CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA - Sentenza 31 maggio 2002 n. 5 - Pres. de Roberto, Est. Pajno - Regione Umbria (Avv.ra Gen. Stato) c. Bizzarri (Avv.ti Baldassarre e Rampini) e con l'intervento di S.UNI.FA.R. (Sindacato Unitario Farmacisti Rurali) ed altri (Avv. Mariani Marini) e Federfarma (Avv. Scoca) - (riforma T.A.R. Umbria 8 giugno 2000 n. 463 - la questione era stata rimessa all'Adunanza Plenaria con ordinanza della Sez. IV 10 gennaio 2002, n. 122, in questa Rivista Internet, n. 1/2002, pag. http://www.giustamm.it/private/cds/cds4_2002-01-10o.htm).
1. Giurisdizione e competenza - Giurisdizione esclusiva del G.A. - Controversia riguardante assegnazioni sedi farmaceutiche - Rientra nella giurisdizione esclusiva ex art. 33 D.L.vo n. 80/98.
2. Giustizia amministrativa - Appello - Termine per il deposito - Nelle controversie previste dall'art. 23 bis L. T.A.R. - E' quello dimidiato di 15 giorni.
3. Giustizia amministrativa - Procedimenti speciali - Ex art. 23 bis della L. T.A.R. - Dimidiazione dei termini - Ha carattere generale - Esclusione della regola della dimidiazione - Va espressamente prevista da apposita disposizione derogatoria.
4. Giustizia amministrativa - Appello - Termine per il deposito - Nelle controversie previste dall'art. 23 bis L. T.A.R. - Ricorso in appello depositato nel termine ordinario di 30 giorni e non in quello dimidiato di 15 giorni - Beneficio dell'errore scusabile - Va riconosciuto.
5. Farmacie - Assegnazioni sedi - Utilizzazione graduatorie - Disciplina prevista dall'art. 2, comma 2 della legge n. 389 del 1999 - Interpretazione - Applicabilità alle sedi resesi disponibili durante lo stesso concorso e non già a quelle disponibili dopo il concorso.
1. Rientra nella giurisdizione esclusiva del G.A. una controversia concernente la legittimità del rifiuto della Regione di adottare un provvedimento di assegnazione di una sede farmaceutica, atteso che tale controversia attiene certamente ad un servizio pubblico, essendo quello farmaceutico espressamente considerato servizio pubblico dalla legge ai fini della riconduzione delle relative controversie alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (art. 33 d. lgs. 31 marzo 1998 n. 80, nel testo introdotto dall'art. 7 l. n. 205 del 2000) (1).
2. Nello speciale rito previsto dall'art. 23 bis della legge n. 1034 del 1971, introdotto dall'art. 4 dalla legge n. 205/2000, anche il termine per il deposito del ricorso in appello al Consiglio di Stato deve ritenersi dimidiato ed è, pertanto, di quindici giorni (2).
3. Nell'ambito della disciplina processuale dell'art. 23 bis della legge n. 1034 del 1971, introdotto dall'art. 4 della legge n. 205 del 2000, l'applicabilità della regola della dimidiazione dei termini - generale perché riferita sia a tutti i termini che a tutti i gradi del giudizio - può essere esclusa soltanto dalla presenza nella stessa disciplina di una disposizione derogatoria o che introduca, comunque, per determinati atti o adempimenti, un diverso specifico termine per il relativo compimento.
4. Per i ricorsi proposti in una delle materie previste dall'art. 4 della L. n. 205/2000, nella fase di prima applicazione di quest'ultima legge, va riconosciuto il beneficio dell'errore scusabile nel caso in cui il ricorso in appello sia stato depositato entro l'ordinario termine di 30 giorno piuttosto che entro quello dimidiato di 15 giorni dall'ultima notifica, atteso che tale errore è collegato all'entrata in vigore della nuova disciplina contenuta nell'art. 4 della legge n. 205 del 2000, che ha introdotto l'art. 23 bis della legge n. 1034 del 1971 ed alle obiettive difficoltà interpretative ed ambiguità ad essa connesse (3).
5. La locuzione "sedi farmaceutiche eventualmente resesi disponibili", contenuta nell'art. 2, comma 2, della legge 28 ottobre 1999 n. 389, deve intendersi riferita alle sedi resesi disponibili nello stesso concorso, a seguito di rinuncia o esclusione dei vincitori, da assegnare, appunto, "secondo l'ordine di graduatoria degli altri candidati cui non è stata assegnata una delle farmacie messe a concorso", mentre non può estendersi alle sedi resesi disponibili dopo l'indizione del concorso, e quindi diverse da quelle mese a concorso. L'art. 2, comma 2 della legge n. 389 del 1999, non consente, infatti, l'utilizzazione della graduatoria di un concorso per l'assegnazione della titolarità di farmacia ai fini dell'attribuzione di sedi farmaceutiche diverse da quelle messe a concorso e resesi disponibili dopo l'esaurimento della procedura, ma pone, al contrario, una speciale disciplina volta a consentire una pronta e tempestiva assegnazione delle sedi messe a concorso, ma rimaste disponibili perché non assegnate od, eventualmente, resesi tali per rinuncia o decadenza del precedente assegnatario.
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(1) Cfr. Cass., SS.UU., 11 giugno 2001 n. 7867.
(2-3) V. la nota di G. BACOSI, Plenaria e servizio pubblico farmaceutico, tra "termini dimezzati" errore scusabile e "tutela raddoppiata", riportata dopo il testo della sentenza.
V. anche in materia G. VIRGA, La dimidiazione dei termini prevista dall'art. 4 L. n. 205/2000e la necessità dell'annullamento dell'atto per chiedere il risarcimento del danno innanzi al Giudice amministrativo (nota a TAR CAMPANIA-NAPOLI, SEZ. I - Sentenza 27 marzo 2002 n. 1651), con la quale si auspicava il riconoscimento del beneficio dell'errore scusabile in relazione alla nuova disciplina dei termini introdotta dall'art. 4 della L. n. 205/2000.
FATTO
Il Dott. Mario Bizzarri, farmacista abilitato all'esercizio della professione, partecipava al concorso pubblico indetto dalla Regione Umbria per l'assegnazione della titolarità della farmacia n. 4 del Comune di Bastia Umbria.
Nella graduatoria del concorso, il Bizzarri si collocava al secondo posto, a parità di punti con il primo classificato, al quale, peraltro, veniva riconosciuto un titolo di precedenza.
La graduatoria del concorso veniva impugnata dal Bizzarri
con ricorso al Tribunale Amministrativo Regionale dell'Umbria.
Sopravveniva, peraltro, la legge 28 ottobre 1999 n. 389, recante numerose disposizioni in materia di titolarità delle farmacie e dei relativi concorsi.
Il Bizzarri, allora, assumendo che per effetto della legge sopravvenuta dovessero essere messe in assegnazione, secondo l'ordine di graduatoria, anche le farmacie disponibili dopo la pubblicazione del bando di concorso, diffidava la Regione a provvedere in tal senso, ed impugnava, successivamente, con ricorso al TAR dell'Umbria, il silenzio mantenuto sull'istanza dalla medesima Regione.
Costituitosi il contraddittorio, con sentenza n. 363 del giorno 8 giugno 2000, il TAR adito accoglieva il ricorso, affermando l'obbligo dell'Amministrazione regionale di provvedere alla copertura della sede richiesta dal ricorrente, mediante l'utilizzazione della graduatoria approvata il 7 luglio 1999. Precisava, altresì, il Tribunale che la verifica dei presupposti per l'assegnazione rientrava nei poteri-doveri dell'Amministrazione.
La pronuncia di primo grado è stata, adesso, impugnata dalla Regione Umbria, con ricorso al Consiglio di Stato.
Ad avviso della Regione, erroneamente il Tribunale avrebbe affermato che, con la locuzione "sedi farmaceutiche eventualmente rese disponibili", l'art. 2, comma 2 della legge 28 ottobre 1999 n. 389 avesse inteso riferirsi a sedi diverse da quelle messe a concorso, e cioè a farmacie resesi disponibili dopo l'indizione del concorso. L'unica interpretazione possibile sarebbe, infatti, quella volta a riferire la disposizione dell'art. 2 a sedi eventualmente resesi disponibili nel concorso, e non a quelle individuate nella revisione della pianta organica.
Nel giudizio di appello sono intervenuti ad adiuvandum il S.UNI.FA.R. (Sindacato Umbro Farmacisti Rurali), ed i Signori Luciano Fratini e Riccardo Scoccianti, chiedendo l'annullamento della sentenza impugnata.
Si è, altresì, costituito in giudizio l'appellato, eccependo, in linea preliminare, l'irricevibilità del gravame, perchè depositato il 18 ottobre 2000, e cioè oltre il termine di trenta giorni dalla data della notificazione; termine, questo, così ridotto ai sensi dell'art. 23 bis della legge 6 dicembre 1971 n. 1034, introdotto dall'art. 4 legge 21 luglio 2000 n. 205.
Nel merito, il Bizzarri ha chiesto, comunque, il rigetto del gravame.
Con ordinanza n. 122 del 10 gennaio 2002 la IV Sezione del Consiglio di Stato ha, innanzi tutto, sottolineato l'applicabilità alla fattispecie della disposizione di cui all'art. 23 bis della legge n. 205 del 2000.
La Sezione ha, poi, evidenziato come la disciplina contenuta nell'art. 23 bis, commi 2 e 7 della medesima legge n. 205 del 2000 potrebbe essere intesa come idonea a stabilire anche la riduzione alla metà del termine per il deposito dell'appello; e come, tuttavia, sulla scorta di una esegesi letterale, non possa escludersi l'opposta conclusione, ove il termine "ricorso", contenuto nell'art. 23 bis comma 2, si intenda riferito non solo all'atto introduttivo del giudizio di primo grado, ma anche a quello introduttivo del giudizio di secondo grado.
Trattandosi di questione di massima di particolare rilievo, per un gran numero di affari di competenza delle Sezioni giurisdizionali, la IV Sezione ha rimesso l'affare, ai sensi dell'art. 45, primo comma, del r.d. 26 giugno 1924 n. 1054, all'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato.
Nel giudizio è intervenuta, altresì, la Federazione Nazionale Unitaria dei titolari di farmacia italiani (FEDERFARMA), allo scopo di sostenere le ragioni della Regione Umbria.
Con apposite memorie il Bizzarri ed il Sindacato Unitario Farmacisti Rurali hanno insistito per l'accoglimento delle rispettive tesi.
All'udienza di discussione tutti i procuratori delle parti hanno illustrato diffusamente le proprie ragioni.
DIRITTO
1. Deve, innanzi tutto essere ribadito che, come ha esattamente osservato la Quarta Sezione con l'ordinanza di rimessione, la fattispecie sottoposta all'esame dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, rientra nell'ipotesi di cui all'art. 23 bis, comma 1, lett. c, della legge 6 dicembre 1971 n. 1034, novellato dall'art. 4 della legge 21 luglio 2000 n. 205.
L'art. 23 bis, comma 1, lett. c, della legge n. 1034 del 1971 pone infatti, una speciale disciplina, applicabile nei giudizi davanti agli organi di giustizia amministrativa aventi ad oggetto, per quel che in questa sede rileva, "i provvedimenti relativi alle procedure di aggiudicazione, affidamento ed esecuzione di servizi pubblici".
Nel caso in esame si è di fronte ad un giudizio instauratosi a seguito del silenzio serbato dalla Regione Umbria sull'istanza, con cui l'interessato, dopo aver fatto presente di aver preso parte al concorso pubblico per l'assegnazione della titolarità della farmacia n. 4 del Comune di Bastia Umbra, classificandosi al secondo posto, e dopo aver rilevato che, per effetto delle sopravvenute disposizioni contenute nella legge 28 ottobre 1999 n. 389, dovevano essere messe in assegnazione anche le farmacie resesi disponibili successivamente al bando di concorso, ha affermato di avere titolo all'assegnazione di una delle sedi farmaceutiche disponibili, risultanti dalla revisione della pianta organica approvata dal Consiglio Regionale con atto n. 684 del 31 maggio 1999, ed ha, di conseguenza, diffidato la Regione Umbria ad adottare il provvedimento di assegnazione "della sede farmaceutica disponibile n. 38 del Comune di Perugia con ubicazione in Santa Sabina - Lacugnano".
Si è pertanto, di fronte, ad una controversia concernente la legittimità del rifiuto della Regione di adottare un provvedimento di assegnazione di una sede farmaceutica: provvedimento questo, che attiene certamente ad un servizio pubblico, essendo quello farmaceutico espressamente considerato servizio pubblico dalla legge ai fini della riconduzione delle relative controversie alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (art. 33 d. lgs. 31 marzo 1998 n. 80, nel testo introdotto dall'art. 7 l. n. 205 del 2000), e tale, essendo riconosciuto dalla giurisprudenza (Cass., SS.UU., 11 giugno 2001 n. 7867).
2. Ad avviso della Regione appellante, non potrebbe, comunque, nel caso in esame, parlarsi di controversia sull'affidamento di un pubblico servizio, in quanto il Tribunale avrebbe espressamente escluso che dalla dichiarazione di illegittimità del silenzio possa conseguire il diritto all'assegnazione della farmacia; non potrebbe, pertanto, parlarsi di controversia sull'affidamento di un pubblico servizio perché tale pubblico servizio non sarebbe stato mai riconosciuto al dott. Bizzarri né dalla Regione né dal TAR (così la Regione nella memoria del 17 ottobre 2001).
La tesi prospettata è, con ogni evidenza, infondata. La controversia, concerne, infatti, come si è detto, la legittimità, o meno, del rifiuto della Regione di assegnare la richiesta sede farmaceutica, mentre la sentenza del TAR dell'Umbria, nell'accertare l'illegittimità del silenzio serbato dalla Regione, si limita a precisare quali siano le conseguenze di tale accertamento, consistenti appunto, nell'obbligo di provvedere alla copertura della sede richiesta dal ricorrente attraverso la graduatoria del concorso pubblico cui aveva preso parte il Bizzarri, approvata il 7 luglio 1999.
La sentenza del Tribunale conferma, quindi, con ogni evidenza, che si è di fronte ad una procedura di affidamento di un pubblico servizio, rispetto alla quale viene affermato l'obbligo dell'Amministrazione di provvedere; mentre l'impossibilità, pure rilevata dalla sentenza, di dichiarare il diritto del ricorrente a conseguire la titolarità della farmacia discende dalla natura del sindacato esercitato dal giudice e dal fatto che quest'ultimo, investito della questione della legittimità del silenzio, non poteva che affermare l'obbligo dell'Amministrazione di provvedere, ma non sostituirsi a quest'ultima, nell'accertamento in concreto dei presupposti per l'assegnazione della sede farmaceutica.
3. Può, pertanto, passarsi all'esame della questione prospettata dall'ordinanza di rimessione della Sezione IV, consistente nello stabilire se, nello speciale rito introdotto dall'art. 23 bis della legge n. 1034 del 1971, come novellata dalla legge n. 205 del 2000, dell'appello debba ritenersi dimidiato (e cioè ridotto a quindici giorni) in forza della disposizione di cui al medesimo art. 23 bis, comma 2, il termine per il deposito del ricorso in appello al Consiglio di Stato.
L'Adunanza Plenaria ritiene che a tale quesito debba essere data risposta positiva e che, di conseguenza, relativamente ai giudizi di cui all'art. 23 bis, comma 1, della legge n. 1034 del 1971, il termine per il deposito dell'appello debba ritenersi ridotto a quindici giorni.
Va, in proposito, ricordato che l'art. 23 bis della legge n. 1034 del 1971, introdotto dall'art. 4 della legge n. 205 del 2000, riprendendo in parte l'esperienza legata alla normativa di cui all'art. 19 del decreto legge 25 marzo 1997 n. 67 ed all'art. 1 comma 27 della legge 31 luglio 1997 n. 249, ha introdotto una disciplina processuale speciale, volta a conseguire obiettivi di accelerazione della definizione delle controversie in determinate materie, per le quali, appunto, l'esigenza di una pronta ed immediata definizione è considerata di particolare interesse pubblico. L'introduzione di una speciale disciplina del genere, con riferimento a materie limitate e puntualmente identificate, o volte a conseguire obiettivi di celerità processuale, è stata, infatti, considerata legittima e non irragionevole dalla Corte Costituzionale (Corte Cost., sentenza 10 novembre 1999 n. 427).
In particolare, l'art. 23 bis cennato, dopo aver indicato al comma 1 gli "oggetti" a cui si applicano, "nei giudizi davanti agli organi di giustizia amministrativa", le nuove disposizioni, pone, nei commi successivi, tale disciplina. La regola fondamentale di tale (speciale) disciplina è indicata nell'art. 23 bis, comma 2, secondo cui "i termini processuali previsti sono ridotti alla metà, salvo quelli per la proposizione del ricorso". L'altro nucleo fondamentale della nuova normativa è costituito dalla possibilità del giudice, chiamato a pronunciarsi sulla domanda cautelare, di anticipare la discussione nel merito del ricorso, ove ritenga, ad un primo esame, l'illegittimità del provvedimento impugnato o la sussistenza di un danno grave ed irreparabile. I commi 3, 4 e 5 dell'art. 23 bis dettano, appunto, la relativa disciplina.
L'art. 23 bis, comma 6, pone, poi, una ulteriore disposizione di carattere generale, sulla pubblicazione del dispositivo della decisione (da effettuarsi entro sette giorni dall'udienza), mentre il successivo comma 7 indica una specifica disciplina con riferimento ai termini per la "proposizione dell'appello" avverso la sentenza del TAR, identificando tali termini in quelli di trenta giorni dalla notificazione e di centoventi dalla pubblicazione, e prevedendo la possibilità della proposizione del gravame nei trenta giorni dalla pubblicazione del dispositivo.
L'ultimo comma dell'art. 23 bis precisa, infine, che le relative disposizioni "si applicano anche davanti al Consiglio di Stato, in caso di domanda di sospensione della sentenza appellata". Poiché l'applicabilità delle disposizioni di cui all'art. 23 bis dinanzi a tutti gli organi di giustizia amministrativa - e, quindi, anche dinanzi al Consiglio di Stato - discende dalla disposizione del medesimo art. 23 bis, comma 1, il senso del successivo comma 8 è pertanto, quello di precisare che la speciale disciplina di cui al precedente comma 3 - formalmente dettata per il primo grado dal giudizio - trova applicazione anche nel giudizio dinanzi al Consiglio di Stato, in caso di domanda di sospensione della sentenza impugnata.
Tale essendo la speciale disciplina processuale dettata dall'art. 23 bis della legge n. 1034 del 1971, con riferimento alle "materie" indicate nel comma 1, appare evidente che la norma di cui al comma 2 - che dispone la riduzione alla metà dei termini processuali - riguarda sia il primo che il secondo grado del giudizio, dal momento che essa si applica, "nei giudizi davanti agli organi di giustizia amministrativa" (art. 24 bis, comma 1), e quindi, sia dinanzi ai Tribunali Amministrativi Regionali che al Consiglio di Stato.
Quella di cui al comma 2, costituisce, pertanto, la regola generale sui termini processuali della disciplina introdotta dall'art. 23 bis, e che meglio di ogni altra esprime la ratio acceleratoria che la caratterizza, in relazione ai peculiari interessi pubblici connessi con la particolare rilevanza economica e sociale dei diversi "oggetti" indicati dalla stessa norma al comma 1.
Consegue da ciò che, nell'ambito della disciplina processuale dell'art. 23 bis, l'applicabilità della regola del dimidiamento dei termini - generale perché riferita sia a tutti i termini che a tutti i gradi del giudizio - può essere esclusa soltanto dalla presenza nella stessa disciplina, di una disposizione derogatoria o che introduca, comunque, per determinati atti o adempimenti, un diverso specifico termine per il relativo compimento.
E' quanto avviene, nel processo accelerato previsto dall'art. 23 bis della legge n. 1034 del 1971, a seguito dell'inciso di cui allo stesso comma 2, secondo cui i termini processuali sono ridotti alla metà, "salvo quelli per la proposizione del ricorso", ed a seguito della disciplina di cui al comma 7, che introduce uno specifico termine "per la proposizione dell'appello" avverso la sentenza del TAR, (trenta giorni dalla notificazione e centoventi giorni dalla pubblicazione). Né l'inciso dell'art. 23 bis, comma 2, né la disciplina di cui al successivo comma 7, si riferiscono, peraltro al termine per il deposito del ricorso in appello, il cui mancato rispetto è stato, nella fattispecie eccepito.
Quanto all'art. 23 bis, comma 2, della legge n. 1034 del 1971, la sua formulazione risente, come è evidente dal dibattito scientifico e giurisprudenziale che ha, a suo tempo accompagnato l'art. 19, comma 3, del decreto legge 25 marzo 1997 n. 67 (e l'art. 1, comma 27, della legge 31 luglio 1997 n. 27) il quale, nell'introdurre un rito accelerato per i giudizi relativi a procedure di affidamento di incarichi di progettazione ed a provvedimenti di aggiudicazione, affidamento ed esecuzione di opere pubbliche, disponeva che "tutti i termini processuali sono ridotti della metà". In particolare, pur avendo la Corte Costituzionale ritenuto che "la previsione di un termine di trenta giorni per notificare il ricorso" - discendente, appunto dal dimezzamento dei termini disposto dal cennato art. 19 del decreto legge n. 67 del 1997 - "non comprime, oltre i limiti di ragionevolezza ed effettività, il diritto di cui all'art. 24 della Costituzione, poiché non riduce i tempi di preparazione delle necessarie difese al punto da pregiudicarne l'efficacia e la completezza, lasciando al ricorrente un congruo margine di valutazione" (Corte cost., 10 novembre 1999 n. 427), appare evidente che il legislatore, nel formulare la nuova disciplina contenuta nell'art. 4 della legge n. 205 del 2000, si è dato carico delle difficoltà che erano state prospettate a proposito della precedente disciplina speciale, ed in particolare di quelle connesse alla fase, prodromica alla instaurazione del giudizio, nella quale la parte, sfornita di un difensore, deve reperirlo ed affidare al medesimo le proprie difese.
Nella formulazione della regola di cui all'art. 23, comma 2, il legislatore ha ritenuto di tenere ragionevolmente conto di tali esigenze, ed ha pertanto escluso dal dimezzamento, previsto per tutti i termini, il dimezzamento dei termini "per la proposizione del ricorso"; termini, questi ultimi, che per le ragioni sopra esposte e per la ratio che accompagna l'esclusione disposta, non possono che riguardare esclusivamente il ricorso di primo grado, e cioè l'atto introduttivo del giudizio dinanzi al TAR.
L'art. 23 bis, comma 2, della legge n. 1034 del 1971, nel porre la regola generale del dimezzamento dei termini con riferimento a tutti i giudizi davanti agli organi di giustizia amministrativa (art. 23 bis, comma 1), e quindi anche davanti al Consiglio di Stato, pone una eccezione che si riferisce esclusivamente al ricorso ed al processo di primo grado. A prescindere quindi, dal problema (su cui si tornerà più avanti) se con il termine "proposizione del ricorso" si intenda far riferimento anche al deposito del medesimo, l'eccezione posta dall'art. 23 bis comma 2, riferendosi al giudizio di primo grado, non può, in ogni caso, riguardare la questione rilevante nel caso in esame, che attiene al termine per il deposito del ricorso in appello.
La presenza di una esplicita disciplina per il termine di proposizione dell'appello, contenuta nell'art. 23 bis, comma 7, esclude, peraltro, che l'inciso "salvo quelli per la proposizione del ricorso" contenuto nel comma 2, si riferisca al giudizio di appello.
Sempre a proposito dell'art. 23 bis, comma 2, della legge n. 1034 del 1971, deve infine, essere precisato che nessun elemento positivo, al fine di dedurne il mancato dimezzamento del termine del deposito dell'atto di appello, può essere dedotto dalla circostanza che l'originaria previsione contenuta nel disegno di legge governativo, (poi divenuto la legge n. 205 del 2000) esonerava dalla riduzione dei termini "...quello per la proposizione del ricorso", e che nel successivo iter legislativo il singolare "quello" sia stato sostituito con il plurale "quelli". La norma di cui all'art. 23 bis, comma 2, non riguarda, infatti, come si è visto, il giudizio di appello;mentre l'uso del plurale "quelli" appare dovuto al fatto che il legislatore ha inteso riferirsi anche al ricorso incidentale nel processo di primo grado, per il quale sovvengono le stesse esigenze che hanno condotto alla esclusione dalla regola del dimezzamento del ricorso principale.
4. Nessuna indicazione può poi, essere tratta dalla disciplina contenuta nell'art. 23 bis, comma 7, della legge n. 1034 del 1971, per dedurne che il termine per il deposito del ricorso in appello non debba ritenersi dimezzato.
Come si è detto, il cennato art. 23 bis comma 7 pone una specifica autonoma disciplina riguardante i termini per la proposizione del ricorso in appello, e cioè per la sua notificazione (trenta giorni dal deposito della sentenza impugnata o centoventi giorni dalla sua pubblicazione). Consegue da ciò che, al di fuori della specifica autonoma disciplina introdotta dall'art. 23, comma 7, della legge, trova applicazione la disciplina comune prevista dall'art. 23 bis per i giudizi previsti dal comma 1: disciplina comune che è quella prevista dal comma 2 e che si esprime nella generale regola del dimezzamento dei termini processuali.
Risulta, così, evidente, l'erroneità della tesi sostenuta dal Sindacato unitario farmacisti rurali, che pur esattamente affermando che l'art, 23 bis, comma 7, introduce una autonoma disciplina per la notificazione dell'atto di appello, identifica poi la disciplina ulteriore per i termini del giudizio di appello delle controversie di cui all'art. 23 bis comma 1, non in quella posta dall'art. 23 bis, comma 2, ma in quella, generale, del processo amministrativo di appello.
Un tal modo di pensare si risolve in una erronea interpretazione dello stesso art. 23 bis della legge n. 1034 del 1971, dal momento che le disposizioni da esso poste - tra cui anche quelle concernenti il dimezzamento dei termini processuali - si applicano, in via generale, "nei giudizi davanti agli organi di giustizia amministrativa" (art. 23 bis, comma 1).
Non appare, poi, possibile pervenire all'affermazione secondo cui, nella fattispecie, il termine per il deposito dell'appello dovrebbe essere considerato di trenta giorni (e non di quindici), valorizzando la disposizione contenuta nell'art. 23 bis, comma 7, secondo cui il termine per la proposizione dell'appello è di trenta giorni. In questa prospettiva, l'espressione "proposizione dell'appello", andrebbe riferita non soltanto alla sua notificazione, ma anche al deposito dell'atto di appello notificato, dovendosi l'appello ritenere "proposto" non solo con la notificazione del relativo atto, ma anche con il deposito.
A tacer d'altro, tale tesi è positivamente smentita dallo stesso art. 23 bis, comma 7, che fa espresso riferimento, ai fini della proposizione dell'appello, ad un termine che è di "trenta giorni dalla notificazione e di centoventi giorni dalla pubblicazione della sentenza". Si tratta, con ogni evidenza, del termine breve e del termine lungo per la notificazione dell'impugnazione, ridotti rispettivamente a trenta ed a centoventi giorni; sicchè appare palese che, con la locuzione "termine per la proposizione dell'appello", l'art. 23 bis, comma 7, cennato, abbia inteso riferirsi esclusivamente al termine per la notificazione del gravame, e non invece, al diverso termine per il deposito dell'appello notificato (decorrente non dalla notificazione o pubblicazione della sentenza, ma dalla notificazione del gravame).
L'art. 23 bis, comma 7, utilizza, pertanto, il termine "proposizione" nel senso che esso è volto ad indicare la fase relativa alla manifestazione della volontà di impugnare la sentenza di primo grado, e cioè la notificazione dell'atto di appello, secondo un uso che è frequente da parte del legislatore (si veda, ad esempio, l'art. 28, secondo comma, della legge n. 1034 del 1971, secondo il quale contro le sentenze dei TAR è ammesso ricorso al Consiglio di Stato, "da proporre nel termine di sessanta giorni dalla ricevuta notificazione").
L'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha d'altra parte, da tempo precisato la differenza tra il momento della notificazione del ricorso giurisdizionale amministrativo e quello del deposito del medesimo, sottolineando come il primo manifesti esclusivamente la volontà di agire in giudizio, e come il secondo, invece, realizzi concretamente la presa di contatto tra il ricorrente e l'organo giurisdizionale e generi, così, la costituzione del rapporto processuale (Cons. Stato, Ad. Plen., 28 luglio 1980 n. 35).
5. Gli esiti interpretativi sopra esposti, appaiono, peraltro, integralmente confermati dall'analisi della giurisprudenza formatasi attorno all'interpretazione dell'art. 19 del decreto legge n. 67 del 1997 che (insieme all'art. 1, comma 27 della legge n.249 del 1997) costituisce l'antecedente storico della disciplina contenuta nell'art. 23 bis della legge n. 1034 del 1971.
Non a caso, infatti, l'art. 4 della legge n. 205 del 2000, recante "disposizioni particolari sul processo in determinate materie", nell'introdurre, con il comma 1, il cennato art. 23 bis della legge n. 1034 del 1971, ha contemporaneamente previsto l'abrogazione, al comma 2, dell'art. 19 del decreto legge n. 67 del 1997 e dell'art. 1, comma 27, della legge n. 249 del 1997.
Ora, come ha esattamente osservato la difesa dell'appellato, alcuni dei principali problemi interpretativi postisi a proposito dell'art. 19, del D.L. n. 67 del 1997 hanno riguardato la portata del comma 3 ("tutti i termini processuali sono ridotti della metà") ed in particolare, la necessità di stabilire se, in forza di esso, dovessero ritenersi dimezzati anche i termini processuali del ricorso in appello.
In proposito, la risposta della giurisprudenza è stata nel senso di considerare la riduzione alla metà disposta dall'art. 19, comma 3, del D.L. n. 67 del 1997 come riferita a tutti i termini processuali, e quindi anche a quelli relativi al deposito del ricorso in appello, con la conseguente inammissibilità dell'appello depositato dopo la scadenza del termine di quindici giorni fissato dal cennato art. 19 del d.l. n. 67 del 1997 (Cons. Stato, Sez. V, 25 maggio 1998 n. 695; Sez. IV, 31 maggio 1999 n. 935; 6 aprile 2000 n. 1989).
Appare, pertanto, del tutto ragionevole ritenere che la nuova disciplina introdotta con l'art. 4 della legge n. 205 del 2000, nel sostituire, mettendola a regime, nell'ambito delle nuove disposizioni in materia di giustizia amministrativa, la speciale disciplina a suo tempo dettata limitatamente ai giudizi in materia di opere pubbliche e di pubblica utilità e con riferimento ai provvedimenti dell'Autorità delle telecomunicazioni, abbia mantenuto la portata generale della regola del dimezzamento di tutti i termini processuali (riferibile, quindi, anche al termine per il deposito del ricorso in appello), salvo le eccezioni a tale regola generale espressamente indicate.
6. Si deve pertanto ritenere che, nel presente giudizio, il termine per il deposito del ricorso in appello, in virtù della regola enunciata dall'art. 23 bis, comma 2, della legge n. 1034 del 1971, per tutti i giudizi indicati dal comma 1 dello stesso articolo, sia di quindici giorni dalla data della notificazione dell'atto di impugnazione.
Da tale esito non deriva, peraltro, la possibilità, di dichiarare, come richiesto dall'appellato, l'inammissibilità del gravame. Deve infatti, nella presente fattispecie, essere riconosciuto alla Regione appellante il beneficio dell'errore scusabile, con conseguente ammissibilità del gravame dalla medesima proposto, depositato dopo diciannove giorni dalla sua notificazione.
E' noto, infatti, che il giudice amministrativo, in virtù del principio generale già affermato nell'art. 34 del T.U. n. 1054 del 1924 e richiamato nell'art. 34 l. n. 1034 del 1971, può temperare il rigore della previsione di un termine di decadenza ove ritenga che l'errore in cui sia incorso il ricorrente possa essere ritenuto scusabile; è noto, altresì, che l'istituto dell'errore scusabile deve ritenersi applicabile ad ogni tipo di possibile invalidità o irregolarità degli atti processuali, collegata al mutare della disciplina legislativa, alla difficoltà obiettiva di interpretazione, od alle innovazioni nella giurisprudenza amministrativa.
Nel caso in esame si verifica, appunto la situazione che giustifica il riconoscimento del sopra richiamato beneficio, dovendosi ritenere scusabile l'errore in cui è incorso l'amministrazione appellante, in quanto collegato all'entrata in vigore della nuova disciplina contenuta nell'art. 4 della legge n. 205 del 2000, che ha introdotto l'art. 23 bis della legge n. 1034 del 1971, ed alle obiettive difficoltà interpretative ed ambiguità con essa connesse, sottolineate dalla IV Sezione con l'ordinanza di rimessione all'Adunanza Plenaria.
7. La Regione Umbria deduce che erroneamente il primo giudice avrebbe ritenuto che con l'espressione "sedi farmaceutiche eventualmente resesi disponibili" contenuta nell'art. 2, comma 2, della legge 28 ottobre 1999 n. 389 il legislatore abbia inteso riferirsi a farmacie resesi disponibili dopo l'indizione del concorso, e quindi diverse da quelle mese a concorso.
Al contrario, secondo l'Amministrazione appellante, la locuzione contenuta nell'art. 2, comma 2, della legge n. 389 del 1999 avrebbe riferimento a sedi resesi disponibili nello stesso concorso, a seguito di rinuncia o esclusione dei vincitori, da assegnare, appunto, "secondo l'ordine di graduatoria degli altri candidati cui non è stata assegnata una delle farmacie messe a concorso".
La doglianza prospettata dalla Regione Umbria è fondata. L'art. 2, comma 2 della legge n. 389 del 1999, non consente, infatti, come ha ritenuto il tribunale, l'utilizzazione della graduatoria di un concorso per l'assegnazione della titolarità di farmacia ai fini dell'attribuzione di sedi farmaceutiche diverse da quelle messe a concorso e resesi disponibili dopo l'esaurimento della procedura, ma pone, al contrario, una speciale disciplina volta a consentire una pronta e tempestiva assegnazione delle sedi messe a concorso, ma rimaste disponibili perché non assegnate od, eventualmente, resesi tali per rinuncia o decadenza del precedente assegnatario.
8. La legge 28 ottobre 1999 n. 389, recante "norme derogatorie in materia di gestione delle farmacie urbane e rurali", reca, all'art. 1, una serie di disposizioni volte, come ricorda lo stesso giudice di primo grado, alla sistemazione "in sanatoria" della situazione di gestori provvisori di farmacie urbane o rurali, in possesso dei requisiti dalla stessa legge indicati.
Il successivo art. 2, pone, invece, al comma 1, alcune disposizioni volte ad accelerare e semplificare le procedure concorsuali di assegnazione delle sedi farmaceutiche, anche se bandite prima dall'entrata in vigore della legge. E' stato, così, previsto, innanzitutto, che, ai fini dell'assegnazione delle farmacie nei concorsi a sedi farmaceutiche, i candidati risultati idonei siano, entro sessanta giorni, contemporaneamente interpellati secondo l'ordine di graduatoria (la disciplina previgente prevedeva, invece, un interpello articolato per successive richieste); è stato poi previsto un termine assai breve (cinque giorni dall'interpello) per l'indicazione della farmacia prescelta, il cui rispetto è richiesto a pena di esclusione dall'assegnazione; è stato infine previsto che l'assegnazione delle sedi avvenga secondo l'ordine della graduatoria.
E' appunto in tale contesto di accelerazione delle procedure concorsuali e della loro definizione, che si colloca la norma di cui all'art. 2, comma 2 della legge n, 389 del 1999, alla stregua della quale "le sedi farmaceutiche eventualmente resesi disponibili sono assegnate secondo l'ordine di graduatoria agli altri candidati cui non è stata assegnata una delle farmacie messe a concorso". Avuto riguardo all'ambito oggettivo dell'art. 2 della legge, ed alle finalità da esso perseguite, l'Adunanza Plenaria ritiene senz'altro preferibile una interpretazione del comma 2 che fa di esso una disposizione di accelerazione della definizione delle procedure concorsuali e non una norma volta a consentire l'utilizzazione della graduatoria del concorso dopo la sua definizione.
In realtà, infatti, l'art. 2, comma 2, completa la disciplina acceleratoria dei concorsi posta dal comma 1, regolando anche la situazione di disponibilità delle sedi messe a concorso, verificatasi a seguito di mancata accettazione delle medesime da parte dell'interessato, o di vicende riguardanti il destinatario dell'assegnazione, come la rinuncia o la decadenza.
La norma dispone, così, che le sedi farmaceutiche già assegnate ma non accettate, o eventualmente resesi disponibili dopo l'assegnazione, siano immediatamente attribuite secondo l'ordine di graduatoria ai candidati ai quali non sia stata assegnata una delle farmacie messe a concorso.
La natura eminentemente acceleratoria delle disposizioni in esame appare, d'altra parte, evidente sol che si tenga presente la disciplina previgente, che la nuova norma è, appunto, destinata a sostituire.
L'art. 10 del regolamento per l'esecuzione della legge 2 aprile 1968 n. 475, recante norme concernenti il servizio farmaceutico, emanato con D.P.R. 21 agosto 1971 n. 1275, prevedeva, infatti, nel caso di mancata accettazione o di rinuncia da parte dell'assegnatario, che la sede fosse assegnata al concorrente immediatamente seguente in graduatoria, e che la avesse richiesta (art. 10, primo comma). Poiché, peraltro, tale concorrente ben poteva avere accettato altra sede, la norma prevedeva che, in tale ipotesi, il concorrente interessato venisse interpellato ed invitato a dichiarare l'accettazione della sede vacante entro dieci giorni (art. 10, secondo comma). Scaduto tale termine, la sede veniva assegnata al candidato che seguiva in graduatoria e che tale sede aveva richiesto (art. 10, terzo comma).
Nel sistema del D.P.R. n. 1275 del 1971, la rinuncia o mancata accettazione da parte dell'assegnatario di una sede farmaceutica, poteva, pertanto, rimettere in discussione tutte le assegnazioni medio tempore effettuate nei confronti dei candidati che seguivano in graduatoria, e le relative accettazioni, riaprendo per tali candidati la possibilità di conseguire una sede richiesta ma assegnata ad altro concorrente fornito di una migliore posizione nella graduatoria.
Tale complesso e farraginoso sistema, destinato inevitabilmente a prolungare i tempi di definizione delle procedure, è stato sostituito dalla nuova normativa contenuta nell'art. 2 della legge n. 389 del 1999, che ha eliminato l'interpello successivo dei candidati che seguono quello che non ha accettato, ha rinunciato o è stato escluso, introducendo l'interpello simultaneo di tutti i candidati, ed ha previsto che la sede così resasi "disponibile", sia assegnata sempre secondo l'ordine di graduatoria, ma a quei candidati che non abbiano ricevuto alcuna assegnazione, così scavalcando, tutti coloro che, avendo simultaneamente scelto una sede, siano stati, comunque destinatari di assegnazione.
9. L'interpretazione dell'art. 2, comma 2, della legge n. 389 del 1999, sopra indicata, oltre ad essere in armonia con la ratio acceleratoria dell'intero art. 2, appare, altresì, coerente con la lettera della disposizione legislativa. La disposizione di legge fa, infatti, riferimento a sedi "eventualmente resesi disponibili": e sedi cioè, che, messe a concorso, siano state già assegnate ma si siano rese disponibili a seguito di vicende riguardanti l'assegnazione e l'assegnatario.
L'interpretazione sopra riferita, limitando la portata dell'art. 2, comma 2, della legge n. 389 del 1999 alle sedi farmaceutiche già messe a concorso, appare coerente con le vigenti disposizioni in materia di assegnazione delle sedi farmaceutiche (che impongono la revisione della relativa pianta organica alla fine di ogni anno pari, e l'emanazione del bando di concorso relativo alle sedi resesi disponibili entro il mese di marzo di ogni anno dispari) e risulta altresì, del tutto coerente con le esigenze sottese dall'art. 97 Cost. e con il rispetto delle esigenze dei soggetti che non hanno potuto prendere parte al concorso precedente, ma che sono in possesso ai titoli e di capacità superiori agli idonei ultimi classificati. Tale interpretazione rende non necessaria la previsione di un termine finale per l'utilizzazione della graduatoria concorsuale per la copertura di posti non messi a concorso e resisi disponibili in epoca successiva; tale previsione non è, infatti, presente nella legge perchè non è necessaria, dal momento che la norma obbedisce allo scopo di accelerare le procedure concorsuali, favorendo l'assegnazione di sedi già messe a concorso e resesi disponibili a seguito di vicende riguardanti la prima assegnazione, e non allo scopo di consentire l'utilizzazione della graduatoria anche per posti non messi a concorso e resisi disponibili in epoca successiva.
10. Alla luce dei rilievi che precedono, erronea appare la decisione di accoglimento del ricorso di primo grado, che ha considerato illegittimo il silenzio serbato dalla Regione sulla diffida notificata dal Bizzarri. Questi infatti, che aveva partecipato al concorso, bandito in data 8 dicembre 1997, per l'assegnazione della sede farmaceutica sita in località Ospedalicchio del Comune di Bastia Umbra, classificandosi al secondo posto, (graduatoria approvata con atto n. 4994 del 7 luglio 199), aveva richiesto, invocando la normativa sopravvenuta di cui all'art. 2, comma 2, legge n. 389 del 1999, l'assegnazione della sede farmaceutica n. 38 del Comune di Perugia, risultante disponibile a seguito della revisione della pianta organica approvata dal Consiglio Regionale con atto n. 684 del 31 maggio 1999. Nessun obbligo aveva, peraltro la Regione Umbria di provvedere su tale istanza dal momento che la sede richiesta non era fra quelle messe a concorso con il procedimento al quale aveva preso parte il Bizzarri, e che la disciplina di cui all'art. 12, comma 2, della legge n. 389 del 1999 non consente l'utilizzazione delle graduatorie concorsuali per la copertura di sedi farmaceutiche non messe a concorso.
11. In conclusione, l'appello proposto dalla Regione Umbria, da considerare ammissibile a seguito della concessione dell'errore scusabile con riferimento al tardivo deposito del medesimo, va accolto, sicchè, in riforma della sentenza impugnata, va rigettato il ricorso di primo grado proposto da Bizzarri Mario al Tribunale Amministrativo Regionale dell'Umbria.
L'incertezza interpretativa connessa con le nuove discipline introdotte dalla legge n. 389 del 1999 e dalla legge n. 205 del 2000 giustifica l'integrale compensazione delle spese di entrambi i gradi del giudizio.
P. Q. M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Adunanza Plenaria, giudicando sull'appello in epigrafe:
1) concede il beneficio dell'errore scusabile in ordine al deposito, da parte della Regione Umbria, del ricorso in appello;
2) accoglie l'appello, e per l'effetto, in riforma della sentenza impugnata, rigetta il ricorso di primo grado proposto da Bizzarri Mario al Tribunale Amministrativo Regionale dell'Umbria;
3) compensa integralmente tra le parti le spese di entrambi i gradi del giudizio.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità Amministrativa.
Così deciso in Roma nella Camera di Consiglio del giorno 11 marzo 2002 con l'intervento dei Signori:
Alberto de Roberto Presidente
Sergio Santoro Consigliere
Domenico La Medica Consigliere
Alessandro Pajno Consigliere est.
Costantino Salvatore Consigliere
Raffaele Maria De Lipsis Consigliere
Giuseppe Farina Consigliere
Corrado Allegretta Consigliere
Luigi Maruotti Consigliere
Chiarenza Millemaggi Cogliani Consigliere
Marcello Borioni Consigliere
Paolo Buonvino Consigliere
Goffredo Zaccardi Consigliere
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
f.to Alessandro Pajno f.to de Roberto Alberto
Depositata in segreteria il 31 maggio 2002.
Commento di
GIULIO BACOSI
(Avvocato dello Stato)
Plenaria e
servizio pubblico farmaceutico,
tra "termini dimezzati" errore scusabile e "tutela
raddoppiata"
Il fatto
La Regione Umbria bandisce un concorso per l'assegnazione della titolarità di una sede farmaceutica, precisamente della farmacia n.4 del Comune di Bastia Umbra (località Ospedalecchio).
Espletata la procedura selettiva ed approvata la relativa graduatoria (7 luglio 1999, atto n.4994), due dei concorrenti si collocano ex aequo al primo posto, ma uno dei due viene preferito in forza di un titolo di precedenza ottenendo, per l'effetto, l'anelata sede farmaceutica e ad un tempo scatenando la reazione giurisdizionale del pretermesso, il quale adisce il locale Tar.
Nelle more dell'iniziativa giurisdizionale interviene un pertinente neoinnesto normativo compendiantesi nella legge n.389 del 28 ottobre 1999, con la quale vengono dettate nuove norme in materia di assegnazione di sedi farmaceutiche e di concorsi ad essa funzionali, suggerendo al già ricorrente
dapprima una diffida alla Regione Umbria, al fine di vedersi assegnata, quale secondo classificato nell'economia della espletata procedura, altra sede farmaceutica (la n.38 del Comune di Perugia, con ubicazione in Santa Sabina - Lacugnano) resasi disponibile pure medio tempore (a seguito di revisione della pianta organica approvata dal Consiglio Regionale con atto n.684 del 31 maggio 1999), ancorché a suo tempo non messa a concorso;
quindi, al cospetto dell'inerzia dell'Amministrazione regionale, un nuovo ricorso al Tar dell'Umbria inteso ad ottenere la declaratoria della "illegittimità del silenzio" serbato dalla controparte pubblica ed il conseguente obbligo di provvedere sulla relativa istanza.
Il Tribunale perugino ritiene di poter confortare le tesi del ricorrente in relazione al secondo degli interposti gravami (quello avverso il "silenzio"), peraltro non limitandosi a dichiarare l'obbligo della Regione di provvedere sulla istanza di copertura della nuova e diversa sede farmaceutica, ma financo - nel merito - accertando l'obbligo di provvedervi attraverso l'utilizzo della graduatoria concorsuale approvata in data 7 luglio 1999, pur "pudicamente" precisando doversi ritenere la verifica dei presupposti per l'assegnazione di detta sede affidata ai "poteri doveri dell'Amministrazione".
E' ormai la Regione a prendere l'iniziativa del gravame, questa volta in sede di appello innanzi al Consiglio di Stato. L'oggetto del contendere, ovviamente il medesimo delle prime cure, concerne la corretta interpretazione da darsi alla locuzione "sedi farmaceutiche eventualmente disponibili" contenuta nell'art.2 comma 2° della legge 389.99:
nell'opinione dell'appellato già ricorrente innanzi al Tar, tale locuzione deve assumersi ricomprendere anche le nuove sedi resesi disponibili durante l'espletamento della nota procedura concorsuale ed inizialmente non annoverate (proprio perché allora non disponibili) tra quelle messe a concorso, con la conseguenza onde una sede di tal fatta andrebbe assegnata, nel vigore della sopravvenuta normativa, a soggetti utilmente collocati in graduatorie pur afferenti a procedure ab ovo destinate alla copertura di altre e specifiche sedi farmaceutiche;
nella diversa prospettiva abbracciata dalla Regione appellante (peraltro sostenuta da una schiera di intervenienti ad adiuvandum), al contrario, le "sedi farmaceutiche eventualmente disponibili" oggetto di possibile conferimento agli utilmente collocati nella nota graduatoria concorsuale non potrebbero essere che quelle in funzione della copertura delle quali fu in incipit bandito il concorso, che si siano successivamente rese disponibili per motivi strettamente connessi alla persona del soggetto risultatone concreto assegnatario all'esito della competizione (tipico esempio, la rinuncia).
Nondimeno, nel costituirsi in giudizio l'appellato - ben prima di contestare nel merito la fondatezza del gravame interposto dalla parte pubblica regionale - solleva una eccezione processuale di quelle che "spiazzano": l'appello della Regione Umbria sarebbe irricevibile perché depositato oltre il termine di 15 giorni dalla notifica dello stesso, in diretta violazione dell'art.23.bis della legge 1034.71 che, come noto, introdotto dall'art.4 della legge 205.00, sancisce - in relazione a processi amministrativi su determinate materie, tra le quali quella di pertinenza - la dimidiazione di tutti i termini processuali, ivi compreso quello per il deposito dell'atto di appello, da assumersi ormai ridotto dai canonici 30, per l'appunto, a 15 giorni dalla notifica del gravame all'appellato vittorioso in prime cure (comma 7°).
L'adita IV Sezione del Consiglio di Stato, dopo aver vagliato con esito positivo la effettiva applicabilità dell'art.23.bis alla fattispecie decidenda (il conferimento di sedi farmaceutiche rientra tra le procedure di affidamento di un "servizio pubblico"), riscontra un amletico dubbio interpretativo afferente la portata dei commi 2° e 7° della ridetta disposizione.
Più in specie:
da un lato, parrebbe doversi ritenere pienamente applicabile la dimidiazione dei termini processuali anche alla sequenza investente il deposito dell'atto di appello;
dall'altro, e al contrario, tale dimidiazione parrebbe potersi escludere in forza del comma 2° dell'art.23.bis, laddove si riferisce alla non dimidiabilità del termine per la "proposizione del ricorso"; poiché anche l'appello si propone con ricorso, e dal momento che la proposizione ha un valore semantico tale da potenzialmente ricomprendere tanto la notifica quanto il deposito del ricorso medesimo, non potrebbe escludersi a priori l'opposta esegesi intesa a ritenere non dimidiabile il termine concernente il deposito del gravame di seconde cure.
L'art.45 del r.d.1054.24 consente alla IV Sezione - stante anche la indubbia rilevanza della questione in riferimento alla pletora di possibili casi analoghi in cui la stessa potrebbe ripresentarsi innanzi alle Sezioni Semplici del Consiglio - di sgravarsi dall'onere di fornire in via diretta una soluzione al caso, investendone in toto l'Adunanza Plenaria con ordinanza n.122 del 10 gennaio 2002.
Quest'ultima, dopo aver reso pubblico il dispositivo (n.1/02) del proprio decisum in data 11 marzo 2002, esplicita con la decisione in chiosa l'iter motivazionale che l'ha condotta ad abbracciare il circuito argomentativo suggeritole dall'Avvocatura dello Stato nel contesto letterale dell'appello predisposto nell'interesse della Regione Umbria.
La decisione della Plenaria
Il Supremo Consesso Amministrativo, con il consueto, garbato stile, si dà cura in primis di confermare quanto già acclarato dalla Sezione rimettente in ordine alla riconducibilità della fattispecie vagliata al novero di quelle elencate dall'art.23.bis della legge 1034.71, e come tali pienamente rientranti nella relativa sfera precettiva.
Tra tali ipotesi - fatte oggetto di una speciale disciplina processuale connotata, massime, da spiccata celerità di definizione della vertenza - rientra infatti quella, prevista dal comma 1° lett.c) del ridetto articolo 23.bis, concernente i "provvedimenti relativi a procedure di aggiudicazione, affidamento ed esecuzione di servizi pubblici"; un caso dai contorni sufficientemente netti, nell'orbita del quale campeggia un "servizio pubblico" (compendiato pacificamente anche dalla gestione di una sede farmaceutica) ed una procedura di relativo affidamento, quale appunto quella attraverso la quale vengono individuati i titolari di sedi farmaceutiche vacanti.
In altri termini, poiché il servizio farmaceutico viene esplicitamente definito "servizio pubblico" dall'art.33 comma 1° del decreto legislativo n.80 del 1998, e stante come per tale lo stesso venga additato dalla giurisprudenza financo delle Sezioni Unite della Cassazione (sentenza n.7867 dell'11.6.01), un giudizio quale quello condotto allo scandaglio dapprima del Tar Umbria, quindi della IV Sezione del Consiglio di Stato in sede di appello e, infine, della stessa Adunanza ed avente ad oggetto la "legittimità" del silenzio serbato dalla p.a. regionale su una istanza intesa ad ottenere l'assegnazione di una sede farmaceutica da parte di un soggetto già partecipante ad una procedura concorsuale all'uopo, non potrebbe non ritenersi disciplinato dalla peculiare, agile liturgia processuale tracciata dall'art.23.bis della legge 1034.71.
L'Adunanza ha del resto buon gioco nel respingere la - per vero, debole - eccezione sollevata dalla Regione appellante sul punto ed intesa ad escludere l'applicabilità del rito accelerato sulla scorta della circostanza onde, essendo stato "impugnato" (meglio sarebbe dire: contestato) un comportamento inerte dell'Amministrazione regionale, anche sulla scorta del recente precedente del Supremo Collegio n.1 del 2002 la Regione medesima non potrebbe che essere eventualmente costretta dal giudice amministrativo (di primo grado o d'appello) - non già a conferire al privato direttamente e nel merito il bene della vita anelato (la sede farmaceutica) - quanto piuttosto a prendere posizione sulla relativa istanza, con connessa esclusione di qualsivoglia questione attinente al "servizio pubblico".
Seppur con terminologia certamente non avallata a tutto tondo dalla dottrina (si discorre a più riprese di "illegittimità" e di "legittimità" del silenzio), i Giudici di Palazzo Spada ribadiscono come il più autentico oggetto del giudizio portato innanzi a sé (e prima ancora, innanzi al Tar Umbria) sia quello di verificare se sia corretto - una volta introdotta nel sistema la legge 389.99 - l'operato di un'Amministrazione Regionale rimasta silente dinanzi ad una esplicita domanda di utilizzo di una graduatoria concernente un precedente concorso al fine di assegnare una sede farmaceutica resasi vacante successivamente alla conclusione del concorso medesimo e, come tale, da assumersi come non vacante al momento in cui lo stesso fu bandito; un giudizio che non può non ritenersi involgere profili di affidamento di un servizio pubblico quale pacificamente è considerato quello farmaceutico, con conseguente piena applicabilità dell'art.23.bis della legge 1034.71.
Venendo ormai alla questione centrale in relazione alla quale ne è stato esplicitamente sollecitato l'autorevole intervento, il Supremo Consesso Amministrativo "scopre subito le carte" del proprio convincimento giuridico-ermeneutico, assumendo pienamente applicabile il regime di dimidiazione dei termini processuali anche alla fase di deposito dell'appello al Consiglio di Stato, da assumersi gestibile entro il ristretto torno temporale di appena 15 giorni (al posto degli ordinari 30) dalla notifica dello stesso.
La dotta pronuncia - inoltratasi nella galassia dei molteplici, pertinenti addentellati esegetici - motiva le proprie ragioni fondandole in primo luogo su considerazioni di carattere (ormai) latamente storicistico: il peculiare interesse pubblico che connota determinate fattispecie ha imposto sin dal 1997 - attraverso l'art.19 del decreto legge n.67 del 25 marzo (in materia di procedure di affidamento di opere pubbliche), nonché attraverso l'art.1 comma 27° della legge n.249 del 31 luglio (in materia di provvedimenti dell'Authority per le telecomunicazioni) - un binario processuale "accelerato" per la definizione delle vertenze a tali fattispecie afferenti, garantendo una più agile raggiungimento dell'exitum giurisdizionale, secondo una logica che la stessa Corte costituzionale, con la nota sentenza n.427 del 10 novembre 1999, ha ritenuto non solo legittima ma, a determinate condizioni (con particolare riguardo alla necessaria salvaguardia del contraddittorio ed alla imprescindibile completezza della istruttoria) né illogica né irragionevole.
Con particolare riferimento all'art.23.bis, il Collegio ne vaglia sistematicamente (oltrechè pedissequamente) i singoli passaggi precettivi:
si applica nei giudizi innanzi agli organi di giustizia amministrativa, con riferimento, pertanto, sia al primo grado che all'appello (comma 1°);
si riferisce a determinati "oggetti"; in altri termini, garantisce un celere iter processuale alle controversie che afferiscano a determinate materie, specificamente ivi elencate [comma 1°, lettere da a) a g)];
se si prescinde dai termini per la "proposizione del ricorso", tutti i termini processuali, con riguardo alle controversie imbastite nelle materie ridette, sono ridotti alla metà (comma 2°);
consente al giudice adito in sede di cautela di anticipare la discussione del merito ove ritenga, ad un primo esame, che il ricorso sottopostogli concerna un provvedimento illegittimo e sussista un danno grave ed irreparabile, salva sempre la immediata definizione nel merito - è da intendersi, anche in senso negativo per il ricorrente - prevista dall'art.26 comma 4° (commi 3°, 4° e 5°);
impone la pubblicazione del dispositivo della pronuncia entro 7 giorni dall'Udienza (comma 6°);
impone, con specifica disposizione derogatoria rispetto al regime ordinario, che l'eventuale appello sia "proposto" nei 120 giorni dalla pubblicazione della sentenza del Tar o nei 30 dalla relativa notificazione, consentendo anche l'impugnativa - con riserva di motivi - del dispositivo entro 30 giorni dalla relativa pubblicazione (comma 7°: per una ipotesi analoga in materia di processo civile del lavoro, cfr. art.433 comma 2° cpc);
dispone la relativa applicazione anche nei giudizi nei quali, innanzi al Consiglio di Stato in sede di appello, si chieda la "sospensione della sentenza (del Tar) appellata", con ciò intendendo estendere - il Collegio lo chiarisce tanto zelantemente quanto opportunamente - la peculiare disciplina cautelare dettata nei precedenti commi da 3° a 5° anche al processo cautelare d'appello (comma 8°); tale deve infatti ritenersi l'unica interpretazione non ridondante in un mero "doppione" di quanto già affermato nel comma 1°, essere l'art.23.bis applicabile in tutti i giudizi "speciali" innanzi agli "organi di giustizia amministrativa", e pertanto anche innanzi al Consiglio di Stato.
Fatte queste premesse di ordine sistematico, la prima conclusione: stante la peculiare gamma degli interessi pubblici connessi alle materie fatte oggetto di giudizio "accelerato" dall'art.23.bis della legge 1034.71, materie di "particolare rilevanza economica e sociale", la ratio acceleratoria per la definizione delle relative controversie all'uopo predisposta dal legislatore non può che far propendere per il carattere di autentica "regola" del comma 2°, confinando nel perimetro delle eccezioni - tanto dinanzi al Tar quanto in appello dinanzi al Consiglio di Stato - le ipotesi in cui i termini processuali siano da ritenersi non dimidiati.
Tale dimidiazione, "generale perché riferita sia a tutti i termini che a tutti i gradi di giudizio" - può trovare smentita esclusivamente in forza di una eventuale, specifica deroga, da rinvenirsi sempre nell'articolato di cui al 23.bis ed in difetto della quale qualsivoglia termine ordinario va automaticamente inteso - con riguardo alle controversie sulle additate, peculiari materie di interesse pubblico - come ridotto alla metà.
Di eccezioni nel senso predetto il Supremo Consesso Amministrativo ritiene di poterne rinvenire due, e precisamente:
a) quella che esclude dalla regola della dimidiazione il termine per la "proposizione del ricorso", evidentemente da intendersi come ricorso di primo grado innanzi al Tar (comma 2°);
b) quella che, del pari in via derogatoria, introduce uno specifico termine per la proposizione dell'appello innanzi al Consiglio di Stato, esplicitamente compendiantesi in 30 giorni dalla notificazione della sentenza gravanda e in 120 dalla relativa pubblicazione (comma 7°: mette conto precisare peraltro come curiosamente il regime "derogatorio" testè analizzato finisca con l'assoggettare ad un termine "dimidiato" di 30 giorni un atto, come la notificazione dell'appello, in genere soggetto al noto e "raddoppiato" termine di 60 giorni).
Con particolare riguardo al comma 2° dell'art.23.bis legge 1034.71, la Plenaria acutamente registra una impennata di tuziorismo del legislatore rispetto alle conclusioni già raggiunte da autorevole giurisprudenza della Corte costituzionale in riferimento alla analoga disposizione prevista dal c.d. "decreto sbloccacantieri", ovvero dall'art.19 comma 3° del decreto legge 67 del 1997 (oltrechè dall'art.1 comma 27° della legge 297.97 in materia di atti dell'Autorità Garante per le Comunicazioni), laddove era stata già prevista una riduzione alla metà di tutti i termini processuali in relazione ai giudizi concernenti procedure di affidamento di incarichi di progettazione ovvero afferenti a provvedimenti di aggiudicazione, affidamento ed esecuzione di opere pubbliche (c.d. "rito accelerato").
In specie, la dottrina e parte della giurisprudenza avevano posto in luce come la ridetta "accelerazione" potesse rivelarsi oltremodo impingente sul diritto di difesa costituzionalmente garantito con riguardo al termine di notificazione del ricorso di primo grado, allorché il privato aspirante ricorrente non fosse ancora munito di difesa tecnica, vedendosi come tale costretto a reperire un legale di fiducia nel più compassato termine di 30 giorni (al posto dei più confortanti 60) dalla conoscenza del provvedimento impugnando.
La Corte Costituzionale aveva tuttavia rappresentato, nel contesto letterale della nota pronuncia n.427.99, come in realtà l'efficacia e la completezza della difesa non potessero assumersi pregiudicate oltre un limite realmente ragionevole in forza della nota dimidiazione del termine di proposizione del ricorso di prime cure.
Tale rincorrersi di questioni e relative, autorevoli soluzioni consente alla Plenaria, con un ragionamento a metà tra lo storicistico ed il sistematico, di interpretare la deroga prevista dal comma 2° dell'art.23.bis legge 1034.71 come esplicitamente riferibile alla sola "proposizione del ricorso" di primo grado, e non anche di appello: nella sostanza, il legislatore ha ritenuto di scongiurare in ogni caso il rischio (pur assunto come remoto dalla Corte Costituzionale) che l'aspirante ricorrente possa veder scalfita la propria inviolabile prerogativa difensiva (presidiata dalla Generalklausel di cui all'art.24 Cost.), consentendogli, in una fase in cui non è ancora munito di difensore, di reperirlo nel più ampio torno di tempo bimestrale.
Analoghe esigenze non si pongono per il giudizio di appello al quale, in effetti, si applicherebbe la disposizione generale della dimidiazione dei termini prevista dal comma 2° (ed operativa, ai sensi del comma 1°, con riferimento a tutti i giudizi davanti agli organi di giustizia amministrativa, compreso il Consiglio di Stato in sede di gravame) se non fosse prevista una disposizione ad hoc, il comma 7° (che peraltro - come già evidenziato e quantomeno con riguardo al termine "breve" di impugnazione - non fa che confermare la regola della dimidiazione fissando il tempus di ricevibilità dell'appello in 30 giorni dalla notifica della sentenza gravando).
L'inferenza sistematica più rilevante che l'Adunanza trae dal complessivo, riassunto argomentare è peraltro quella onde "la presenza di una disciplina esplicita per il termine di proposizione dell'appello, contenuta nell'art.23.bis comma 7° esclude, ..che l'inciso "salvo quelli per la proposizione del ricorso" contenuto nel comma 2° [e relativo alle eccezioni alla dimidiazione] si riferisca al giudizio di appello".
Né manca un interessante accenno alla mutatio intervenuta nelle more dei lavori preparatori che hanno condotto all'avvento dell'art.23.bis legge 1034.71; in specie, nel disegno di legge governativo originario costituiva eccezione alla generale regola di dimidiazione dei termini "quello" (vale a dire: il termine) di proposizione del ricorso, mentre il testo definitivamente approvato vede l'espressione trasfigurata al plurale in "quelli" (leggi ancora, i termini) di proposizione del gravame medesimo.
In realtà - il Collegio lo chiarisce subito - l'intenzione del legislatore è stata quella di escludere ogni dubbio sul fatto che a rimanere fuori dall'area della dimidiazione debba intendersi non solo il ricorso principale, ma anche quello (eventuale) incidentale, rimanendo sottesa ad entrambi i modelli di iniziativa giurisdizionale la medesima esigenza di preservare il ricorrente dal rischio di non poter fruire di un congruo termine per imbastire una difesa tecnica all'altezza.
Per quanto poi concerne il comma 7° della disposizione in parola, compendiante la seconda delle menzionate eccezioni alla regola generale della dimidiazione, il Collegio censura con modus argomentativo improntato a stretto rigore logico la tesi di quella tra le parti (il Sindacato unitario farmacisti rurali) che aveva ritenuto non dimidiabile il termine di deposito dell'atto di appello, facendone rifluire la relativa disciplina nell'ordinario schema processuale dei 30 giorni dalla notificazione dell'appello stesso.
In realtà, la valenza di "eccezione" alla regola generale della dimidiazione concerne soltanto la fase processuale esplicitamente additata dal comma 7°, ovvero la notifica dell'appello, che deve avvenire entro 30 giorni dalla notifica della sentenza gravanda (termine breve, peraltro dimidiato) ovvero entro 120 dalla relativa pubblicazione (termine c.d. "lungo", rivisitato rispetto al canonico termine annuale).
Al di fuori di questa specifica previsione, si riespande - a detta dell'Adunanza - la forza della regola generale fissata nel comma 2° sicchè, in difetto di peculiari esigenze di tutela della difesa tecnica dell'appellante (già munitosi di difensore nel corso del primo grado di giudizio) lo stesso dovrà provvedere al deposito dell'appello nel termine dimezzato di 15 giorni dalla intervenuta notifica.
La plausibilità - quantomeno sotto il profilo strettamente letterale - di una diversa opzione ermeneutica sospinge peraltro l'Adunanza verso ulteriori, significative considerazioni.
In specie, la circostanza onde il comma 7° si esprime in termini di generale "proposizione" dell'appello al fine di identificarne il tempus utile alla bisogna ha fatto propendere taluna delle parti costitutite per l'esegesi dell'espressione nel senso per cui occorrerebbero 30 giorni con riguardo ad entrambe le sotto-fasi che, in sequenza, danno luogo all'effettivo instaurarsi del c.d. "rapporto processuale" tra parti e giudice, vale a dire la notificazione ed il susseguente deposito dell'appello stesso.
Detto altrimenti, "proporre l'appello entro 30 giorni" potrebbe significare - secondo la tesi, va detto subito, contestata dalla Plenaria - notificarlo nei 30 giorni utili e depositarlo nei successivi 30 dalla notifica, ricomprendendo l'espressione "proposizione" entrambi i segmenti processuali menzionati.
Il Collegio ha tuttavia buon gioco nel ribadire come il fatto che il dies a quo sia stato fatto decorrere dal legislatore, rispettivamente, dalla notifica della gravanda sentenza (termine breve) e dalla relativa pubblicazione (termine lungo) non potrebbe che far deporre nel senso della riferibilità del "mese" di tempo alla sola notifica del ricorso in appello, e non già anche al relativo deposito.
A confermare tale crinale esegetico militano, precisa l'Adunanza, non già solo profili sistematici (la precedente decisione n.35 del 1980 della stessa Plenaria ha insegnato come la notifica del ricorso giurisdizionale amministrativo, anche d'appello - quale manifestazione della volontà della parte di adire un giudice al fine di invocarne tutela - differisca dal successivo deposito del ricorso medesimo, atto che realizza l'effettivo contatto tra parte e giudice cristallizzando la litispendenza), ma financo profili letterali, come mostra in misura palmare l'art.28 comma 2° della stessa legge 1034.71, laddove, discorrendo di appello e di relativa notificazione, sancisce come lo stesso sia ".da proporre nel termine di 60 giorni dalla ricevuta notificazione" della sentenza.
Del resto, la stessa interpretazione che aveva reso la giurisprudenza dell'art.19 comma 3° del decreto "sbloccacantieri", esplicitamente definito dall'Adunanza "precedente storico" della disposizione portata al vaglio del Supremo Consesso Amministrativo, si era mossa nel senso di annoverare tra "tutti i termini processuali.ridotti della metà" anche il termine per il deposito dell'atto di appello, da assumersi di 15 giorni e non già di 30.
Lettura "al cardiopalmo" della sentenza in chiosa ex parte publica: tutto depone per la irricevibilità-inammissibilità dell'appello proposto 18 giorni dopo la notificazione della sentenza gravanda quando, ad un tratto, il colpo di scena, probabilmente meno tale per gli addetti ai lavori: alla Regione viene concesso il beneficio dell'errore scusabile, ai sensi dell'art.34 del t.u. n.1054.24 e della medesima disposizione (art.34) contenuta nella legge 1034.71.
S'è precisato: meno tale per gli addetti ai lavori.
Ed invero, l'istituto della rimessione in termini per errore scusabile si atteggia, ex lege, a panacea idonea a consentire al giudice - come efficacemente ribadito dal Collegio - di "..temperare il rigore della previsione di un termine di decadenza ove ritenga che l'errore in cui sia incorso il ricorrente possa essere ritenuto [per l'appunto] scusabile". Si tratta di un'ancora di salvataggio che, continua efficacemente l'Adunanza, "..deve ritenersi applicabile ad ogni tipo di possibile invalidità o irregolarità degli atti processuali, collegata al mutare della disciplina legislativa, alla difficoltà obiettiva di interpretazione od alle innovazioni nella giurisprudenza amministrativa".
Nella sostanza, le ambiguità riconnettibili all'avvento dell'art.4 legge 205.00, ed al contestuale innesto nella legge 1034.71 dell'art.23.bis sono circostanze idonee - per il Collegio, e pur al cospetto della ridetta, consolidata interpretazione pretoria di analogo stampo con riguardo all'abrogato art.19 del decreto legge 67.97 - a scongiurare irrecuperabili decadenze, consentendo al contrario di far "salvo" l'appello della Regione.
Che, peraltro, esce vittoriosa anche nel merito.
Per "sedi farmaceutiche eventualmente resesi disponibili" ex art.2 comma 2° della legge 389.99, con particolare riferimento al bandito concorso per cui è causa, vanno intese esclusivamente quelle contemplate nel bando medesimo, assegnate ai vincitori e successivamente tornate vacanti per vicende soggettive attinenti ai primi assegnatari medesimi (es., rinuncia, decadenza etc.), e non già ulteriori e diverse sedi dislocate nel territorio regionale che, pur resesi medio tempore vacanti, non siano annoverabili tra quella ab origine considerate a fini concorsuali.
Più nel dettaglio, la disciplina dettata dal menzionato articolo 2 della legge 389.99 ha inteso accelerare le procedure, ancorché già in corso alla data di relativa entrata in vigore, di assegnazione di sedi farmaceutiche già bandite con previsione, per il caso in cui taluno degli assegnatari abbia rinunciato, o sia decaduto dall'assegnazione, od altro, di un contemporaneo (e non più diacronicamente frazionato) interpello degli idonei, in ordine di graduatoria, al fine di acquisirne all'unisono le rispettiva preferenze entro un frangente temporale peraltro brevissimo (5 giorni dall'interpello).
La Plenaria pertanto, pur ventilando la potenziale plausibilità di una interpretazione difforme, ritiene di dover abbracciare quella quantomeno prima facie più aderente al profilo letterale (oltrechè alle "esigenze sottese all'art.97 Cost".), ritenendo titolari di posizioni giuridiche soggettive tutelabili tutti i soggetti (tra i quali il ricorrente di prime cure) che abbiano partecipato al concorso per l'assegnazione di sedi farmaceutiche, e tuttavia esclusivamente in relazione a sedi già assegnate e dipoi "resesi eventualmente disponibili" nel senso anzidetto, con esclusione della possibile fruibilità di sedi farmaceutiche non già bandite e pure resesi disponibili nelle more tra concorso e novità ordinamentale.
Una volta che la farmacia già assegnata sia di nuovo "libera" per mancata accettazione, rinuncia, decadenza et similia coinvolgenti l'assegnatario primigenio, scatta per legge la possibilità di interpellare, tenendo presente l'ordine di graduatoria, i successivi aspiranti alla sede che non siano peraltro già stati resi assegnatari di altra sede (mentre la precedente e ben "più farraginosa" disciplina di cui all'art.10 del d.p.r. 1275.71 - regolamento per l'esecuzione della legge 475.68, recante norme concernenti il servizio farmaceutico - imponeva un nuovo interpello in sequenza anche dei già assegnatari, idoneo a rimettere in giuoco tutto l'assetto cristallizzatosi prima della mancata accettazione, rinuncia o decadenza).
Ne discende la infondatezza del ricorso interposto dalla parte privata in prime cure innanzi al Tar Umbria ed inteso a far accertare "l'illegittimità" di un silenzio che si configura, al contrario, quale contegno affatto lecito dell'Amministrazione Regionale, non tenuta a rispondere con riguardo ad una istanza mal spesa da un ricorrente intenzionato ad una assegnazione di sede in realtà "non disponibile" per i partecipanti ad un concorso che non la annoverava tra quelle assegnabili.
Spunti di riflessione
L'Adunanza, nel tracciare le guide lines in punto di esegesi dell'art.23.bis legge 1034.71, ha fatto proprio un orizzonte interpretativo non solo più che plausibile (pur non mancando frecce nell'arco della opposta tesi facente perno sulla non dimidiabilità del termine di deposito dell'atto di appello), ma financo ulteriormente corroborabile giusta un'ulteriore considerazione di carattere schiettamente sistematico.
Ed invero, anche a volere intendere - nel solco tracciato dall'autorevole pronunciamento dell'Adunanza - il comma 7° dell'art.23.bis quale ulteriore eccezione al principio generale [con riguardo alle pertinenti vertenze di cui al comma 1°, lettere da a) a g)] della dimidiazione di tutti i termini processuali scolpito nel comma 2° di quella medesima norma (l'altra fattispecie fuori dal coro è quella che afferisce alla "proposizione" del ricorso di prime cure: ancora comma 2°), non se ne potrebbe negare la natura di autentica "eccezione che conferma la regola".
Per la proposizione dell'appello è infatti previsto - come già più volte denunciato qualche rigo supra - un termine "breve" di 30 giorni (al posto degli ordinari 60) dalla notifica della sentenza a cura della parte vittoriosa innanzi al Tar; un termine che forse non proprio a caso si appalesa anch'esso "dimezzato", e come tale inserentesi a pieno titolo nella logica precettiva che pervade l'intera disposizione di cui all'art.23.bis della legge 1034.71.
Ciò stante, apparirebbe fuor d'ogni logica o, per usare un termine più caro alla giurisprudenza, affatto irragionevole - nel contesto di uno schema generale di contenzioso in cui tutti i termini, compreso quello "breve" di "proposizione" (notifica) dell'atto di appello, appaiono dimezzati (in disparte l'ipotesi della notifica del ricorso di primo grado, per i ben noti, impreteribili postulati di salvaguardia del diritto di difesa in giudizio ad essa sottesi) - immaginare che il deposito dell'appello resti ricevibile nel termine canonico di due mesi dalla relativa notifica.
La decisione solleciterebbe poi ulteriori considerazioni su tematiche che lambiscono i massimi sistemi, prima tra tutte proprio la peculiare attenzione che il Collegio pare prestare alla necessità di garantire un efficace ed intangibile presidio al diritto di difesa tecnica costituzionalmente garantito ex art.24 Cost.
Ma anche la nota questione afferente il più autentico oggetto del giudizio sul c.d. "silenzio" della p.a. pare calcare, seppure in punta di piedi, la scena della pronuncia in commento; oggetto che dovrebbe rimanere l'accertamento di un obbligo della p.a. di provvedere nel modo che la stessa riterrà conveniente nell'interesse pubblico (cfr. la recente decisione n.1 del 2002), senza che l'accertamento di tale obbligo "formale" possa rimanere in qualche modo "contaminato" da un contestuale accertamento sul "merito" della pretesa privata, tale da subdolamente rifluire sul primo condizionando la concreta determinazione giurisdizionale nel singolo caso di specie (l'istituto della pubblica inerzia è stato, peraltro, recentemente rivisitato sul versante sostanziale in terra di Francia, attraverso un intervento legislativo plurisegnalato sulle riviste specializzate).
Preme, peraltro, maggiormente lumeggiare la chance offerta alla Plenaria, e che questa ha - con ogni probabilità - volutamente inteso non cogliere (anche al fine di scongiurare consistenze decisionali "chilometriche" decisamente poco giovevoli in termini di chiarezza giuridica), di affrontare lo spinoso busillis concernente il rapporto tra
giudizio "abbreviato" in materia di "silenzio", per come disegnato dall'art.21.bis della legge 1034.71 (introdotto dall'art.2 della legge 205.00)
e giudizio "accelerato" di cui all'art.23.bis della medesima legge 1034.71 (introdotto dall'art.4 della legge 205.00).
Nel caso di specie, invero, il Supremo Consesso Amministrativo è stato chiamato a pronunciarsi su una ipotesi di inerzia della p.a. assunta come "illegittima" dal ricorrente privato, con riguardo ad una fattispecie (assegnazione di sedi farmaceutiche) che la stessa Adunanza ha inteso annoverare tra quelle le vertenze in ordine alle quali sono convogliabili nell'area di operatività dell'art.23.bis della legge 1034.71, con particolare riferimento alla relativa lettera c) (provvedimenti relativi a procedure di aggiudicazione, affidamento ed esecuzione di servizi pubblici e forniture, ivi compresi i bandi di gara e gli atti di esclusione).
In disparte la pur rilevante questione concernente la eventuale decidibilità della causa de qua in camera di consiglio, ai sensi dell'art.21.bis comma 1° della legge Tar novellata, ben più significativa - di tale ultima norma, e con riferimento alla fattispecie in oggetto - appare l'ultima sezione propositiva concernente l'appello, laddove dispone che una decisione di prime cure resa in tema di "silenzio" "..è appellabile entro 30 giorni dalla notificazione o, in mancanza, entro 90 giorni dalla pubblicazione".
Interessa, ovviamente, meno il termine "lungo" e ben più quello c.d. "breve": a rigor di logica
occorrerebbe in primo luogo interpretare la locuzione "la decisione è appellabile entro 30 giorni dalla notificazione", cercando di intuire se per "appellabile" il nomopoieta ha voluto intendere, con riferimento al ricorso d'appello, che quest'ultimo sia solo "da notificarsi" nei 30 giorni ridetti, ovvero anche da depositarsi presso il Consiglio di Stato;
in secondo luogo, e con riguardo a fattispecie quali quella in commento, sarebbe d'uopo cercare di capire come si sovrappone su questo schema la "dimidiazione" prevista in via generale dall'art.23.bis per i processi ivi elencati potendosi giungere, per chi si ispiri al massimo rigore, a concepire un torno di tempo di davvero pochi giorni tanto per la notificazione quanto per il deposito dell'atto di appello, con evidenti, negativi riflussi sullo stesso principio di necessaria salvaguardia del diritto di difesa costituzionalmente presidiato (art.24 Cost.).
A questi brevi e fors'anche provocatori "guizzi" tratti dal contesto ordinamentale vigente ed affioranti dall'interrelazione tra le norme che lo compendiano, se ne può aggiungere un altro di natura schiettamente comparatistica.
Già nella recente pronuncia n.1del 2001 la Plenaria si era occupata di errore scusabile (e di connessa remissione in termini a fini di proposizione del ricorso giurisdizionale), giungendo ad ammetterne la concreta concedibilità solo al cospetto di incertezze tali - con riguardo alla fattispecie concretamente vagliata - da impedire al ricorrente una tempestiva tutela delle proprie ragioni; e, contestualmente, ad escluderne la valenza operativa laddove lo stesso si atteggi(asse) a commodus discessus per il ricorrente al fine di eludere il generale principio di presunzione di conoscenza delle norme giuridice (salvi i casi di ignoranza scusabile).
Con la decisione in chiosa l'Adunanza riconosce invece con (almeno apparente) maggior disinvoltura l'errore scusabile, concedendo - quale relativo, diretto precipitato - la remissione in termini del ricorrente ai fini della ricevibilità dell'appello e chiarendo financo i presupposti sistematici che giustificano tale atteggiamento "grazioso" ope iudicis, facenti sostanzialmente perno sul concetto di "incertezza", sia poi che quest'ultima debba qualificarsi come "normativa" ovvero "pretoria" (si è già avuto modo in passato di segnalare l'analogia dell'istituto con la c.d. "buona fede" nelle contravvenzioni penali).
Va subito segnalata in proposito la solo apparente analogia tra l'art.34 comma 2° della legge 1034 del 1971, e l'art.184.bis del cpc, come introdotto dall'art.19 della legge 353.90, entrato in vigore il 30 aprile 1995 e successivamente modificato dall'art.6 del decreto legge 432.95 convertito, con modificazioni, nella legge 534.95, alla stregua del cui comma 1° "la parte che dimostra di essere incorsa in decadenze per causa ad essa non imputabile può chiedere al giudice istruttore di essere rimessa in termini".
Anche nel processo civile, pertanto, sussiste ormai una norma generale che consente alla parte imbattutasi incolpevolmente in decadenze di chiedere la rimessione in termini, previa verifica di effettiva scusabilità del proprio errore da parte del giudice istruttore e, in ultima analisi, di difetto di relativa colpa.
E tuttavia, mentre nel processo amministrativo l'errore scusabile e la connessa rimessione in termini da parte del giudicante possono essere, rispettivamente, riconosciuto e concessa d'ufficio, a prescindere da una previa istanza di parte; nella liturgia processuale civile l'imprescindibile istanza di parte va a braccetto con un rigoroso accertamento della relativa assenza di colpa attraverso il riversamento nel processo, da parte dell'istante, di quei fatti specifici dai quali è possibile evincere il ridetto atteggiamento incolpevole, fatti peraltro necessariamente oggetto di una previa delibazione di verosimiglianza da parte del giudice istruttore (cfr. art.294 comma 2° cpc, come richiamato dall'art.184.bis comma 2° del medesimo codice).
Si è pertanto al cospetto di uno dei - per vero, ormai non più tanto frequenti - casi in cui il binario processuale che annovera a dominus il g.a. diverge sensibilmente da quello sul quale corre il treno della giustizia civile.
Una maggiore "elasticità" della disciplina, del resto, tutt'altro che scevra da conseguenze pratiche: al cospetto di una giurisprudenza amministrativa sempre più "sostanzialista" (specie in termini di valutazione dei casi in cui è effettivamente doverosa la comunicazione di avvio del procedimento), e di una "lex in pectore" (disegno di legge n.1281) intesa a ridefinire la legge 241 del 1990, tra le altre cose, sottraendo all'orbe del giuridicamente rilevante - sulle orme dell'art.230 del Trattato - le violazioni meramente formali e procedimentali che non impingano sul contenuto dell'adottando provvedimento finale ex parte publica, pare doversi salutare con favore (quantomeno in termini di coerenza) un pronunciamento che concede l'errore scusabile e rimette in termini una parte al fine di poterne dichiarare il relativo "buon diritto" nel merito.
Con buona pace, è ovvio, di chi predica il "rigorismo processuale"..