LUIGI OLIVERI
Le limitazioni alla potestà regolamentare degli enti locali in materia di assunzione del personale
La legge 289/2002 mette bene in luce sotto gli occhi di tutti che la supposta potestà regolamentare degli enti locali in materia di organizzazione e, dunque, anche di disciplina del rapporto di lavoro – dalle procedure di reclutamento alle modalità di assunzione – di fatto (oltre che di diritto) non sussiste.
Una lettura eccessivamente ottimistica ed estensiva dell'articolo 117, comma 6, della Costituzione ha indotto non pochi interpreti a ricavarne dal testo la fissazione di una riserva costituzionale alla potestà regolamentare dell'ente della disciplina organizzativa degli enti locali. In altre parole, l'articolo 117, comma 6, della Costituzione avrebbe rimesso esclusivamente alla fonte regolamentare locale la potestà di fissare alcuni elementi fondamentali del rapporto di lavoro alle dipendenze degli enti locali. Dunque, i regolamenti di organizzazione, non più coperti solo dalla normativa primaria di cui all'articolo 89 del D.lgs 267/2000, ma anche dalla riserva costituzionale avrebbero potuto andare oltre il compito di specificare le norme e fissare in via assolutamente autonoma gli aspetti delle modalità di selezione, delle modalità di costituzione del rapporto di lavoro, delle modalità con le quali conferire incarichi gestionali e di attribuire le relative responsabilità, comprendendo anche una possibilità di prevedere per via regolamentare deleghe ed altre modalità di disciplina di secondo grado di tali poteri organizzativi.
Tuttavia, la disciplina contenuta nell'articolo 34 della legge 289/2002 chiarisce che, almeno il legislatore statale, non attribuisce all'articolo 117, comma 6, della Costituzione la portata suggerita da parte di alcuni.
Infatti, l'articolo 34 citato ascrive direttamente alla potestà legislativa (per di più statale) i seguenti aspetti:
1) la determinazione dei parametri economici che consentono o meno di procedere alle assunzioni;
2) le regole, che saranno fissate da successivi decreti del Presidente del consiglio, sulla base delle quali gli enti virtuosi potranno assumere a tempo indeterminato;
3)i presupposti per le assunzioni a tempo determinato per gli enti che non rispettino il patto di stabilità;
4) le regole per la determinazione delle dotazioni organiche, sempre subordinate ai futuri decreti del Presidente del consiglio.
Si tratta, come si nota, di pesantissime limitazioni all'autonomia decisionale e provvedimentale degli enti locali. Ai quali, pertanto, viene sottratta qualsiasi potestà di disciplinare tali materie secondo modalità differenti, anche perchè le assunzioni in violazioni delle regole di cui all'articolo 34 sono sanzionate dalla pena della nullità, che probabilmente investe anche le assunzioni effettuate dagli enti virtuosi non rispettose dei criteri e dei limiti imposti dal comma 11 dell'articolo 34 della legge finanziaria e dai successivi decreti del Presidente del consiglio.
Di fatto, dunque, lo spazio normativo che taluni hanno creduto derivare dall'articolo 117, comma 6, della Costituzione ai regolamenti di organizzazione è stato azzerato.
Occorre, però, verificare se questo dato, comunque molto significativo del modo col quale il Parlamento nazionale vede la riforma della Costituzione, trovi fondamento nell'ordinamento.
In realtà, tutte le disposizioni della legge finanziaria tendenti a limitare o guidare la capacità di spesa degli altri enti territoriali si fonda sulla materia del coordinamento della finanza pubblica, che, tuttavia, appartiene alla legislazione di tipo concorrente e non esclusiva. Sicchè lo Stato potrebbe disporre solo principi generali, mentre la legge regionale dovrebbe disporre il dettaglio, comprendendo anche la possibilità di demandare a regolamenti, a loro volta regionali, il completamento della fattispecie.
E' abbastanza chiaro, invece, che la legge 289/2002 lungi dal limitarsi a disporre principi, determina in modo assolutamente analitico anche il dettaglio, ad esempio quando fissa il limite della spesa che gli enti locali possono sostenere per le assunzioni a tempo determinato, esaurendo completamente ogni ulteriore spazio normativo. O, ancora, quando fissa un criterio generale per limitare le assunzioni anche nei riguardi degli enti virtuosi, ma demandando il completamento di tali criteri a un regolamento, per di più statale e non regionale. Prevedendo, così, una norma in chiarissimo contrasto con l'articolo 117, comma 6, della Costituzione, nella parte in cui prevede che la potestà regolamentare spetta allo Stato solo nelle materie di legislazione esclusiva statale, mentre spetta alle regioni in ogni altra materia (salva la potestà regolamentare degli enti locali per la disciplina dell'organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite).
Poiché, come si è detto, il coordinamento della finanza pubblica è materia di potestà legislativa concorrente, la legge 289/2002 non avrebbe potuto riservare a regolamenti statali la disciplina di dettaglio, essendo la competenza regionale.
Come affermato in un precedente scritto [1], l'articolo 120 della Costituzione è probabilmente alla base dell'estensione del potere normativo statale oltre i confini disegnati dall'articolo 117 della carta costituzionale, poichè viene inteso in senso largo, non solo come norma che fonda il vero e proprio potere sostitutivo/sanzionatorio del Governo, ma anche una potestà normativa esclusiva dello Stato come ente di massima aggregazione della società, in grado, dunque, di intervenire a monte di possibili crepe nell'unità giuridica, economica e sociale dell'intero ordinamento.
Resta da vedere se tale tipo di interpretazione sarà ritenuta corretta dalla Consulta. Se così fosse, la portata complessiva della legge costituzionale 3/2001 sarebbe quasi posta nel nulla.
In conseguenza di ciò perderebbero certamente pregio le interpretazioni, di cui si è accennato all'inizio, che hanno ritenuto di vedere nel comma 6 dell'articolo 117 della Costituzione una riserva costituzionale alla potestà regolamentare degli enti locali.
Ma, anche prescindendo da queste analisi, si può comunque ritenere che l'eventuale incostituzionalità della legge finanziaria non operi rispetto al rapporto legge statale/regolamenti locali, ma rispetto al rapporto legge statale/leggi e regolamenti regionali.
In effetti, i regolamenti locali non dispongono di alcuna riserva di materia costituzionale. Al contrario, proprio in materia di organizzazione la fissazione generale dello spazio normativo e delle modalità per esercitarlo scaturisce da una legge ordinaria: il D.lgs 267/2000, attraverso il citato articolo 89.
Ora, come pacificamente sostenuto dalla generalità degli autori, l'entrata in vigore della legge costituzionale 3/2001 non ha determinato l'automatica abrogazione delle norme emanate nel precedente regime, con la sola eccezione delle disposizioni contenute proprio nel D.lgs 267/2000 relative ai controlli preventivi di legittimità, in quanto si trattava di norme attuative dell'articolo 130 della Costituzione, configurabile come norma ad esecuzione differita, che con detto articolo facevano corpo unico, sicchè all'abrogazione dell'uno è conseguita l'immediata abrogazione delle altre.
Dunque, l'articolo 89 del testo unico è ancora in vigore.
Ora, il comma 2 di tale norma prevede di per sé pesanti limitazioni alla potestà regolamentare in tema di organizzazione degli enti locali. Il testo è il seguente:
“La potestà regolamentare degli enti locali si esercita, tenendo conto di quanto demandato alla contrattazione collettiva nazionale, nelle seguenti materie:
a) responsabilità giuridiche attinenti ai singoli operatori nell'espletamento delle procedure amministrative;
b) organi, uffici, modi di conferimento della titolarità dei medesimi;
c) principi fondamentali di organizzazione degli uffici;
d) procedimenti di selezione per l'accesso al lavoro e di avviamento al lavoro;
e) ruoli, dotazioni organiche e loro consistenza complessiva;
f) garanzia della libertà di insegnamento ed autonomia professionale nello svolgimento dell'attività didattica, scientifica e di ricerca;
g) disciplina della responsabilità e delle incompatibilità tra impiego nelle pubbliche amministrazioni ed altre attività e casi di divieto di cumulo di impieghi e incarichi pubblici”.
Si nota che vi sono due ordini di limitazioni alla potestà regolamentare:
1) la disciplina della contrattazione collettiva;
2) l'elencazione delle materie di intervento normativo regolamentare.
Partendo da questo secondo ordine di limitazioni, appare evidente che gli enti locali, proprio perchè la Costituzione non ha riservato alla potestà regolamentare “materie”, possono disciplinare esclusivamente le materie indicate dall'articolo 89. Ogni altra restante materia, dunque, non è oggetto di disciplina regolamentare locale. Il che significa che può essere, a seconda della competenza:
1) materia di legge statale;
2) materia di legge regionale;
3) materia di regolamento statale;
4) materia di regolamento regionale;
5) materia di contrattazione collettiva nazionale.
Ad esempio, gli enti locali non possono col regolamento di organizzazione fissare una disciplina delle mansioni, riservata alla contrattazione collettiva dall'articolo 52 del D.lgs 165/2001, che, comunque, svolge funzione di norma suppletiva in caso di mancanza di una disciplina contrattuale.
Andando, adesso, a verificare brevemente l'estensione delle materie sulle quali il regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi può intervenire, si coglie ancora meglio la portata di tale norma.
Quanto alla lettera a), il regolamento, per questa parte, non può fare altro che prevedere presupposti e modalità per il conferimento di determinati “ruoli” ai dipendenti. E' un tipico atto di organizzazione che non tocca la struttura, ma stabilisce le modalità per farla funzionare. Ferma, dunque, la disciplina contrattuale delle qualifiche e delle mansioni, col regolamento si possono determinare le modalità per conferire la responsabilità del procedimento, il potere di sostituzione vicaria, la responsabilità di singole attività facenti parte di un procedimento, la determinazione dei poteri interni del responsabile del procedimento, la possibilità di istituire funzioni “trasversali”, come unità di progetto, il modo di determinare la titolarità dei ruoli nell'ambito di un progetto, i poteri esplicabili in relazione ai ruoli rivestiti.
Quanto alla lettera b), il regolamento definisce quali siano gli organi “amministrativi”, non potendo evidentemente definire gli organi di governo – previsti dalla legge, la cui disciplina è specificata dallo statuto e da altre fonti regolamentari – e dunque, quali siano le strutture di vertice, nonché il modo di conferimento della titolarità degli uffici con i quali gli organi di vertice coincidano.
Quanto alla lettera c), il regolamento di organizzazione deve fissare solo i principi generali di organizzazione, come il rispetto dei criteri di efficacia, efficienza, economicità, rispetto di standard operativi e di valutazione delle prestazioni, comunicazione interna ed esterna, collegamenti tra uffici ed organi di governo.
Quanto alla lettera d), il regolamento può prevedere una disciplina alternativa a quella di cui al Dpr 487/1994, che, in tal caso viene derogato.
Quanto alla lettera e), il regolamento come espressione della potestà organizzativa determina i ruoli ed il numero dei posti in organico.
La lettera f), in realtà, non è un contenuto del regolamento, ma un principio ispiratore.
La lettera g) consente ai regolamenti di meglio dettagliare le disposizioni contenute nell'articolo 53 del D.lgs 165/2001.
In effetti, il regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi oltre a non poter estendere la propria disciplina ad altre materie, incontra nel D.lgs 165/2001 una serie di ulteriori e pesanti limitazioni.
Tra le quali, quella di cui al precedente numero 1), quella, ovvero, derivante dalle disposizioni della contrattazione collettiva.
Alla quale il D.lgs 165/2001 demanda:
1) la disciplina generale del rapporto di lavoro, quale
determinazione dei rapporti obbligatori intercorrenti tra datore e lavoratore
pubblico (articolo 2, commi
2) la disciplina del trattamento economico e fondamentale (articolo 45);
3) la disciplina delle relazioni sindacali (articolo 40, comma 1).
Pertanto, le disposizioni regolamentari non possono estendersi a questi contenuti. Per esempio, poiché la disciplina della mobilità tra enti è trattata dal combinato disposto delle previsioni contenute nell'articolo 30 del D.lgs 165/2001 ed eventualmente nella disciplina prevista dalla contrattazione collettiva, i regolamenti di organizzazione non possono legittimamente stabilire (come, invece, spessissimo avviene), ad esempio, un tempo minimo di permanenza presso l'ente, come requisito-presupposto per chiedere la mobilità, per assoluta carenza di competenza.
Con specifico riferimento alla lettera f) dell'articolo 89, comma 2, del testo unico, occorre precisare che lo spazio normativo del regolamento di organizzazione è ulteriormente limitato dal comma 3 del medesimo articolo, a mente del quale i regolamenti di organizzazione nella definizione delle procedure per le assunzioni, fanno riferimento ai principi fissati dall'articolo 35 del D.lgs 165/2001.
Pertanto, anche se il Dpr 487/1994 è pienamente derogabile, non è possibile mediante il regolamento andare contro ai principi stabiliti dalla legge. Per questa strada, dunque, ad esempio è da considerare illegittima ogni previsione regolamentare che preveda l'accesso alla dirigenza per progressione verticale, per chiara incompatibilità ed insanabile contrasto con l'articolo 28 del D.lgs 165/2001, il quale ammette l'accesso alla dirigenza esclusivamente mediante concorso. Oltre che per ulteriore grave contrasto con la disciplina della contrattazione collettiva che disciplina l'istituto della progressione verticale solo nell'area dei livelli e non la prevede affatto per l'accesso o il transito all'area dirigenziale.
Ma, anche in mancanza di tale comma 3, si sarebbe giunti alla medesima conclusione per via interpretativa, dal momento che ai sensi dell'articolo 88 del testo unico all'ordinamento degli uffici e del personale degli enti locali, ivi compresi i dirigenti ed i segretari comunali e provinciali, si applicano le disposizioni del D.lgs 165/2001, in via immediata e diretta.
Tutto ciò rivela che il sistema posto a disciplinare l'organizzazione degli enti locali, lungi dall'essere demandato esclusivamente alla loro potestà regolamentare è e resta composto da norme di differente rango:
1) la legge;
2) la contrattazione collettiva (per volontà della legge);
3) i regolamenti statali e regionali;
4) i regolamenti locali.
E' e resta composto, perchè il quadro normativo, fin qui, non è cambiato, in quanto non sono intervenute le leggi regionali che, in effetti, potrebbero modificare di molto il quadro sopra rappresentato.
Sta di fatto, comunque, che l'intervento delle leggi regionali si limiterebbe a spostare dallo Stato alla regione la potestà legislativa, attuativa della riserva di legge di cui all'articolo 97 della Costituzione. Riserva che è relativa nel senso non che ai regolamenti, sia locali, sia statali e regionali, è consentito dettare una disciplina in merito in assenza o in contrasto con la legge, ma nel diverso e corretto senso secondo il quale la legge può stabilire i propri limiti normativi e demandare ai regolamenti (o altre fonti, non escluso, ad esempio, i contratti) il completamento o il dettaglio delle proprie previsioni di principio.
Dunque, la legge 289/2002 non pone problemi di compatibilità con la Costituzione laddove interviene sulla potestà regolamentare locale, comprimendola, come in effetti è avvenuto.
I contenuti dell'articolo 34 della legge finanziaria, ad esempio, intervengono in modo piuttosto pervasivo sui seguenti ambiti della potestà regolamentare locale:
1) il criterio di autonomia ed economicità posto alla base del regolamento di organizzazione, a mente dell'articolo 89, comma 1, del testo unico. Infatti, la fissazione dettagliata di limiti alle assunzioni finisce per porre nel nulla il principio, in quanto connette la potestà regolamentare ed organizzativa di comuni e province non a proprie determinazioni, ma ad indicazioni cogenti eterodeterminate;
2) l'autonomia nella determinazione delle dotazioni organiche. In effetti, il combinato disposto tra l'articolo 34, comma 11, della finanziaria ed i DPCM di attuazione predetermineranno criteri e modalità per il computo delle dotazioni organiche, anche in questo caso in modo eterodeterminato.
Su questo tema, pare di poter affermare che l'articolo 34 della legge finanziaria deroghi alla previsione di cui all'articolo 89, comma 5, del testo unico, che assegna agli enti locali la potestà di determinare le dotazioni organiche con i soli limiti delle capacità di bilancio: tale norma sembra assolutamente incompatibile con quella della finanziaria, che, invece, stabilisce limiti per nulla connessi alle capacità di bilancio degli enti.
Il vero tema che si pone, allora, è la verifica della compatibilità tra la legge finanziaria e la potestà legislativa regionale, da un lato, e il disposto di cui all'articolo 1, comma 4, del testo unico, dall'altro. Come è noto questa norma stabilisce che le leggi non possono introdurre deroghe al testo unico se non mediante espressa modificazione delle sue disposizioni. Tuttavia, la legge 289/2002 non ha per nulla derogato espressamente alle previsioni del testo unico, in materia di personale.
In realtà si tratta dell'ennesimo superamento di fatto di una norma, quella appunto dell'articolo 1, comma 4, del testo unico, priva di reale valore giuridico, in quanto tendente ad autoqualificare il D.lgs 267/2000 come legge rinforzata, potestà che in un sistema normativo ancora improntato per larga parte al rapporto di gerarchia è preclusa, dal momento che i reciproci rapporti tra fonti possono essere fissati solo dalla Costituzione.
La legge finanziaria, in sostanza, conferma che l'autonomia organizzativa degli enti locali non si estende, se la legge (statale e regionale) non compie un passo indietro.
Ma in tema di potestà organizzativa non è corretto riferirsi all'articolo 117, comma 6, della Costituzione. Non solo perchè esso non attribuisce una competenza esclusiva, in materia, agli enti locali; non solo perchè, di fatto, il legislatore statale dimostra di non interpretare tale norma come attributiva di tale competenza esclusiva. Ma, soprattutto, perchè l'articolo 117, comma 6, in realtà, non si riferisce alla materia dell'organizzazione.
L'espressione “potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell'organizzazione e dello svolgimento delle funzioni”, contenuta nella citata norma costituzionale va letta come un endiadi. Organizzazione e svolgimento delle funzioni sono intimamente connessi, non sono due contenuti diversi di diversi tipi di regolamenti. Il comma 6 si riferisce alla disciplina delle modalità di esercizio (organizzazione) delle funzioni di cui all'articolo 118 della Costituzione e null'altro.
La disciplina dell'organizzazione dei pubblici uffici è rimasta quella dell'articolo 97 della Costituzione, con la differenza, rispetto al precedente regime, che la riserva di legge relativa da esso prevista è, ora, esercitabile dallo Stato e dalle regioni, ciascuno per le proprie competenze.
Le compressioni, allora, alla potestà regolamentare locale derivanti dalla legge finanziaria possono essere fatte valere non in via di rivendica di uno spazio normativo regolamentare riservato agli enti locali, ma per violazione del riparto delle competenze tra legge statale e regionale.