordinato, si riferiscono, però, alla copertura di posti in dotazione, oppure al possesso di requisiti per la qualifica da ricoprire, con un chiarissimo riferimento all'inserimento stabile nell'organizzazione dell'ente, che certamente manca nei riguardi di chi è qualificato come collaboratore "esterno", esterno, evidentemente, alla struttura burocratica e perciò privo della natura di organo e, quindi, non titolare di un rapporto organico con l'ente.

Del resto, i commi 1 e 2 fanno espresso riferimento alla figura del dirigente: non è dubbio che, applicando al lavoro presso pubbliche amministrazioni le disposizioni del codice civile, come previsto dal D.lgs 165/2001, i dirigenti siano comunque titolari esclusivamente di rapporti di lavoro subordinato, giacchè ai sensi dell'articolo 2095 "i prestatori di lavoro subordinato si distinguono in dirigenti, quadri, impiegati e operai". Chi è qualificato dirigente, dunque, è per ciò stesso lavoratore subordinato. Lo stesso vale nelle aziende private, nelle quali il management quando non è dipendente, ovvero assunto come dirigente, intrattiene rapporti contrattuali di tipo societario, come amministratore delegato o componente del consiglio di amministrazione. Proprio l'espressa qualificazione del codice civile dei dirigenti quali prestatori di lavoro subordinati deve necessariamente portare a concludere che è l'inserimento nell'organizzazione aziendale, anche derivante da forme flessibili, a determinare il rapporto di dirigenza e, dunque, di “immedesimazione organica”. Una collaborazione esterna, in quanto tale, non determina rapporto di lavoro subordinato ed inserimento nell'organizzazione e, pertanto, non consente, a pena non solo di illegittimità ma anche di nullità, da parte del collaboratore esterno di immedesimare organicamente l'ente pubblico, di rappresentarlo e di formare e manifestare, dunque, la sua volontà.

La sentenza del T.A.R. Brescia afferma il contrario, intendendo porre in essere un'apertura verso configurazioni del rapporto di lavoro dirigenziale di carattere “aziendalistico”. Ma è la stessa consolidata giurisprudenza del lavoro a privare di pregio la tesi secondo cui il rapporto di lavoro dirigenziale possa coincidere con un incarico di collaborazione esterna.

Nel settore privato, con specifico riferimento alle compagnie di assicurazioni, ad esempio, si è chiarito [1] che l'esazione dei premi assicurativi può essere compiuta sia con l'opera di un lavoratore dipendente, sia mediante ausiliari esterni, non subordinati e non inseriti nella organizzazione gerarchica imprenditoriale. In tal caso, per la qualificazione giuridica del negozio in concreto concluso come contratto di lavoro autonomo o subordinato, occorre, allora, verificare se ricorra o meno quello che viene considerato il requisito tipico della subordinazione: la prestazione dell'attività lavorativa, intellettuale o manuale che sia, con inserimento nell'organizzazione imprenditoriale. E' questa, dunque, la discriminante tra un rapporto subordinato ed un rapporto parasubordinato.

Per contro, altri caratteri del negozio contrattuale, come la continuità, la rispondenza dei suoi contenuti ai fini propri dell'impresa, le modalità di erogazione della retribuzione non assumono rilievo determinante ai fini di quella qualificazione, essendo compatibili sia con il rapporto di lavoro subordinato, sia con quello di lavoro autonomo.

Se, allora, nel settore privato la parasubordinazione coincide con la mancanza di inserimento nell'organizzazione imprenditoriale, la convergenza tra la disciplina del rapporto di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche con il rapporto di lavoro privato non può che lasciar concludere per il determinarsi della medesima conseguenza anche nel settore pubblico. Nel quale, dunque, rapporti di parasubordinazione o di collaborazione esterna non danno luogo ad inserimento del lavoratore (qualunque ne sia la qualifica professionale) nell'organizzazione dell'ente. Il che ne impedisce l'espressione dei poteri pubblici, esplicabili solo da chi, proprio perchè incardinato nell'organizzazione, in quanto inscindibilmente parte, persona fisica che agisce come “braccio” della persona giuridica pubblica, di questa sia “organo”. Sembra assolutamente chiaro che l'organo “stabile” della persona giuridica pubblica debba appartenere necessariamente alla sua organizzazione. Solo per l'organo straordinario, quale tipicamente la commissione di concorso o il direttore dei lavori di un'opera pubblica, non si richiede lo stabile inserimento nell'organizzazione: ciò perchè l'organo straordinario è per legge legittimato a svolgere funzioni pubbliche per conto dell'ente che lo incarica, imputando la propria attività a tale ente.

Che il rapporto di collaborazione esterna sia cosa nettamente diversa dal rapporto di lavoro subordinato, lo ha affermato anche la giurisprudenza amministrativa [2], nel sostenere che se un'amministrazione rileva lo svolgimento, da parte di un proprio dipendente, di un altro rapporto di lavoro, il principio del divieto di contemporanea costituzione di due diversi rapporti di lavoro subordinato con la pubblica amministrazione non è violato, qualora l'ente presso il quale il lavoratore presti la “seconda” prestazione affermi che si tratti di un rapporto di collaborazione esterna. Questa non contrasta col divieto di contemporaneo rapporto di lavoro con altro soggetto, perchè cosa diversa dal rapporto di lavoro vero e proprio, in quanto carente dell'inserimento nell'organizzazione del datore di lavoro [3].

Questo essendo il fulcro del problema, meno rilevanti appaiono i dati fondamentali per stabilire quando si sia in presenza o meno di subordinazione che danno vita, dunque, all'inserimento del lavoratore nell'organizzazione del comune. Tali elementi sono stati considerati [4], la predeterminazione della retribuzione, l'esclusività delle prestazioni, il rispetto di un dato orario di lavoro, nonchè[5] la predeterminazione del contenuto delle prestazioni, l'organizzazione degli strumenti produttivi da parte del datore, la prestazione dell'attività lavorativa nei locali di quest'ultimo e l'assenza di rischio economico del lavoratore.

Si tratta, come si nota, di elementi che concorrono a confermare la volontà delle parti di configurare il rapporto come prestazione lavorativa subordinata a tutti gli effetti, nell'ambito dell'organizzazione dell'ente.

Ora, tali elementi appaiono in rapporto di chiarissima incompatibilità con la disposizione contenuta nell'articolo 110, comma 6, del testo unico, per una serie di ragioni.

In primo luogo, in base ad un'interpretazione meramente letterale. Il comma 6 parla con chiarezza cristallina di “collaborazioni esterne”: una volta che il legislatore ha espresso in modo assolutamente non equivoco il precetto normativo, non pare proprio possibile attribuire alla norma un significato diverso da quello proprio delle parole utilizzate, secondo la connessione di esse, come dispone l'articolo 12 delle preleggi. In claris non fit interprtatio: basterebbe limitarsi all'asettica lettura della norma per concludere in modo non confutabile che essa non si riferisce a rapporti di lavoro con qualifica dirigenziale svolti all'interno dell'organizzazione dell'ente, ma a rapporti di collaborazione svoli all'esterno, da condurre secondo le modalità proprie della prestazione d'opera intellettuale consulenziale.

Questa conclusione porta con sé alcuni corollari, che forniscono le, a questo punto ridondanti, ma ulteriori motivazioni a suffragio dell'inconciliabilità irrimediabile tra il comma 6 dell'articolo 110 ed un rapporto di lavoro dirigenziale.

Poiché si tratta di “collaborazione”, l'incarico di cui al comma 6 non consiste nello svolgimento di una funzione, sia di linea, sia di staff, propria dell'ente, ma nell'erogazione di un servizio volto a fornire agli uffici elementi valutativi di alta specializzazione, non altrimenti reperibili in base alla professionalità dell'ente. Il collaboratore, insomma, mette a disposizione di chi esprime la volontà dell'ente, gli elementi per la formazione di tale volontà, ma non può formarla a sua volta, né esprimerla. Esso è “esterno” all'ente: non è un organo, non appartiene all'organizzazione. Risponde, dunque, all'ente in base alla propria competenza professionale.

Sicchè, per questa stessa ragione un collaboratore esterno non può essere un dirigente, in quanto non assumerebbe la tipica responsabilità dirigenziale che è responsabilità qualificata “di risultato”. Al contrario, assumerebbe la peculiare responsabilità del professionista intellettuale connessa ad un'obbligazione di mezzi, consistente nell'impegno a mettere a disposizione del committente le proprie cognizioni professionali per tendere al raggiungimento di un certo obiettivo, ma non impegnandosi al risultato del conseguimento dell'obiettivo.

E' vero che il comma 6 parla di “obiettivi determinati” e tale formulazione ha fuorviato la decisione del Tar. Tali obiettivi non sono quelli previsti dal piano esecutivo di gestione. O, meglio, non sono esclusivamente tali obiettivi.

L'obiettivo determinato di cui al comma 6 è, certamente, coincidente o compatibile con uno o più degli obiettivi che l'amministrazione intende perseguire in base al piano esecutivo di gestione. Ma la determinatezza dell'obiettivo richiesta dalla legge è anche riferita alla possibilità di attribuire l'incarico di collaborazione in base ad un chiaro fine della medesima. La legge, insomma, non consente collaborazioni indeterminate e generiche, ma tese a specificare con precisione l'obiettivo della collaborazione: ad esempio, in campo culturale, la collaborazione nella valutazione del valore artistico di manifestazioni od opere da inserire in un programma di allestimenti o di sostegno finanziario, per motivare le scelte amministrative, in mancanza di una professionalità in grado di rendere tale prestazione nell'ambito dell'ente.

Infine, proprio la determinatezza dell'obiettivo voluta dalla norma priva di pregio le conclusioni della sentenza del Tar Brescia, che ritiene possibile regolare l'incarico di direzione di una struttura di vertice comunale mediante collaborazione esterna. Il travisamento della disciplina normativa appare piuttosto chiaro. Non è certo possibile considerare che la direzione di una struttura sia un obiettivo determinato. Che possa essere a tempo determinato la collocazione alla direzione della struttura, non v'è alcun dubbio.

Ma la direzione di una struttura non è affatto un obiettivo. Al contrario, è un mezzo, uno strumento organizzativo e gestionale, indispensabile per fare sì che:

1) la struttura disponga di una direzione che definisca con il vertice politico i fini da perseguire;

2) la struttura disponga di un vertice amministrativo da cui dipenda la gestione delle risorse strumentali, umane e di controllo;

3) la struttura disponga di un vertice che assicuri l'ordinato e coerente dispendio delle risorse in modo da conseguire i fini stabiliti, in modo unitario e coordinato.

La direzione della struttura, insomma, fa sì che la struttura disponga essa di una serie di obiettivi, definiti col Peg, e delle indicazioni direzionali necessarie per conseguirli e monitorarli.

Allora, la direzione di una struttura non può certo consistere in un “obiettivo determinato”, in quanto non può che essere un insieme di obiettivi determinati e di poteri pubblici assegnati ad un organo gestionale, incardinato nell'organizzazione dell'ente e, dunque, dotato del potere di formare e manifestare la volontà dell'ente, nel rispetto degli indirizzi politico-amministrativi espressi dall'organo di governo. Ciò che assolutamente non può rinvenirsi nel collaboratore esterno, cui si richiede esclusivamente una prestazione professionale altamente specializzata e determinata con chiarezza, finalizzata a consentire all'ente e, dunque, ad una sua struttura gestionale di conseguire al meglio uno dei tanti obiettivi gestionali a proprio carico.

Ma vi è di più. Il comma 6 dell'articolo 110 non può essere considerato una forma di instaurazione di un rapporto dirigenziale, solo per il fatto che improvvidamente tale comma sia inserito nell'articolo riguardante gli incarichi a contratto.

Se si tratta il comma 6 come uno tra i possibili contratti flessibili con i quali disciplinare il rapporto dirigenziale, non si capisce, allora, perchè la legge lo abbia trattato non solo come rapporto “esterno”, ma distinto, separato ed ultroneo agli altri rapporti riconducibili ai commi 1 e 2 del testo unico.

La dottrina [6] ha messo in rilievo che l'articolo 110, comma 6, è stato previsto in analogia con quanto disposto dall'articolo 7, comma 6, del D.lgs 165/2001, del quale è norma speculare anche se maggiormente ermetica.

Si è pure messo in rilievo [7] che le collaborazioni esterne di cui all'articolo 110, comma 6, del testo unico sono fondamentalmente diverse dai contratti a tempo determinato o, comunque, flessibile, previsti dai commi 1 e 2, in quanto non configurano un rapporto di lavoro subordinato proprio, non comportano l'espletamento di funzioni pubbliche, non comportano alcun tipo di rapporto diretto con le strutture interne dell'amministrazione, non comportano il potere di formazione di atti che abbiano valenza verso l'esterno.

Queste affermazioni sono contenute anche nella relazione illustrativa del testo unico, che costituisce fondamentale elemento interpretativo in quanto rappresenta i “lavori preparatori” alla formazione del testo e, dunque, l'elemento della volontà espressa dal legislatore, che non pare possa essere né ignorato né del tutto stravolto da interpretazioni differenti.

Se, allora, il rapporto è configurato come collaborazione esterna e viene gestito in tale guisa, non si possono considerare legittimamente adottati gli atti amministrativi assunti dal collaboratore, per assoluta carenza di potere.

Oltre tutto, occorre un'ulteriore ed ultima considerazione. Se l'articolo 110, comma 6, potesse essere considerato come forma contrattuale ulteriore, come specie del genere incarichi a contratto di cui ai commi 1 e 2, si perverrebbe ad un'alterazione dell'ordine organizzativo posto dalla legge.

L'articolo 110, con i commi 1 e 2, infatti permette:

1)la copertura di posti di ruolo, con contratti a termine;

2)la creazione di posti extra ruolo, sempre con contratti a termine, ma nella misura massima del 5% dei del totale della dotazione organica della dirigenza e dell'area direttiva.

I contratti flessibili, dunque, o servono per coprire posti di ruolo, o servono per incrementare a tempo determinato il ruolo, ma solo entro limiti numerici invalicabili e, comunque, nel rispetto del possesso dei requisiti previsti per l'accesso alla dirigenza (selezione concorsuale pubblica e laurea).

Se si ritenesse anche il comma 6 come fonte concorrente al reclutamento della dirigenza, salterebbe ogni equilibrio organizzativo (e di spesa), in quanto tale norma non prevede né limiti numerici, né riferimenti ai requisiti da possedere, né l'utilizzabilità al fine di coprire posti di ruolo o non di ruolo. Potrebbe essere il sistema per creare una dirigenza “parallela” a quella di ruolo, con l'impossibilità di controllare gli effetti economici ed organizzativi.

Le conseguenze, i fini dell'articolo 110, comma 6, del testo unico non possono essere questi, non possono essere quelli prefigurati dalla sentenza del Tar Brescia, che pare evidenziare, nelle sue conclusioni, fortissimi punti di debolezza, che rafforzano l'opinione di chi sostiene che le collaborazioni esterne sono e restano istituto distinto dal rapporto di lavoro dirigenziale.


 

[1] Cassazione civile, Sezione lavoro, 30 luglio 1984 n. 4566.

[2] T.A.R. Lazio, Sez. III, 30 giugno 1997, n. 1507.

[3] In senso parzialmente opposto di è espresso il Dipartimento della Funzione pubblica col parere 164/02.

[4] Cons. Stato, Sez. V, 26 marzo 2001, n. 1723.

[5] Cass. civ., Sez. lavoro, 6 luglio 2001, n. 9152.

[6] N. Rinaldi in L'ordinamento degli enti locali, Rimini, 2003, pag. 1014.

[7] E. Barusso, Organizzazione e Personale in Commenti al T.U. sull'ordinamento delle autonomie locali, vol. 4, Rimini, 2001, pag. 713.

 

 

(omissis)

per l’annullamento, previa sospensione

del provvedimento in data 18.6.1999 prot. n. 1544, con il quale il Responsabile del servizio tecnico rigetta l'istanza di aggiornamento delle limitazioni contenute nell'autorizzazione edilizia n. 2/92 del 6.7.1995;

(omissis)

FATTO

Con provvedimento in data 6.7.1995, prot.n. 1956, Aut. Ed. n. 2/92, il ricorrente venne autorizzato dal Sindaco del Comune di Solarolo Rainerio ad eseguire le opere necessarie per la riconversione e il recupero dei terreni identificati ai mappali 75-76-81, foglio 11, del NCT, al fine di ottenere vasche per l'allevamento di pesci.

In tale provvedimento era contenuto l'invito al ricorrente, qualora i lavori autorizzati avessero comportato l'eliminazione della vegetazione spontanea protetta, ad ottenere preventivamente le necessarie autorizzazioni della Regione Lombardia a norma degli articoli 17 e 21 della L.r. 27.7.1977 n. 33 e successive modificazioni.

A seguito dell'entrata in vigore della L.r. n. 14 del 8.8.1998, il ricorrente inoltrò, al comune di Solarolo Rainerio, istanza rivolta ad ottenere l'aggiornamento dell'invito contenuto della citata autorizzazione, in relazione a quanto disposto dall'art. 36 comma 3 di detta L.r., secondo cui: "Gli interventi finalizzati ad attuare bacini idrici per irrigazione, piscicoltura e pesca sportiva, ad esclusione della loro manutenzione, sono soggetti all'autorizzazione regionale ai fini della commercializzazione del materiale estratto".

Con l'impugnato provvedimento l'Amministrazione intimata rigetta detta istanza, declinando in sostanza la propria competenza al rilascio dell'autorizzazione di cui agli artt. 17 e 21 della L.r. n. 33 del 1977, allegando al riguardo parere dell'Amministrazione provinciale di Cremona.

Contro il predetto diniego sono rivolte le seguenti censure:

1) incompetenza relativa, in quanto il provvedimento impugnato sarebbe stato emesso da responsabile del servizio tecnico comunale non dipendente dell'Amministrazione, ma incaricato esterno attraverso un rapporto di collaborazione;

2) eccesso di potere per contradditorietà e incongruità della motivazione, in quanto il Comune avrebbe recepito acriticamente il parere espresso dalla Provincia senza svolgere le proprie considerazioni in relazione al risultato da raggiungere;

3) violazione dell'art. 36 comma 3 della L.r. n. 14 del 1998, in quanto l'Amministrazione si sarebbe implicitamente limitata a confermare l'invito contenuto nell'autorizzazione edilizia senza tenere conto delle normativa sopravvenuta;

4) eccesso di potere per sviamento, in quanto il provvedimento impugnato non si sarebbe limitato alla valutazione degli aspetti più strettamente urbanistico-edilizi e concretizzerebbe elusione dell’ordinanza cautelare n. 384 del 1995 emessa da questa Sezione.

Resiste al ricorso il Comune di Solarolo Rainerio, eccependo preliminarmente l'inammissibilità dello stesso in quanto rivolto contro atto di natura confermativa e, comunque, non notificato all'Amministrazione provinciale in qualità di controinteressata, contestando, altresì, nel merito le censure di parte ricorrente e chiedendone il rigetto in quanto infondate.

All'udienza del 25.3.2003 la causa è stata trattenuta per la decisione.

DIRITTO

1. È necessario esaminare preliminarmente le eccezioni di inammissibilità del ricorso sollevate dall'Amministrazione resistente.

Dette eccezioni sono infondate.

Contrariamente a quanto prospettato dalla difesa dell'Amministrazione, al provvedimento impugnato non può essere data qualificazione meramente confermativa, poiché esso risulta emanato a seguito di istanza proposta dal ricorrente sulla base di normativa sopravvenuta rispetto alla data del rilascio dell'autorizzazione edilizia n. 2/92. Ciò ha comportato, indubbiamente, una nuova attività istruttoria seppure svolta acquisendo un parere dell'Amministrazione provinciale a fronte del mutato quadro normativo, così come prospettato dal ricorrente, a seguito della quale il provvedimento deve essere qualificato conferma c.d. "propria" (o conferma-provvedimento), oggetto di autonoma impugnativa.

Parimenti infondata risulta l'eccezione di inammissibilità per mancata notifica all'Amministrazione provinciale in qualità di controinteressata, in quanto le censure mosse sono rivolte verso un provvedimento dell'Amministrazione comunale che invita semplicemente il ricorrente a munirsi dell'autorizzazione di cui agli articoli 17 e 21 della L.r. n. 33 del 1977, in ordine al quale non emerge alcuna posizione qualificata dalla Provincia.

2. Nel merito il ricorso è infondato.

3. Con la prima censura il ricorrente deduce incompetenza relativa, in quanto il provvedimento impugnato sarebbe stato emesso dal responsabile del servizio tecnico comunale il quale non è dipendente dell'Amministrazione, ma mero incaricato esterno attraverso un rapporto di collaborazione.

Detta censura non può essere condivisa.

L’Amministrazione intimata ha prodotto in giudizio la deliberazione di Giunta Comunale n. 44 del 19.5.1998, con la quale è stato confermato l'incarico di responsabilità del servizio tecnico per il periodo 1.6.98 - 30.6.99, regolato dal disciplinare approvato con deliberazione n. 61 del 26.5.1997. L’Amministrazione ha altresì prodotto copia del provvedimento del Sindaco in data 17.9.1998 con il quale sono stati nominati i responsabili degli uffici e dei servizi ai sensi dell'art. 36 comma 5-ter, della Legge n. 142 del 8.6.1990, fra i quali è compreso il tecnico comunale che sottoscritto provvedimento impugnato.

Dall'esame di tali atti emerge che l'Amministrazione comunale, pur istituendo l'area tecnica e servizi, nell'ambito della propria struttura organizzativa, alla quale competono gli atti gestionali riguardanti l'ufficio tecnico e l'adozione degli atti riferiti alla gestione del territorio e dell'ambiente, ha attribuito il relativo incarico dirigenziale ad un libero professionista attraverso la costituzione un rapporto di collaborazione professionale.

In sostanza l'organizzazione dell'ufficio tecnico del Comune di Solarolo Rainerio è stata strutturata come segue:

a) l'ufficio tecnico costituisce unità organizzativa apicale (area tecnica e servizi) nell'ambito della struttura dell'ente, alla quale sono attribuite tutte le competenze in materia tecnica, gestione del territorio e dell'ambiente;

b) il relativo responsabile viene nominato dal Sindaco ai sensi dell'art. 36 comma 5-ter della Legge n. 142 del 1990 ed esercita tutte le funzioni dirigenziali di cui all'art. 51 della medesima Legge;

c) nel caso specifico l’incarico di responsabilità dell'area in oggetto è stato attribuito ad un professionista legato all'ente attraverso contratto di collaborazione, e non di lavoro subordinato ancorché a tempo determinato.

Al riguardo occorre premettere che la riforma della pubblica amministrazione locale (ma non solo) avviata con la Legge n. 142 del 1990, ha apportato sostanziali modificazioni sia nell'organizzazione degli uffici e dei servizi, che nella gestione della forza lavorativa.

Sotto il primo profilo assume rilevanza il principio della distinzione fra attività di indirizzo e controllo, che spetta agli organi di governo, e attività gestionale, che spetta alla dirigenza, unitamente al sistema di gestione basato sull'assegnazione di obiettivi e verifica dei risultati. In questo modello, ormai diffuso in tutta la pubblica amministrazione, il rapporto fra organi di governo e organi gestionali è basato sulla pianificazione e programmazione dell'attività, nonché sull'attivazione dei controlli interni di tipo direzionale, quali il controllo strategico e il controllo di gestione.

Sotto il secondo profilo assume rilevanza la privatizzazione del rapporto di lavoro con la pubblica amministrazione, che supera il precedente schema pubblicistico e autoritativo su cui si basava il pubblico impiego. La necessità di differenziazione di quest'ultimo, rispetto al lavoro privato, veniva motivata in relazione alla presenza di funzioni pubbliche che, per la loro natura, non potevano risultare compatibili con un rapporto di lavoro di tipo negoziale, ossia caratterizzato da una contrapposizione di interessi su un piano paritario. Con la privatizzazione del rapporto di lavoro anche l'amministrazione pubblica apre la propria organizzazione a modelli flessibili di gestione delle risorse umane studiati ed applicati nell'industria, al fine di razionalizzare l'impiego del fattore umano nell'attività produttiva quale elemento di indubbia importanza al fine di garantire efficienza, efficacia e qualità dei servizi erogati all'utenza. L'attuale quadro normativo di riferimento, derivante dal concorso di fonti legislative e contrattuali, consente la costituzione, anche nella pubblica amministrazione, di rapporti di lavoro a termine, part-time (orizzontale e verticale), lavoro interinale, collaborazioni esterne inquadrate nello schema della parasubordinazione, telelavoro, ed altre forme flessibili di gestione delle risorse umane.

Lo stesso ordinamento degli enti locali non sfugge a questa nuova logica gestionale dell'organizzazione pubblica, anzi per certi versi si può dire che ne è stato il precursore.

Il principio di distinzione fra attività di indirizzo-controllo e attività gestionale è stato, infatti, introdotto, per la prima volta, con la Legge n. 142 del 1990, e successivamente esteso tutte le pubbliche amministrazioni con il D.Lgs. n. 29 del 1993. L'art. 51 della citata Legge n. 142 del '90, nel testo vigente al momento del conferimento dell'incarico di responsabilità dell'ufficio tecnico del Comune di Solarolo Rainerio, recepiva integralmente il nuovo modello gestionale, attribuendo agli organi di governo la sola predefinizione di obiettivi e la successiva verifica dei risultati, demandando all'apparato dirigenziale l'intera responsabilità della gestione, compresa l'adozione di tutti gli atti che impegnano amministrazione verso l'esterno.

Occorre rilevare, sul punto, che lo stesso ordinamento degli locali ha introdotto importanti innovazioni, anche dal punto di vista gestionale, per garantire l'affettività del principio di distinzione tra organi di governo e organi gestionali, imponendo l'adozione di strumenti programmatori di lungo, medio e breve periodo, finalizzati a definire, con precisione progressiva, gli obiettivi assegnati all'apparato dirigenziale, i cui risultati vengono poi verificati attraverso il sistema dei controlli interni. È importante segnalare, sul punto, le disposizioni contenute nell'art. 40 del D.Lgs. n. 77 del 1995, ora art. 197 del D.Lgs. n. 267 del 2000 (Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli locali - Tuel), relativo alle modalità del controllo di gestione, il cui documento fondamentale per l'effettuazione di ogni tipo di controllo (compreso, ora, quello strategico) è costituito dal Piano dettagliato degli obiettivi.

Appare evidente, pertanto, che in un modello gestionale tutto incentrato sulla definizione di obiettivi e sulla verifica dei risultati, l’esercizio delle funzioni dirigenziali, di cui all'art. 51 della Legge n. 142 del 1990, ora art. 107 del Tuel, non può non essere considerato in stretta correlazione con il conseguimento degli obiettivi assegnati dall'organo di governo, quali strumenti necessari per garantire la piena responsabilità dirigenziale di risultato.

Ne consegue che il soggetto incaricato dal Sindaco ai sensi dell'art. 36 comma 5-ter della Legge n. 142 del 1990, ora art. 50, comma 10 del Tuel, per poter rispondere dei risultati gestionali conseguiti in attuazione degli obiettivi assegnati, deve poter esercitare tutte quelle funzioni di competenza dirigenziale, ivi compreso il rilascio di provvedimenti di autorizzazione, concessione o analoghi, così come previsto dal citato art. 51, comma 3 lettera f).

Il secondo profilo che assume rilevanza nel caso specifico, è quello di verificare se il soggetto incaricato di funzioni e responsabilità dirigenziali, debba necessariamente essere un dipendente dell'ente legato ad esso con un rapporto di lavoro subordinato, ovvero se l'incarico possa essere attribuito ad un soggetto legato all'ente attraverso rapporti di lavoro cosiddetti atipici.

A favore di quest'ultima ipotesi milita, in linea di principio, l'avvenuta privatizzazione del rapporto di lavoro, in forza della quale, come si è detto, cade il principio secondo cui le funzioni pubbliche non potrebbero risultare compatibili con un rapporto di lavoro di tipo negoziale, ossia caratterizzato da una contrapposizione di interessi su un piano paritario dei rapporti di forza.

La riconduzione al modello privatistico del rapporto che lega l'ente al prestatore di lavoro apre, pertanto, la strada all'introduzione di modelli contrattuali flessibili, che si aggiungono al tradizionale rapporto tipico di lavoro subordinato.

Ciò è confermato dal vigente contratto collettivo nazionale di lavoro applicabile gli enti locali, che disciplina espressamente i modelli contrattuali atipici di cui si è detto in precedenza (tempo determinato, part-time, lavoro interinale, telelavoro, formazione e lavoro, ecc.).

Anche l’espletamento di funzioni dirigenziali non sfugge a questa logica, anzi il modello di lavoro subordinato a tempo indeterminato tende sempre più a rappresentare l'eccezione, a fronte di un fenomeno in progressiva espansione che vede l'assunzione di personale dirigenziale attraverso contratti a tempo determinato, con i quali si definiscono i rapporti tra le parti anche in deroga alla contrattazione collettiva nazionale in materia, soprattutto in termini retributivi.

Ciò risulta coerente con la logica della temporaneità dell'incarico dirigenziale per la direzione di strutture organizzative, indipendentemente dal fatto che detto incarico venga attribuito a un dipendente dell'ente con contratto di lavoro a tempo indeterminato o determinato. In sostanza l'attuale disciplina che regola la funzione dirigenziale è impostata sulla costituzione di due tipi di rapporti negoziali, come la dottrina ha posto in evidenza. Attraverso il c.d. contratto base l'amministrazione recluta la forza lavorativa, costituendo con essa rapporti a tempo determinato, indeterminato, di parasubordinazione o altre tipologie negoziali atipiche. Con il contratto di incarico l'amministrazione affida al dirigente, per un tempo determinato, uno specifico incarico dirigenziale, che può comportare la direzione di un ufficio o l'espletamento di attività d'ispezione, verifica, collaborazione o supporto. Attraverso il sistema di verifica dei risultati e di valutazione dell'attività e della prestazione dirigenziale, l'amministrazione decide poi se confermare o revocare il contratto di incarico, fermo restando il contratto base, che comunque risente anch'esso dei risultati del procedimento valutativo (risoluzione del rapporto per giusta causa a fronte di responsabilità particolarmente gravi o reiterate).

L’art. 51 della Legge n. 142 del 1990 (comma 7), prevedeva la possibilità di costituire collaborazioni esterne ad alto contenuto di professionalità, mediante convenzioni a termine, per l'attuazione di obiettivi determinati.

Tale possibilità è stata mantenuta con l'emanazione del Tuel, confluita nel relativo art. 110 comma 6.

Se sotto la vigenza del citato art. 51 potevano, comunque, sussistere dubbi sulla possibilità di utilizzare il relativo comma 7 per l'attribuzione di responsabilità di uffici e di servizi, come la dottrina ha messo in risalto, con la successiva emanazione del Tuel qualsiasi dubbio è stato superato, anche con valenza interpretativa delle norme pregresse confluite nel detto Testo Unico avendo lo stesso natura compilativa.

L'attuale art. 110 dell'ordinamento degli enti locali disciplina il conferimento di incarichi dirigenziali attraverso forme diverse dalla costituzione di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.

Il comma 1, di detto articolo, consente che la copertura dei posti di responsabile dei servizi e degli uffici, di qualifica dirigenziale o di alta specializzazione, possa avvenire mediante contratto a tempo determinato di diritto pubblico o, eccezionalmente, di diritto privato, mentre il successivo comma 2 consente tale possibilità, entro certi limiti, anche per incarichi cosiddetti extra dotazionali.

L'ultimo comma (comma 6) dell'art. 110 del Tuel (ex comma 7 dell'art. 51 della Legge n. 142 del 1990) consente che per obiettivi determinati e con convenzioni a termine il regolamento possa prevedere collaborazioni esterne ad alto contenuto di professionalità.

Detta norma appare significativa al fine di legittimare l'attribuzione di incarichi dirigenziali attraverso rapporti di lavoro cosiddetti atipici, in questo caso di collaborazione, sotto i seguenti profili:

a) è inserita nell'art. 110 del Tuel, che disciplina il conferimento di incarichi dirigenziali o di alta specializzazione fuori dallo schema tradizionale del rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato;

b) l’art. 110, trattando di incarichi dirigenziali, non può che far riferimento allo svolgimento delle funzioni e all'assunzione delle responsabilità di cui all'art. 107 dello stesso Tuel (ex art. 51 commi 1-4 della Legge 142 del 1990), con ciò legittimando la piena equiparazione fra dirigenti cosiddetti di ruolo e dirigenti legati all'ente attraverso rapporti negoziali temporanei;

c) il citato comma 6 si riferisce all'attuazione di obiettivi determinati, valorizzando, quindi, quel legame inscindibile fra funzione dirigenziale e attività di indirizzo e controllo che spetta all'organo di governo, rappresentato proprio dagli obiettivi assegnati al dirigente, per il raggiungimento dei quali il responsabile deve necessariamente poter svolgere tutte le funzioni e le competenze che il ruolo gli attribuisce;

d) il rapporto di collaborazione con la pubblica amministrazione rientra ormai in quell'ampio fenomeno c.d. di parasubordinazione, la cui forma tipica è rappresentata dalla collaborazione coordinata continuativa, quale tertium genus fra rapporto di lavoro subordinato e lavoro autonomo.

4. I successivi tre motivi di ricorso possono essere trattati congiuntamente, in quanto connessi fra loro poiché censurano la motivazione e il contenuto del provvedimento impugnato sotto diversi profili.

Al riguardo il ricorrente deduce eccesso di potere per contradditorietà e incongruità della motivazione, in quanto il Comune avrebbe recepito acriticamente il parere espresso dalla Provincia senza svolgere le proprie considerazioni in relazione a risultato da raggiungere. Inoltre sarebbe stato violato dell'art. 36 comma 3 della L.r. n. 14 del 1998, in quanto l'Amministrazione avrebbe semplicemente confermato l'invito contenuto nell'autorizzazione edilizia senza tenere conto delle normativa sopravvenuta. Infine è prospettato eccesso di potere per sviamento, in quanto il provvedimento impugnato non si sarebbe limitato alla valutazione degli aspetti più strettamente urbanistico-edilizi e concretizzerebbe elusione dell’ordinanza cautelare n. 384 del 1995 emessa da questa Sezione.

Anche tali censure non possono essere condivise.

In sostanza il ricorrente si duole del fatto che, nel rilascio dell'autorizzazione edilizia n. 2/92, prot. n. 1956, del 6.7.1995 per l'esecuzione di opere necessarie alla riconversione e al recupero ambientale di una cava dismessa al fine di adibirla all'attività di piscicultura, l’Amministrazione comunale l’abbia invitato a munirsi dell'autorizzazione di cui all'art. 17 della L.r. n. 33 del 1977 qualora i lavori autorizzati avessero comportato l'eliminazione della vegetazione spontanea protetta.

Occorre rilevare, sul punto, che detto invito, ancorché contenuto del provvedimento autorizzatorio in oggetto, non costituisce una prescrizione idonea ad influire sugli affetti dell'autorizzazione comunale, in quanto attinente a materia del tutto diversa e rimessa alla competenza di altro ente pubblico.

La citata L.r. n. 33 del 1977, assume come finalità la tutela dei luoghi di particolare interesse naturalistico locale, di alcune specie animali, del loro ambiente di vita, di alcune specie della flora spontanea, ivi compresi i funghi, e regola gli interventi pubblici e privati a tali beni connessi, ai fini della garanzia dell'assetto ambientale (art. 1).

L’art. 17, di tale Legge, prescrive che la vegetazione spontanea prodottasi nei corpi d'acqua e sui terreni di ripa soggetti a periodiche sommersioni, non può essere danneggiata o distrutta, salvo quanto previsto dal precedente art. 9. Tuttavia, sugli stessi terreni, sono ammessi interventi di modifica della vegetazione volti alla migliore difesa ambientale, ivi compreso l'impianto di pioppeti artificiali o di altre colture arboree a rapido accrescimento, previa autorizzazione dell'autorità competente.

Il ricorrente, pertanto, potrà eseguire i lavori autorizzati dall'Amministrazione comunale con il citato provvedimento n. 2/92, chiedendo alla Provincia, qualora ne ricorrano i presupposti, l’autorizzazione di cui al detto art. 17 della L.r. n. 33 del 1977. Il fatto che l'autorizzazione comunale contenga un esplicito invito al riguardo non esonererebe, in ogni caso, il ricorrente dal doversi premunire di tale autorizzazione, anche se tale parte dell’atto venisse modificata o rimossa come dal medesimo richiesto. Inoltre, qualora il ricorrente dovesse eseguire i lavori autorizzati dal Comune, senza ottenere la preventiva autorizzazione provinciale in relazione alle all'eliminazione di eventuale vegetazione spontanea protetta, non risponderà per abuso edilizio, ma sarà soggetto alle sanzioni amministrative di cui all'articolo 28 della citata L.r. n. 33 del 1977.

In caso di diniego, da parte dell'Amministrazione provinciale, l'interessato potrà proporre autonoma impugnativa facendo valere vizi propri di tale diniego.

Sono quindi da respingere tutte le censure prospettate, in quanto il Comune di Solarolo Rainerio si è limitato, nella sostanza, a ribadire la propria incompetenza nella materia regolata dalla citata L.r. n. 33 del 1977, poiché, come si è detto, il richiamo alla stessa contenuta nell’autorizzazione edilizia non ha valore prescrittivo, ed è pertanto ininfluente sugli affetti dell'autorizzazione comunale, ancorché la mancanza di tale titolo, in presenza di vegetazione spontanea protetta, possa risultare ostativa all'esecuzione dei lavori.

Esistono tuttavia giustificati motivi per disporre la compensazione delle spese fra le parti.

P.Q.M.

il T.A.R. per la Lombardia - Sezione staccata di Brescia – definitivamente pronunciando respinge il ricorso in epigrafe.

Spese compensate.

Così deciso in Brescia, il 25 Marzo 2003, in camera di consiglio, con l'intervento dei Signori:

Sergio Conti - Presidente

Elena Quadri - Giudice

Gianluca Morri - Giudice relat. est.

Depositata in segreteria in data 28 aprile 2003.

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