Giustizia Amministrativa - on line
 
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n. 12 -2010 - © copyright

 

NINO PAOLANTONIO

La “specialità” del giudice amministrativo (in margine ad uno scritto di Pietro Quinto)?

 

 


 

 

Leggo su Giustamm uno scritto dell’avv. Quinto (La «specialità» della Giustizia Amministrativa ed il nuovo Codice del processo) davvero stimolante, che mi induce a qualche telegrafica riflessione, la cui comprensione presuppone la lettura del saggio citato.
Un dubbio ed una contraddizione: si dice che “non v’è contrasto, e non può esservi, nell’affermazione del superamento dell’antica concezione dell’interesse legittimo quale mera situazione processuale e nel suo riconoscimento come situazione giuridica sostanziale, meritevole di tutela al pari del diritto soggettivo”.
Il dubbio. Non si tratta di una antica concezione (quella dell’interesse legittimo come situazione processuale): essa è stata coniata dal Guicciardi (e da Chiovenda) e ripresa da molti epigoni, soprattutto della Scuola fiorentina, che hanno tentato di negare la stessa dignità scientifica del c.d. interesse legittimo (meglio direi, la stessa esistenza: da Miele ad Orsi Battaglini, e così via, passando per le indimenticate pagine di Franco Ledda); si può concordare o meno; ma non c’è nulla di meno antico, e nulla di più stimolante sul piano scientifico.
La contraddizione: se diritto ed interesse meritano pari tutela, nulla come il codice del processo amministrativo si pone in antitesi con questa pur commendevole aspirazione; non c’è un’azione di accertamento (anzi, l’interesse legittimo è considerato una situazione non passibile di accertamento); l’azione di nullità è priva di disciplina (sotto il profilo delle ricadute sostanziali); il giudizio continua ad atteggiarsi come impugnatorio, nel solco della ultrasecolare tradizione. Se poi, come l’avv. Quinto, si pensa “ai problemi attuali del confronto e dei conflitti tra diritto alla salute ed all’ambiente salubre, alla tutela del lavoro, alla salvaguardia del bene paesaggio, ma altresì ai diritti dell’economia in termini di localizzazione di impianti produttivi e di smaltimento dei rifiuti”, la figura dell’interesse legittimo scolora e si dissolve, non solo nella mente del giurista, ma soprattutto in quella del cittadino, che avverte come insostituibile la tutela di una pretesa, all’ambiente salubre, alla nettezza delle vie cittadine, alla purezza dell’aria. Non occorre alcun giudice speciale per garantire tutela a queste pretese: occorrono solo più giudici (sì, più giudici, in termini numerici) ed una migliore procedura (civile).
Per questa ragione non mi sento di poter condividere il pensiero dell’avv. Quinto, secondo cui “nel processo amministrativo non vale il semplice accertamento di ciò che è mio e di ciò che è tuo, bensì la verifica che l’interesse o il diritto del singolo, giuridicamente riconosciuto dall’ordinamento nei limiti di una compatibilità con l’interesse della comunità, sia stato rispettato o illegittimamente violato dal titolare del potere pubblico, cui è demandato il perseguimento dell’interesse generale”.
In assenza di una rigorosa verifica su ciò che è mio e ciò che è tuo, non solo non c’è tutela, ma non c’è processo (di parte): la specialità che si rivendica al giudice amministrativo si risolve, come si è sempre risolta, in una diminuzione di tutela, proprio per la considerazione inaccettabile ed insostenibile dell’ingombrante interesse pubblico. Se diritto ed interesse devono avere la medesima tutela, allora non può non valere quanto affermato dai Padri fondatori nell’all. E del 1865: dove c’è diritto non si fa questione di interesse pubblico, perché questo è soggetto alla legge; e se la legge riconosce un diritto, è l’interesse pubblico a recedere; ecco perché in Italia s’è creato l’interesse legittimo. Necessitava una situazione soggettiva naturalmente recessiva rispetto all’interesse pubblico, ed altresì occorreva un giudice che se ne occupasse, all’ombra ed in disparte dal giudice dei diritti. Non è davvero un concetto esaltante di specialità della giurisdizione.
Devo dissentire dall’avv. Quinto anche quando sostiene che “la giustizia amministrativa è nata, con l’affermarsi dello Stato di diritto, come strumento di tutela delle posizioni soggettive dei cittadini nei confronti della pubblica amministrazione”.
Lo stato di diritto è nato assai prima della legge del 1889, che viceversa ne è una cattiva ricaduta. La distinzione tra atti d’imperio ed atti di gestione era negletta sin dalla fine del secolo XIX, ed è a Cammeo che dobbiamo pagine lucidissime sulla funzione che all’autorità giudiziaria ordinaria il sistema dell’epoca – ancora attuale – riservava a dispetto di un malinteso concetto di auctoritas. Lo stato di diritto nasce con le rivoluzioni liberali, e si istituzionalizza con l’unità del Regno, consolidandosi nel corpus normativo del 1865, assai più spregiudicato, di quanto non sia il Legislatore contemporaneo, nel riservare all’autorità un ruolo marginale e paritario rispetto a quello del privato cittadino.
Il giudice amministrativo italiano ha costruito un sistema informato ad una salvaguardia a dir poco manichea delle prerogative del pubblico potere: diversamente da quanto accaduto in Francia, Germania, ed Austria, per non parlare del Regno Unito.
Condivido pienamente (in fatto) l’affermazione secondo cui “protagonisti nelle aule della giustizia amministrativa sono sempre più i soggetti pubblici, nel mentre il cittadino come singolo e come espressione della comunità di appartenenza rimane sullo sfondo”; ma è un bene? In nome di chi (di cosa) si pronuncia la Giustizia nella Repubblica?
La tutela cautelare: possiamo ancora essere d’accordo con quanti sostengono che essa sarebbe il “cuore” del processo amministrativo? Non conosco altri processi in cui si affermi, quasi con fierezza, quanto sopra; si auspicava una più celere tutela di merito – invece riservata ai soli ricorsi ove la cautela è accolta –, ancor più urgente in un processo di annullamento, al cui esito non fa necessariamente seguito un’ottemperanza pienamente satisfattiva, ma una riedizione del potere spesso tarda ed elusiva.
E da ultimo: il giudice amministrativo non deve neppure azzardarsi a “garantire quella «buona amministrazione», che rappresenta la massima aspirazione del cittadino”; gravissima sarebbe una legittimazione siffatta, che mescola prerogative giudiziarie ed amministrative in assenza di responsabilità del Magistrato; è sempre Ledda che insegna: non si consenta mai la sostituzione del giudice all’amministrazione, non per insulse questioni di separazione dei poteri, ma perché della funzione amministrativa, che spesso si vorrebbe rieditare nelle aule di Giustizia, il giudice non è né può essere responsabile.
Non so quanti, come me, si aspettassero un giudice meno speciale e più terzo; di certo non mi tranquillizza l’apologia della specialità.

 

(pubblicato il 2.12.2010)

 

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