Un anno di giurisprudenza dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato sui contratti pubblici tra dubbi e certezze, di Carmine Volpe
Carmine Volpe*
Un anno di giurisprudenza dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato sui contratti pubblici tra dubbi e certezze[1]Sommario: 1. Introduzione. 2. Considerazioni preliminari. 3. L’obbligo di dichiarare i costi della manodopera: Cons. Stato, ad. plen., 2 aprile 2020, nn. 7 e 8. 4. Accesso documentale e accesso civico generalizzato: Cons. Stato, ad. plen., 2 aprile 2020, n. 10. 5. Decorrenza del termine per ricorrere: Cons. Stato, ad. plen., 2 luglio 2020, n. 12. 6. Avvalimento: Cons. Stato, ad. plen., 9 luglio 2020, n. 13. 7. Obblighi dichiarativi: Cons. Stato, ad. plen., 28 agosto 2020, n. 16. 8. Nullità: Cons. Stato, ad. plen., 16 ottobre 2020, n. 22. 9. Considerazioni finali.
1. Introduzione.
Il 2020 è stato caratterizzato da alcune importanti decisioni in materia di contratti pubblici da parte dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato, la cui attività non si è mai fermata malgrado l’emergenza sanitaria da Covid-19[2].
Se ne contano sette, di cui due di identico contenuto. Rappresentano in tutto quasi il 30%[3] delle sentenze dell’adunanza plenaria pubblicate nel 2020. Il che rende idea della predominanza della materia nelle questioni che richiedono l’intervento della stessa.
Quella dei contratti pubblici è materia in continua evoluzione, non solo giurisprudenziale ma soprattutto normativa Ne sono manifestazione gli svariati interventi modificativi sul codice dei contratti pubblici (il d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50), a partire dalla sua entrata in vigore. E nella materia, come sempre, l’intervento dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato riveste particolare rilievo.
Nella giurisprudenza amministrativa, infatti, la funzione nomofilattica è attribuita all’adunanza plenaria del Consiglio di Stato[4]. Non solo al fine di “dirimere contrasti giurisprudenziali” (esistenti o potenziali) tra le sezioni, ma anche “per risolvere questioni di massima di particolare importanza“.
Essa enuncia i principi di diritto a cui devono attenersi le sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato, le quali, se non li condividono, non possono andare in contrario avviso ma solo rimettere un’altra volta la questione all’adunanza plenaria[5].
Il principio di diritto, “se&la questione è di particolare importanza“, può essere affermato anche se non serve alla soluzione della specifica controversia, qualora venga definita con una decisione in rito, ma è “nell’interesse della legge“. Ossia serve alla corretta e uniforme applicazione della normativa sulla base dell’interpretazione che ne viene data.
2. Considerazioni preliminari.
Dall’esame delle decisioni dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato del 2020 in materia di contratti pubblici conseguono alcune considerazioni preliminari.
La successione temporale della normativa va più veloce del contenzioso. Alcuni principi affermati dall’adunanza plenaria del Consiglio di Stato non sono più attuali, non essendo più vigente la normativa applicata alla fattispecie controversa. Non servono a indirizzare e conformare la successiva attività dell’amministrazione, tenuta, invece, ad applicare una diversa normativa sopravvenuta. In sostanza i principi sono la fotografia di un quadro regolatorio che non esiste più e non possono valere in un futuro che è già presente, perché riguarda disposizioni che sono diverse rispetto a quelle esaminate dalla plenaria. E i principi non sono nemmeno più utili alla nuova normativa, radicalmente cambiata rispetto a quella precedente.
L’ulteriore considerazione è direttamente dipendente dalle molteplici criticità della normativa in materia. La complessità, l’oscurità, la mancanza di chiarezza e linearità della produzione normativa comportano conseguenti difficoltà nell’elaborazione dei principi. Così che quelli affermati risentono delle criticità del quadro regolatorio e non riescono appieno a svolgere la funzione per la quale la legge li prevede.
Infine, la nomofilachia in diritto amministrativo non è più riservata solo all’adunanza plenaria del Consiglio di Stato. Nella materia dei contratti pubblici la nomofilachia spetta anche alla Corte di Giustizia dell’Unione europea (CGUE) che, anzi, si pone a un livello superiore, data la cosiddetta primazia del diritto europeo. I principi affermati dalla Corte costituiscono normativa direttamente applicabile negli ordinamenti giuridici degli Stati membri, con il conseguente obbligo di disapplicare, non solo da parte del giudice ma anche da parte dell’amministrazione, la normativa interna se contraria. E la stessa adunanza plenaria non può non conformarsi ai principi affermati dalla CGUE.
3. L’obbligo di dichiarare i costi della manodopera: Cons. Stato, ad. plen., 2 aprile 2020, nn. 7 e 8.
Il ricorrente, secondo in graduatoria in una gara per l’affidamento in concessione di un asilo nido, aveva impugnato l’aggiudicazione al primo graduato, sostenendo che l’aggiudicataria si sarebbe dovuta escludere a causa dell’omessa indicazione, nella sua offerta economica, dei costi della manodopera (come previsto dall’art. 95, comma 10, del d.lgs. n. 50/2016 e dalla lex specialis). Era impugnata, con motivi aggiunti, anche la successiva attivazione, da parte della stazione appaltante, del soccorso istruttorio, avvenuta dopo la notifica del gravame.
Il Tar respingeva il ricorso, affermando che né il bando né gli altri documenti di gara prevedevano l’esclusione per tale incombente.
Tuttavia, nella specie, il principio di diritto era stato già affermato dalla CGUE, con sentenza della sez. IX, 2 maggio 2019 nella causa C-309/18. Conseguentemente, l’adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha deciso la controversia sulla base di quanto affermato dalla CGUE e ha accolto l’appello.
La CGUE aveva affermato quanto segue
“I principi della certezza del diritto, della parità di trattamento e di trasparenza, quali contemplati nella direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sugli appalti pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/CE, devono essere interpretati nel senso che essi non ostano a una normativa nazionale, come quella oggetto del procedimento principale, secondo la quale la mancata indicazione separata dei costi della manodopera, in un’offerta economica presentata nell’ambito di una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico, comporta l’esclusione della medesima offerta senza possibilità di soccorso istruttorio, anche nell’ipotesi in cui l’obbligo di indicare i suddetti costi separatamente non fosse specificato nella documentazione della gara d’appalto, sempreché tale condizione e tale possibilità di esclusione siano chiaramente previste dalla normativa nazionale relativa alle procedure di appalti pubblici espressamente richiamata in detta documentazione. Tuttavia, se le disposizioni della gara d’appalto non consentono agli offerenti di indicare i costi in questione nelle loro offerte economiche, i principi di trasparenza e di proporzionalità devono essere interpretati nel senso che essi non ostano alla possibilità di consentire agli offerenti di sanare la loro situazione e di ottemperare agli obblighi previsti dalla normativa nazionale in materia entro un termine stabilito dall’amministrazione aggiudicatrice“.
L’adunanza plenaria ha ritenuto illegittimo il comportamento della stazione appaltante che non aveva attivato il dovuto meccanismo espulsivo nel caso in cui l’impresa, risultata poi aggiudicataria, abbia “del tutto omesso nella sua offerta economica l’indicazione dei costi della manodopera come previsto dall’art. 95 del d. lgs. n. 50 del 2016 e dalla lex specialis” e, solo successivamente alla notifica del ricorso introduttivo del giudizio da parte della seconda classificata, abbia chiesto all’aggiudicataria, in sede di soccorso istruttorio, chiarimenti in ordine ai “costi del personale al fine di verificare il rispetto di quanto previsto dall’art. 97, comma 5 lett. d), del d. lgs. n. 50 del 2016“.
E ha aggiunto come, nella specie, l’appellante, depositando la documentazione della propria offerta, aveva provato di avere rispettato gli oneri dichiarativi di cui all’art. 95, comma 10, del d.lgs. n. 50/2016, “smentendo così per tabulas l’esistenza di una situazione impeditiva della dichiarazione“.
Resta un dubbio nel ragionamento seguito dall’adunanza plenaria.
L’art. 95, comma 10, del d.lgs. n. 50/2016 prevede l’obbligo di indicare, nell’offerta economica, i costi della manodopera ma non lo prescrive a pena di esclusione[6]. Nella fattispecie, come riferito nelle sentenze della plenaria, il primo giudice aveva evidenziato che l’incombente non era previsto “quale motivo di esclusione né dal bando né dagli altri documenti di gara“. Né la plenaria ritiene diversamente, limitandosi ad affermare che l’indicazione dei costi della manodopera era richiesta dall’art. 95 del d.lgs. n. 50/2016 e dalla lex specialis, ma non dicendo che era prevista a pena di esclusione.
Ma se l’esclusione non è prevista né dalla norma di legge da applicare – che individua solo un obbligo senza indicare le conseguenze del suo inadempimento – né dalla lex specialis di gara, cade il presupposto stesso per l’applicazione del principio alla fattispecie. Presupposto costituito dalla circostanza che l’incombente e la conseguente possibilità di esclusione siano chiaramente previsti dalla normativa nazionale relativa alle procedure di appalti pubblici, espressamente richiamata nella documentazione di gara. E comunque, se l’adempimento non è previsto a pena di esclusione dalla lex specialis di gara, secondo giurisprudenza pacifica, alla stazione appaltante non è consentito escludere, mentre è ammesso il soccorso istruttorio[7].
4. Accesso documentale e accesso civico generalizzato: Cons. Stato, ad. plen., 2 aprile 2020, n. 10.
Il secondo classificato in una gara per l’aggiudicazione di un appalto di servizi presentava, alla stazione appaltante, domanda di accesso avente a oggetto i documenti relativi all’esecuzione dell’appalto. L’istante dichiarava di avere interesse a verificare l’esistenza dei presupposti per un’eventuale risoluzione per inadempimento la quale, se intervenuta, avrebbe comportato l’aggiudicazione in proprio favore.
La domanda veniva respinta dall’amministrazione dicendo che, se si fosse trattato di normale accesso, non vi sarebbe stato un interesse qualificato se non quello a un controllo generalizzato sull’operato dell’amministrazione; mentre, se si fosse trattato di accesso civico, esso non sarebbe ammesso nel settore dei contratti pubblici.
Il Tar respingeva il ricorso.
L’adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha affermato i seguenti principi:
“a) la pubblica amministrazione ha il potere-dovere di esaminare l’istanza di accesso agli atti e ai documenti pubblici, formulata in modo generico o cumulativo dal richiedente senza riferimento ad una specifica disciplina, anche alla stregua della disciplina dell’accesso civico generalizzato, a meno che l’interessato non abbia inteso fare esclusivo, inequivocabile, riferimento alla disciplina dell’accesso documentale, nel qual caso essa dovrà esaminare l’istanza solo con specifico riferimento ai profili della l. n. 241 del 1990, senza che il giudice amministrativo, adìto ai sensi dell’art. 116 c.p.a., possa mutare il titolo dell’accesso, definito dall’originaria istanza e dal conseguente diniego adottato dalla pubblica amministrazione all’esito del procedimento;
b) è ravvisabile un interesse concreto e attuale, ai sensi dell’art. 22 della l. n. 241 del 1990, e una conseguente legittimazione, ad avere accesso agli atti della fase esecutiva di un contratto pubblico da parte di un concorrente alla gara, in relazione a vicende che potrebbero condurre alla risoluzione per inadempimento dell’aggiudicatario e quindi allo scorrimento della graduatoria o alla riedizione della gara, purché tale istanza non si traduca in una generica volontà da parte del terzo istante di verificare il corretto svolgimento del rapporto contrattuale;
c) la disciplina dell’accesso civico generalizzato, fermi i divieti temporanei e/o assoluti di cui all’art. 53 del d. lgs. n. 50 del 2016, è applicabile anche agli atti delle procedure di gara e, in particolare, all’esecuzione dei contratti pubblici, non ostandovi in senso assoluto l’eccezione del comma 3 dell’art. 5-bis del d. lgs. n. 33 del 2013 in combinato disposto con l’art. 53 e con le previsioni della l. n. 241 del 1990, che non esenta in toto la materia dall’accesso civico generalizzato, ma resta ferma la verifica della compatibilità dell’accesso con le eccezioni relative di cui all’art. 5-bis, comma 1 e 2, a tutela degli interessi-limite, pubblici e privati, previsti da tale disposizione, nel bilanciamento tra il valore della trasparenza e quello della riservatezza“.
Alla fine l’adunanza plenaria ha respinto l’appello con riguardo alla richiesta di accesso documentale ex l. 7 agosto 1990, n. 241 e, con riguardo all’istanza di accesso civico, ha restituito l’affare alla sezione rimettente per ogni definitiva statuizione.
Per cui la pronuncia è di rilevo per avere affermato:
a) la possibilità di proporre entrambe le istanze di accesso, documentale e civico generalizzato, anche uno actu;
b) la legittimazione degli operatori economici, che abbiano preso parte alla gara, ad accedere anche agli atti della fase esecutiva, purché abbiano un interesse attuale, concreto e diretto a conoscere tali atti;
c) non è ammissibile un’istanza di accesso documentale con finalità meramente esplorativa;
d) l’accesso civico generalizzato è applicabile anche alla materia dei contratti pubblici, ma con le eccezioni relative di cui all’art. 5-bis, commi 1 e 2, del d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33.
5. Decorrenza del termine per ricorrere: Cons. Stato, ad. plen., 2 luglio 2020, n. 12.
L’adunanza plenaria del Consiglio di Stato premette che la regola generale in tema di decorrenza del termine per ricorrere si rinviene nell’art. 41, comma 2, prima parte, del c.p.a., secondo cui “qualora sia proposta azione di annullamento, il ricorso deve essere notificato, a pena di decadenza, alla pubblica amministrazione che ha emesso l’atto impugnato e ad almeno uno dei controinteressati che sia individuato nell’atto stesso entro il termine previsto dalla legge, decorrente dalla notificazione, comunicazione o piena conoscenza, ovvero, per gli atti di cui non sia richiesta la notificazione individuale, dal giorno in cui sia scaduto il termine della pubblicazione se questa sia prevista dalla legge o in base alla legge“.
Aggiunge poi che, in tema di impugnazione degli atti delle gare d’appalto, si applica la norma speciale data dall’art. 120, comma 5, c.p.a., il quale dispone che “per l’impugnazione degli atti di cui al presente articolo il ricorso, principale o incidentale e i motivi aggiunti, anche avverso atti diversi da quelli già impugnati, devono essere proposti nel termine di trenta giorni, decorrente, per il ricorso principale e per i motivi aggiunti, dalla ricezione della comunicazione di cui all’articolo 79 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, o, per i bandi e gli avvisi con cui si indice una gara, autonomamente lesivi, dalla pubblicazione di cui all’articolo 66, comma 8, dello stesso decreto; ovvero, in ogni altro caso, dalla conoscenza dell’atto“.
L’adunanza, quindi, dà atto che la giurisprudenza[8] ha affermato la perdurante rilevanza del richiamo ancora contenuto nell’art. 120, comma 5, del c.p.a., ma da intendere rivolto non più all’art. 79 (“Informazioni circa i mancati inviti, le esclusioni e le aggiudicazioni“) del primo codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 163/2006) ormai abrogato, ma all’art. 76 (“Informazione dei candidati e degli offerenti“) del secondo codice.
Questi i principi affermati dalla plenaria:
“a) il termine per l’impugnazione dell’aggiudicazione decorre dalla pubblicazione generalizzata degli atti di gara, tra cui devono comprendersi anche i verbali di gara, ivi comprese le operazioni tutte e le valutazioni operate dalle commissioni di gara delle offerte presentate, in coerenza con la previsione contenuta nell’art. 29 del d.lgs. n. 50 del 2016;
b) le informazioni previste, d’ufficio o a richiesta, dall’art. 76 del d.lgs. n. 50 del 2016, nella parte in cui consentono di avere ulteriori elementi per apprezzare i vizi già individuati ovvero per accertarne altri, consentono la proposizione non solo dei motivi aggiunti, ma anche di un ricorso principale;
c) la proposizione dell’istanza di accesso agli atti di gara comporta la ‘dilazione temporale’ quando i motivi di ricorso conseguano alla conoscenza dei documenti che completano l’offerta dell’aggiudicatario ovvero delle giustificazioni rese nell’ambito del procedimento di verifica dell’anomalia dell’offerta;
d) la pubblicazione degli atti di gara, con i relativi eventuali allegati, ex art. 29 del decreto legislativo n. 50 del 2016, è idonea a far decorrere il termine di impugnazione;
e) sono idonee a far decorrere il termine per l’impugnazione dell’atto di aggiudicazione le forme di comunicazione e di pubblicità individuate nel bando di gara ed accettate dai partecipanti alla gara, purché gli atti siano comunicati o pubblicati unitamente ai relativi allegati“.
È evidente che l’adunanza plenaria deve rimediare a una falla dell’ordinamento.
In un campo di estrema delicatezza, quale la decorrenza del termine per impugnare, ossia l'”abc” della tutela giurisdizionale – assieme alla giurisdizione e alla competenza – la legge fa riferimento a norme abrogate[9]. Il cui contenuto trova parziale corrispondenza in altre norme del nuovo codice dei contratti pubblici, che però non hanno il medesimo disposto. Ciò accade malgrado la norma (ossia l’art. 120, comma 5, del c.p.a.), precedente al nuovo codice dei contratti pubblici, sia stata già modificata da normativa successiva a quest’ultimo[10].
Il che dimostra il basso livello della qualità della produzione legislativa e la poca attenzione a problemi rilevanti, che potrebbero essere risolti con semplici operazioni di coordinamento legislativo. A tal fine l’adunanza plenaria ha trasmesso copia della sentenza alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, per le conseguenti modificazioni legislative[11]; al momento senza esito alcuno.
La falla dell’ordinamento, tuttavia, influenza lo stesso tentativo della plenaria. Lo sforzo è encomiabile ma, nella vis ricostruttiva, non si riesce a delineare un quadro chiaro, semplice e completo del sistema dei termini di impugnativa; che, invece, appare complesso, soprattutto perché “affaticato” dalle difficoltà conseguenti alla ricerca di un plausibile scenario alternativo a quello, del tutto singolare, di norme vigenti che si richiamano a norme abrogate.
6. Avvalimento: Cons. Stato, ad. plen., 9 luglio 2020, n. 13.
Nella fattispecie esaminata dall’adunanza plenaria del Consiglio di Stato si trattava di una gara indetta e aggiudicata nel 2012 e la norma da applicare, ratione temporis, era data dall’art. 53, comma 3, del d.lgs. n. 163/2006[12].
L’aggiudicataria si era servita di un progettista esterno il quale, non avendo i requisiti, aveva utilizzato l’avvalimento. La plenaria dispone l’annullamento dell’aggiudicazione e afferma il seguente principio di diritto:
“il progettista indicato, nell’accezione e nella terminologia dell’articolo 53, comma 3, del decreto legislativo n. 163 del 2006, va qualificato come professionista esterno incaricato di redigere il progetto esecutivo. Pertanto non rientra nella figura del concorrente né tanto meno in quella di operatore economico, nel significato attribuito dalla normativa interna e da quella dell’Unione europea. Sicché non può utilizzare l’istituto dell’avvalimento per la doppia ragione che esso è riservato all’operatore economico in senso tecnico e che l’avvalimento cosiddetto “a cascata” era escluso anche nel regime del codice dei contratti pubblici, ora abrogato e sostituito dal decreto legislativo n. 50 del 2016, che espressamente lo vieta“.
Qui il tempo passa più veloce della tutela giurisdizionale, in modo anomalo in un campo, invece, in cui il sistema prevede procedure accelerate (artt. 120 e 119 c.p.a.). Così che il principio di diritto viene affermato con riguardo a una norma non più vigente e consegue anche a un divieto – quello dell’avvalimento a cascata[13] – all’epoca non previsto (anche se già di dubbia ammissibilità per la giurisprudenza maggioritaria) ma espressamente prescritto dalla normativa successiva di cui al codice del d.lgs. n. 50/2016[14].
La seconda ratio esposta nel principio di diritto non serve alla soluzione della controversia ed è ridondante. Una volta affermato che il progettista non rientra nella nozione di operatore economico di cui all’art. 53, comma 3, del d.lgs. n. 163/2006, e tanto meno in quella di concorrente, ne consegue di per sé sola l’impossibilità di ricorrere all’avvalimento, indipendentemente da ogni questione inerente l’ammissibilità dell’avvalimento a cascata.
Nel principio di diritto affermato vi è così, in parte, una sorta di obiter dictum, che, invece, ne dovrebbe rimanere estraneo.
7. Obblighi dichiarativi: Cons. Stato, ad. plen., 28 agosto 2020, n. 16.
La questione rimessa all’adunanza plenaria del Consiglio di Stato riguardava l’applicazione della normativa del codice dei contratti pubblici in tema di esclusione dalla partecipazione alla procedura di appalto, di cui all’art. 80 del d.lgs. n. 50/2016; ipotesi foriera della maggior parte del contenzioso nella materia. Era relativa, in particolare, “alla portata, alla consistenza, alla perimetrazione ed agli effetti degli obblighi dichiarativi gravanti sugli operatori economici in sede di partecipazione alla procedura evidenziale, con particolare riguardo ai presupposti per l’imputazione della falsità dichiarativa, ai sensi di cui alle lettere c) e f-bis del comma 5 dell’art. 80 del d. lgs. n. 50/2016“.
Il Tar, nelle due sentenze impugnate, aveva respinto i ricorsi proposti da due imprese avverso la loro esclusione in una procedura di affidamento di lavori.
Si trattava dell’applicazione dell’art. 80, comma 5, lett. c) e f-bis), del d.lgs. n. 50/2016, ma nel testo vigente immediatamente prima della modifica apportata dall’art. 5, comma 1, del d.l. 14 dicembre 2018, n. 135, convertito, con modificazioni, dalla l. 11 febbraio 2019, n. 12[15], secondo cui:
“5. Le stazioni appaltanti escludono dalla partecipazione alla procedura d’appalto un operatore economico in una delle seguenti situazioni, anche riferita a un suo subappaltatore nei casi di cui all’articolo 105, comma 6, qualora:
&&
c) la stazione appaltante dimostri con mezzi adeguati che l’operatore economico si è reso colpevole di gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o affidabilità. Tra questi rientrano: le significative carenze nell’esecuzione di un precedente contratto di appalto o di concessione che ne hanno causato la risoluzione anticipata, non contestata in giudizio, ovvero confermata all’esito di un giudizio, ovvero hanno dato luogo ad una condanna al risarcimento del danno o ad altre sanzioni; il tentativo di influenzare indebitamente il processo decisionale della stazione appaltante o di ottenere informazioni riservate ai fini di proprio vantaggio; il fornire, anche per negligenza, informazioni false o fuorvianti suscettibili di influenzare le decisioni sull’esclusione, la selezione o l’aggiudicazione ovvero l’omettere le informazioni dovute ai fini del corretto svolgimento della procedura di selezione;
&.
f-bis) l’operatore economico che presenti nella procedura di gara in corso e negli affidamenti di subappalti documentazione o dichiarazioni non veritiere;“[16].
Ora il testo vigente è il seguente:
“5. Le stazioni appaltanti escludono dalla partecipazione alla procedura d’appalto un operatore economico in una delle seguenti situazioni, anche riferita a un suo subappaltatore nei casi di cui all’articolo 105, comma 6, qualora:
&.
c) la stazione appaltante dimostri con mezzi adeguati che l’operatore economico si è reso colpevole di gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o affidabilità;
c-bis) l’operatore economico abbia tentato di influenzare indebitamente il processo decisionale della stazione appaltante o di ottenere informazioni riservate a fini di proprio vantaggio oppure abbia fornito, anche per negligenza, informazioni false o fuorvianti suscettibili di influenzare le decisioni sull’esclusione, la selezione o l’aggiudicazione, ovvero abbia omesso le informazioni dovute ai fini del corretto svolgimento della procedura di selezione;
&..
f-bis) l’operatore economico che presenti nella procedura di gara in corso e negli affidamenti di subappalti documentazione o dichiarazioni non veritiere;“.
La plenaria afferma i seguenti principi di diritto:
“– la falsità di informazioni rese dall’operatore economico partecipante a procedure di affidamento di contratti pubblici e finalizzata all’adozione dei provvedimenti di competenza della stazione appaltante concernenti l’ammissione alla gara, la selezione delle offerte e l’aggiudicazione, è riconducibile all’ipotesi prevista dalla lettera c) [ora c-bis)] dell’art. 80, comma 5, del codice dei contratti di cui al decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50;
– in conseguenza di ciò la stazione appaltante è tenuta a svolgere la valutazione di integrità e affidabilità del concorrente, ai sensi della medesima disposizione, senza alcun automatismo espulsivo;
– alle conseguenze ora esposte conduce anche l’omissione di informazioni dovute ai fini del corretto svolgimento della procedura di selezione, nell’ambito della quale rilevano, oltre ai casi oggetto di obblighi dichiarativi predeterminati dalla legge o dalla normativa di gara, solo quelle evidentemente incidenti sull’integrità ed affidabilità dell’operatore economico;
– la lettera f-bis) dell’art. 80, comma 5, del codice dei contratti pubblici ha carattere residuale e si applica in tutte le ipotesi di falso non rientranti in quelle previste dalla lettera c) [ora c-bis)] della medesima disposizione“.
Anche in questa ipotesi i principi affermati dalla plenaria sono destinati a un’applicazione temporale, ossia con riferimento alle procedure i cui bandi o avvisi, con i quali si indicono le gare, sono stati pubblicati successivamente alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 50/2016 ma prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 135/2018; mentre, in caso di contratti senza pubblicazione di bandi o avvisi, va fatto riferimento alla data di invio degli inviti a presentare le offerte[17].
La normativa vigente [lett. c-bis) del comma 5 del citato art. 80], infatti, scollega le “informazioni false o fuorvianti suscettibili di influenzare le decisioni sull’esclusione, la selezione o l’aggiudicazione“, così come l’omissione delle “informazioni dovute ai fini del corretto svolgimento della procedura di selezione“, dall’ipotesi di “gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la&integrità o affidabilità” dell’operatore economico. Quest’ultima diviene (nella lett. c del comma 5 dell’art. 80) un’ipotesi a sé stante di esclusione, da dimostrare dalla stazione appaltante “con mezzi adeguati“, mentre il resto dà luogo a una diversa ipotesi di esclusione.
Cambia anche la valutazione dell’amministrazione, pur sempre necessaria. Ma nella prima ipotesi (lett. c), è più penetrante e diretta alla dimostrazione dei gravi illeciti professionali; e non in quanto tali, ma solo se in grado di “rendere dubbia la&integrità o affidabilità” dell’operatore economico. Nella seconda ipotesi (lett. c-bis) la valutazione dell’amministrazione è diretta all’individuazione della falsità o del carattere fuorviante delle informazioni rese dall’operatore economico e della loro idoneità a influenzare le sue decisioni su esclusione, selezione e aggiudicazione; senza alcun legame con i “gravi illeciti professionali“. Nel caso di informazioni omesse, una volta accertata l’omissione, la valutazione riguarda la loro doverosità, non in senso assoluto ma “ai fini del corretto svolgimento della procedura di selezione“.
In particolare, la valutazione dell’integrità e affidabilità del concorrente da parte della stazione appaltante è dovuta in forza dell’attuale testo della lett. c) del comma 5 del citato art. 80, che ha ripreso il precedente testo della medesima lettera senza l’elencazione delle tre ipotesi di gravi illeciti professionali; elencazione avente carattere meramente esemplificativo[18]. Ma una siffatta valutazione non è più prevista nell’ipotesi di cui all’attuale lett. c-bis) del comma 5 del citato art. 80.
In questo modo i confini tra le fattispecie di esclusione previste dalla normativa vigente, ossia dalle lett. c-bis) e f-bis) del comma 5 dell’art. 80 diventano più labili, riguardando entrambe informazioni false, e quindi non veritiere, senza alcun collegamento con i gravi illeciti professionali. Con il dubbio conseguente sull’utilità di una loro distinzione, che potrebbe invece mantenere una sua ratio nel caso dell’omissione dichiarativa se la si ritenesse non equiparabile alla dichiarazione falsa di cui alla lett. f-bis) del comma 5 dell’art. 80. In questo senso si è orientata la giurisprudenza precedente alla decisione della plenaria[19].
8. Nullità: Cons. Stato, ad. plen., 16 ottobre 2020, n. 22.
Nella fattispecie esaminata dall’adunanza plenaria del Consiglio di Stato, la clausola di un disciplinare in una gara di appalto di lavori prevedeva, a pena di esclusione, il possesso dell’attestazione SOA in capo all’impresa ausiliata, senza possibilità, quindi, di ricorrere all’avvalimento.
Tale clausola viene ritenuta illegittima dalla plenaria, assieme al conseguente provvedimento di esclusione, poiché in contrasto con gli artt. 84 e 89, commi 1 e 4, del d.lgs. n. 50/2016, che non escludono la possibilità dell’avvalimento dell’attestazione SOA se non nel caso in cui i lavori dovessero essere eseguiti direttamente dall’impresa ausiliata; caso non esistente nella fattispecie.
Ma la clausola è nulla poiché prevede un requisito ulteriore rispetto a quelli espressamente previsti dagli artt. 80 e 83 del codice dei contratti pubblici. Infatti, ex art. 83, comma 8, penultimo e ultimo periodo, “I bandi e le lettere di invito non possono contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione rispetto a quelle previste dal presente codice e da altre disposizioni di legge vigenti. Dette prescrizioni sono comunque nulle“. È il cosiddetto principio di tassatività delle clausole di esclusione.
Al riguardo, in tema di termine ad agire, viene in rilievo l’art. 31, comma 4, del c.p.a., secondo cui “La domanda volta all’accertamento delle nullità previste dalla legge si propone entro il termine di decadenza di centottanta giorni. La nullità dell’atto può sempre essere opposta dalla parte resistente o essere rilevata d’ufficio dal giudice. Le disposizioni del presente comma non si applicano alle nullità di cui all’articolo 114, comma 4, lettera b), per le quali restano ferme le disposizioni del Titolo I del Libro IV.“.
Questi i principi affermati dalla plenaria:
“a) la clausola del disciplinare di gara che subordini l’avvalimento dell’attestazione SOA alla produzione, in sede di gara, dell’attestazione SOA anche della stessa impresa ausiliata si pone in contrasto con gli artt. 84 e 89, comma 1, del d. lgs. n. 50 del 2016 ed è pertanto nulla ai sensi dell’articolo 83, comma 8, ultimo periodo, del medesimo decreto legislativo;
b) la nullità della clausola ai sensi dell’art. 83, comma 8, del d. lgs. n. 50 del 2016 configura un’ipotesi di nullità parziale limitata alla clausola, da considerare non apposta, che non si estende all’intero provvedimento, il quale conserva natura autoritativa;
c) i provvedimenti successivi adottati dall’amministrazione, che facciano applicazione o comunque si fondino sulla clausola nulla, ivi compresi il provvedimento di esclusione dalla gara o la sua aggiudicazione, vanno impugnati nell’ordinario termine di decadenza, anche per far valere l’illegittimità derivante dall’applicazione della clausola nulla“.
Di rilievo l’affermazione della plenaria la quale ritiene che, “al cospetto della nullità della clausola escludente contra legem del bando di gara – non vi sia l’onere per l’impresa di proporre alcun ricorso: tale clausola – in quanto inefficace e improduttiva di effetti – si deve intendere come ‘non apposta’, a tutti gli effetti di legge“.
Si distingue, quindi, una nullità relativa – quella della clausola del bando – per la quale non vi è bisogno di agire con l’azione di nullità nel termine di centottanta giorni, da una nullità assoluta, per la quale invece si applicano l’art. 31, comma 4, del c.p.a. e l’art. 21-septies della l. n. 241/1990[20] in tema di nullità del provvedimento amministrativo. Nel primo caso la mancanza della proposizione di un’azione di nullità impedisce comunque alla stazione appaltante di applicare la clausola.
Gli atti applicativi della clausola nulla, che in quanto tale non produce effetti, sono però autoritativi e vanno impugnati nei termini di cui all’art. 120 c.p.a.
Quello che non convince del tutto è che nel diritto amministrativo viga una regola particolare per cui la nullità/inefficacia dell’atto presupposto, o meglio della clausola presupposta, non comporti anche, per derivazione, la nullità/inefficacia dell’atto applicativo ma solo la sua annullabilità. Mentre un vizio di un dato tipo dovrebbe viziare allo stesso modo anche l’atto che ne dà applicazione.
A maggior ragione se vi è un rapporto di presupposizione necessaria – come tra la clausola del bando e il successivo provvedimento applicativo – che comporta, di conseguenza, l’invalidità derivata con effetto caducante sull’atto a valle[21]. E se l’invalidità dell’atto presupposto è la nullità, anche l’atto conseguenziale dovrebbe essere nullo senza bisogno di apposita impugnazione ma rilevabile d’ufficio dal giudice. Evidentemente il ragionamento seguito si regge sulla circostanza per cui la nullità costituisce un numerus clausus (art. 21-septies della l. n. 241/1990), mentre in tutti gli altri casi si è in presenza di annullabilità (art. 21-octies della l. n. 241/1990) da far valere entro termini di decadenza.
Si percepisce un’esigenza di tutela giurisdizionale, liberando l’interessato dall’onere di impugnare nei termini la clausola del bando – avente carattere escludente e, quindi, con onere di immediata impugnazione – consentendo di pervenire alla nullità/inefficacia della stessa impugnando direttamente solo l’atto applicativo. Ma la costruzione di sistema è un po’ faticosa e non del tutto coerente.
9. Considerazioni finali.
La certezza del diritto, con riguardo alle regole e alla loro applicazione, costituisce ormai uno dei principi del diritto europeo e non rappresenta più solo esigenza dell’ordinamento giuridico interno.
Il rafforzamento del valore del precedente giudiziale conferisce nuova linfa alla funzione nomofilattica e rende sempre più rilevante l’attività svolta dall’adunanza plenaria del Consiglio di Stato nell’ambito della giurisdizione amministrativa, anche se ormai in tandem con la CGUE.
Accade però che in alcune materie, quale quella dei contratti pubblici, le modifiche normative assumano carattere alluvionale, a detrimento della certezza del diritto e della sedimentazione nell’applicazione delle regole.
Le modifiche normative si rincorrono tra di loro in maniera così rapida che l’adunanza plenaria afferma principi che possono trovare applicazione solo in una fase temporale limitata del contenzioso e non sono più in grado di svolgere quella che è l’essenza della nomofilachia; indirizzare la futura attività dell’amministrazione. I principi mantengono, invece, rilevanza a fini di condurre a uniformità l’applicazione del diritto da parte dei giudici, anche se alle volte per un periodo temporale limitato del contenzioso.
Il tecnicismo e la parcellizzazione della normativa in materia di contratti pubblici limita, inoltre, gli interventi di grande respiro dell’adunanza plenaria, spesso chiamata a chiarire norme oscure o a risolvere problemi inerenti questioni del tutto peculiari. Essa, invece, in un momento pioneristico del diritto amministrativo, ma nemmeno troppo lontano – suppergiù sino all’inizio degli anni ’90 – ha costruito i principi e le regole del procedimento amministrativo e del processo, che poi sono confluiti nella l. n. 241/1990 e nel c.p.a. Erano altri tempi non comparabili a quelli attuali di ipernormazione. Il sistema normativo era scarno e non ancora così frastagliato.
Quello che si nota è comunque lo sforzo ricostruttivo che però, alcune volte, resta invischiato in una specie di palude normativa, dalla quale la plenaria non riesce a venirne completamente fuori con chiarezza e semplicità argomentative, nonché coerenza e logicità di sistema.
Il caos normativo finisce per incidere sulle stesse decisioni dell’adunanza plenaria, che anziché fornire soluzioni possono dare adito a problemi ulteriori.
La complessità e l’eterogeneità delle fonti, assieme al continuo divenire della normativa nella materia dei contratti pubblici, rendono difficile, se non impossibile, la stabilità delle regole e incentivano il contenzioso. Il compito dell’adunanza plenaria diventa così sempre più necessario per la risoluzione dei contrasti tra le sezioni e meno rilevante nella funzione di indirizzo dell’attività amministrativa.
È un effetto a catena che per ora è in accelerazione. Allorquando la plenaria tornerà più spesso a indirizzare l’attività dell’amministrazione forse sarà il segnale di una maggiore stabilità delle regole. Per ora il panorama non è dei più confortanti; ma “Spes ultima dea“.
In tema di contratti pubblici: R. DE NICTOLIS, Rassegna di giurisprudenza monotematica – L’adunanza plenaria e i pubblici appalti dopo l’entrata in vigore del codice del processo amministrativo (aggiornata a dicembre 2013); Rassegna di giurisprudenza monotematica – L’adunanza plenaria e i pubblici appalti dopo l’entrata in vigore del codice del processo amministrativo (aggiornata a dicembre 2015); Rassegna monotematica di giurisprudenza – 100 anni di Adunanze plenarie sui pubblici appalti (1919-2019) e verifica di perdurante attualità alla luce del codice dei contratti pubblici n. 50/2016. Tutti in www.giustizia-amministrativa.it.
Si segnalano poi: M. CORRADINO, Il diritto amministrativo nelle pronunce dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, Atena Alta Formazione, 2015; S. TOSCHEI, L’attività nomofilattica del Consiglio di Stato – Commentario alle sentenze dell’Adunanza plenaria pubblicate nel 2017, nel 2016, nel 2014 e nel 2015, nel 2013, nel 2012, nel 2011, Direkta Edizioni.
Sulla funzione nomofilattica dell’adunanza plenaria, S. OGGIANU, Giurisdizione amministrativa e funzione nomofilattica – L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, Cedam, 2011.
“1. La sezione cui è assegnato il ricorso, se rileva che il punto di diritto sottoposto al suo esame ha dato luogo o possa dare luogo a contrasti giurisprudenziali, con ordinanza emanata su richiesta delle parti o d’ufficio può rimettere il ricorso all’esame dell’adunanza plenaria. L’adunanza plenaria, qualora ne ravvisi l’opportunità, può restituire gli atti alla sezione.
2. Prima della decisione, il presidente del Consiglio di Stato, su richiesta delle parti o d’ufficio, può deferire all’adunanza plenaria qualunque ricorso, per risolvere questioni di massima di particolare importanza ovvero per dirimere contrasti giurisprudenziali.
3. Se la sezione cui è assegnato il ricorso ritiene di non condividere un principio di diritto enunciato dall’adunanza plenaria, rimette a quest’ultima, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso.
4. L’adunanza plenaria decide l’intera controversia, salvo che ritenga di enunciare il principio di diritto e di restituire per il resto il giudizio alla sezione remittente.
5. Se ritiene che la questione è di particolare importanza, l’adunanza plenaria può comunque enunciare il principio di diritto nell’interesse della legge anche quando dichiara il ricorso irricevibile, inammissibile o improcedibile, ovvero l’estinzione del giudizio. In tali casi, la pronuncia dell’adunanza plenaria non ha effetto sul provvedimento impugnato“.