TAR VENETO, SEZ. I – Sentenza 17 maggio 2002 n. 2104 - Pres. Baccarini, Est. Rocco - Spiazzi (Avv.ti Sala e Zambelli) e Griso (Avv.ti Bolognesi e Pinello) c. Comune di Pescantina (Avv.ti Pasquini e Pinello) e Regione Veneto (n.c.) - (previa riunione dei ricorsi, li rigetta).
1. Comune e Provincia - Consiglio comunale e provinciale - Obbligo di astensione per i consiglieri - Disciplina prevista prima dell'art. 78 T.U. EE.LL. approvato con D.L.vo n. 267/2000 - Dovere di astensione - Non sussisteva per deliberazioni che avevano ad oggetto provvedimenti normativi o generali, ancorché da questi potessero derivare, in via immediata e indiretta, effetti favorevoli per terzi.
2. Edilizia ed urbanistica - Piano regolatore generale - Adozione di una variante generale - Votazione in due fasi (una prima in cui è stata valutata la destinazione relativa alle singole zone ed una seconda che che ha portato all’adozione della variante complessiva) - Legittimità.
1. Anche prima dell’entrata in vigore dell’art. 19, comma 1, della L. 265/1999, poi riprodotto dall’art. 78, comma 2, del T.U. approvato con D.L.vo 18 agosto 2000 n. 267, il dovere di astensione gravante sugli amministratori degli enti locali - ai sensi dell'art. 279 del R.D. 3 marzo 1934 n. 383 e dell'art. 290 del R.D. 4 febbraio 1915 n. 148 - doveva intendersi limitato alle sole adunanze dei collegi deliberanti nel corso delle quali si verificassero le situazioni di incompatibilità ipotizzate dalla norma con riferimento agli oggetti specifici delle decisioni adottate dagli organi collegiali, non potendo invece configurarsi - pena la paralisi della vita amministrativa della maggior parte dei Comuni italiani - in riferimento alle deliberazioni che avevano ad oggetto provvedimenti normativi o generali, ancorché da questi potessero derivare, in via immediata e indiretta, effetti favorevoli per terzi, legati agli amministratori comunali da rapporti di parentela e affinità secondo le previsioni delle suddette disposizioni legislative (1).
2. E’ da ritenere legittima una delibera del consiglio comunale con la quale è stata adottata una variante generale al P.R.G. mediante una votazione ripartita in una prima fase in cui è stata valutata la destinazione relativa alle singole zone (durante la quale si sono astenuti, di volta in volta, i consiglieri nei confronti dei quali sussistevano cause di incompatibilità) ed una seconda fase (alla quale hanno invece partecipato tutti i consiglieri), che ha portato all’adozione della variante complessiva e dei suoi indirizzi generali (2).
------------------------
(1) Cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 28 ottobre 1986 n. 682.
Nella motivazione della sentenza in rassegna si ricorda che l’art. 279 del T.U. 383/1934, vigente sino all’entrata in vigore della L. 3 agosto 1999 n. 265 (cfr. ivi, art. 28, comma 5) in forza dell’art. 64 della L. 8 giugno 1990 n. 142 (e, pertanto, vigente all’epoca di adozione della variante di cui trattasi), disponeva che “gli amministratori dei Comuni, delle Province e dei Consorzi … devono astenersi dal prendere parte alle deliberazioni riguardanti liti o contabilità loro proprie verso i corpi cui appartengono e verso gli stabilimenti dai medesimi amministrati o soggetti alla loro amministrazione o vigilanza; come pure quando si tratta di interesse proprio, o d'interesse, liti o contabilità dei loro parenti o affini sino al quarto grado, o del coniuge, o di conferire impieghi ai medesimi. Il divieto di cui sopra importa anche l'obbligo di allontanarsi dalla sala delle adunanze durante la trattazione di detti affari…”.
A sua volta, l’art. 290 del R.D. 148/1915, già richiamato in vigore per effetto della L. 9 giugno 1947 n. 530, parimenti confermato nella sua vigenza dall’art. 64 della L. 142/1990 e, quindi, abrogato per effetto dell’anzidetto art. 28, comma 5, della L. 265/1999, disponeva che “i consiglieri, gli assessori, i deputati provinciali … debbono astenersi dal prendere parte alle deliberazioni riguardanti liti o contabilità loro proprie, verso i corpi cui appartengono, con gli stabilimenti dai medesimi amministrati, o soggetti alla loro amministrazione o vigilanza; come pure quando si tratta d'interesse proprio, o d'interesse, liti o contabilità dei loro congiunti od affini sino al quarto grado civile, o di conferire impieghi ai medesimi. Si astengono pure dal prendere parte direttamente o indirettamente in servizi, esazioni di diritti, somministranze od appalti di opere nell'interesse dei corpi cui appartengono, o soggetti alla loro amministrazione, vigilanza o tutela”.
Tale disciplina è stata sostituita per effetto dell’art. 19, comma 1, della L. 265/1999, poi riprodotto dall’art. 78, comma 2, del T.U. approvato con D.L.vo 18 agosto 2000 n. 267, il quale a sua volta dispone che “gli amministratori … devono astenersi dal prendere parte alla discussione ed alla votazione di delibere riguardanti interessi propri o di loro parenti o affini sino al quarto grado. L'obbligo di astensione non si applica ai provvedimenti normativi o di carattere generale, quali i piani urbanistici, se non nei casi in cui sussista una correlazione immediata e diretta fra il contenuto della deliberazione e specifici interessi dell'amministratore o di parenti o affini fino al quarto grado”.
Ha rilevato il TAR Veneto che, al di là dell’apparente, minore rigorismo che contraddistingue la formulazione letterale della disciplina più recente (e ciò, avendo segnatamente riguardo all’esigenza di garantire una maggiore libertà individuale dei membri degli organi deliberanti nell’esame di determinati provvedimenti di indubbio valenza politico-programmatica, prescindendo in tal senso da posizioni il più delle volte riconducibili a formali collegamenti di parentela più che a sostanziali conflitti di interesse), la giurisprudenza, anche in epoca antecedente all’entrata in vigore dell’anzidetto art. 19, comma 1, della L. 265/1999, pur seguitando ad affermare, in via generale, che “la ratio dell'obbligo di astenersi per incompatibilità a’ sensi dell’art. 290 del R.D. 148/1915 si deve ricondurre al principio costituzionale dell'imparzialità dell'azione amministrativa della Pubblica Amministrazione (art. 97 Cost.) per cui costituisce regola tanto ampia quanto non suscettibile di compressione che si applica ogniqualvolta vi sia un collegamento tra la deliberazione da adottare e l'interesse del votante in seno all'organo collegiale” (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. VI, 9 novembre 1994 n. 1590), ha comunque interpretato in senso gradatamente evolutivo la nozione di “interesse proprio” presupposta dalle disposizioni in esame.
In particolare anche prima del vigore del T.U.EE.LL. era stato ritenuto che non sussisteva un dovere di astensione - pena la paralisi della vita amministrativa della maggior parte dei Comuni italiani - per le deliberazioni che avessero ad oggetto provvedimenti normativi o generali, ancorché da questi potessero derivare, in via immediata e indiretta, effetti favorevoli per terzi, legati agli amministratori comunali da rapporti di parentela e affinità secondo le previsioni delle suddette disposizioni legislative (v. in tal senso Cons. Stato, Sez. IV, n. 682/1986 cit.).
(2) Ha rilevato il TAR Veneto che nella specie peraltro non poteva affermarsi che fosse mancata una valutazione complessiva sul contenuto della variante, posto che negli elaborati complessivamente approvati per effetto della deliberazione consiliare risultava inserita anche la relazione accompagnante la parte grafica e normativa, e posto che, al di là della lamentata votazione “per parti” del contenuto della variante medesima, era stato verbalizzato un ampio dibattito tra tutti i consiglieri presenti sui contenuti generali della nuova strumentazione urbanistica sottoposta al loro esame, e ciò al di là della contingente circostanza che alcuni di essi si fossero poi astenuti dal deliberare sui singoli aspetti di dettaglio che configuravano l’obbligo di astensione previsto dalla disciplina legislativa all’epoca vigente.
per l'annullamento
- R.G. 1492/1997): delle deliberazioni del Consiglio Comunale di Pescantina n. 66 dd. 26 luglio 1995 e n. 78 dd. 10 novembre 1995, rispettivamente recanti l’adozione della variante generale al piano regolatore generale comunale e l’esame delle osservazioni pervenute e le controdeduzioni al riguardo; nonché della deliberazione della Giunta Regionale del Veneto n. 217 dd. 28 gennaio 1997, recante l’approvazione della variante anzidetta con modifiche d’ufficio;
- R.G. 2955/1999): della concessione ad eseguire attività edilizia o di trasformazione urbanistica Prot. 12498 – n. 117/1998 Reg. Costr. Edil. rilasciata in data 5 agosto 1999 al controinteressato Griso Renzo dal funzionario – area tecnica del Comune di Pescantina.
Visti i ricorsi, rispettivamente notificati il 9 – 10 maggio 1997 e il 12 novembre 1999, nonché rispettivamente depositati il 16 maggio 1997 e il 19 novembre 1999 presso la Segreteria, con i relativi allegati;
visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di Pescantina e del controinteressato Renzo Griso;
visti gli atti tutti della causa;
uditi all'udienza pubblica del 19 dicembre 2001 (relatore il consigliere Fulvio Rocco) l'Avv. G. Sala per il ricorrente e l’Avv. G. Pasquini per il Comune di Pescantina; nessuno comparso per il controinteressato Renzo Griso;
ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:
F A T T O E D I R I T T O
1.1. Il ricorrente, Signor Flavio Spiazzi, espone di essere proprietario di un terreno ubicato nel territorio comunale di Pescantina (Verona), corrispondente al foglio 22, mappali nn. 86, 87 e 97 del medesimo Comune censuario e sul quale sorge la propria casa di abitazione.
Il terreno anzidetto è situato di fronte ad altro fondo di proprietà dei Signori Renzo Griso e Annamaria Mancon, corrispondente a sua volta al foglio 21, mappali nn. 53 e 323.
Secondo le disposizioni contenute nella variante generale al piano regolatore generale del Comune adottato dal Consiglio Comunale di Pescantina con deliberazione n. 66 dd. 26 luglio 1995, l’area di proprietà del Griso e della Mancon è stata classificata come “zona B speciale – agglomerati residenziali sparsi ed edifici non più funzionali alla conduzione del fondo”: e ciò, nonostante l’asserita sporadicità dell’edificazione preesistente non consentisse di includerla nelle zone di completamento.
Lo Spiazzi afferma, in tal senso, che la superficie coperta degli edifici risulterebbe - in effetti – ampiamente inferiore al 12,5% della superficie fondiaria della zona, ossia al valore che si identifica con il limite minimo considerato dal D.M. 2 aprile 1968 n. 1444 al fine del riconoscimento delle aree come “parzialmente edificate” e, quindi, includibili nelle zone di completamento.
Il ricorrente ha pertanto indirizzato in data 28 settembre 1995 al Consiglio Comunale alcune osservazioni sulla destinazione dell’area di proprietà del Griso e della Mancon, chiedendo – tra l’altro – “una indagine particolareggiata in ogni zona di completamento, dalla quale risultino gli indici di copertura, la densità fondiaria, lo stato dei servizi e i motivi per i quali non è possibile od opportuno ricorrere a zone di espansione”.
Con deliberazione n. 78 dd. 10 novembre 1995 il Consiglio Comunale di Pescantina ha respinto tali osservazioni, affermando “che l’indagine richiesta è stata fatta e che i dati relativi sono contenuti nelle tavole di analisi che accompagnano il P.R.G.”.
Con deliberazione n. 217 dd. 28 gennaio 1997 la Giunta Regionale del Veneto ha approvato la variante anzidetta introducendo - peraltro - alcune modiche d’ufficio che, per quanto qui segnatamente interessa, riguardavano anche le zone B di completamento edilizio, quasi tutte stralciate e riclassificate come zone rurali tranne quella di proprietà del Griso e della Mancon: il loro terreno è infatti rimasto incluso tra le aree di completamento, ma con la previsione che “la nuova edificazione debba essere subordinata alla stipula di una convenzione, in modo da reperire gli standards necessari alla zona”.
1.2. Ciò posto, con il primo dei ricorsi in epigrafe, proposto sub R.G. 1492/1997, lo Spiazzi impugna in parte qua sia le deliberazioni consiliari n. 66 dd. 26 luglio 1995 e n. 78 dd. 10 novembre 1995, rispettivamente recanti l’adozione della variante al P.R.G. e l’esame delle osservazioni pervenute al riguardo, sia la deliberazione della Giunta Regionale n. 217 dd. 28 gennaio 1997, e deduce:
a) nei confronti delle deliberazioni consiliari anzidette l’avvenuta violazione dell’art. 279 del T.U. approvato con RD. 3 marzo 1934 n. 383 e dell’art. 290 del T.U. approvato con R.D. 14 febbraio 1915 n. 148 in relazione all’art. 7, primo comma, della L. 17 agosto 1942 n. 1150 e dell’art. 9, primo comma, della L.R. 27 giugno 1985 n. 61, nonché l’avvenuta violazione dell’art. 2, lettera b), del D.M. 2 aprile 1968 n. 1444 ed eccesso di potere per manifesta illogicità;
b) nei confronti della deliberazione giuntale n. 217 dd. 28 gennaio 1997, invalidità derivata nonchè eccesso di potere per illogicità e contraddittorietà.
1.3. Si è costituito in giudizio il Comune di Pescantina, replicando puntualmente alle censure avversarie e concludendo per la reiezione del ricorso.
La difesa del Comune ha, altresì, eccepito in via preliminare l’inammissibilità del ricorso sia per carenza d’interesse dello Spiazzi, sia per difetto di notifica dell’atto introduttivo del giudizio nei riguardi degli altri comproprietari delle aree oggetto della vertenza.
1.4. Non si è, viceversa, costituita in giudizio la Regione Veneto.
2.1. Successivamente a tali fatti di causa, il funzionario preposto all’area tecnica del Comune di Pescantina ha rilasciato in data 5 agosto 1999 al Griso la concessione ad eseguire attività edilizia o di trasformazione urbanistica Prot. 12498 – n. 117/1998 Reg. Costr. Edil., avente per oggetto la “realizzazione” in loco “di un piano di utilizzo dell’area residenziale”.
2.2. Con il secondo ricorso in epigrafe, proposto sub R.G. 2955/1999, lo Spiazzi ha pertanto impugnato anche tale ulteriore provvedimento, deducendone l’invalidità derivata rispetto ai precedenti provvedimenti già impugnati con l’anzidetto ricorso proposto sub R.G. 1492/1997, nonché l’avvenuta violazione dell’art. 22 delle N.T.A. del P.R.G. del Comune di Pescantina.
2.3. Si sono costituiti in giudizio il Comune di Pescantina e il controinteressato Renzo Griso, replicando puntualmente alle censure avversarie e concludendo per la reiezione del ricorso.
Anche in questo procedimento le medesime difese hanno eccepito in via preliminare l’inammissibilità del ricorso per l’omessa notificazione dell’atto introduttivo del giudizio agli altri comproprietari delle aree oggetto della vertenza.
Il Comune di Pescantina ha, altresì, eccepito in via preliminare l’inammissibilità del ricorso sia per carenza d’interesse dello Spiazzi, sia per difetto di notifica dell’atto introduttivo del giudizio nei riguardi degli altri comproprietari delle aree oggetto della vertenza.
2.4. Con ordinanza n. 639 dd. 19 aprile 2000 la Sezione II di questo stesso T.A.R. ha respinto la domanda di sospensione cautelare del provvedimento impugnato, avanzata dal ricorrente.
2.5. Alla pubblica udienza del 19 dicembre 2001 entrambi i ricorsi sono stati trattenuti per la decisione.
3.1. Ciò posto, va in primo luogo disposta la riunione dei due ricorsi, stante l’identità delle parti e l’indubbia connessione sussistente tra i provvedimenti impugnati.
3.2. Vanno quindi esaminate le eccezioni preliminari di inammissibilità dei due ricorsi, proposte dalle difese del Comune e del controinteressato.
Secondo la difesa del Comune, il ricorso proposto sub R.G. 1492/1997 sarebbe inammissibile per carenza d’interesse, non avendo lo Spiazzi evidenziato le ragioni per le quali egli subirebbe un pregiudizio dall’intervento edilizio consentito nel fondo del Griso per effetto della nuova disciplina urbanistica impressa alla relativa area.
Tale assunto dell’amministrazione intimata risulta palesemente infondato, in quanto a pag. 2 dell’atto introduttivo del giudizio testualmente si afferma, tra l’altro, che “l’applicazione della disciplina delle zone B consentirebbe ai proprietari dell’area la realizzazione di un edificio di notevoli dimensioni, tale da togliere visibilità all’abitazione del ricorrente e da diminuirne sensibilmente il valore”: e questa affermazione dello Spiazzi va per certo ritenuta sufficiente al fine di fondare l’esistenza di un idoneo interesse dello stesso a contestare il contenuto della nuova strumentazione urbanistica adottata dal Comune e adottata dalla Giunta Regionale.
Né possono essere accolte le ulteriori eccezioni di inammissibilità formulate con riguardo all’omessa notificazione di entrambi i ricorsi anche agli altri comproprietari dell’area in questione, ossia non solo alla Signora Anna Maria Mancon, moglie del Griso, ma anche alle Signore Paola Desto e Isabella Zanoni, le quali – oltre a tutto – risultano pure cointestatarie, unitamente ai coniugi Griso, della concessione edilizia Prot. 12498 – n. 117/1998 Reg. Costr. Edil. dd. 5 agosto 1999 impugnata sub R.G. 2955/1999.
Premesso che, anche prima delle modificazioni introdotte per effetto dell’art. 1 della L. 21 luglio 2000 n. 205, l’art. 21, primo comma, della L. 6 dicembre 1971 n. 1034 faceva onere al ricorrente di notificare l’atto introduttivo del giudizio “tanto all'organo che ha emesso l'atto impugnato quanto ai controinteressati ai quali l'atto direttamente si riferisce, o almeno ad alcuno tra essi” e che, pertanto, la sola notificazione dell’atto stesso al Griso risulta, ex se, sufficiente al fine di affermare l’ammissibilità dell’impugnativa, va innanzitutto considerata la circostanza che, per quanto segnatamente attiene al ricorso proposto sub R.G. 1492/1997 avverso la variante allo strumento urbanistico primario, il medesimo Griso neppure poteva considerarsi controinteressato secondo la giurisprudenza che richiede a tal fine la formale enunciazione, o comunque l’agevole individuazione del controinteressato in base al contenuto letterale del provvedimento da impugnare (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. VI, 12 gennaio 2000 n. 189).
Per quanto attiene invece al ricorso proposto sub R.G. 2955/1999 avverso la concessione Prot. 12498 – n. 117/1998 Reg. Costr. Edil. dd. 5 agosto 1999, può rilevarsi dallo stesso contesto letterale del provvedimento impugnato che la relativa domanda era stata presentata in data 23 luglio 1998 da parte del solo Griso, il quale pertanto ha agito, in buona sostanza, quale mandatario anche per gli altri comproprietari.
3.3. Passando al merito di causa, va innanzitutto respinta la prima censura contenuta nel ricorso proposto sub R.G. 1492/1997 e riferita alle deliberazioni consiliari nn. 66 e 78 del 1995.
Secondo la prospettazione del ricorrente, il Consiglio Comunale avrebbe, nella specie, adottato la variante in questione mediante una votazione ripartita in due fasi: la prima, sostanziata da distinte valutazioni delle 21 zone in cui è stato suddiviso il territorio comunale ai fini della pianificazione, e la seconda mediante l’adozione della variante complessiva e dei suoi indirizzi generali.
In questo modo, nella votazione relativa alle singole zone si sono astenuti, di volta in volta, i consiglieri nei confronti dei quali sussistevano cause di incompatibilità, nel mentre alla votazione finale hanno partecipato tutti i consiglieri.
Secondo il ricorrente, peraltro, tale complesso sistema di votazione, ancorchè dichiaratamente finalizzato ad impedire il voto da parte di membri del consiglio direttamente incisi – ovvero parenti di soggetti incisi – dalle scelte di pianificazione urbanistica del Comune, comunque eluderebbe l’obbligo di astensione fissato dalla legge per il fatto che tutti i consiglieri sono chiamati a partecipare alla votazione finale sul complessivo contenuto della variante.
Lo strumento urbanistico, inoltre, non potrebbe essere scisso nel suo contenuto, eminentemente unitario, posto che l’art. 7, primo comma, della L. 1150 del 1942 afferma che “il piano regolatore generale deve considerare la totalità del territorio comunale”, e l’art. 9, primo comma, della L.R. 61 del 1985 a sua volta afferma che “il piano regolatore generale … estende la sua disciplina all’intero territorio”.
In conseguenza di ciò, è stato pertanto affermato che “il requisito dell’integralità a cui ogni piano deve rispondere per potersi ritenere valido concerne la previsione nello spazio, nel senso che nessuna parte del territorio può ad essa sfuggire” (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 19 ottobre 1971 n. 890), e che lo stesso piano - nonché, sempre secondo il ricorrente, anche le sue varianti generali, in considerazione della loro analoga funzione di disciplina generale dell’assetto del territorio comunale - non può costituire la risultante, magari casuale, dell’assemblamento di molti frammenti, ma deve essere il frutto di un disegno coerente ed unitario, sul quale deve esprimersi una volontà politica del Consiglio comunale (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 28 novembre 1994 n. 959).
Il ricorrente ritiene che la modalità di adozione seguita nel caso di specie non sarebbe idonea a garantire quella valutazione, necessariamente unitaria, del complessivo contenuto dello strumento urbanistico: e ciò in quanto la votazione finale sulla variante nel suo complesso sarebbe stata sostanzialmente configurata quale mera ratifica delle precedenti votazioni sulle singole parti in cui il territorio comunale è stato ripartito, e non già – quindi – quale deliberazione avente per oggetto una considerazione complessiva del contenuto della variante, non percepita in tal modo quale unitario disegno di pianificazione dell’intero territorio comunale.
Il Collegio, per parte propria, rileva innanzitutto che l’art. 279 del T.U. 383/1934, vigente sino all’entrata in vigore della L. 3 agosto 1999 n. 265 (cfr. ivi, art. 28, comma 5) in forza dell’art. 64 della L. 8 giugno 1990 n. 142 (e, pertanto, vigente all’epoca di adozione della variante di cui trattasi), disponeva, per quanto qui interessa, che “gli amministratori dei Comuni, delle Province e dei Consorzi … devono astenersi dal prendere parte alle deliberazioni riguardanti liti o contabilità loro proprie verso i corpi cui appartengono e verso gli stabilimenti dai medesimi amministrati o soggetti alla loro amministrazione o vigilanza; come pure quando si tratta di interesse proprio, o d'interesse, liti o contabilità dei loro parenti o affini sino al quarto grado, o del coniuge, o di conferire impieghi ai medesimi. Il divieto di cui sopra importa anche l'obbligo di allontanarsi dalla sala delle adunanze durante la trattazione di detti affari…”.
A sua volta, l’art. 290 del R.D. 148/1915, già richiamato in vigore per effetto della L. 9 giugno 1947 n. 530, parimenti confermato nella sua vigenza dall’art. 64 della L. 142/1990 e, quindi, abrogato per effetto dell’anzidetto art. 28, comma 5, della L. 265/1999, disponeva, per quanto qui interessa, che “i consiglieri, gli assessori, i deputati provinciali … debbono astenersi dal prendere parte alle deliberazioni riguardanti liti o contabilità loro proprie, verso i corpi cui appartengono, con gli stabilimenti dai medesimi amministrati, o soggetti alla loro amministrazione o vigilanza; come pure quando si tratta d'interesse proprio, o d'interesse, liti o contabilità dei loro congiunti od affini sino al quarto grado civile, o di conferire impieghi ai medesimi. Si astengono pure dal prendere parte direttamente o indirettamente in servizi, esazioni di diritti, somministranze od appalti di opere nell'interesse dei corpi cui appartengono, o soggetti alla loro amministrazione, vigilanza o tutela”.
Tale disciplina è stata sostituita per effetto dell’art. 19, comma 1, della L. 265/1999, poi riprodotto dall’art. 78, comma 2, del T.U. approvato con D.L.vo 18 agosto 2000 n. 267, il quale a sua volta dispone, sempre per quanto qui interessa, che “gli amministratori … devono astenersi dal prendere parte alla discussione ed alla votazione di delibere riguardanti interessi propri o di loro parenti o affini sino al quarto grado. L'obbligo di astensione non si applica ai provvedimenti normativi o di carattere generale, quali i piani urbanistici, se non nei casi in cui sussista una correlazione immediata e diretta fra il contenuto della deliberazione e specifici interessi dell'amministratore o di parenti o affini fino al quarto grado”.
Al di là dell’apparente, minore rigorismo che contraddistingue la formulazione letterale della disciplina più recente (e ciò, avendo segnatamente riguardo all’esigenza di garantire una maggiore libertà individuale dei membri degli organi deliberanti nell’esame di determinati provvedimenti di indubbio valenza politico-programmatica, prescindendo in tal senso da posizioni il più delle volte riconducibili a formali collegamenti di parentela più che a sostanziali conflitti di interesse), va rilevato che la giurisprudenza, anche in epoca antecedente all’entrata in vigore dell’anzidetto art. 19, comma 1, della L. 265/1999, pur seguitando ad affermare, in via generale, che “la ratio dell'obbligo di astenersi per incompatibilità a’ sensi dell’art. 290 del R.D. 148/1915 si deve ricondurre al principio costituzionale dell'imparzialità dell'azione amministrativa della Pubblica Amministrazione (art. 97 Cost.) per cui costituisce regola tanto ampia quanto non suscettibile di compressione che si applica ogniqualvolta vi sia un collegamento tra la deliberazione da adottare e l'interesse del votante in seno all'organo collegiale” (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. VI, 9 novembre 1994 n. 1590), ha comunque interpretato in senso gradatamente evolutivo la nozione di “interesse proprio” presupposta dalle disposizioni in esame.
In tal senso, infatti, la rigidità dell’assunto della più risalente giurisprudenza, secondo cui “l'incompatibilità configurata dagli artt. 290 e 279, rispettivamente del R.D. 148/1915 e del R.D. n. 383/1934 è ravvisabile senza necessità di alcuna particolare qualificazione dell'"interesse proprio", quando questo è insito nella titolarità di situazioni che si correlano all'oggetto della deliberazione dell'organo collegiale” (cfr., ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 13 ottobre 1983 n. 713), è stata superata dalle pronunce successive, che hanno - per l’appunto – costituito il presupposto per la stessa ridisciplina della materia contenuta nel predetto art. 19, comma 1, della L. 265/1999, e secondo le quali “il dovere di astensione gravante sugli amministratori degli enti locali, ai sensi dell'art. 279 del R.D. 3 marzo 1934 n. 383 e dell'art. 290 del R.D. 4 febbraio 1915 n. 148, deve intendersi limitato alle sole adunanze dei collegi deliberanti nel corso delle quali si verifichino le situazioni di incompatibilità ipotizzate dalla norma con riferimento agli oggetti specifici delle decisioni adottate dagli organi collegiali non potendo invece configurarsi - pena la paralisi della vita amministrativa della maggior parte dei Comuni italiani - in riferimento alle deliberazioni che abbiano ad oggetto provvedimenti normativi o generali, ancorché da questi possano derivare, in via immediata e indiretta, effetti favorevoli per terzi, legati agli amministratori comunali da rapporti di parentela e affinità secondo le previsioni delle suddette disposizioni legislative” (cfr., per un primo caso e nei termini testè riportati, Cons. Stato, Sez. IV, 28 ottobre 1986 n. 682).
Nel caso di specie, va comunque rilevato - in via del tutto assorbente - che il ricorrente, nell’illustrare la sopradescritta censura, non ha in alcun modo riferito l’esistenza di specifici vizi dovuti a particolari e personali interessi dei consiglieri (ovvero dei parenti o affini di questi) che hanno votato la variante anche nella parte che segnatamente si riferisce all’area di proprietà del Griso.
Né, comunque, può affermarsi che sia mancata una valutazione complessiva sul contenuto della variante, posto che negli elaborati complessivamente approvati per effetto della deliberazione consiliare n. 66 del 1995 risulta inserita anche la relazione accompagnante la parte grafica e normativa, e posto che, al di là della lamentata votazione “per parti” del contenuto della variante medesima, è stato verbalizzato un ampio dibattito tra tutti i consiglieri presenti sui contenuti generali della nuova strumentazione urbanistica sottoposta al loro esame, e ciò al di là della contingente circostanza che alcuni di essi si siano poi astenuti dal deliberare sui singoli aspetti di dettaglio che configuravano l’obbligo di astensione previsto dalla disciplina legislativa all’epoca vigente.
3.4. Neppure può essere accolta la censura con cui si lamenta l’avvenuta violazione dell’art. 2, lettera b), del D.M. 2 aprile 1968 n. 1444.
Come è ben noto, tale disposizione considera zone omogenee B), a’ sensi e per gli effetti dell’art. 17 della L. 6 agosto 1967 n. 765 - introduttivo dell’art. 41-quinquies della L. 17 agosto 1942 n. 1150 - “le parti del territorio totalmente o parzialmente edificate, diverse dalle zone A” (a loro volta identificate con “le parti del territorio interessate da agglomerati urbani che rivestono carattere storico, artistico o di particolare pregio ambientale o da porzioni di essi, comprese le aree circostanti, che possono considerarsi parte integrante, per tali caratteristiche, degli agglomerati stessi”), contestualmente precisando che “si considerano parzialmente edificate le zone in cui la superficie coperta degli edifici esistenti non sia inferiore al 12,5% (un ottavo) della superficie fondiaria della zona e nelle quali la densità territoriale sia superiore ad 1,5 mc/mq.”
Secondo il ricorrente, la zona in cui ricade la proprietà Griso e Mancon sarebbe stata, per l’appunto, qualificata come zona di completamento sebbene l’edificazione preesistente fosse sporadica e, in ogni caso, di gran lunga inferiore al limite minimo fissato dalla disciplina testè enunciata.
Tuttavia, l’esame della planimetria corrispondente al doc. 8 di parte resistente sub R.G. 2955/1999 convince il Collegio dell’esatto contrario.
La zona in questione è stata ragionevolmente inserita tra quelle B “speciali”, in quanto circostante i due lati di Via Pigno, importante strada del territorio comunale, lungo la quale è ben evidenziata l’esistenza di vari edifici.
Inoltre, in base alla legenda di cui al susseguente doc. 9, l’area in questione risulta confinare con altre zone B di completamento, già a loro volta urbanizzate.
3.5. Neppure è fondata la censura di eccesso di potere per illogicità e contraddittorietà proposta in parte qua sub R.G. 1492/1997 avverso la deliberazione della Giunta Regionale n. 217 del 197, recante l’approvazione della variante anzidetta mediante l’introduzione di modificazioni d’ufficio.
Come è ben noto, a’ sensi dell’art. 45, n. 5 della L.R. 61 del 1985 la Giunta Regionale dispone l’approvazione dello strumento urbanistico primario mediante l’introduzione di modificazioni d’ufficio al fine di garantire “l'osservanza dei limiti e dei rapporti di dimensionamento ai sensi del Titolo III” della medesima legge, ossia il rispetto dei criteri di dimensionamento e capacità insediativa residenziale teorica (cfr. art. 22 L.R. cit.), dei valori di densità territoriale e densità fondiaria (cfr. art. 23 L.R. cit.), dei corretti criteri di riparto del territorio comunale nelle diverse zone territoriali omogenee (cfr. art. 24 L.R. cit.), dei rapporti di dimensionamento per gli insediamenti (cfr. art. 25 L.R. cit.), delle esigenze di localizzazione di spazi pubblici per parco, gioco, sport e attrezzature generali (cfr. art. 26 L.R. cit.), nonché di imposizione di zone di tutela e di fasce di rispetto (art. 27 L.R. cit.).
Secondo la prospettazione del ricorrente, nel caso di specie la Giunta Regionale, sulla scorta dell’annesso parere della Commissione tecnica regionale, avrebbe illogicamente e contraddittoriamente omesso di restituire alla precedente destinazione agricola l’area in questione, come viceversa fatto per tutte le altre consimili microzone B “speciali”.
Peraltro, la motivazione che ha assistito la determinazione assunta dalla Giunta Regionale fornisce, per ognuno di tali ben diversi casi, una compiuta enunciazione delle ragioni addotte a suo sostegno, identificabili sia nell’apprezzamento di ordine generale secondo cui le zone stesse non rispondevano agli anzidetti parametri di zona B contenuti nel D.M. 1444 del 1968, sia in peculiari esigenze di tutela ambientale e paesaggistica non sussistenti, all’evidenza, nel caso qui in esame.
Deve pertanto concludersi nel senso che i ben eloquenti elementi traibili dalla cartografia anzidetta hanno a ragione indotto la Giunta Regionale a conservare - per quanto qui interessa - il contenuto della determinazione del Consiglio comunale, introducendo soltanto un’opportuna integrazione della parte normativa della variante nel senso che l’edificazione sia subordinata alla stipula di una convenzione finalizzata al reperimento degli standards necessari alla zona.
3.6. Anche il ricorso proposto sub R.G. 2955/1999 va respinto.
Posto che la sussistenza di vizi in via derivata è esclusa in quanto nessuna delle censure contenute nel ricorso proposto sub R.G. 1492/1997 è stata accolta, l’esame del Collegio va ristretto alla sola censura formulata in via autonoma, laddove si assume che l’impugnato provvedimento concessorio violi l’art. 22 delle N.T.A. del P.R.G. di Pescantina.
Il ricorrente premette che il terreno sul quale è previsto l’intervento edilizio da lui contestato non è piano, ma degradante dalla strada alla retrostante campagna.
In tal senso, il dislivello tra il lato della strada e il lato della campagna risulterebbe superiore ai quattro metri.
Il piano di utilizzazione presentato dal Griso e approvato mediante l’anzidetto provvedimento concessorio prevederebbe l’individuazione dell’altezza media del lotto dalla quale misurare le altezze degli edifici tracciando la linea che collega il punto più alto del lato strada al punto più basso del lato campagna; e ciò, mentre l’art. 22, n. 4, delle N.T.A. del P.R.G., disciplinando l’ “altezza dei fabbricati” e il “numero dei piani” degli stessi, espressamente dispone che “qualora tra il piano della sede stradale e il piano di posa del fabbricato vi fosse una differenza di quota superiore a ml. 0,50, il piano di riferimento, ai fini sempre della misurazione dell’altezza, sarà quello del terreno naturale circostante l’edificio stesso con possibilità di riportare alla quota stradale gli avvallamenti e i dossi”.
Il ricorrente afferma che nel caso di specie, poiché gli edifici verrebbero a collocarsi in un’area inferiore a m. 0,50 dal piano stradale, il “piano di riferimento ai fini della misurazione delle altezze” doveva identificarsi con il “terreno naturale circostante l’edificio stesso”, e non - quindi - con un livello medio teorico che, per contro, comporterebbe una sopraelevazione del piano di posa dell’edificio.
La sopradescritta censura non può trovare accoglimento, in quanto del tutto inconferente rispetto al contenuto del provvedimento impugnato.
L’impugnata concessione, infatti, si riferisce esclusivamente alla realizzazione nel fondo delle opere di urbanizzazione (cfr. ivi, punto 13 del dispositivo), rinviando per il resto ad ulteriori concessioni edilizie richiedibili dagli interessati soltanto dopo l’esecuzione della massicciata e dei sottoservizi presentemente assentiti (cfr. ibidem, punto 12).
Pertanto, ogni questione relativa al computo delle altezze del futuro edificio dovrà essere proposta, ove del caso, soltanto al momento in cui sarà assentita la realizzazione del relativo progetto.
4. Le spese e gli onorari del giudizio possono essere, peraltro, integralmente compensati tra tutte le parti.
P.Q.M
il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto, prima sezione, pronunciando definitivamente sui ricorsi in epigrafe, previa loro riunione, li rigetta.
Compensa integralmente tra le parti le spese e gli onorari del giudizio;
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'Autorità amministrativa.
Così deciso in Venezia, nella camera di consiglio del 19 dicembre 2001.
Il Presidente L'Estensore
Depositata il 17 maggio 2002.