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n. 4-2011 - © copyright |
NINO PAOLANTONIO
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L’interesse legittimo come (nuovo)
diritto soggettivo (in margine a Cons. Stato, Ad. Plen., 23 marzo 2011, n.
3)
1. Con la sentenza n. 3 del 2011 l’adunanza
plenaria del Consiglio di Stato fa il punto su una serie di
questioni, sostanziali e processuali, che da anni alimentano il
dibattito dottrinale e giurisprudenziale. E lo fa con grande
coerenza argomentativa, pur non scevra da condizionamenti
scientifici pregressi, e con commendevole attenzione alla teoria
generale delle obbligazioni da fatto illecito.
Sotto il profilo
processuale – che meno interessa in questa sede, ma che nondimeno
assume un rilievo decisivo in vista delle future applicazioni del
codice di rito amministrativo – dalla decisione del Consiglio di
Stato l’interesse legittimo esce, per dir così, rinnovato.
Attraverso una disamina delle azioni a sostegno del c.d. interesse
pretensivo, l’adunanza plenaria afferma senza mezzi termini – ed a
mio avviso giustamente – che il codice del processo amministrativo
“ha superato la tradizionale limitazione della tutela dell’interesse
legittimo al solo modello impugnatorio, ammettendo l’esperibilità di
azioni tese al conseguimento di pronunce dichiarative, costitutive e
di condanna idonee a soddisfare la pretesa della parte vittoriosa”;
ovviamente, é quest’ultima parte della affermazione che desta
interesse. Non si tratta di un obiter dictum; la sentenza
riprende e rafforza il concetto laddove afferma che “viene
confermata e potenziata la dimensione sostanziale dell’ interesse
legittimo in una con la centralità che il bene della vita assume
nella struttura di detta situazione soggettiva”.
L’attualità (e,
prima, la stessa pensabilità) dell’interesse sostanziale, che tanto
ha affaticato la dottrina, viene plasticamente ostesa con il rilievo
che “… l'interesse effettivo che l'ordinamento intende proteggere è
… sempre l'interesse ad un bene della vita che l’ordinamento, sulla
base di scelte costituzionalmente orientate confluite nel disegno
codicistico, protegge con tecniche di tutela e forme di protezione
non più limitate alla demolizione del provvedimento ma miranti, ove
possibile, alla soddisfazione completa della pretesa
sostanziale”.
Non è cosa da poco; non solo sotto il profilo
processuale – ove il Consiglio di Stato giustifica l’autonomia
dell’azione risarcitoria in ragione della “esigenza di una piena
protezione dell’interesse legittimo come posizione sostanziale
correlata ad un bene della vita” – ma soprattutto sotto il profilo
sostanziale: l’interesse legittimo si affranca definitivamente da un
ruolo subalterno nella classificazione delle situazioni giuridiche
soggettive ed assurge al rango di vero e proprio diritto soggettivo.
Il rilievo non scandalizzi. Da anni la dottrina ha chiarito che è la
stessa evoluzione concettuale dell’interesse legittimo ad imporre
questo salto di qualità: come oggi il Consiglio di Stato in adunanza
plenaria (cfr. il § 3.1 della sentenza n. 3/2011), già quasi
trent’anni fa Umberto Allegretti osservava che l’interesse legittimo
non ha a che vedere con l’interesse alla legittimità, né è una
situazione tutelata solo di riflesso, ma è interesse ad un concreto
bene della vita, “solo tutelato con un ambito meno pieno di poteri
di disposizione” (U. ALLEGRETTI, Pubblica amministrazione e
ordinamento democratico, in Foro it., 1984, V, 212): è
quindi pretesa in senso proprio, almeno se la sfera di autonomia del
cittadino è vista in contrapposizione con una dimensione dell’azione
autoritativa che è connotata da doverosità oggettiva e
teleologicamente orientata alla realizzazione della tutela e dello
sviluppo della persona umana.
Il problema delle diverse etichette
è ovviamente marginale e recessivo, una volta acclarato che il
Costituente ha utilizzato una certa terminologia all’unico fine di
recepire gli approdi teorici postbellici sul criterio di riparto,
mentre nulla toglie che l’interesse legittimo non possa essere
considerato come un diritto speciale particolare, il cui peculiare
oggetto sconta – come molte situazioni analoghe del diritto privato
– il fardello del confronto con il potere autoritativo. Una corrente
di pensiero – penso soprattutto alla scuola fiorentina – potrebbe
anche sostenere (ma sul punto occorrerebbe meditare) che la
qualificazione dell’interesse legittimo in termini di diritto di
credito appare oggi, dall’Adunanza plenaria, definitivamente
riconosciuta (sul punto L. FERRARA, Dal giudizio di ottemperanza
al processo di esecuzione. La dissoluzione del concetto di interesse
legittimo nel nuovo assetto della giurisdizione amministrativa,
Milano, 2003, 92 ss.).
2. Sennonché oggi, anche grazie alla
decisione dell’Adunanza plenaria, questo fardello ci appare assai
più leggero: quando il Consiglio di Stato afferma che il processo
amministrativo è giudizio sul rapporto regolato dal provvedimento,
ma finalizzato a scrutinare la fondatezza della pretesa sostanziale
azionata, ci introduce ad una dimensione affatto nuova della
situazione soggettiva azionata in giudizio, della quale è propria la
pretesa all’accertamento della spettanza del bene della vita, con
l’unico, ovvio, limite della discrezionalità.
Una nota di
dissenso rispetto alla decisione va registrata – a mio avviso –
laddove il Consiglio di Stato esclude l’esperibilità, anche in
presenza di un provvedimento espresso di rigetto, dell’azione di
condanna volta ad ottenere l’adozione del provvedimento impugnato
non solo quando vi osti la sussistenza di profili di discrezionalità
amministrativa, ma anche di c.d. discrezionalità tecnica. Ora, è
vero che l’accertamento della spettanza del bene della vita sconta
inesorabilmente il limite del divieto di sostituzione del giudice
all’amministrazione nella misura in cui tale sostituzione implica
l’esercizio di poteri – di concretizzazione e massimizzazione
dell’interesse pubblico – di cui il giudice non solo non ha la
titolarità ma, e soprattutto, non ha la responsabilità.
Non
altrettanto può dirsi per la c.d. discrezionalità tecnica, che non
implica alcuna attività di cura e gestione dell’interesse pubblicato
tipizzato dalla legge, ma solo l’applicazione di regole del sapere
specialistico pienamente accessibili al giudice, e da quest’ultimo
liberamente – ed anzi doverosamente – utilizzabili al fine di
attualizzare il dictum sulla spettanza.
3. La
costruzione del Consiglio di Stato passa inoltre per l’esegesi
dell’art. 34, comma 3, cod. proc. amm. (“quando nel corso del
giudizio l’annullamento del provvedimento non risulti più utile per
il ricorrente il giudice accerta l’illegittimità dell’atto se
sussiste l’interesse a fini risarcitori”), per trarne che “un’azione
costitutiva di annullamento, non più supportata dal necessario
interesse” può essere “convertita in un’azione meramente
dichiarativa di accertamento dell’illegittimità, da far valere in un
(anche successivo) giudizio di risarcimento”.
Si badi che la
sentenza dell’Adunanza plenaria correttamente non ammicca – come in
passato accaduto – al troppo invitante ritorno ad uno schema di
processo oggettivo, sostanzialmente inquisitorio, tutto proteso alla
cura dell’interesse pubblico (il che contraddice, peraltro, la
giusta ritrosia del giudice a sovrapporre le proprie decisioni alla
discrezionalità pura); tutt’altro: l’architrave del ragionamento si
snoda lungo le coordinate del processo di diritto soggettivo, in
coerenza con le linee guida del codice di rito (amministrativo) e
della legge di delega n. 44/2009.
Ebbene, ammettere la
conversione di un’azione di annullamento in azione di accertamento
è, probabilmente, il più sicuro riconoscimento della autonomia della
situazione soggettiva tutelata, a prescindere dal nomen che a
detta situazione si voglia attribuire; ed è anche il frutto di un
coraggioso quanto consapevole affrancamento dal tralaticio
orientamento che esclude la possibilità di sottoporre ad azione di
accertamento l’interesse legittimo, soprattutto ove esso assuma le
vesti troppo strette dell’interesse pretensivo (sintagma
intrinsecamente contraddittorio), e si atteggi invece, come emerge
dalla sentenza n. 3 del 2011, a pretesa obbiettiva e tutelabile ad
un bene della vita, purché il soddisfacimento di esso bene non sia
subordinato alla spendita di potere discrezionale da parte
dell’amministrazione.
Anche il ricorso all’armamentario teorico
civilistico per fondare il principio di auto-responsabilità del
creditore rafforza il convincimento di una consapevole opera di
“civilizzazione” dell’interesse legittimo; mi riferisco in
particolare al passaggio – anch’esso molto convincente – sulla
riconduzione dell’abuso processuale alla figura dell’abuso del
diritto; se di abuso del processo deve parlarsi ogniqualvolta
affiori la obbiettiva non appropriatezza dello strumento processuale
impiegato rispetto al fine che la legge attribuisce a quello
strumento, l’utilizzo di un rimedio processuale idoneo ad aggravare
la posizione della controparte, o l’omissione di uno strumento
adeguato a non realizzare detto aggravio, eccede dai confini leciti
non solo del diritto di azione, ma della tutela della situazione
sostanziale a presidio della quale l’azione stessa andrebbe
esercitata.
In passato, il ricorso all’art.1227 c.c. – spesso
invocato per neutralizzare la giurisprudenza della Cassazione
contraria alla pregiudiziale amministrativa – non mi era parso del
tutto convincente perché sostanzialmente invocato quale causa di
giustificazione sostanziale, e non processuale, della irrisarcbilità
del danno da provvedimento illegittimo che non fosse stato
previamente annullato.
La sentenza dell’Adunanza plenaria non ha
accortamente sposato tale atteggiamento intransigente, ed è per
questo che il ragionamento da essa seguito é (oggi) del tutto
condivisibile allorché si afferma la necessità di “… valutare la
condotta complessiva, anche processuale, del creditore, con riguardo
alle specificità del caso concreto”. In tale prospettiva, l’azione
di annullamento non è qualificata né come particolarmente costosa –
anche se non tutti potrebbero essere d’accordo – né aleatoria
rispetto all’azione autonoma di annullamento, “… nella misura in cui
richiede il solo riscontro della presenza di un vizio di legittimità
invalidante senza postulare la dimostrazione degli altri elementi
invece necessari a fini risarcitori” (tra i quali l’Adunanza include
anche l’elemento psicologico, ancorché, almeno nel settore dei
contratti pubblici, la colpa non dovrebbe concorrere alla
qualificazione dell’illecito aquiliano sulla base dei più recenti
indirizzi della giurisprudenza comunitaria - Corte Giust., Sezione
III 30 settembre 2010, n. C- 314/09 e Cons. Stato, V, 24 febbraio
2011, n. 1193).
Il Consiglio di Stato non esclude che la scelta
del creditore di non dare corso all’azione di impugnazione é
ragionevole quante volte “l’interesse all’annullamento
oggettivamente non esista, sia venuto meno e, in generale, non sia
adeguatamene suscettibile di soddisfazione”; la valutazione circa la
ragionevolezza della scelta del creditore andrà ovviamente condotta
di caso in caso, in relazione al grado di esecuzione del
provvedimento, alla modificazione giuridica e materiale in concreto
prodotta e ad una valutazione prognostica circa l’utilitas concreta che dall’annullamento (segnatamente in termini di anche
solo parziale reversibilità della situazione concreta per effetto
del travolgimento dell’atto illegittimo)
l’interessato possa trarre.
E’ certo che
quest’importante decisione segna il punto di partenza di nuove,
stimolanti riflessioni, e potrebbe avere il pregio – secondo me lo
ha – di consentire di accantonare dibattiti di teoria pura tanto
eleganti quanto poco concludenti in punto di sistemazione dei
concetti.
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(pubblicato il
1.4.2011)
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