T.A.R. CAMPANIA-NAPOLI, SEZ. II - Sentenza 12 marzo 1999 n. 719 - Pres. ed Est. Nappi - Capuano (Avv. Ferdinando Scotto) c. Ministero dell'Interno - Sottocommissione Elettorale Circondariale di Ischia (Avv.ra Stato), Comune di Forio (Avv. Palma), Regine ed altri (Avv. Molinaro), Spataro ed altri (Avv. Montefusco), Matarese ed altri (Avv. Angelone), La Monica (Avv. Gioia) e Colella (Avv.ti Ugo, Claudio Carlo ed Alberto Iaccarino) - (accoglie).
Elezioni - Elezioni amministrative - Incandidabilità - Cause ex art. 1 della legge n. 55/1990 - Sentenza di patteggiamento ex art. 444 c.p.p. - Costituisce causa di incandidabilità - Ragioni - Conseguenze in ordine alla lista collegata.
Costituisce causa di incandidabilità, ai sensi dell'art. 1 della legge n. 55/1990, come modificato ed integrato dall'1, comma primo lett. b), della legge n. 16/1992, anche una sentenza di patteggiamento emessa ai sensi dell'art. 444 c.p.p. (alla stregua del principio il T.A.R., nella specie, constatato che al candidato alla carica di sindaco era stata applicata, con sentenza di patteggiamento di cui all'art. 444 c.p.p., la pena di anni uno e mesi due di reclusione per il reato di corruzione per atti contrari ai doveri d'ufficio, ha ritenuto quest'ultimo non candidabile alla carica di Sindaco e, conseguentemente, illegittima l'ammissione della lista a lui collegata, con invalidità derivata della intera competizione).
Invero, alla sentenza di patteggiamento non manca quell'accertamento giurisdizionale del reato che della sentenza di condanna costituisce il necessario antecedente logico giuridico (basti pensare che le circostanze - che il giudice deve accertare - presuppongono, in quanto accidentalia declicti, necessariamente un reato) (1).
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(1) Ha aggiunto il T.A.R. che "escludere dal novero dei destinatari delle misure interdittive previste dalla legge in esame coloro che, imputati dei reati in essa previsti, avessero patteggiato la relativa pena, equivarrebbe pressoché a vanificare lo spirito della legge medesima. Non può invero trascurarsi che se la sentenza di patteggiamento non dovesse ritenersi equiparata alla sentenza di condanna, la scelta della pena patteggiata si risolverebbe in un comodo espediente per condizionare l'applicazione della legge alla volontà dell'imputato e in definitiva, per eludere le finalità della legge.
Senza dire dei dubbi di legittimità costituzionale che una interpretazione negatrice di quella equiparazione, susciterebbe in relazione alla possibilità che soggetti sottoposti a procedimento penale per uno dei reati previsti dalla norma sarebbero soggetti a trattamenti differenziati a seconda che avessero scelto o non il rito del patteggiamento".
In argomento v. in questo sito GABRIELLA GULI', Destituzione e patteggiamento ed in particolare v. il paragrafo sulla natura giuridica della sentenza ex art. 444 cpp, nel quale vengono riportati i vari orientamenti espressi dalla giurisprudenza in materia.
DIRITTO: Il ricorso è fondato.
In data 29 novembre 1998 si svolgevano, con il sistema maggioritario, le elezioni amministrative per il rinnovo del Consiglio Comunale di Forio (NA). Vi partecipavano le liste indicate in epigrafe che riportavano le cifre elettorali nella stessa epigrafe specificate.
Il Signor Capuano Eugenio (ricorrente) in qualità di cittadino elettore del predetto Comune (qualità non contestata dalle controparti e comunque da lui documentata) contesta la legittimità delle predette elezioni censurandole sotto diversi profili.
Muovendo dalla premessa pacifica, che al signor Colella Gaetano, candidato alla carica di sindaco, collegato alla lista "Nuovo Orizzonte", era stata applicata, con sentenza (c.d. di patteggiamento) di cui all'art. 444 c.p.p., la pena di anni uno e mesi due di reclusione per il reato previsto dall'art. 319 c.p. (corruzione per atti contrari ai doveri d'ufficio), l'istante, con il primo motivo, prospetta la tesi della incandidabilità del Colella e, quindi, della illegittima ammissione della lista a lui collegata, con invalidità derivata della intera competizione.
La censura, nei termini in cui è prospettata, impone pregiudizialmente l'esame della eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dal Comune di Forio ed anche da taluni controinteressati nel riflesso che la questione dedotta involgerebbe la eleggibilità del candidato Colella. La sua cognizione, pertanto, sfuggirebbe alla giurisdizione di questo giudice e rientrerebbe nella giurisdizione del giudice ordinario.
L'eccezione è destituita di fondamento giuridico.
Va osservato che il ricorrente non contesta qui il diritto di elettorato passivo del Colella bensì la legittimità dell'ammissione della lista collegata ad un candidato sindaco, in tesi non candidabile, a norma dell'art. 1 della legge n. 55/90 nel testo novellato dalla successiva legge n. 16/92 che all'art. 1, comma 1, lett. b) secondo cui "non possono essere candidati alle elezioni comunali e non possono rivestire le cariche di sindaco coloro che hanno riportato condanna, anche non definitiva, per delitti previsti dagli articolo 314 (peculato), 316 (peculato mediante profitto d'altrui errore) 319 (corruzione per atti contrari ai doveri d'ufficio).
Si tratta evidentemente di norma che, posta, all'interesse pubblico, a presidio di valori di primaria importanza, radica in capo ai cittadini iscritti nelle liste elettorali dei Comuni (e, nel caso di specie, anche in capo al ricorrente) un interesse diffuso, eccezionalmente azionabile, alla legittimità di tutte le operazioni elettorali, ivi compresa la presentazione delle liste.
Il petitum del presente ricorso è insomma l'annullamento delle impugnate elezioni per la presunta illegittimità dell'ammissione della lista "Nuovo Orizzonte" collegata al sindaco Colella, in ragione (causa petendi) della sua supposta non candidabilità dedotta come specifico vizio di legittimità dell'avvenuta ammissione della lista medesima.
Così ricostruito il suo oggetto la cognizione del presente ricorso non può spettare che a questo giudice.
A tale conclusione porta non solo lo stretto rapporto di complementarietà strutturale e funzionale che, nel sistema elettorale introdotto dalla legge n. 81/93, intercorre tra il candidato sindaco e la lista a lui collegata ma anche la considerazione che la ipotetica declaratoria, da parte del giudice ordinario, della "nullità" della elezione del Colella (ex art. 1, comma 4, della citata legge n. 16/92), per un verso darebbe luogo alla strana anomalia di una lista acefala, non ipotizzabile nel citato sistema, e, per altro verso, condizionerebbe il successivo giudizio impugnatorio dell'ammissione della citata lista e delle elezioni (insensibili a quella declaratoria).
L'eccezione va dunque disattesa.
Si può ora tornare all'esame della censura già prima accennata.
La questione sollevata attiene alla sussumibilità della sentenza cd. di patteggiamento prevista dall'art. 444 c.p.c. (che come già precisato è stata emessa nei confronti del Colella) nello schema della sentenza di condanna identificata dal citato art. 1, comma primo, lett. b) della legge n. 16/92 come il presupposto indispensabile della prevista misura interdittiva.
Su tale questione giova subito rilevare che il Titolo II del Libro sesto del c.p.p. (sotto cui è previsto e disciplinato il rito speciale in seno al quale è emessa la sentenza di patteggiamento) reca la denominazione "Applicazione della pena su richiesta delle parti".
Il Collegio ritiene che detto titolo riflette i tratti essenziali del rito de quo: il tratto, genetico, della richiesta delle parti e il tratto, funzionale, dell'applicazione della pena.
L'analisi attenta di tali componenti porta a ritenere che il proprium del rito previsto dagli artt. 444 e ss. c.p.c. sia nell'innesto di una componente negoziale (o se si preferisce transattiva) sul meccanismo normativo di determinazione concreta della pena.
E' noto che tale determinazione, nel rito ordinario, è rimessa al potere discrezionale del giudice, che questi, nell'esercizio di quel potere, deve tener conto della gravità del reato (art. 132 c.p.); che siffatta gravità deve essere desunta, tra l'altro, anche della intensità del dolo o dal grado della colpa e che la relativa individuazione spesso richiede complicate indagini di ordine psicologico.
Ora nel rito speciale, non operando siffatto meccanismo, almeno dei termini complessivi di cui si è testè detto, vien meno la ragione logica della esatta determinazione della gravità del reato per il proporzionamento ad essa della pena concreta. Da qui la semplificazione del rito de quo e la soppressione, nella relativa normativa, di tutti quei momenti e passaggi processuali che nel rito ordinario sono strumentali all'accertamento della gravità del reato.
Va a tale proposito rimarcato che il minus di attività processuale che è proprio del modello processuale in parola, attiene a momenti del processo penale che sono anteriori ed estrinseci alla sentenza c.d. di patteggiamento.
Ora che tale sentenza sia sostanzialmente una sentenza di condanna è dimostrato in primo luogo, dalla considerazione che non si saprebbe come altrimenti qualificare, nel sistema, una sentenza che, come quella c.d. di patteggiamento, definisce una vicenda penale con applicazione di una pena a un determinato imputato;
e, in secondo luogo, i seguenti argomenti:
- l'art. 444, comma secondo, del codice di procedura penale attribuisce al giudice il potere di apprezzare la correttezza della definizione giuridica del reato contestato all'imputato; di accertare che non sussistano, acquisiti agli atti, elementi che escludono la responsabilità o punibilità dell'imputato; di accertare le circostanze attenuanti ed aggravanti e il loro bilanciamento.
Si può, dunque, concludere, sul punto che alla sentenza di patteggiamento non manca quell'accertamento giurisdizionale del reato che della sentenza di condanna costituisce il necessario antecedente logico giuridico (basti pensare che le circostanze - che il giudice deve accertare - presuppongono, in quanto accidentalia declicti, necessariamente un reato);
- l'art. 445 c.p.p. comma I, periodo secondo, con riferimento alla sentenza di patteggiamento, recita "Salve diverse disposizioni di legge la sentenza è equiparata ad una pronuncia di condanna". Dalla struttura logica della norma appare chiaro che la equiparazione tra le due sentenze è la regola e che l'eccezione è data dalle ipotesi in cui si sia diversamente disposto;
- l'art. 533 del codice di rito, rubricato "condanna dell'imputato", recita: "Se l'imputato risulta colpevole del reato contestatogli, il giudice pronuncia sentenza di condanna applicando la pena e l'eventuale misura di sicurezza".
Se ne deve dedurre che sono due i connotati qualificanti della sentenza di condanna: che l'imputato sia colpevole del reato a lui stesso contestato e che per tale reato sia stato a lui applicata una pena.
Orbene entrambe le componenti ricorrono nella sentenza cd. di patteggiamento.
La prima trova riscontro testuale nell'art. 444 c.p.c. laddove (comma secondo) stabilisce "che il giudice dispone con sentenza l'applicazione della pena indicata"; la seconda non è espressamente enunciata nella norma ma si evince per implicazione logico-giuridica e sistematica.
E' invero principio di alta civiltà giuridica, recepito nell'ordinamento, che non vi può essere pena senza responsabilità (nemo pena sine culpa). I casi di responsabilità oggettiva sono eccezionali e tassativamente previsti.
Ora mancando nella disciplina del rito in esame un qualsivoglia elemento che consenta di ricostruire l'istituto in termini di responsabilità oggettiva è giocoforza ritenere che la relativa normativa postula una presunzione assoluta di colpa dell'imputato.
Contrariamente opinando dovrebbe ritenersi che con la sentenza in esame si sia voluto estendere, oltre ogni ragionevole limite, il principio della pena senza colpa generalizzando il principio della responsabilità oggettiva: il che non è compatibile con il sistema del nostro diritto e con i valori di fondo della costruzione;
- l'art. 445, secondo comma, dispone, con riferimento al reato sul quale è stata emessa la sentenza di patteggiamento, che "Il reato è estinto se nel termine ". Poiché la estinzione del reato presuppone necessariamente la sua esistenza e poiché il reato nell'accezione tecnico-giuridica corretta (che deve presumersi condivisa dal legislatore) è la risultante del concorso di un fatto materiale e di una volontà colpevole, deve ritenersi che la sentenza di patteggiamento interviene, per apprezzamento legale, su un fatto materiale penalmente illecito di cui l'imputato è anche colpevole: ciò significa che con la sua richiesta della pena patteggiata l'imputato, implicitamente, accetta il carattere premiale che a quel rito è intrinseco, nel contempo e riconosce la sua colpevolezza, almeno in misura corrispondente al quantum della pena concreta applicatagli.
Dagli argomenti esposti esce quindi dimostrata, sul versante strettamente processual-penalistico, la piena equiparazione tra sentenza di condanna e sentenza di patteggiamento.
Occorre ora verificare se la stessa equiparazione operi anche nel campo amministrativo ed in particolare se la stessa è coerente con la logica ispiratrice della legge n. 16/92.
La risposta non può essere che positiva.
Al riguardo conviene ricordare che la norma dell'art. 1 della legga n. 16/92, (il cui testo è stato, per quanto di ragione, in parte soprariportato), con il richiamo che fa, sic et simpliciter, a locuzioni e categorie giuridiche di origine processuale-penale (sentenza di condanna, reato, ecc.) mostra recepire in blocco siffatte categorie nelle loro originarie qualificazioni giuridico-formali (e è questa la ragione della diffusa trattazione che precede).
Detto ciò, va osservato che nell'intero tessuto della legge n. 16/92 non è dato ravvisare alcun elemento normativo che integri o adombri gli estremi di una disposizione derogatoria del principio, solennemente sancito dal più volte citato art. 444 c.p.c., della equiparazione delle due sentenze (di condanna e di patteggiamento). Né può, dal silenzio della legge n. 16/92 su tale equiparazione, argomentarsi la non estensibilità della stessa alla fattispecie concreta (così come prospettato dalle controparti del ricorrente).
Non solo detta equiparazione, in mancanza di espressa contraria disposizione, non può dirsi abrogata dalla legge (posteriore) n. 16/92 ma, nell'impianto di tale legge, essa funge addirittura come imprescindibile presupposto della sua effettiva vigenza.
Al riguardo va ricordato che la Corte Costituzionale ha identificato correttamente la ratio della citata legge n. 16/96 nella esigenza di tutela di valori di fondamentale importanza quali quello della trasparenza e del buon andamento delle Pubbliche Amministrazioni. (Corte Costituzionale n. 141 del 6 maggio 1996).
Nella scia di tale pronuncia e con maggiore aderenza al caso concreto può ulteriormente specificarsi che con la norma di cui alla lett. b) del primo comma dell'art. 1 della legge n. 16/92 il legislatore vuole impedire che la gestione del Comune sia affidata a soggetti che non fossero incensurati.
Ora escludere dal novero dei destinatari delle misure interdittive previste dalla legge in esame coloro che, imputati dei reati in essa previsti , avessero patteggiato la relativa pena, equivarrebbe pressocchè a vanificare lo spirito della legge medesima. Non può invero trascurarsi che se la sentenza di patteggiamento non dovesse ritenersi equiparata alla sentenza di condanna, la scelta della pena patteggiata si risolverebbe in un comodo espediente per condizionare l'applicazione della legge alla volontà dell'imputato e in definitiva, per eludere le finalità della legge.
Senza dire dei dubbi di legittimità costituzionale che una interpretazione negatrice di quella equiparazione, susciterebbe in relazione alla possibilità che soggetti sottoposti a procedimento penale per uno dei reati previsti dalla norma sarebbero soggetti a trattamenti differenziati a seconda che avessero scelto o non il rito del patteggiamento.
Una ultima notazione va fatta ed è questa: l'art. 1 comma primo lett. b) legge n. 16/92 esige come presupposto della insindacabilità la "condanna anche non definitiva per i delitti previsti dagli articoli 319". Per la norma quindi la misura interdittiva opera indipendentemente dall'avvenuto passaggio in giudicato della sentenza di condanna e dalla previa acquisizione della certezza della responsabilità penale del soggetto condannato.
Se ne deve quindi dedurre che la norma ha scontato anche la possibilità che il soggetto, risulti a posteriori, (dopo cioè l'avvenuto patimento della sanzione), non responsabile del reato attribuitogli. Questo, da un canto, dà la misura di quanto forte sia la volontà legislativa di assicurare il rispetto dei valori prima richiamati e di quanto siano stretti gli spazi per interpretazioni non rigorose, dall'altro rende, a fortiori, operante quella equiparazione nell'ipotesi di specie atteso che la sentenza di patteggiamento, ai sensi dell'art. 448, comma 2, c.p.p. è inappellabile e quindi definitiva per l'imputato che l'ha chiesta.
Per tutte le considerazioni svolte deve quindi concludersi che la esaminata censura merita accoglimento con assorbimento di ogni altra questione.
Ne consegue che la lista recante il contrassegno "Nuovo Orizzonte" deve ritenersi illegittimamente ammessa a partecipare alle elezioni de quibus perché collegata al candidato sindaco Colella Gaetano che versava in situazione di non candidabilità ex art. 1, comma primo, lett. b, della L. n. 16/92.
E poiché non è dato conoscere come si sarebbero orientati, senza la partecipazione alle elezioni della predetta lista, i 2738 elettori che l'hanno votata e non può escludersi la possibilità di assetti elettorali diversi da quello proclamato con l'impugnato verbale, devono ritenersi, in via definitiva, inficiate dalla predetta anomalia le impugnate elezioni nella loro interezza.
In tal senso il ricorso deve essere accolto.
Si ravvisano tuttavia giusti motivi per disporre la integrale compensazione tra le parti delle spese di giudizio.