LUIGI OLIVERI
L’individuazione dei confini che separano la funzione di indirizzo e controllo spettante agli organi di governo e la funzione gestionale spettante alla dirigenza.
Il problema dell'individuazione delle competenze degli organi gestionali, in raffronto a quelli di governo, resta una delle questioni più controverse, nonostante l'entrata in vigore del D.lgs 267/2000, che, pure, ha fortemente innovato il rapporto tra competenze della giunta e dei dirigenti.
La questione si pone perché in merito alla determinazione della linea di confine delle competenze esiste un filone interpretativo ed operativo, incline:
1)
ad assegnare allo statuto la competenza non solo di organizzare le strutture
amministrative dell'ente, ma addirittura di fissare le competenze degli organi;
2)
a ritenere necessaria un'opera di determinazione statutaria anche derogatoria
alle disposizioni del testo unico, in quanto gli organi di governo debbono avere
la possibilità di stabilire quali atti possano essere considerati gestionali e
quali non, in relazione a valutazioni anche di natura politica. Infatti, si
sostiene che atti caratterizzati da un notevole spazio di discrezionalità
politica non possono che appartenere alla sfera di competenza degli organi di
governo, eletti proprio allo scopo di esercitare dette funzioni.
Da
qui una serie di perplessità sulla reale portata del principio di separazione,
sulla sua derogabilità e sulle modalità di attuazione, con riferimento ai
singoli atti adottati dagli enti.
Questi
dubbi portano alcuni interpreti a ricondurre comunque alcuni atti, come ad
esempio le nomine fiduciarie dei professionisti o l'atto di costituzione in
giudizio, alla sfera di competenza dell'organo di governo. O quanto meno, in
base al principio che è opportuno scartare interpretazioni radicali, di vedere
di volta in volta, in base agli spazi normativi concessi allo statuto, se
assegnare in tutto o in parte simili competenze all'organo di governo o a quello
di gestione. Per tale strada si ammette implicitamente l'esistenza di un
ordinamento differenziato degli enti locali, nell'ambito del quale attraverso
l'autonomia statutaria essi determinano le competenze degli organi e, quindi,
attuano in concreto il principio di separazione, adattandolo in forma
flessibile.
Questa
corrente interpretativa è apprezzabile nel suo sforzo di far emergere i limiti
che l'attuale legislazione ancora impone ad un pieno esercizio dell'autonomia.
Ma appare fuorviante nel momento in cui nega l'esistenza di una chiara
distinzione della funzione politica da quella di governo, o, comunque, ammetta
soluzioni di mediazione, che consentano a ciascun ente di risolvere a modo suo
le presunte zone grigie di competenza.
Il
principio di separazione, come si illustrerà meglio di seguito, non può essere
considerato come un modo flessibile di distribuzione di competenze, poiché esso
è fissato come valore assoluto ed in forma rigida dalla legge. Si può, allora,
criticare il sistema vigente, ma non si possono fondatamente immaginare scenari
interpretativi fondati su teorie che non poggiano sul dato normativo positivo.
Dette
teorie hanno il difetto di lasciare sullo sfondo la risposta alla domanda
principale: agli enti locali la legge lascia un margine talmente ampio di
determinazione delle competenze degli organi? Ed esiste, in base al diritto
positivo, "un" ordinamento degli enti locali, oppure vi sono “tanti
ordinamenti" degli enti locali?
La
risposta, per chi ovviamente ne condivida le comunque pregnanti argomentazioni,
è fornita dalla sentenza del Tar Sardegna 12
giugno 2001,
supportata inoltre dal parere dell'Adunanza Generale del Consiglio di Stato del 10
giugno 1999: due fondamentali pronunce che chiariscono come le teorie "municipaliste"
o comunque propense a vedere negli statuti comunali lo strumento per introdurre
l’ordinamento differenziato si fondano più su più su argomentazioni e
ragionamenti propri della sociologia e della scienza della politica, che non su
norme di diritto vigenti.
Prima
di approfondire il tema con l'aiuto delle pronunce cui si è prima accennato,
appare necessario rispondere alla domanda posta in precedenza. E la risposta,
analizzando il diritto vigente, non può che essere negativa. Esiste un solo
ordinamento degli enti locali, così come esiste un solo ordine di ripartizione
delle competenze tra organi di governo ed organi gestionali, dettato dal
criterio della separazione, posto dagli articoli 48 e 107 del D.lgs 267/2000,
nonché dall'articolo 4 del D.lgs 165/2001.
Se
così è, allora il compito degli interpreti e degli operatori non può
consistere nel creare argomentazioni per negare ciò che la legge prevede con
cristallina limpidezza, sforzandosi comunque di individuare casi nei quali atti
gestionali siano, nonostante tutto, da assegnare agli organi di governo, in base
a ragioni di opportunità. Occorre, invece, desumere dal principio di
separazione le conseguenze attuative. Tenendo presente che un principio è tale
perché è la base di qualcosa che da esso è retta. Sicchè è rispettoso del
principio solo ciò che ne è applicazione coerente, o meglio ciò che è
effetto del principio. Altrimenti, si è in presenza di un'attuazione contraria
al principio, ammissibile solo in quanto il principio stesso (o la norma che lo
fonda) ammetta espressamente la possibilità di deroga.
Né il processo di “aziendalizzazione” dell’ente locale può giustificare l’applicazione pedissequa di modi operativi propri delle aziende private e del diritto comune. Infatti, la progressiva conformazione dell’attività amministrativa a quella privata non si è ancora conclusa nella completa assimilazione della prima nella seconda.
Sicchè
le modalità gestionali del privato non possono essere importate di peso nel
pubblico, né il diritto civile e societario può regolare l’organizzazione e
l’assetto delle competenze dei soggetti pubblici, regolati dal un’apposita
(almeno ancora oggi) normativa di settore. Quindi, i modelli privatistici
costituiscono solo un punto di riferimento, non una regola da applicare.
Guardando
l’assetto dell’organizzazione e delle competenze dei soggetti di diritto
comune, con riferimento ai poteri decisionali degli organi delle persone
giuridiche si riscontra l’esistenza di un ordinamento univoco, dettato in gran
parte dal codice civile, che consente, però, ai soggetti privati larghissimi
margini di autonomia nel determinare poteri, competenze e responsabilità dei
propri organi. In una misura che è assolutamente sconosciuta agli enti locali,
ma anche alla pubblica amministrazione nel suo complesso, per la semplice
ragione che nell'ambito del diritto comune non opera il principio della
competenza, che è invece elemento fondamentale del legittimo esercizio delle
potestà pubbliche.
Ci
si sofferma, allora, brevemente in un'analisi normativa, che non ha alcuna
pretesa di esaustività e completezza, dell'assetto istituzionale delle società,
per confermare quanto affermato prima, ovvero l’impossibilità di importare
nell’ordinamento pubblico, ed in particolare in quello degli enti locali, la
disciplina di diritto privato.
Ora,
è osservazione comune che anche i soggetti privati hanno un’organizzazione ed
un ordinamento finalizzato all’azione, il cui scopo consiste di permettere
all’ente di cogliere gli obiettivi del suo oggetto sociale. A tale fine, serve
un assetto istituzionale perché l’ente compia i negozi giuridici finalizzati
appunto al perseguimento dei suoi obiettivi, ed un assetto organizzativo
interno, il cui compito consiste nel produrre, porre in essere le attività
concrete che consentono poi il compimento dei negozi giuridici (la realizzazione
dei beni, servizi o lavori in base ai quali concludere contratti di vendita,
prestazione di servizio o appalto, ad esempio).
A
tale fine, il diritto civile prevede che le società per azioni, modello
paradigmatico di persona giuridica, siano dotate di “organi”, che svolgano
le funzioni istituzionali e regolino i processi interni di organizzazione e
produzione.
Gli
organi sono distinti in rappresentativi ed esecutivi, un po’ come avviene con
gli organi degli enti locali.
L’assemblea
è composta dai possessori del capitale sociale ed è l’organo che per legge
compie alcuni atti, che il legislatore ha ritenuto di affidare alla diretta
competenza dei soci.
Pertanto,
gli articoli 2364 e 2365, a seconda che l’assemblea sia ordinaria o
straordinaria, le assegnano il compito di approvare il bilancio, di nominare gli
amministratori i sindaci ed il presidente del collegio sindacale, di determinare
il compenso degli amministratori e dei sindaci (ma se non è determinato
nell’atto costitutivo), di stabilire la responsabilità degli amministratori e
dei sindaci, di modificare l’atto costitutivo, di emettere obbligazioni, di
nominare e stabilire i poteri dei liquidatori.
Questo
è il nocciolo, la base inderogabile delle competenze assembleari. Le norme
citate sono considerabili, da questo punto di vista, analoghe all’articolo 42
del D.lgs 26772000, che prevede alcune, ma non tutte, delle competenze
consiliari, stabilendo indirettamente che si tratta di competenze esclusive, non
esercitabili da altri organi.
Ma
una prima forte differenza tra l’ordinamento delle società e quello degli
enti locali, è data dalla previsione dell’articolo 2364, comma 1, n. 4), a
mente del quale l’assemblea “delibera
sugli altri oggetti attinenti alla gestione della società riservati alla sua
competenza dall’atto costitutivo, o sottoposti al suo esame dagli
amministratori […]”. Questa norma assegna espressamente all’atto
costitutivo (che corrisponde in qualche modo allo statuto locale) il potere di
determinare, stabilire, e fissare l’intero assetto delle competenze degli
organi delle società, con la sola eccezione delle competenze, sopra descritte,
che per legge non possono essere sottratte all’assemblea.
L’atto
costitutivo, dunque, determina in autonomia quali altri poteri possano essere
esercitati dall’assemblea e per differenza può individuare quelle degli
amministratori. Per altro, l’ordinamento societario non erige steccati tra
assemblea ed organi esecutivi, i quali, al di là di ciò che dispone l’atto
costitutivo, possono sottoporre ogni questione che ritengano opportuna
all’attenzione dell’assemblea, che è dunque legittimata a decidere.
Si
nota che nell’ordinamento locale accade praticamente l’opposto. La legge
fissa direttamente ed analiticamente tutte le competenze del consiglio; elenca
anche in modo abbastanza completo ma non esaustivo gli atti di competenza dei
dirigenti, chiarendo meglio comunque la distinzione tra funzioni gestionali e
funzioni politiche; dispone che tutto quanto non rientra nelle competenze del
consiglio e negli atti amministrativi-gestionali sia di competenza della giunta,
purchè si tratti di atti esercitati nell’ambito delle funzioni di governo.
Allo
statuto comunale non resta che specificare quali sono i singoli atti di
pertinenza dei dirigenti e della giunta, ma a differenza dell’atto costitutivo
delle società, non gli è consentito di attribuire poteri e, pertanto, di
assegnare competenze. Lo statuto deve solo compiere una certosina analisi della
funzione esercitata ed in base all’accertamento che essa sia di governo o
gestionale, specificare che l’atto appartenente all’una o all’altra
funzione è di competenza della giunta o della dirigenza.
Non
può, quindi, legittimamente stabilire autonomamente che un certo atto, anche se
appartenga alla funzione di governo, si di competenza dei dirigenti o viceversa.
Posto che, dunque, l’intera responsabilità di gestione di una gara
d’appalto appartiene alla fase gestionale, allora allo statuto è preclusa la
possibilità di disporre che il provvedimento di aggiudicazione sia di
competenza della giunta.
Infatti,
a differenza dell’ordinamento privato, nel quale prevale il criterio
soggettivo come selettivamente scelto nell’atto costitutivo, sicchè la
competenza all’adozione di uno specifico atto è stabilita dall’atto
costitutivo in base al soggetto-organo, nell’ordinamento locale prevale il
criterio oggettivo della funzione. Lo statuto non può che specificare, ovvero
rendere esplicito che l’adozione di un provvedimento che rientri nella
funzione di gestione non può che appartenere alla competenza di un organo di
gestione.
Allora,
tornando all’appalto, la funzione di indirizzo si esaurisce con la
programmazione delle opere pubbliche, la formazione dell’elenco annuale e
l’indicazione delle priorità. Tutto quello che viene dopo e fino al controllo
(non del singolo atto di gara, ma dell’andamento del programma
complessivamente), appartiene alla fase della gestione, dunque non può che
essere di competenza dirigenziale.
Un
ulteriore breve accenno al diritto comune, può essere utile per meglio
specificare che operazioni tese a creare un perfetto parallelismo col diritto
amministrativo, allo stato attuale, appaiono fughe in avanti.
Ci
si riferisce, in particolare, al sistema di determinazione dei poteri
dell’ente e dei propri organi, e dunque al connesso modo di rapportarsi con i
soggetti terzi.
Ebbene,
l’intero sistema di fissazione dei concreti poteri amministrativi e di
relazione con i terzi, nel settore privato è retto dal rapporto di
rappresentanza.
La
disciplina degli amministratori delle società contenuta nel codice civile lo
conferma con la previsione di cui all’articolo 2384, a mente del quale “gli amministratori che hanno la rappresentanza della società possono compiere tutti gli atti che rientrano
nell’oggetto sociale, salvo le limitazioni che risultano dalla legge o
dall’atto costitutivo”.
Pertanto,
gli amministratori agiscono in nome e per conto dell’ente, che conferendo loro
la carica di amministratore appunto, contestualmente assegna, nel rispetto delle
previsioni contenute nell’atto costitutivo, il potere di rappresentare.
Consistente, come è noto, nell’agire in prima persona, ma in nome e per conto
di un soggetto diverso (rappresentato), nella cui sfera di interesse l’azione
del rappresentante produce gli effetti. L’acquisto di un macchinario
effettuato dal rappresentante di una società, quindi, viene imputato alla
società medesima.
Occorre,
allora, ai fini del completamento della fattispecie negoziale, che
l’amministratore compia un atto essenziale, in rapporto con i terzi, affinché
si producano gli effetti della rappresentanza, ovvero la spendita del nome.
Il
terzo contraente ovviamente non sa se il soggetto col quale ha a che fare
disponga del potere di agire in nome e per conto di un ente. Dunque,
l’amministratore è tenuto a dichiarare che sta appunto negoziando in nome e
per conto dell’ente, mostrando la procura o copia dell’atto costitutivo o
copia del certificato di iscrizione al registro delle imprese.
In
ogni caso, per effetto della sua dichiarazione, il terzo ha il diritto di
negoziare e di intrattenere rapporti con la società. In sostanza, il suo
interlocutore resta comunque la società e gli effetti della spendita del nome
vincolano la società medesima anche qualora il rappresentante abbia agito al di
là dei propri poteri rappresentativi.
Infatti,
il comma 2 dell’articolo 2384 del codice civile prevede che “le limitazioni al potere di rappresentanza che risultano dall’atto
costitutivo o dallo statuto, anche se pubblicate, non sono opponibili ai terzi,
salvo che si provi che questi abbiano intenzionalmente agito a danno della
società”.
Quindi,
una spendita del nome incompleta, non effettuata esibendo documenti, ma solo in
base ad una dichiarazione vincola comunque la società nei confronti del terzo
che non abbia approfittato fraudolentemente della carenza di potere
rappresentativo, per arrecare un danno all’ente. Prova, comunque, che deve
essere fornita dalla società.
Il
codice civile intende tutelare la posizione del terzo e la libera
contrattazione. Per questo difende la validità degli atti compiuti dal
rappresentante anche oltre le limitazioni del suo potere, esentando così il
terzo dall’obbligo di conoscere il reale assetto elle competenze della società,
che ha, alla fine, rilevanza quasi soltanto interna.
Sicchè,
il contratto stipulato dal rappresentante in carenza di potere vincola comunque
il soggetto privato, ferme restando le eventuali responsabilità che
l’amministratore si assume nei confronti dell’ente.
Non
solo: la tutela del terzo contraente si estende anche alla conoscenza dei limiti
derivanti dall’oggetto sociale. L’articolo 2384-bis del codice civile
dispone che “l’estraneità
all’oggetto sociale degli atti compiuti dagli amministratori in nome della
società non può essere opposta ai terzi in buona fede”.
Poiché
l’attività ed i poteri egli organi o, comunque, dei soggetti che possono
esprimere negozialmente con validità esterna la volontà dei soggetti privati
è retta dall’istituto della rappresentanza, la medesima ricostruzione opera
anche per l’attività dei dirigenti.
Oltre
agli amministratori, componenti del consiglio i amministrazione o amministratore
delegato, l’atto costitutivo assegna ai dirigenti poteri di rappresentanza in
base a procure o deleghe, la cui ampiezza determina anche la posizione del
destinatario nei ranghi organizzativi.
Pertanto,
i dirigenti dotati di poteri di rappresentanza molto ampi appartengono al
cosiddetto top-managment; quelli che hanno poteri solo organizzativi o
produttivi interni, appartengono alla struttura di line. Alle strutture di staff
appartengono i dirigenti non direttamente coinvolti nella gestione di fasi
produttive o decisionali, i quali prestano servizi all’azienda, come i servizi
per il controllo o gli uffici legali.
L’assegnazione
della rappresentanza procura o delega è, quindi, l’elemento caratterizzante
della dirigenza nell’ambito privato. Anzi, il sistema delle deleghe e delle
subdeleghe rappresenta l’ossatura organizzativa: la piramide o lo schema
organizzativo si costruisce in relazione ai poteri delegati.
Lo
conferma, per rimanere ad un solo esempio, il contratto collettivo nazionale per
i dirigenti di aziende del terziario della distribuzione e dei servizi, in data
26.4.1995, il cui articolo 1 dispone che “sono
dirigenti a norma dell’art. 2094 c.c., ed agli effetti del presente contratto,
coloro che, rispondendo direttamente all’imprenditore o ad altro dirigente a
ciò espressamente delegato svolgono funzioni aziendali di elevato grado di
professionalità, con ampia autonomia e discrezionalità e iniziativa e con
potere di imprimere direttive a tutta l’impresa o ad una sua parte autonoma”.
Ad ulteriore conferma che il rapporto di rappresentanza sta alla base
dell’organizzazione aziendale, sta il successivo comma 3, a mente del quale
sono dirigenti a titolo esemplificativo gli institori ed i procuratori di cui
all'articolo 2209 del codice civile, con mandato ad negozia, oltre ai direttori e i capi di importanti uffici. A
mente del comma 2, poi, del citato CCNL elemento essenziale del contratto di
lavoro è “l’indicazione delle
funzioni, dei poteri e delle responsabilità inerenti al mandato affidato”.
In
conclusione, si ricavano i seguenti elementi caratteristici dell’ordinamento
di diritto comune:
1)
gli amministratori esercitano i poteri che sono loro in gran parte
assegnati dall’atto costitutivo, poiché la legge si limita ad assegnare
all’assemblea poche anche se fondamentali competenze;
2)
gli amministratori (organi esecutivi) agiscono nell’ambito di un
rapporto di rappresentanza con l’ente;
3)
gli atti da loro compiuti, qualificandosi come rappresentanti
dell’ente, restano sempre validi ed efficaci nei confronti dei terzi;
4)
l’assegnazione di poteri ai dirigenti è, a sua volta, frutto di
un’assegnazione di deleghe del potere di rappresentanza a cascata.
Tale
essendo l’ordinamento delle persone giuridiche private, al terzo che viene in
contatto con un loro rappresentante (amministratore o dirigente) viene garantita
l’efficacia dell’atto negoziale compiuto dal rappresentante medesimo.
Insomma, il contratto obbliga la società, anche stipulato da un dirigente al di
là dei propri poteri di rappresentanza.
Ebbene,
tutto ciò non può verificarsi nell’ordinamento pubblico. Infatti,
l’assegnazione e l’esercizio dei poteri pubblici è retto da due ben diversi
istituti: il rapporto organico ed il principio della competenza.
Il
rapporto organico è diverso da quello di rappresentanza. Infatti, non si ha
l’interposizione tra ente e cittadino di un terzo che agisce in nome e per
conto dell’ente, ma attraverso l’organo è l’ente che agisce
immediatamente, impersonificandosi nella persona fisica titolare dell’organo
medesimo.
Ma l’organo può agire solo nel rispetto delle sue competenze. Secondo gli insegnamenti della dottrina classica [1], per competenza si intende quella quantità di potere giuridico che l’organo può esercitare. Poiché l’articolo 97, comma 2, della Costituzione stabilisce che “nell’ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari” e poiché il comma 1 del medesimo articolo stabilisce che “i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge”, dottrina e giurisprudenza pacifiche e non smentite hanno ricavato il principio fondamentale dell’ordinamento, secondo il quale “ogni competenza attribuita nell’organizzazione amministrativa è di ordine pubblico e come tale non può essere derogata, tranne che la legge stessa ammetta la delegazione o la sostituzione o l’avocazione della competenza[2]”.
L’ordine
delle competenze pubbliche ha immediata rilevanza all’esterno e non solo
interna, come nel diritto privato. La misura della legittimità dell’atto
amministrativo, infatti, è data proprio dal rispetto della competenza, il cui
vizio rappresenta una tipica ed autonoma causa di illegittimità per violazione
di legge.
Pertanto,
non è indifferente per l’ordinamento che l’aggiudicazione sia disposta
dalla giunta o dal dirigente: essa è legittima in quanto sia adottata
dall’organo che dispone in via esclusiva del potere, assegnatogli dalla legge,
di provvedere, nell’esercizio di una funzione gestionale. Non è data una
“terza via”. Non è consentito derogare all’ordine delle competenze, se la
legge stessa non l’ammette, assegnando ad altre fonti (ad esempio lo statuto)
la possibilità di contenere deroghe all’ordine delle competenze
ordinariamente previsto, o all’istituto della delega la diversificazione
dell’ordine delle competenze.
Allora,
sempre purchè non si dimostri in base ad argomentazioni fondate sul diritto in
vigore che il principio dell’inderogabilità delle competenze sia stato
espunto, appare impossibile che lo statuto possa compiere, come invece può
l’atto costitutivo di una società, un’operazione di mediazione modificando
l’ordine delle competenze, assegnando l’adozione di un atto ad un organo di
governo, pur essendo l’atto di natura gestionale, anche se dotato di ampia
discrezionalità.
Nel
caso dell’ordinamento locale, è stata la legge a fissare le competenze degli
organi. Nel rispetto dell’articolo 97 della Costituzione, allora, occorre
verificare se la legge consenta allo statuto di determinare in modo diverso
dette competenze e se sempre la legge ammetta la delega di competenze tra
organi. Se l’indagine non evidenzi l’esistenza di norme espresse che
ammettano dette possibilità non si può fare altro che concludere per
l’impossibilità di modificare l’ordine delle competenze, anche se ciò non
lo si condivida.
E’
constatazione comune che gli spazi di autonomia lasciati dalla legge agli
statuti locali per determinare la quantità di poteri e competenze da assegnare
ai vari organi appaiono ristretti[3],
tali da non ammettere l’esistenza di un ordinamento differenziato, essendo
stata l’opzione del legislatore per un ordinamento uniforme nell’ordine
delle competenze, ma autonomo per quanto riguarda l’organizzazione interna e
la partecipazione dei cittadini.
Tuttavia,
l’organizzazione interna è fortemente influenzata dal principio di
separazione delle competenze, che è immanente anche all’ordinamento degli
organi, e dalla carenza di una norma di legge che consenta la delega di funzioni
tra organi e da questi ad altri soggetti.
E’
opportuno, qui, ricordare che organi sono consiglio, giunta e sindaco,
propriamente definiti organi “di governo” dall’articolo 36 del D.lgs
26772000.
Ma
organi sono anche i dirigenti, in quanto a loro la legge assegna una certa
quantità di potere per formare e manifestare la volontà dell’ente
all’esterno, impegnandolo nei confronti dei terzi. I dirigenti sono
definibili, allora, organi “gestionali” in quanto esercitano le loro
competenze in un ambito gestionale e non politico.
Se
i dirigenti, quindi, sono organi, la loro competenza è derogabile
esclusivamente dalla legge (cosa del resto espressamente confermata
dall’articolo 107, comma 4, del testo unico), così come è delegabile
esclusivamente se e nella misura in cui la legge lo consenta.
Allora,
se un organo della P.A. adotti un atto non essendone competente, per il terzo ciò
non è irrilevante, in quanto l’atto è viziato e, dunque, annullabile, e
addirittura nullo se assunto in totale carenza di potere (incompetenza
assoluta).
Quindi,
l’organizzazione degli enti pubblici non può contare su un legittimo
esercizio del potere anche se effettuato oltre i limiti delle competenze. Né lo
statuto locale, e tanto meno i regolamenti, possono sovvertire l’ordine
delineato dalla legge.
Compiuta
la necessaria digressione, tornando ad esaminare le decisioni giurisdizionali
citate prima, si trova puntale e meticolosa conferma di quanto fin qui asserito.
Pare
tranciante il giudizio col quale il Tar Sardegna ha condiviso l'orientamento del
Co.Re.Co. sardo nell'annullare ha parzialmente annullato un regolamento, nel
quale si erano assegnate all'organo politico, invece che dirigenziale, le
competenze all'adozione dei seguenti atti:
1)
aggiudicazione di appalti di servizi o forniture da aggiudicare col
sistema dell’offerta economicamente più vantaggiosa;
2)
approvazione bando di concorso assegnazione alloggi E.R.P;
3)
approvazione graduatoria
definitiva alloggi E.R.P.;
4)
scambio consensuale alloggi E.R.P.;
5)
cambio alloggi E.R.P.;
6)
decadenza assegnazione e sgombero alloggi E.R.P.;
7)
sgombero) alloggi E.R.P.;
8)
pagamento canone di affitto alloggi E.R.P.;
9)
approvazione bando di concorso per l'assunzione agli impieghi;
10)
valutazione operazioni concorsuali e approvazione graduatoria idonei;
11)
procedure di avviamento dalle liste di collocamento;
12)
rilascio certificato godimento diritti politici;
13)
rilascio autorizzazione
attività turistico-ricettive;
14)
rilascio carta d’identità e libretto di lavoro;
15)
erogazione contributi per attività socio-assistenziale;
16)
erogazione sussidi ad affetti da patologie psichiatriche;
17)
concessione contributi per il settore educativo e del tempo libero;
18)
provvedimento per l'accatastamento di immobili;
19)
emanazione dell'ordinanza occupazione d'urgenza di immobili;
20)
assegnazione aree E.R. e modifiche assegnazioni;
21)
approvazioni schemi di convenzione cessione aree E.R.P.;
22)
ordinanza taglio siepi strade vicinali;
23)
autorizzazione proroghe termini contratto;
24)
piantumazione alberi per nuove nascite;
25)
concessione o autorizzazioni in conformità;
26)
ordinanze in materia edilizia;
27)
certificato di abitabilità o agibilità, anche per manifestazioni di
pubblico spettacolo”;
28)
frazionamento bollette acqua potabile.
Lungi
dall'essere esaustiva, l'elencazione indirettamente chiarisce quale sia
l'orientamento del giudice amministrativo, rispetto alla competenza all'adozione
anche di singoli atti e non solo del genere di atti (gestionali o di indirizzo
politico-amministrativo). E costituisce una sorta di vademecum dei singoli provvedimenti di competenza dirigenziale.
Tra
essi vanno sottolineati in particolare l'approvazione dei bandi di concorso e
degli atti concorsuali, le ordinanze "normali", l'erogazione di
contributi, le proroghe contrattuali.
Il
Tar ha applicato con la necessaria rigorosità il principio per cui i poteri di
indirizzo e controllo spettano agli organi elettivi, mentre la gestione
amministrativa è attribuita ai dirigenti, ricavando la conclusione che tutti
gli atti elencati sopra, in applicazione del principio medesimo, attengono alla
gestione amministrativa e quindi sono di competenza dirigenziale.
La
sentenza 12
giugno 2001 del
Tar sardo rigetta decisamente l'argomentazione della difesa del comune di
Sassari, secondo la quale all'autonomia statutaria e regolamentare sia comunque
consentito modificare l'ordine delle competenze, per consentire di rimediare
alla circostanza che l'elencazione delle competenze contenuta oggi nell'articolo
107 del D.lgs 267/2000 contiene molte ipotesi che comportano scelte
caratterizzate da notevole discrezionalità politica, esercitabile solo
dall'organo politico per non violare il principio democratico di cui
all'articolo 1 della Costituzione.
Il
principio di separazione posto per la prima volta dalla legge 142/1990,
sviluppato poi dal D.lgs 29/1993 e ulteriormente rafforzato dal D.lgs 267/2000
è, come sottolinea il Tar frutto di "una
rimeditazione di fondo dei rapporti tra organi elettivi ed organi burocratici
che vuole assegnato ai primi con riguardo alle funzioni di amministrazione
attiva, soltanto il potere di delineare gli obiettivi generali, attraverso atti
caratterizzati da profili di alta discrezionalità, che collocano gli stessi
nell'ambito delle scelte di più elevato livello, riservando ai secondi, tenuti
ad operare 'al servizio esclusivo della Nazione' (art. 98 Cost.) e
tendenzialmente in possesso di maggiori conoscenze tecnico-professionali e
quindi, in linea di massima, più idonei ad assicurare il rispetto dei canoni di
buon andamento ed imparzialità nel perseguimento dei fini istituzionali, il
compito di porre in essere gli atti di concreta gestione della cosa pubblica".
Pertanto,
secondo il Tar Sardegna, al fondo del principio della separazione da un lato sta
la considerazione che l'organo di governo deve curarsi degli obiettivi di fondo
della gestione politica, per lasciare il dettaglio ai tecnici. Pertanto, ponendo
ad esempio la gestione del territorio, decisione strategica e
"politica" è stabilire se una certa porzione del comune sia da
destinare a verde o ad attività produttive: tale decisione va adottata dagli
organi di governo, mediante gli atti deliberativi di propria competenza. Ma
tutto ciò che viene dopo, l'attuazione dei piani, mediante le convenzioni e,
soprattutto, il rilascio delle concessioni e il compimento del controllo sulla
corretta attuazione dei piani, spetta alla funzione gestionale. Fermo restando
che l'organo politico esercita la propria funzione di controllo sull'attività
dei dirigenti, potendo comunque orientarla mediante direttive.
Dall'altro
lato, il Tar Sardegna sottolinea che il principio di separazione è la garanzia
della corretta attuazione del principio di imparzialità e buon andamento
dell'azione amministrativa, previsto dall'articolo 97 della Costituzione.
Infatti, solo l'assegnazione delle concrete funzioni operative alla dirigenza
garantisce la parità di condizioni e l'efficienza gestionale, dal momento che
la dirigenza deve essere di per sé imparziale ed efficiente, come prevede
l'articolo 98 della Costituzione e l'intera normativa sul procedimento
amministrativo e l'organizzazione del lavoro presso le amministrazioni
pubbliche.
Pertanto,
sono precisi valori costituzionali che hanno condizionato le scelte operate dal
legislatore degli anni '90 e che certamente non possono essere contraddette con
la normazione secondaria, anche se autonoma, degli enti locali.
E
qui, la sentenza del Tar propone il suo aspetto di maggior valore, ai fini
dell'esame giuridico, proponendo ragionamenti interpretativi che portano
all'esclusione netta di una qualsiasi attitudine della normativa degli enti
locali a derogare alla puntuale attuazione del principio di separazione, non
essendo la deroga espressamente consentita dalla legge.
La
sentenza, infatti, precisa:
1)
che il principio della distribuzione di competenze tra organi elettivi ed
organi burocratici risponde all'esigenza di una più compita realizzazione del
precetto costituzionale del buon andamento e dell'imparzialità;
2)
che l'articolo 3 del D.lgs 29/1993, oggi 4 del D.lgs 165/2001, ha esteso
l'operatività di detto principio a tutte le amministrazioni pubbliche;
3)
che il coma 3 dell'articolo 1 del D.lgs 165/2001 definisce, seppure senza
vincolo per l'interprete, il complesso dei principi desumibili dal medesimo
decreto legislativo "norme fondamentali di riforma economico-sociale";
4)
che da queste premesse, discende "l'attitudine
della regola sulla distribuzione delle competenze, ad esprimere, nella materia,
un principio generale che richiede un'attuazione uniforme su tutto il
territorio nazionale".
Pertanto,
ricorrono tutti i requisiti perché il principio di separazione possa
effettivamente essere considerato i connotati della norma fondamentale di
riforma economico-sociale, tale, quindi, da imporsi anche sulle leggi regionali
appartenenti alla legislazione esclusiva. Per questa strada il Tar ha negato che
gli statuti ed i regolamenti comunali del comune di Sassari potessero basare le
deroghe al sistema di separazione delle competenze sulla legislazione regionale
speciale sarda.
Questa
condivisibile conclusione del Tar, non può, allora, non condurre ad
un'osservazione che ne è diretta conseguenza: se il principio generale posto
dall'articolo 4 del D.lgs 165/2001 e, per gli enti locali, precisato dal
combinato disposto degli articoli 48 e 107 del D.lgs 267/2000, è vincolante per
la legislazione esclusiva delle regioni a statuto speciale, è ovvio e
consequenziale che il medesimo carattere vincolante operi a maggior ragione e
con più ampia forza nei riguardi della normazione secondaria, sia regolamentare
sia statutaria. Infatti, per quanto lo statuto locale possa essere considerato
norma atipica, non precisamente collocabile né tra le primarie, né tra le
secondarie, non può certo considerarsi che possieda maggiore forza di
resistenza ai principi generali dell'ordinamento delle leggi regionali adottate
nell'esercizio della potestà esclusiva. Anche ammettendo che lo statuto abbia
una potestà normativa riservata per "competenza", che comunque non
gli è riconosciuta dalla legge, detta potestà sarebbe comunque da considerare
recessiva rispetto al principio generale dell'ordinamento giuridico che impone
l'attuazione della separazione delle funzioni politiche, da quelle gestionali,
senza lasciare spazi per una diversa delineazione dei confini intercorrenti tra
organi politici ed organi burocratici a fonti locali.
Il
fatto che, poi, nelle competenze gestionali rientrino anche apprezzamenti
discrezionali non è che una conseguenza del principio di separazione.
L'attuazione degli indirizzi deve necessariamente portare anche a decisioni
discrezionali, come ad esempio nell'irrogazione delle sanzioni o nella scelta
"fiduciaria" dei professionisti da incaricare per la progettazione.
La
sentenza del Tar Sardegna è da considerare come il consolidamento di un filone
giurisprudenziale che fin ora si è solo concentrato sulla verifica del corretto
esercizio della competenza in relazione ai singoli atti, con particolare
riferimento ai provvedimenti di incarico di progettazione, concludendo
unanimemente per la sussistenza della competenza dirigenziale, trattandosi di
funzione gestionale. Alle stesse conclusioni, pur con qualche eccezione, giunge
per i provvedimenti di aggiudicazione degli appalti o di approvazione delle
graduatorie concorsuali, mentre più sofferta è l'evoluzione interpretativa
riguardante l'adozione dell'atto di costituzione in giudizio, che, pure, ai
sensi del combinato disposto degli articoli 4 e 16 del D.lgs 165/2001 è
chiarissimamente competenza gestionale.
L'analisi
del Tar Sardegna è da ritenere tranciante: la negazione della possibilità per
la potestà regionale esclusiva di modificare l'attuazione del principio di
separazione, argomentata in base ai principi costituzionali di imparzialità e
buon andamento, non può che rappresentare un faro. Le amministrazioni locali
hanno adesso un chiaro punto di riferimento per valutare quanto possano incidere
sull'ordine delle competenze, mediante statuti e regolamenti. Ed in realtà,
possono incidere poco: statuti e regolamenti, come rilevato sopra, debbono
sforzarsi di reperire dai generi "funzione di governo" e
"funzione di gestione" gli atti che ne sono espressione, ma non
possono stabilire che un singolo atto sia da considerare di volta in volta
gestionale o di governo, a seconda dell'opportunità.
Che
l'indagine, da parte degli operatori e degli interpreti, circa la competenza
debba necessariamente basarsi sulla natura della funzione esercitata, più che
sul singolo atto, lo conferma puntualmente l'Adunanza Generale del Consiglio di
Stato, col parere in data 10 giugno 1999, il quale ammette che "la demarcazione delle competenze […] è dunque prima facie assai
chiara; […] ai dirigenti compete (ovviamente nel quadro degli indirizzi
prefissati) tutta l'attività di amministrazione concreta, anche ove essa si
estrinsechi attraverso atti di imperio; rimangono invece attratte nelle
attribuzioni degli organi di direzione (politica, n.d.a.) le attività che 'involgono
l'esercizio di puissance
publique' ovvero gli atti di discrezionalità politica".
Ma
il Consiglio di stato ammette che la questione delle competenze nella realtà
concreta di organizzazione delle amministrazioni pubbliche presenta profili meno
facilmente decifrabili. Anche perché, è da aggiungere, la ritrosia sia degli
organi politici, sia di molti dirigenti, nel dare piena attuazione al principio
di separazione, per reciproche convenienze, fa vivere ancora, anche
surrettiziamente, molti istituti e molte competenze ancora contrastanti con il
principio.
Ecco
perché i giudici di Palazzo Spada ritengono che "il
punto da dirimere non riguarda la distinzione tra atti politici ed atti
amministrativi, quanto piuttosto l'esatta individuazione dell'ambito entro il
quale si esplica la funzione di indirizzo politico-amministrativo".
Quindi,
non bisogna stabilire se un atto è gestionale o politico, ma verificare se
appartiene all'ambito nel quale si esplica la funzione di indirizzo, oppure
quella attuativa.
Occorre,
allora, sforzarsi di delineare gli ambiti e le funzioni, per creare una
categoria generale, un "contenitore" o "genere", al quale
ricondurre di volta in volta gli atti.
Come
sottolinea il Consiglio di Stato, il D.lgs 29/1993, oggi 165/2001, non contiene
un elenco esaustivo degli atti attraverso i quali si esprime l'indirizzo
politico amministrativo, né questo era l'intento del legislatore, che ha
assolto alla sua funzione dettando il principio di separazione.
Ma
certamente fanno parte di detta funzione la definizione generale degli
obiettivi, il controllo dei risultati e l'adozione di tutti gli atti indicati
dalla legge (che non appartengano alla funzione gestionale, chè altrimenti si
applica l'articolo 45 del D.lgs 80/1998 o, negli enti locali, l'articolo 107,
comma 5, del D.lgs 267/2000) nonché gli altri atti che rientrino nello
svolgimento delle funzioni di indirizzo. E, sia ribadito per inciso, tra essi è
da ritenere non rientrino i provvedimenti di costituzione in giudizio, che nulla
hanno a che vedere con la funzione di indirizzo politico e che sono
espressamente assegnati alle competenze dirigenziali dall'articolo 16 del D.lgs
165/2001.
Il
criterio discretivo tra la funzione di governo e quella gestionale, secondo il
Consiglio di stato non può essere considerato, se non come ultima
ratio, l'ampiezza di discrezionalità connessa col provvedimento da
adottare.
Più
opportuno è svolgere un vaglio analitico delle normative di settore, che spesso
forniscono, esplicitamente o indirettamente, le indicazioni necessarie per la
soluzione del problema.
Nel
caso della realizzazione delle opere pubbliche, la funzione di indirizzo si
esplica nella programmazione dei lavori da realizzare, e nella fissazione delle
priorità attraverso le quali attuare il programma.
L'assegnazione
degli incarichi ai progettisti non attiene alla programmazione e all'indirizzo,
ma con ogni evidenza all'esecuzione, essendo strumentale alla realizzazione del
programma. Quindi, pur essendo previsto un incarico denominato
"fiduciario", che tale comunque non è visto che deve essere motivato,
per compensi al di sotto di 40.000 Euro, che implica anche aspetti
discrezionali, la competenza è da ritenere appartenga alla dirigenza, in quanto
la funzione nell'ambito della quale si assegna l'incarico è gestionale.
Il
processo logico da seguire, dunque, deve essere:
1)
presa d'atto che la normazione locale, in base al diritto vigente, non può
modificare l'assetto delle competenze fissate dalla legge e non può "flessibilizzare"
l'applicazione obbligatoria del principio di separazione delle competenze;
2)
individuazione di un atto, i cui connotati gestionali o politici non sono
del tutto chiari;
3)
verifica della sussistenza di una normativa di settore che possa chiarire
entro quale ambito funzionale (politico o gestionale) l'atto debba essere
adottato;
4)
presa d'atto che in linea generale gli atti amministrativi espressione
della funzione attiva e diretta, mirante a costituire, modificare o estinguere
posizioni giuridiche soggettive, ad utilizzare risorse pubbliche e ad impegnare
concretamente l'ente, sono di competenza dirigenziale;
5)
individuare la funzione;
6)
determinare la competenza in base alla funzione e non alla "quantità
di discrezionalità" dell'atto.
De jure condendo, l'esaltazione dell'autonomia degli enti locali può passare attraverso norme più snelle, che assegnino al legislatore uno spazio ristretto nel definire direttamente le competenze degli organi, o i principi di ripartizione delle competenze, lasciando detto compito soprattutto alle scelte interne, così come avviene nell'ambito del diritto comune. Ma fino a quando ciò non sia, gli ambiti delle competenze sono da individuare nel rispetto delle lucide ricostruzioni operate dalla giurisprudenza più recente.
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[1] P. Virga, Diritto amministrativo, I principi, Milano, 1999, pag, 41; V. Cerulli Irelli, Corso di diritto amministrativo, Torino, 1993, pag. 97.
[2] P. Virga, cit.
[3] Nello stesso senso, T. Amorosi, in Azienditalia n. 8/2001, pag. 406.
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Documenti correlati:
TAR SARDEGNA – Sentenza 12 giugno 2001*
CONSIGLIO DI STATO, AD. GEN. – Parere 10 giugno 1999*