CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA - Decisione 9 gennaio 2002 n. 1 - Pres. De Roberto, Est. Borioni - Ministero della sanità e Ministero dell'università e della ricerca scientifica e tecnologica (Avv. Stato G. Aiello) c. Albertazzi ed altri (n.c.) e Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri (n.c.) - (annulla in parte T.A.R. del Lazio, sez. I bis, 30 novembre 2000, n. 10704 - la questione era stata rimessa all'Ad. Plen. con ord. della Sez. VI, 10 luglio 2001, n. 3803, in questa rivista Internet, n. 7-8/2001).
1. Giustizia amministrativa - Ricorso giurisdizionale - Avverso il silenzio della P.A. - Disciplina prevista dall'art. 21 bis della L. TAR, introdotto dall'art. 2 della L. n. 205/2000 - Cognizione del G.A. - Riguarda solo l'accertamento della illegittimità dell'inerzia dell'amministrazione - Esame della fondatezza della pretesa sostanziale del privato - Impossibilità.
2. Giustizia amministrativa - Ricorso giurisdizionale - Avverso il silenzio della P.A. - Disciplina prevista dall'art. 21 bis della L. TAR, introdotto dall'art. 2 della L. n. 205/2000 - Esame della fondatezza della pretesa sostanziale del privato - Impossibilità - Sussiste anche quando il provvedimento richiesto dal privato abbia natura vincolata.
3. Giustizia amministrativa - Ricorso giurisdizionale - Avverso il silenzio della P.A. - Disciplina prevista dall'art. 21 bis della L. TAR, introdotto dall'art. 2 della L. n. 205/2000 - Oggetto del giudizio - Individuazione.
4. Giustizia amministrativa - Ricorso giurisdizionale - Avverso il silenzio della P.A. - Disciplina prevista dall'art. 21 bis della L. TAR, introdotto dall'art. 2 della L. n. 205/2000 - Correlazione, sotto il profilo sostanziale, con l'obbligo di concludere il procedimento ex art. 2 L. n. 241/90.
5. Giustizia amministrativa - Ricorso giurisdizionale - Nuovo potere di "riformare l'atto o sostituirlo" - Costituisce deroga al generale potere che compete al G.A. di controllo sulla legittimità dell'esercizio della potestà - Estensibilità - Limiti - Inapplicabilità al caso di ricorsi avverso il silenzio.
6. Giustizia amministrativa - Ricorso giurisdizionale - Avverso il silenzio della P.A. - Silenzio-rifiuto formatosi su di una istanza con la quale laureati in medicina e chirurgia hanno chiesto alla P.A. di determinare il giorno e la sede di svolgimento della prova attitudinale per l'esercizio della professione di odontoiatra - Obbligo di provvedere - Sussiste.
1. Nel caso in cui sia stato proposto un ricorso avverso il silenzio di cui all'art.21 bis della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, introdotto dall'art. 2 della legge 21 luglio 2000, n. 205, la cognizione del giudice amministrativo adito è limitata all'accertamento della illegittimità dell'inerzia dell'amministrazione e non si estende all'esame della fondatezza della pretesa sostanziale del privato (1). Lo stesso principio vale anche quando il provvedimento richiesto dal privato abbia natura vincolata.
Compito del giudice amministrativo è pertanto esclusivamente quello di accertare se il silenzio della P.A. sia o non sia illegittimo, e, in caso di accoglimento del ricorso, di ordinare all'Amministrazione di provvedere sull'istanza avanzata dal soggetto privato nominando, nella eventualità di ulteriore inerzia, un commissario all'uopo; lo stesso giudice non può mai sostituirsi egli stesso all'Amministrazione nell'adozione del chiesto provvedimento, neppure quando la potestà affidata alla parte pubblica abbia natura vincolata.
2. L'art. 21 bis della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, introdotto dall'art. 2 della legge 21 luglio 2000, n. 205, non contiene alcun elemento che autorizzi di attribuire al sindacato del giudice amministrativo una estensione diversa in relazione alle peculiarità sostanziali della potestà non esercitata, prevedendo, al contrario, una disciplina unica e indifferenziata, valida in tutti i casi in cui l'amministrazione si sottragga al dovere di adottare un atto autoritativo esplicito. Sotto questo profilo sono irrilevanti i presupposti di fatto del provvedimento; è determinante che il "silenzio" riguardi l'esercizio di una potestà amministrativa e che la posizione del privato si configuri come un interesse legittimo. Ed è logico e coerente che all'identità formale di situazione soggettiva dell'amministrazione e del privato corrisponda una identità di tutela giurisdizionale (2).
3. Il giudizio disciplinato dall'art. 21 bis della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, introdotto dall'art. 2 della legge 21 luglio 2000, n. 205, è diretto ad accertare se il silenzio della P.A. violi l'obbligo di quest'ultima di adottare un provvedimento esplicito sull'istanza del privato; il giudice non si sostituisce all'amministrazione in nessuna fase del giudizio, ma accerta se il "silenzio" sia o non sia illegittimo e, nel caso di accoglimento del ricorso, impone all'amministrazione di provvedere sull'istanza entro il termine assegnato; il commissario ad acta esercita, in via sostitutiva, la potestà amministrativa appartenente all'organo rimasto inadempiente.
4. Sul piano sostanziale, il giudizio sul "silenzio" previsto dall'art. 21 bis della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, introdotto dall'art. 2 della legge 21 luglio 2000, n. 205, si collega al "dovere" delle amministrazioni pubbliche di concludere il procedimento "mediante l'adozione di un provvedimento espresso" nei casi in cui esso "consegua obbligatoriamente ad una istanza, ovvero debba essere iniziato d'ufficio", così come prescrive l'art. 2, comma 2, della legge 7 agosto 1990, n.241.
5. Sul piano sistematico, la scelta operata dal legislatore si allinea al principio generale che assegna la cura dell'interesse pubblico all'amministrazione e al giudice amministrativo, nelle aree in cui l'amministrazione è titolare di potestà pubbliche, il solo controllo sulla legittimità dell'esercizio della potestà. Questo schema viene superato mediante l'attribuzione al giudice del potere di "riformare l'atto o sostituirlo" in via diretta e immediata, in sede di accoglimento del ricorso (art. 26, comma II, della legge 6 dicembre 1971, n. 1034). Tuttavia, proprio perché derogativi del principio predetto, i casi di ingerenza del giudice nella sfera dell'attività pubblicistica dell'amministrazione sono previsti da esplicite norme autorizzative (v. art. 6, comma II, e art. 7, commi I e IV, della legge n. 1034/1971); nulla impedisce di individuare altri casi in via interpretativa, sebbene con il rigore imposto dalla eccezionalità dell'istituto, ma l'analisi dell'art.21 bis della legge n. 1034/1971, anziché fornire elementi persuasivi in tal senso, accredita la conclusione opposta.
6. E' illegittimo, perchè contrastante con il dovere dell'amministrazione di concludere il procedimento con sollecitudine, il silenzio-rifiuto formatosi su di una istanza con la quale alcuni soggetti - laureati in medicina e chirurgia in possesso dei requisiti di cui all'art. 1, comma 1, del D. Lgs. n.386/1998 - hanno chiesto al Ministro della salute di determinare, entro trenta giorni, il giorno e la sede di svolgimento della prova attitudinale per l'esercizio della professione di odontoiatra prevista dal D. Lgs. 13 ottobre 1998, n.386, atteso che la fissazione della prova attitudinale consegue ad un procedimento che deve essere iniziato d'ufficio a cura del suddetto Ministero. Sussistono, pertanto, le condizioni (interesse qualificato degli istanti all'adozione del provvedimento; competenza delle amministrazioni adite) per la pronunzia dell'obbligo di provvedere, ai sensi dell'art.21 bis della legge n. 205/2000.
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(1) Ha osservato in proposito l'Adunanza Plenaria che l'art. 21 bis della legge n. 1034 del 1971, identifica l'oggetto del ricorso nel "silenzio" (comma 1), senza fare alcun riferimento alla pretesa sostanziale del ricorrente. Poiché, in linea di principio, i poteri cognitori del giudice sono delimitati dal ricorso (art. 112 c.p.c.: "il giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa"), se ne deve dedurre che il legislatore ha inteso circoscrivere il giudizio alla inattività dell'amministrazione.
La stessa norma prevede che, in caso di accoglimento del ricorso, il giudice "ordina all'amministrazione di provvedere" e se "l'amministrazione resti inadempiente.su richiesta di parte, nomina un commissario che provveda in luogo della stessa" (comma 2).
L'espressione "resti inadempiente" lascia intendere che l'inadempimento dell'amministrazione non ha contenuto diverso prima della sentenza, quando è condizione per l'accoglimento del "ricorso avverso il silenzio", e dopo la sentenza, quando è condizione perché provveda il commissario. Inoltre, la terminologia usata dal legislatore ("ordina.di provvedere"; "un commissario che provveda") definisce nell'accezione comune in dottrina e in giurisprudenza, l'esercizio di una potestà amministrativa, sicché sarebbe inappropriata se il giudice dovesse spingersi a stabilire il concreto contenuto del provvedimento, poiché in tal caso all'amministrazione e al commissario non residuerebbero altri spazi se non per un'attività avente contenuto e funzione di mera esecuzione.
Sussistono, dunque, concordi elementi ermeneutici dai quali emerge che il rito speciale è stato introdotto per pervenire, con la speditezza consentita dal rispetto delle garanzie processuali, ad imporre all'amministrazione "inadempiente" l'esercizio della potestà amministrativa di cui è titolare.
(2) Ha osservato l'Adunanza Plenaria che si verificherebbe una situazione irrazionale nell'ipotesi in cui, nel caso di inerzia dell'amministrazione, il privato potesse ottenere, mediante il ricorso avverso il silenzio, l'accertamento immediato, da parte del giudice, della fondatezza della sua pretesa sostanziale, mentre, nella medesima situazione, se l'amministrazione avesse adottato un provvedimento esplicito di diniego, la tutela giurisdizionale sarebbe stata soggetta alle forme ed ai limiti, oltre che ai tempi, del giudizio ordinario.
Commento di
GIULIO BACOSI
(Avvocato dello Stato)Silenzio....parla Palazzo Spada
1. Il fatto.
Un corposo gruppo di aspiranti odontoiatri in attesa di espletare la prova attitudinale prevista dal decreto legislativo n. 386 del 13 ottobre 1998 e necessaria a consentirne l'esercizio della professione, nell'intento di fronteggiare l'inerzia delle Amministrazioni competenti quanto a pur chiesta fissazione di data e sede della prova stessa, decidono di rivolgersi al Tar del Lazio al fine di censurare il "silenzio" serbato dalla parte pubblica, assunto come "illegittimo", avvalendosi del nuovo strumento processuale apprestato dall'art.21.bis della legge 1034/71, come introdotto dall'art. 2 della legge n. 205/00.
La Sezione I bis del Tar capitolino conforta le ragioni dei ricorrenti determinando in luogo delle intimate amministrazioni (rispettivamente, il Ministero della Salute, già Ministero della Sanità, e quello dell'università e della ricerca scientifica e tecnologica) dies e locus della ridetta prova attitudinale (sentenza n. 10704 del 30 novembre 2000).
Insorge in appello il secondo dei Dicasteri soccombenti, lamentando in primis la erronea applicazione alla fattispecie - da parte di un giudice di prime cure in tal senso sollecitato dal pingue stuolo dei ricorrenti - del rito accelerato sul c.d. "silenzio" previsto dall'art. 21 bis, oltre a proporre ulteriori censure tra le quali una denunciata, erronea estensione del vaglio giurisdizionale all'accertamento della fondatezza della pretesa sostanziale oggetto dell'istanza sulla quale le parti pubbliche avevano omesso di pronunciarsi.
In altri termini, se i ricorrenti avevano chiesto fissarsi data e luogo delle prove alle appellanti Amministrazioni, il Tar del Lazio adito avrebbe potuto esclusivamente accertare, nell'ottica abbracciata dalla difesa pubblica, l'eventuale obbligo di queste ultime di pronunciarsi su tale istanza, senza poter nel contempo provvedere direttamente alla fissazione menzionata, come invece di fatto accaduto.
La VI Sezione del Consiglio di Stato
- dopo aver acclarato non additabile una nota del 4 agosto 2000 riconducibile al Ministero della Sanità quale effettiva risposta dell'Amministrazione alla istanza a suo tempo avanzata dai privati interessati;
- dopo aver altresì dedotto la intempestività del ricorso in appello, asseritamente proposto dalla parte pubblica oltre il termine abbreviato di 30 giorni dalla notifica della sentenza di prime cure, in violazione del disposto di cui all'art. 21 bis della legge TAR, rimette al vaglio dell'Adunanza Plenaria la questione concernente la natura ed i limiti del rito speciale sul "silenzio" ivi previsto, questione da intendersi affatto rilevante ed idonea a dar luogo a malsicuri contrasti giurisprudenziali (ord. n. 3803 del 10 luglio 2001, in questa rivista n. 7-8/2001).
2. La decisione della Plenaria.
L'Adunanza, anticipando subito "nella specie" le conclusioni alle quali si accinge a pervenire "nel genere", dà l'abbrivio al suo tracciato argomentativo premurandosi in primo luogo di sconfessare l'eccezione di irricevibilità dell'appello, sollevata dalle controparti private sul presupposto della relativa intempestività, stante la dichiarata inconferenza del richiamo al neointrodotto rito speciale sul silenzio con riferimento alla fattispecie scandagliata.
In altre parole, quella all'esame configurerebbe una ipotesi con riguardo alla quale non sarebbe predicabile l'operatività dell'art.21.bis legge 1034/71 (ritenuto, al contrario, de plano rilevante dal Tar), specie in riferimento all'agile binario processuale in esso scolpito.
Il Collegio si accinge a dimostrare l'assunto aggiungendo peraltro che, anche a voler ritenere il contrario (ovvero, in concreto operativo il rito accelerato sul "silenzio"), proprio la rimessione al Supremo Consesso Amministrativo della questione interpretativa a tale eventuale applicabilità riconnessa potrebbe in ogni caso indurre ad assumere invocabile dall' (e riconoscibile all') appellante l'errore scusabile, con conseguente riapertura dei termini per il gravame.
Invero, è forse proprio l'errore scusabile a rivelarsi alfine il vero protagonista della vicenda processuale, attesa la conclusiva, riconosciuta applicabilità al caso di specie del rito accelerato di cui all'art. 21 bis, pur smentita in incipit; né avrebbe potuto essere altrimenti, stante la indiscussa afferenza del disputatum ad un caso di istanza inevasa da parte dell'Amministrazione.
Il vero oggetto dell'invocato, autorevole vaglio dell'Adunanza si compendiava tuttavia, come riferito, nella effettiva natura e nei precisi limiti intrinseci del "rito sul silenzio", con particolare riferimento alla eventuale possibilità per il giudice amministrativo di decidere non solo l'an del provvedere ex parte publica sull'istanza privata, ma anche il relativo quid, quando et quomodo. Il Collegio è parso a tal punto desideroso di fornire i propri illuminati chiarimenti sulla questione da rimettere implicitamente in termini la parte appellante sul presupposto della non applicabilità (o comunque, dubbia applicabilità) alla fattispecie dello stesso rito accelerato di che trattasi, all'esito nondimeno, re melius perpensa (e correttamente) ritenuto applicabile, come ci si può sincerare leggendo l'ultima tranche del percorso motivazionale.
E la risposta è stata perentoria: il giudice amministrativo può dichiarare l'obbligo della p.a. di provvedere sull'istanza del privato che l'ha vista inerte, ma non può sostituirsi ad essa nella erogazione del bene della vita richiesto attraverso la mediazione dell'attività provvedimentale pubblica.
Volendo seguire pedissequamente la traiettoria ermeneutica della pronuncia, una prima conferma dell'assunto viene ritratta dall'Adunanza sulla scorta di considerazioni di carattere letteral-esegetico: l'art. 21 bis, senza punto richiamare la c.d. "pretesa sostanziale" del ricorrente, ovvero il bene cui quegli anela, fa piuttosto riferimento a ricorsi avverso un non meglio inteso "silenzio" dell'Amministrazione, con ciò volendo chiaramente significare - nella prospettiva alla quale il Collegio chiede il conforto logico - che il giudice amministrativo è esclusivamente autorizzato a sondare l'atteggiarsi di tale inerzia sotto il profilo, per dirla in modo tradizionale, della relativa "legittimità" o "illegittimità", senza potersi spingere, una volta "ritenuto illegittimo il silenzio", a provvedere concretamente sull'istanza.
Del resto, trattandosi di ricorsi avverso il silenzio nel (limitato) senso ridetto onde ad essere censurato è esclusivamente il contegno inerte della parte pubblica, soccorre anche il noto principio della imprescindibile corrispondenza tra chiesto e pronunciato (ne eat iudex ultra petita partium) ad imporre al giudicante dell'Amministrazione di astenersi dal provvedere il luogo della stessa, incorrendo, nell'eventualità contraria, in una evidente ultrapetizione.
Elementi testuali aggiuntivi vengono tratti dal secondo comma dell'art.21.bis, laddove esso sancisce da un lato l'ordine di provvedere, promanante dal giudice e diretto all'Amministrazione - senza, all'evidenza, alcun riferimento alla eventuale chance di provvedere direttamente affidata al giudice stesso - e dall'altra l'eventuale inadempimento della p.a., con possibilità per il Tar adito di nominare (su richiesta di parte) un commissario "che provveda in luogo della stessa" (intendi: Amministrazione).
Osserva la Plenaria come "l'inadempimento" (silenzio, inerzia, omissione e quant'altro) che precede la sentenza, e che scatena la reazione del privato istante innanzi al Tar, non potrebbe assumersi in nulla diverso da quello che segue a tale sentenza, e sulla scorta del quale viene nominato il commissario: il sillogismo si chiude scorgendo nell'"ordine di provvedere" una sorta di reiterazione giurisdizionale dell'analogo obbligo già gravante in capo alla p.a. e derivantile dal contesto ordinamentale vigente.
Del resto, osserva ancora l'Adunanza, all'"ordine di provvedere" diretto all'Amministrazione segue, in caso di perpetuata inattività di questa, la nomina di un commissario "che provveda"; con spedita cadenza ritmica, il commissario potrà adottare in via sostitutiva "il provvedimento", ma finché quegli non si insedi, l'Amministrazione non potrà ritenersi ancora spogliata, a propria volta, del potere di "provvedere".
Secondo il Collegio, una genericità terminologica non causale, ma voluta, col chiaro intendimento di evidenziare il reale oggetto del giudizio sul silenzio, inteso a setacciare la correttezza giuridica dell'inedia pubblica e, nell'eventualità negativa, a sollecitarne la operatività, ferma residuando la possibilità (rectius, il potere), in capo all'Amministrazione, di determinarsi in senso positivo o negativo sull'istanza avanzatagli dall'interlocutore privato.
Solo l'inadempimento ulteriore sarà idoneo a far scattare il potere sostituivo riconoscibile, nondimeno, in capo al commissario nominato dal giudice, e non già in capo al giudice stesso.
Né tali conclusioni potrebbero entrare in frizione con l'esplicito disposto normativo che facoltizza il giudice del silenzio a disporre istruttoria o ad accogliere solo parzialmente il ricorso: al di là dell'evidente lapsus compendiantesi nella menzione dell'art.23.bis (piuttosto che dell'art.21.bis), resta la considerazione onde, da un lato, l'istruttoria può servire al collegio giudicante per la verifica del concreto obbligo pubblico di provvedere nel singolo caso di specie (impregiudicato sempre il "come" provvedere); dall'altro tale obbligo ben può investire solo una frazione della domanda avanzata dal privato, emergendo inconfigurabile con riguardo ad una ulteriore porzione dell'istanza medesima.
Abbandonato il criterio letterale, peraltro già gravido di conferme, l'Adunanza si affida a quello storico-sistematico, scomodando financo i lavori preparatori della legge 205 del 2000: dalla relazione al disegno di legge A.S.2934 si evince il perché della trasformazione del processo intrapreso con ricorso avverso il "silenzio" in un rito accelerato: la ".dichiarazione dell'obbligo di provvedere (che di per sé non soddisfa l'interesse sostanziale al ricorso)." operata dal giudicante non può essere il precipitato di quei "lunghi tempi" nei quali cronicamente si scansiona il "processo ordinario" (amministrativo).
Ancora: il rito è accelerato (pur nell'ineludibile "rispetto delle garanzie processuali"), e non potrebbe essere altrimenti, apparendo la circostanza ben compatibile con il tutto sommato agevole compito di accertare per via giurisdizionale se la p.a. debba in qualche modo (quale che sia) pronunciarsi; ove l'intento del nomopoieta fosse invece stato quello di affidare al giudice adito le immediate sorti della pretesa sostanziale fatta valere dal privato, una tempistica processuale sì agile e spedita si sarebbe rivelata affatto incongrua, col rischio di pregiudicare oltremodo le esigenze di difesa di entrambe le parti.
Ecco dunque il procedimento bifasico disegnato dal legislatore dell'aurora di millennio: si adisce il giudice amministrativo acciocché accerti e dichiari l'obbligo di provvedere dell'Amministrazione, senza peraltro spingersi a sondare la plausibilità giuridica della sottostante pretesa già azionata nel contesto procedimentale; tale compito è meramente eventuale, ed è affidato a quell'ausiliare del giudice che è il nominato commissario, "ad acta" proprio perché legittimato a provvedere in sostituzione della parte pubblica "inadempimente".
Del resto, un innumerevole turba di procedimenti hanno inizio obbligatoriamente su istanza del privato, ovvero d'ufficio; se l'Amministrazione ha l'obbligo di esitarli con un provvedimento espresso, ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 2 della legge 241/90 (il c.d. "statuto dell'amministrato"), non poteva - osserva la Plenaria - non esser simmetricamente introdotto uno specifico rito giurisdizionale inteso a celermente acclarare l'eventuale inadempimento perpetrato dalla p.a. a tale obbligo, ed eventualmente a coattivamente costringerla a prendere un partito in proposito: l'ironia della sorte (a non volersi illudere in una "capacità di richiamo" subliminale del nostrano legislatore) ha peraltro lasciato gemmare lo stesso rito sul silenzio da un "art. 2", quello appunto della legge n. 205 del 2000 (introduttiva dell'art. 21 bis più volte menzionato).
Sempre considerazioni di ordine sistematico lasciano affiorare la eccezionalità del sindacato di merito del giudice amministrativo su attività espressione di potestà pubblicistiche.
Quando quegli risulti, per l'appunto, ".investito di giurisdizione di merito.", potrà anche ".riformare l'atto o sostituirlo, salvi gli ulteriori provvedimenti." dell'Amministrazione (così recita l'art.26 comma 2° ultima parte dell'art.26 legge 1034.71); nondimeno, osserva l'Adunanza, si tratta di casi eccezionali (vengono menzionati i classici esempi dei ricorsi elettorali - art.6 comma 2° legge Tar - e dei giudizi di cui all'art.7 comma 2° della stessa legge 1034 del 1971), fattispecie previste da "esplicite norme autorizzative" la cui area precettiva non appare estensibile al di là dei confini espressamente tratteggiati da chi fa le leggi, men che meno dall'interprete ed in relazione ad ipotesi, quali il processo sul "silenzio", con riguardo alle quali la lettera delle norme pare deporre in senso affatto opposto.
E' il momento di tirare le fila del discorso, ed il Collegio lo fa con passaggi concisi tanto quanto pregnanti:
- l'art. 21 bis attribuisce al giudice amministrativo un sindacato sul mancato esercizio di una potestà amministrativa;
- tale sindacato può essere attivato dal privato ogniqualvolta la ".p.a. si sottragga al dovere di adottare un atto esplicito", sia esso discrezionale ovvero, come nella ipotesi di specie, vincolato;
- v'è qualcosa di irrilevante - i presupposti di fatto del chiesto provvedimento, che di volta in volta lo colorano di discrezionalià o di vincolatività - e qualcosa di imprescindibile - l'esercizio, da un lato, di una potestà amministrativa (ripetesi, discrezionale o vincolata non importa), ed il contrapporvisi, dall'altro, di un interesse legittimo del privato - nella cornice precettiva nella quale si inscrive il processo sul "silenzio";
- sia nel caso in cui l'attività pubblica resti astretta da rigidi binari, sia che possa spaziare nelle relative scelte, essa resta potestà amministrativa che, a fronte dell'interesse legittimo sotteso all'istanza del privato, va in qualche modo esercitata, non potendo congelarsi "in nuce"; il relativo, mancato dipanarsi è idoneo a consentire l'attivazione del sindacato giurisdizionale amministrativo attraverso proprio lo strumento dell'art. 21 bis.
Sotto un ulteriore profilo, l'Adunanza è zelante nel precisare le incongruità potenzialmente scaturitile dal proprio, eventuale conforto ad una tesi che - affermata di recente nella giurisprudenza delle Sezioni semplici con riferimento alle ipotesi di attività amministrativa vincolata (citata la decisione della IV Sezione n. 3526 del 22 giugno 2000) o a "basso contenuto di discrezionalità" (citata Sezione V, n. 1446 del 12 ottobre 1999) - accorda al giudice amministrativo la possibilità di vagliare la pretesa sostanziale azionata dal privato, una volta positivamente superato l'esame relativo alla sussistenza in capo alla parte pubblica dell'obbligo di provvedere.
Una tesi - abbracciata anche dalla ordinanza di rimessione - della quale "possono comprendersi le ragioni e condividersi le finalità", ma che da un lato appare superata dall'esplicito dato normativo sopravvenuto (art.2 della legge 205.00) per come interpretato dal Supremo Consesso Amministrativo; e dall'altro si appalesa implicitamente sconfessata dalla contraddizione in essa annidantesi, ed idonea ad inficiarne le fondamenta logiche: in sostanza, in caso di diniego esplicito del bene della vita richiesto, il processo dovrebbe essere quello ordinario (con le relative "forme, limiti e tempi"), mentre nell'eventualità di un neutro "silenzio" sull'istanza, sarebbe instaurabile un processo "di merito" connotato da speditezza di tempi ed agilità di forme.
Né deve sottovalutarsi, sottolinea ancora il Collegio, la circostanza onde, ancorché al fine di veder giurisdizionalmente riconosciuta al ricorrente la mera pretesa ad un provvedimento della p.a., quale che poi se ne rivelerà il relativo, concreto atteggiarsi (nel senso della assonanza come potenzialmente della piena frizione con le aspettative dell'istante medesimo), il legislatore ha comunque disegnato un giudizio insieme unico e bifasico, in cui allo stadio cognitivo può far rapidamente seguito quello esecutivo, garantendo in ogni caso al privato - che si lagni dell'inedia pubblica - un "vantaggio" capace di non far rimpiangere troppo il più garantista trend pretorio ormai "vinto" dallo ius supervenies.
L'innesto nel tessuto ordinamentale dell'art.2 legge 205 del 2000 ha, insomma, definitivamente fatto segnare il crepuscolo dell'opportunità, per il giudice amministrativo, di decidere non solo che l'Amministrazione "deve provvedere", ma anche "come deve provvedere" ed eventualmente, nel caso di attività c.d. vincolata, di sostituirsi ad essa nell'adozione dell'agognato provvedimento; proprio la distinzione tra potere pubblico vincolato e discrezionale, assurta nella precedente giurisprudenza a canone fondamentale al fine di correttamente discernere i casi in cui il giudice amministrativo potrebbe sostituirsi alla p.a. nell'adozione del chiesto provvedimento da quelli in cui lo stesso potrebbe solo "dichiarare illegittimo" il silenzio, viene impietosamente tacciata dalla Plenaria di empirismo dinanzi al novum ius receptum.
La traduzione applicativa dei principi testè estrinsecati alla concreta fattispecie oggetto del relativo esame decisionale consente al Collegio di confortare le doglianze dell'Amministrazione appellante, e per essa dell'Avvocatura Generale dello Stato, accogliendone - quand'anche solo in parte - l'appello e cassando la pronuncia del giudice di prime cure laddove questi, piuttosto che meramente accertare l'obbligo dell'Amministrazione stessa (cristallizzato nell'art.1 del decreto legislativo n.368.98) di provvedere alla identificazione del tempo e del luogo delle note prove abilitative alla professione odontoiatrica (lanciando a quest'ultima la "palla" del relativo incombente), aveva in via immediata e diretta provveduto alla fissazione delle relative coordinate spazio-temporali.
3. Spunti di riflessione.
In un torno di tempo dallo spessore centenario taluni istituti del processo amministrativo, viaggiando all'unisono con la trasfigurazione della p.a. da "potere" a "servizio", hanno subito ove una evoluzione ove un radicale mutamento dei propri connotati, in un ottica di sempre maggiore attenzione per gli interessi dei privati che si volta in volta si interrelazionino con il potere pubblico.
Via via che da Leviatano "che toglie", l'apparato si è andato atteggiando a Demiurgo "che eroga", la "sospensiva" - un tempo sufficiente a contrastare efficacemente il provvedimento autoritativo incidente sulla sfera privata - si è di necessità trasformata in "provvedimento cautelare", dopo che la giurisprudenza aveva fatto vivere alla tutela parentetica l'ibrida stagione della "propulsività".
In pari tempo, il processo di ottemperanza ha assunto una significatività inattesa mano a mano che l'autoesecutività delle sentenze del giudice amministrativo si è andata dissolvendo, a fronte di dinieghi dell'Amministrazione che, ove "illegittimi", non potrebbero essere adeguatamente fronteggiati, sul crinale della concreta attribuzione del bene della vita, con un tradizionale quanto etereo "annullamento".
Insomma, il fatto che il civis abbia mutato atteggiamento nei confronti degli apparati amministrativi, "difendendosi sempre meno" dai relativi attacchi (tipiche le garanzie liberali avverso il potere espropriativo), e "chiedendo sempre di più" ad un'Amministrazione progressivamente chiamata a coniugare la propria potestà discrezionale con l'esigenza di venire incontro agli amministrati, specie per il tramite dell'erogazione di servizi pubblici essenziali, ha inciso in modo emblematico sul mutamento del volto che ha diuturnamente contraddistinto il sistema amministrativo, tanto processuale quanto sostanziale, spostando il baricentro, nel primo caso, dal provvedimento al contratto, e nel secondo, conseguentemente, dall'atto al rapporto.
E' ormai storia nota; meno noto è forse come si tratti di un percorso coinvolgente - con ruolo tutt'altro che da comprimario - anche del "silenzio" della p.a. e la relativa parabola storica.
Se infatti in un primo momento esso rilevò come inerzia della parte pubblica alla quale era stato chiesto di pronunciarsi in seconda istanza con ricorso gerarchico (più spesso, a propria volta, interposto avverso atti lato sensu "ablativi" dell'Amministrazione); successivamente prese vigore l'esigenza di assicurare una idonea risposta, specie sul piano processuale, all'immobilismo dei plessi aditi, a fronte di specifiche istanze provvedimentali provenienti da quella parte privata che, in fondo, era la medesima destinataria della nuova filosofia "erogativa".
Il congegno processuale escogitato per far fronte alla paralisi (peraltro, non sempre specificamente voluta) dell'azione pubblica, fu quell'art.25 del testo unico sul pubblico impiego (n.3 del 1957) con il quale si intese offrire al privato la chance di diffidare dapprima l'Amministrazione significativamente inerte, e di adire poi, in caso di perpetuato immobilismo, il competente giudice amministrativo.
Non è un caso se il coacervo dei "venti di novità" ha trovato una qualche collocazione normativa (criticabile quanto si vuole) nella nota "miniriforma" di inizio (o fine?) millennio, compendiantesi nella onnipresente legge n.205 del 2000.
Con essa - parte recependo (è il caso della atipicità della cautela), parte sconfessando (è il caso della "ottemperabilità" delle sentenze esecutive non in giudicato) consolidati indirizzi della precedente giurisprudenza amministrativa - la nostrana "fucina delle leggi" ha provveduto in qualche modo a ridisegnare (seppur nel comune prisma delle garanzie processuali) il quadro precettivo che presidia, da un lato, il potere cautelare del g.a., dall'altro il c.d. "processo di ottemperanza" e, infine, lo stesso "silenzio amministrativo".
In specie con riferimento a quest'ultimo, è la medesima pronuncia chiosata a rappresentare efficacemente come sia stato compiuto dal nomopoieta, ad un tempo, un passo indietro ed uno avanti.
Segnatamente:
- non è possibile per il g.a. - neanche ove abbia natura vincolata la potestà il cui mancato esercizio sia stato, nel caso di specie, censurato dal ricorrente ai sensi del neointrodotto art.21.bis della legge Tar (come invece aveva ritenuto parte della giurisprudenza precedente all'avvento della legge 205) - sostituirsi all'Amministrazione nel provvedere; né può, quel giudice, indicare ad essa come provvedere, dovendo limitarsi ad affermare, con la forza tipica della statuizione giurisdizionale, che "deve provvedere" (impregiudicato pertanto il relativo quid, quando et quomodo);
- ciò potrà tuttavia fare all'esito di un processo tipico, speciale e soprattutto "accelerato", connotato da termini "capestro" idonei a mettere quattro e quattr'otto, anche eventualmente con l'ausilio esecutivo di un commissario all'uopo nominato, il privato in condizioni di vedere evasa, nel modo compatibile col contesto ordinamentale vigente, la propria istanza.
Possono peraltro operarsi, nella consueta economia consentita da una nota redazionale, tre ulteriori considerazioni.
In primo luogo
- con riguardo ad una problematica quale quella involgente il c.d. "silenzio della p.a." che, "a braccetto" con l'altra relativa al c.d. "diritto di accesso", ha costituito il primigenio terreno elettivo per l'individuazione del rapporto, in luogo dell'atto, quale più autentico oggetto del processo amministrativo,
- ed al cospetto di noti precedenti dell'Adunanza (in particolare, le pronunce n.16 e 17 del 1989) assai chiari nell'escludere la natura "provvedimentale" del silenzio per ricondurlo (coerentemente proprio con il ridetto riferimento al rapporto) ad un comportamento omissivo significativo dell'Amministrazione,
imbarazza tampoco il tuttora imprecisato riferimento all'"interesse legittimo", non a caso emblematicamente invocato anche in materia di "diritto" di accesso dalla nota pronuncia del Supremo Consesso n.16 del 1999.
E qui l'imbarazzo si appalesa, se si vuole, maggiore, in quanto il contegno dell'Amministrazione - pur anteriore alla sentenza - viene esplicitamente definito "inadempimento", evocando
da un lato la più illuminata dottrina, che da tempo ormai afferma la possibilità di ricondurre la posizione giuridica del privato istante, più che all'interesse pretensivo, ad una vera e propria "pretesa", assai vicina, mutatis mutandis, al diritto soggettivo di credito;
e dall'altro quella stessa giurisprudenza recente del Consiglio di Stato (C.d.S., V, sentenza n.4239 del 2001), già menzionata in una precedente chiosa, con la quale si è in qualche modo dato seguito alle istanze dottrinali in parola ventilando la riconducibilità, in determinate fattispecie ben delineate, della responsabilità pubblica a quella contrattuale o precontrattuale più che a quella aquiliana.
Il vero è che l'interesse legittimo in generale, e quello c.d. "pretensivo" in particolare, nella più ampia cornice di mutamenti su rammentata, fatica a tenere il passo del diritto soggettivo, rischiando di rimanerne assorbito nei relativi connotati, seppure mantenendo un qualche carattere di specialità (una sorta, insomma, di diritto soggettivo "particolare", fronteggiante il dispiegarsi del pubblico potere).
La sua vitalità resta ancorata a determinate norme, ancora pienamente vigenti nel sistema, che contribuiscono ad inibridire il processo amministrativo, sovrapponendo all'accertamento sul rapporto (ancorché caratterizzato dalla dialettica tra pretese private e pubblici poteri) il diaframma della necessaria impugnativa, entro precisi termini decadenziali, dei provvedimenti amministrativi (legge 1034/71, art.2, lett.b; r.d. 1054/24, art.26), anche con riguardo a fattispecie di giurisdizione esclusiva del g.a..
Ne è prova, forse, lo stesso riferimento alla "illegittimità del silenzio", riscontrabile nella decisione all'esame e contrapposto a quella "illiceità" che a molti - pur rimanendo il tema a tutt'oggi bel lungi dall'essere dissodato - appare ormai più pertinente con riguardo a fattispecie che vedono taluno "dovere, e non dare" qualcosa a talaltro.
La ineludibilità del tempestivo attacco giurisdizionale al provvedimento inevitabilmente evoca lo schema dell'autoritatività del potere e, quasi per inerzia, il richiamo all'interesse legittimo. I tempi appaiono, nondimeno, fecondi per un qualche ulteriore resettaggio dei più tradizionali punti di riferimento in materia.
Le ultime due considerazioni suggeriscono agilità di esposizione.
La prima: che tipo di ricadute può avere la pronuncia della Plenaria in chiosa - coniugata con la neodisciplina del silenzio - sulle tematiche penalistiche afferenti il reato di omissione di atti d'ufficio ex art.328 comma 2° c.p.c. ?
Potrebbe pensarsi ad un qualche effetto "pregiudicante" (quand'anche in via di mero fatto) spiegato - sul processo penale di pertinenza - dall'agile pronuncia sfornata dal Tar all'esito del giudizio accelerato ex art. 21.bis della legge 1034/71 in conseguenza del connesso, accertato inadempimento della p.a. all'obbligo di provvedere. E' tuttavia questione solo da accennarsi, che merita (e che troverà senz'altro) ben altro spazio altrove.
La seconda: in un tempo in cui una sempre più ampia fetta della dottrina - anche sulla scorta del risaputo atteggiamento di self restraint assunto dalla Corte di Giustizia dell'Unione con riguardo ad atti della Commissione europea afferenti la materia della concorrenza - invoca maggiore prudenza nei giudici amministrativi, specie ove chiamati a pronunciarsi, lambendo il famigerato "merito", su provvedimenti delle note Autorità adottati in materie di altissimo spessore tecnico; in un tempo che lascia altresì assistere alla progressiva valorizzazione di quel peculiare strumentario probatorio messo dal legislatore a disposizione dei giudici stessi, e compendiantesi nella generalizzata esperibilità delle c.t.u., fa il suo ingresso nel ricco panorama pretorio una pronuncia che, financo in relazione ad attività pubblicistiche di natura vincolata, assume (correttamente) tuttora "intangibili" certe sfere di decisionalità da sempre di pertinenza dell'Amministrazione.
Argumentum dal sapore montesquieuiano che fa ben sperare al cospetto di sempre più palmari "confusioni di poteri"..
V. in argomento in questa rivista:
N. SAITTA, Ricorsi contro il silenzio della p.a.: quale silenzio?
S. PELILLO, Il ricorso avverso il silenzio dell'amministrazione.
FATTO
Il T.A.R. del Lazio, sez. I/bis, con sentenza 30 novembre 2000, n. 10704, accogliendo il ricorso proposto dagli attuali appellati, ai sensi dell'art.21 bis della legge 6 dicembre 1971, n.1034, introdotto dall'art.2 della legge 21 luglio 2000, n.205, ha affermato "l'obbligo delle amministrazioni intimate, ciascuna per quanto di competenza" di determinare, entro trenta giorni il giorno e la sede di svolgimento della prova attitudinale per l'esercizio della professione di odontoiatra prevista dal D. Lgs. 13 ottobre 1998, n.386.
La sentenza è stata impugnata dal Ministero della salute, già Ministero della sanità, e dal Ministero dell'università e della ricerca scientifica e tecnologica, per i seguenti motivi:
errata applicazione della domanda proposta in primo grado e conseguente errata applicazione del rito speciale introdotto dall'art. 2 della legge n. 205/2000. Violazione del principio del contraddittorio. All'istanza degli originari ricorrenti era stata data risposta dal Ministero della sanità con nota del 4 agosto 2000, inoltre sia i ricorrenti sia il T.A.R. hanno esteso il giudizio all'accertamento della fondatezza della pretesa, così esorbitando dai limiti di cui al citato art. 21 bis;
non è possibile fissare la data e il luogo della prova attitudinale neri termini, peraltro ordinatori, stabiliti dall'art.1 del D. Lgs. n. 368/1998, in quanto, con risoluzione n.7/00962 approvata il 29 settembre 2000 dalla Camera dei deputati, il Governo si è impegnato a sospendere la prova e a riformulare la normativa, previe trattative con la Commissione europea.
Con ordinanza 10 luglio 2001, n. 3803, la Sezione sesta ha rilevato che l'appello è stato proposto oltre il termine di trenta giorni dalla notificazione della sentenza, di cui al predetto art.21 bis; ha escluso che con la citata nota in data 4 agosto 2000 il Ministero della sanità si sia pronunziato sulla istanza degli originari ricorrenti; ha rimesso l'esame dell'appello all'Adunanza plenaria considerando che la questione attinente alla natura ed ai limiti del rito speciale di cui al citato art.21 sia rilevante e possa dar luogo a contrasti giurisprudenziali.
Le amministrazioni appellanti hanno ulteriormente illustrato con memoria le tesi esposte nell'atto di appello.
Alla camera di consiglio del 29 ottobre 2001, il ricorso in appello veniva trattenuto per la decisione.
DIRITTO
Con la sentenza impugnata il T.A.R., accogliendo il ricorso proposto ai sensi dell'art.21 bis della legge 6 dicembre 1971, n.1034, introdotto dall'art.2 della legge 21 luglio 2000, n.205, ha ritenuto fondata la pretesa degli attuali appellati volta ad ottenere la fissazione del giorno e della sede di svolgimento della prova attitudinale per l'esercizio della professione di odontoiatra prevista dal D. Lgs. 13 ottobre 1998, n.386.
Va, anzitutto, disattesa l'eccezione con la quale si contesta la ricevibilità dell'appello, perché notificato dopo la scadenza del termine ridotto previsto dal citato art.21 bis, comma 1.
Come risulterà da quanto esposto di seguito, la controversia esula dall'ambito di previsione della norma predetta, sicché con ragione le amministrazioni appellanti obiettano che l'impugnazione resta soggetta al termine ordinario. In ogni caso, la questione presenta profili di novità e di incertezza tali da legittimare il riconoscimento dell'errore scusabile, tant'è che la stessa Sezione remittente ne ha sottoposto l'esame all'Adunanza Plenaria.
L'Adunanza Plenaria è chiamata a pronunciarsi sulla seguente questione: se la cognizione del giudice amministrativo adito con il "ricorso avverso il silenzio" sia limitata all'accertamento della illegittimità dell'inerzia dell'amministrazione, come si sostiene nell'appello, ovvero si estenda all'esame della fondatezza della pretesa sostanziale del privato, come ha ritenuto il T.A.R..
Il Collegio condivide la prima tesi.
Un primo elemento significativo in tal senso si trae dalla considerazione che l'art. 21 bis identifica l'oggetto del ricorso nel "silenzio" (comma 1), senza fare alcun riferimento alla pretesa sostanziale del ricorrente. Poiché, in linea di principio, i poteri cognitori del giudice sono delimitati dal ricorso (art.112 c.p.c.: "il giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa"), se ne deve dedurre che il legislatore ha inteso circoscrivere il giudizio alla inattività dell'amministrazione.
La stessa norma prevede che, in caso di accoglimento del ricorso, il giudice "ordina all'amministrazione di provvedere" e se " l'amministrazione resti inadempiente.su richiesta di parte, nomina un commissario che provveda in luogo della stessa" (comma 2).
L'espressione "resti inadempiente" lascia intendere che l'inadempimento dell'amministrazione non ha contenuto diverso prima della sentenza, quando è condizione per l'accoglimento del "ricorso avverso il silenzio", e dopo la sentenza, quando è condizione perché provveda il commissario. Inoltre, la terminologia usata dal legislatore ("ordina.di provvedere"; "un commissario che provveda") definisce nell'accezione comune in dottrina e in giurisprudenza, l'esercizio di una potestà amministrativa, sicché sarebbe inappropriata se il giudice dovesse spingersi a stabilire il concreto contenuto del provvedimento, poiché in tal caso all'amministrazione e al commissario non residuerebbero altri spazi se non per un'attività avente contenuto e funzione di mera esecuzione. La stessa terminologia è ripetuta in seguito, quando l'attività del commissario è configurata come diretta "all'emanazione del provvedimento da adottare in via sostituiva" (comma 3) e quando è imposto al commissario di accertare se "l'amministrazione abbia provveduto". Anche l'indeterminatezza circa il contenuto (positivo o negativo) dell'eventuale provvedimento tardivo dell'amministrazione, avvalora la tesi che l'organo competente in via ordinaria conservi, pur dopo la sentenza e fino all'insediamento del commissario, il potere di provvedere in senso pieno.
Le argomentazioni che precedono non sono infirmate, diversamente da quanto prospettato nell'ordinanza di rimessione, dai riferimenti fatti nello stesso art.23 bis ad una possibile istruttoria disposta dal collegio e ad un possibile accoglimento parziale del ricorso, trattandosi di eventi ipotizzabili anche se il giudizio ha per oggetto il solo accertamento dell'obbligo dell'amministrazione di provvedere.
Che l'intento del legislatore fosse solo quello di indurre l'amministrazione ad esprimersi sollecitamente sull'istanza del privato trova conferma nella relazione al disegno di legge n.2934 (Senato), nella quale si legge, a commento della norma sul ricorso "avverso il silenzio", redatta già in origine in modo sostanzialmente conforme al disposto dell'art.2 della legge n.205/2000, che la trasformazione del ricorso "in un procedimento d'urgenza" è rivolta ad evitare che "la dichiarazione dell'obbligo di provvedere (che di per sé non soddisfa l'interesse sostanziale al ricorso) sopraggiunga dopo i lunghi tempi del processo ordinario".
Ciò ha trovato coerente attuazione nella previsione di un modello processuale caratterizzato dalla brevità dei termini e dalla snellezza delle formalità, la cui configurazione è congrua se il giudizio si incentra sul "silenzio", non anche se il giudice dovesse estendere la propria cognizione ad altri profili.
Sussistono, dunque, concordi elementi ermeneutici dai quali emerge che il rito speciale è stato introdotto per pervenire, con la speditezza consentita dal rispetto delle garanzie processuali, ad imporre all'amministrazione "inadempiente" l'esercizio della potestà amministrativa di cui è titolare.
A questo risultato si giunge in due fasi, semplificate e contenute nell'arco del medesimo processo, in linea con la logica ispiratrice comune agli interventi di riforma operati dalla legge n.205 del 2000: nella prima il giudice accerta l'esistenza e la violazione dell'obbligo di provvedere; nella seconda, il commissario, nominato dallo stesso giudice su semplice "richiesta della parte", adotta il provvedimento in sostituzione dell'organo amministrativo rimasto eventualmente inadempiente.
Sul piano sostanziale, il giudizio sul "silenzio" così definito si collega al "dovere" delle amministrazioni pubbliche di concludere il procedimento "mediante l'adozione di un provvedimento espresso" nei casi in cui esso "consegua obbligatoriamente ad una istanza, ovvero debba essere iniziato d'ufficio", come prescrive l'art.2, comma 2, della legge 7 agosto 1990, n.241.
Sul piano sistematico la scelta operata dal legislatore si allinea al principio generale che assegna la cura dell'interesse pubblico all'amministrazione e al giudice amministrativo, nelle aree in cui l'amministrazione è titolare di potestà pubbliche, il solo controllo sulla legittimità dell'esercizio della potestà.
Questo schema viene superato mediante l'attribuzione al giudice del potere di "riformare l'atto o sostituirlo" in via diretta e immediata, in sede di accoglimento del ricorso (art.26, comma II, della legge 6 dicembre 1971, n.1034).
Tuttavia, proprio perché derogativi del principio predetto, i casi di ingerenza del giudice nella sfera dell'attività pubblicistica dell'amministrazione sono previsti da esplicite norme autorizzative (art.6, comma II, e art. 7, commi I e IV, della legge n.1034/1071).
In linea astratta nulla impedisce di individuare altri casi in via interpretativa, sebbene con il rigore imposto dalla eccezionalità dell'istituto, ma l'analisi dell'art.21 bis della legge n.1034/1971 anziché fornire elementi persuasivi in tal senso, accredita, come risulta da quanto esposto in precdenza, la conclusione opposta.
Le stesse considerazioni e la stessa conclusione valgono anche quando il provvedimento richiesto dal privato abbia, come nella specie, natura vincolata.
In primo luogo, il citato art. 21 bis non contiene alcun elemento che autorizzi di attribuire al sindacato del giudice amministrativo una estensione diversa in relazione alle peculiarità sostanziali della potestà non esercitata.
L'articolazione precettiva, al contrario, definisce una disciplina unica e indifferenziata, valida in tutti i casi in cui l'amministrazione si sottragga al dovere di adottare un atto autoritativo esplicito. Sotto questo profilo sono irrilevanti i presupposti di fatto del provvedimento; è determinante che il "silenzio" riguardi l'esercizio di una potestà amministrativa e che la posizione del privato si configuri come un interesse legittimo. Ed è logico e coerente che all'identità formale di situazione soggettiva dell'amministrazione e del privato corrisponda una identità di tutela giurisdizionale.
Senza considerare l'irrazionalità che si verificherebbe se, nel caso di inerzia dell'amministrazione, il privato potesse ottenere, mediante il ricorso avverso il silenzio, l'accertamento immediato, da parte del giudice, della fondatezza della sua pretesa sostanziale, mentre, nella medesima situazione, se l'amministrazione avesse adottato un provvedimento esplicito di diniego, la tutela giurisdizionale sarebbe stata soggetta alle forme ed ai limiti, oltre che ai tempi, del giudizio ordinario.
L'ordinanza di rimessione manifesta la preoccupazione che il nuovo rito possa ridimensionare l'incisività della tutela riconosciuta al privato dal precedente indirizzo giurisprudenziale, secondo il quale il giudice può esprimersi sulla fondatezza della istanza presentata dal ricorrente all'amministrazione quando il provvedimento sia espressione di potestà amministrativa priva di contenuto discrezionale (da ultimo, Cons. Stato, sez. IV, 22 giugno 2000, n.3526) o a basso contenuto di discrezionalità (da ultimo, Cons. Stato, sez.V, 12 ottobre 1999, n.1446).
Sarebbe sufficiente osservare che l'indicato indirizzo della giurisprudenza, della quale possono comprendersi le ragioni e condividersi le finalità, non può che cedere di fronte alla normativa sopravvenuta che definisce in modo compiuto la tutela giurisdizionale accordata al privato nei confronti del comportamento omissivo dell'amministrazione.
Va, però, osservato che la valutazione del rito speciale sotto il profilo della capacità di offrire una più efficace tutela al privato in attesa di provvedimento va effettuata con riferimento all'obiettivo sollecitatorio postosi dal legislatore e considerando il risultato conseguibile al compimento delle due fasi, e cioè tenendo conto sia dell'abbreviazione dei termini sia della possibilità di ottenere la nomina del commissario ad acta, nel corso dello stesso giudizio, senza necessità di promuovere un giudizio di ottemperanza. Visto in questa prospettiva, il nuovo modello processuale assicura pur sempre al privato un significativo vantaggio anche rispetto all'indirizzo giurisprudenziale anzidetto.
Quanto alla distinzione fra casi di agevole o meno agevole conoscibilità della fondatezza della pretesa sostanziale, ovvero di maggiore o minore ampiezza della discrezionalità dell'amministrazione, deve osservarsi che non è ammissibile far discendere l'estensione dei poteri cognitivi e dispositivi del giudice dal grado di complessità dalla controversia. Si tratta di un criterio empirico che poteva semmai trovare spazio nella soluzione elaborata dalla giurisprudenza, ma non più dopo l'entrata in vigore della nuova disciplina, nel cui contesto, come già osservato, nulla autorizza ad effettuare simili distinzioni.
Dalle considerazioni svolte emerge, in via riepilogativa, che: il giudizio disciplinato dall'art. 21 bis è diretto ad accertare se il "silenzio" violi l'obbligo dell'amministrazione di adottare un provvedimento esplicito sull'istanza del privato; il giudice non si sostituisce all'amministrazione in nessuna fase del giudizio, ma accerta se il "silenzio" sia o non sia illegittimo e, nel caso di accoglimento del ricorso, impone all'amministrazione di provvedere sull'istanza entro il termine assegnato; il commissario ad acta esercita, in via sostitutiva, la potestà amministrativa appartenente all'organo rimasto inadempiente.
Tutto ciò premesso, con ragione le amministrazioni appellanti contestano la sentenza impugnata nella parte in cui impone ad esse di provvedere in senso positivo sulla istanza dei ricorrenti originari fissando data e luogo della prova attitudinale. E per questa parte l'appello va accolto.
La sentenza merita, invece, conferma nella parte in cui afferma che il comportamento omissivo "è senz'altro in contrasto con il dovere dell'amministrazione di concludere il procedimento con sollecitudine".
Dall'art.1 del D. Lgs. n.368/1998 risulta che la fissazione della prova attitudinale consegue ad un procedimento che deve essere iniziato d'ufficio a cura del Ministro della salute; risulta, altresì, che i ricorrenti originari, quali laureati in medicina e chirurgia in possesso dei requisiti di cui all'art.1, comma 1, del D. Lgs. n.386/1998, avrebbero titolo a partecipare alla prova. Sussistono, pertanto, le condizioni (interesse qualificato degli istanti all'adozione del provvedimento; competenza delle amministrazioni adite) per la pronunzia dell'obbligo di provvedere, ai sensi dell'art.21 bis della legge n.205/2000.
L'accoglimento parziale dell'appello determina la riforma della sentenza di primo grado nei limiti sopra indicati. Resta fermo l'obbligo per le amministrazioni appellanti di provvedere sull'istanza dei ricorrenti originari entro un termine che, in considerazione della articolazione del procedimento (concerto fra il Ministro della salute e il Ministro dell'università e della ricerca scientifica e tecnologica; parere della federazione nazionale dell'Ordine dei medici chirurghi e degli odontoiatri), si reputa di fissare in novanta giorni dalla notificazione o comunicazione della presente decisione.
Sussistono ragioni per compensare fra le parti le spese dei due gradi di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza plenaria), pronunziandosi sull'appello nei sensi di cui in motivazione, lo accoglie in parte. Ordina alle amministrazioni appellanti di provvedere sull'istanza degli appellati nel termine indicato in motivazione.
Spese dei due gradi di giudizio compensate.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, Palazzo Spada, sede del Consiglio di Stato, nella camera di consiglio del 29 ottobre 2001, con l'intervento dei sigg.ri
Alberto de Roberto presidente,
Sergio Santoro consigliere,
Domenico La Medica consigliere,
Costantino Salvatore consigliere,
Giuseppe Farina consigliere,
Anselmo Di Napoli consigliere,
Corrado Allegretta consigliere,
Luigi Maruotti consigliere,
Chiarenza Millemaggi Cogliani consigliere,
Marcello Borioni consigliere estensore,
Pietro Falcone consigliere,
Paolo Buonvino consigliere,
Goffredo Zaccardi consigliere
IL PRESIDENTE L'ESTENSORE
Depositata in segretaria il 9 gennaio 2002.