Fallimento Rem S.r.l., in persona del legale
rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avv.
Antonio Romano, con domicilio eletto presso Ennio Luponio in Roma, via
Michele Mercati, 51;
contro
Enel Distribuzione S.p.A., in persona del
legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avv.
Mario Libertini, con domicilio eletto presso Mario Libertini in Roma, via
Boezio, 14;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. CAMPANIA - NAPOLI:
SEZIONE I n. 05922/2007, resa tra le parti, concernente RISARCIMENTO DANNI
A SEGUITO DI APPALTO PER REALIZZAZIONE IMPIANTI ELETTRICI
Visti il
ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione
in giudizio di Enel Distribuzione S.p.A.;
Viste le memorie
difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza
pubblica del giorno 21 febbraio 2011 il Cons. Francesco Caringella e uditi
per le parti gli avvocati Romano e Libertini.;
Ritenuto e considerato
in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Il Fallimento della società s.r.l. Rem,
appaltatrice da lungo tempo dei lavori di realizzazione e manutenzione di
opere ed impianti elettrici per conto dell’Enel, espone che durante
l’esecuzione dei lavori di potenziamento di linea elettrica di cui al
contratto di appalto del 21 settembre 1998 si era verificato un incidente
mortale a danno di un proprio dipendente, a seguito del quale l’Enel, al
quale il sinistro era addebitabile, le aveva comminato, con determinazione
della Direzione Distribuzione Campania in data 30 settembre 1999, la
sospensione degli inviti a gare d’appalto nell’intero ambito territoriale
di competenza per un periodo di nove mesi a far data dal 1° ottobre
1999.
Con atto di citazione notificato il 6 maggio 2002 la società Rem
conveniva l’Enel davanti al Tribunale civile di Napoli per ottenere il
risarcimento dei danni cagionati dalla disposta esclusione dalle gare
d’appalto. Con sentenza n. 6221 del 25 maggio 2004 il Tribunale dichiarava
la propria carenza di giurisdizione in ragione della riconducibilità della res litigiosa alla sfera di cognizione del Giudice amministrativo.
Il Fallimento Rem proponeva, quindi, ricorso innanzi al Tribunale
Amministrativo Regionale della Campania con il quale chiedeva
l’annullamento dell’illegittima determinazione dell’Enel ed il
risarcimento dei danni cagionati da detto provvedimento.
Con la
sentenza impugnata il Giudice di prime cure ha dichiarato irricevibile la
domanda di annullamento del provvedimento, in quanto proposta, anche a
considerare come dies a quo la data dell’atto di citazione davanti
al Tribunale civile, ad oltre due anni di distanza e ha negato l’errore
scusabile facendo leva sul rilievo che il ricorso al Tribunale
Amministrativo è stato proposto a distanza di oltre un anno dalla
pubblicazione della sentenza declinatoria della giurisdizione
civile.
Il Giudice di primo grado ha, poi, respinto la domanda
risarcitoria tracciando una parabola argomentativa nel corso della quale
ha riconosciuto che la pretesa risarcitoria può essere azionata
indipendentemente dalla previa impugnazione dell’atto illegittimo ma ha
ritenuto che la mancata reazione al provvedimento lesivo si fosse nella
specie risolta in una sostanziale acquiescenza del danneggiato,
configurando una condotta omissiva apprezzabile alla stregua dell’art.
1227 del codice civile.
Con l’atto di appello il Fallimento ha chiesto
la riforma di detta sentenza sostenendo che, con riguardo ad una
controversia attribuita alla giurisdizione esclusiva, ratione
materiae, del giudice amministrativo, non opera il regime decadenziale
proprio della giurisdizione di legittimità; e che, comunque, le
oscillazioni registratesi in sede giurisprudenziale in ordine al riparto
della giurisdizione avrebbero giustificano l’applicazione dell’istituto
dell’errore scusabile ingiustamente negata dal Tribunale.
L’appellante
ha poi contestato che la mancata impugnazione del provvedimento
amministrativo possa costituire fattore ostativo alla favorevole
valutazione della domanda risarcitoria.
In particolare, parte
ricorrente ha osservato che, a fronte dell’integrazione di tutti gli
elementi costitutivi dell’illecito aquiliano ai sensi dell’art. 2043 c.c.,
l’eventuale acquiescenza addebitabile al danneggiato può al più
comportare, ai sensi dell’art. 1227, capoverso, del codice civile, una
diminuzione dell’importo del risarcimento, ma non può escluderlo in via
integrale come erroneamente ritenuto dal Tribunale.
Si è costituita
l’Enel Distribuzione s.p.a., la quale, dopo aver rappresentato, in fatto,
che la sentenza del Tribunale di Salerno citata dalla controparte ha
accertato gravi infrazioni alle norme di sicurezza anche da parte dei
dipendenti della società Rem, tali da assumere ruolo di concausa nella
dinamica dell’incidente mortale, ha contrastato, in punto di diritto,
tutte le pretese avversarie chiedendo il rigetto dell’appello.
Con la
decisione parziale n. 2436/2009 la VI Sezione di questo Consiglio,
ribadita la sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo, ha
confermato la statuizione di irricevibilità della domanda impugnatoria
proposta con il ricorso di prime cure.
In ordine alla domanda
risarcitoria riproposta in appello, la Sezione, ravvisando la sussistenza
di un contrasto giurisprudenziale sulla questione di diritto, di
particolare importanza, relativa ai rapporti tra domanda di annullamento e
iniziativa risarcitoria, ha rimesso la decisione della controversia
all’Adunanza plenaria, ai sensi dell’art. 45, comma 2, r.d. 26 giugno
1924, n. 1054, come sostituito dall’art. 5 legge 21 dicembre 1950, n. 1018
(oggi art. 99 del codice del processo amministrativo di cui all’allegato 1
al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104).
Le parti hanno, quindi,
depositato memorie con le quali hanno ulteriormente illustrato le
rispettive tesi difensive.
All’odierna udienza la causa è stata
trattenuta per la decisione.
DIRITTO
1. La Sezione rimettente sottopone al vaglio
dell’Adunanza Plenaria la questione relativa ai rapporti tra domanda di
annullamento e domanda di risarcimento con riguardo ad una fattispecie
nella quale viene chiesto il ristoro dei danni cagionati da un
provvedimento di sospensione dalle gare non impugnato nel termine
decadenziale.
2. E’ noto che, con la storica sentenza 22 luglio
1999, n. 500, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno
riconosciuto l’ammissibilità della tutela risarcitoria degli interessi
legittimi.
L’art. 7 della legge 21 luglio 2000, n. 205, nel novellare
l’art. 7, comma 3, della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, ha poi stabilito
che, in tali casi, la tutela risarcitoria va richiesta al giudice
amministrativo, atteggiandosi a “strumento di tutela ulteriore rispetto a
quello classico demolitorio” (così sentenze 6 luglio 2004, n. 204 e 11
maggio 2006, n. 191 della Corte Costituzionale).
In questo quadro,
l’elaborazione delle condizioni, processuali e sostanziali, che governano
la tutela risarcitoria degli interessi legittimi è stata al centro di un
vivace dibattito giurisprudenziale e dottrinale.
E’ stato, in
particolare, oggetto di approfondita analisi il tema della pregiudizialità
della domanda di annullamento rispetto all’azione di danno.
2.1. A
favore della tesi dell’autonomia delle due azioni si è pronunciata la
Cassazione a Sezioni unite la quale, con ordinanze nn. 13659 e 13660 del
13 giugno 2006 rese in sede di regolamento di giurisdizione, ha affermato
che la domanda di risarcimento può essere proposta innanzi al giudice
amministrativo anche in difetto della previa domanda di annullamento
dell’atto lesivo, per cui una declaratoria di inammissibilità della
domanda risarcitoria motivata solo in ragione della mancata previa
impugnazione dell’atto, concretizza diniego della giurisdizione
sindacabile da parte della Corte di cassazione ex artt. 360, comma 1, n. 1
e 362 c.p.c..
Siffatta conclusione è stata ribadita dalla Sezioni Unite
con le sentenze 23 dicembre 2008, n. 30254, 6 settembre 2010, n. 19048, 16
dicembre 2010, n. 23595 e 11 gennaio 2011, n. 405. Detta ultima pronuncia
ha peraltro puntualizzato che il diniego di giurisdizione che consente il
sindacato della Cassazione è riscontrabile nelle sole ipotesi in cui il
Consiglio di Stato neghi la tutela risarcitoria per il solo fatto della
mancata impugnazione del provvedimento amministrativo e non anche in
quelle in cui il Giudice amministrativo pervenga ad una pronuncia
sfavorevole di merito in ragione della valutazione in ordine all’assenza,
in concreto, dei presupposti sostanziali all’uopo necessari (nel caso di
specie il Consiglio di Stato non aveva ravvisato l’illegittimità della
statuizione amministrativa asseritamene produttiva del danno).
2.2. Con
la decisione dell’Adunanza plenaria 22 ottobre 2007, n. 12 questo
Consiglio di Stato ha, invece, confermato il principio della
pregiudizialità della domanda di annullamento rispetto alla tutela
risarcitoria, già espresso dall’Adunanza plenaria con la decisione n. 4
del 2003.
La decisione di rimessione ha puntualmente riepilogato gli
argomenti posti a sostegno del permanere della pregiudizialità sulla base
dei seguenti punti, relativi:
- alla stessa struttura del processo
amministrativo e alla tutela in esso erogabile, dove, in armonia con gli
artt. 103 e 113, co. 3, Cost., sia nella giurisdizione di legittimità, che
in quella esclusiva, viene in considerazione in via primaria la tutela
demolitoria e solo in via consequenziale ed eventuale quella risarcitoria,
come inequivocabilmente stabilito dall’art. 35, co.1, 4 e 5, d.lgs. n. 80
del 1998;
- alla cosiddetta presunzione di legittimità dell’atto
amministrativo e della connessa efficacia ed esecutorietà, che si
consolida in caso di omessa impugnazione o di annullamento d’ufficio (v.
legge 11 febbraio 2005, n. 15);
- all’articolazione della tutela sopra
ricordata che, in entrambi i casi, concerne la stessa illegittimità del
provvedimento, con la conseguenza che il danno ingiusto non può essere
configurato a fronte di un’illegittimità del provvedimento che, per
l’assolutezza della cennata presunzione è, de jure,
irreclamabile;
- all’assenza della condizione essenziale
dell’ingiustizia del danno, impedita dalla persistenza di un provvedimento
inoppugnabile (o inutilmente impugnato);
- alla concreta equivalenza
del giudicato che, rilevando l’inesistenza dell’appena ricordata
condizione, dichiari l’improponibilità della domanda con il giudicato che,
pronunciandosi nel merito, dichiari infondata - e questa volta con
pronuncia inequivocabilmente sottratta a verifica ex art. 362
cod.proc.civ.- la domanda per difetto della denunziata illegittimità;
-
ai limiti del potere regolatore della Corte di Cassazione (Sez. un., 19
gennaio 2007, n. 1139; 4 gennaio 2007, n. 13) che, secondo il correlato
avvertimento della Corte Costituzionale (sent. 12 marzo 2007, n. 77), “con
la sua pronuncia può soltanto, a norma dell’art. 111, comma ottavo, Cost.,
vincolare il Consiglio di Stato e la Corte dei conti a ritenersi
legittimati a decidere la controversia, ma certamente non può vincolarli
sotto alcun profilo quanto al contenuto (di merito o di rito) di tale
decisione”. Ad analogo principio, prosegue la Corte, “si ispira l’art. 386
c.p.c. applicabile anche ai ricorsi proposti a norma dell’art. 362, co.1,
c.p.c., disponendo che la decisione sulla giurisdizione è determinata
dall’oggetto della domanda e, quando prosegue il giudizio, non pregiudica
le questioni sulla pertinenza del diritto e sulla proponibilità della
domanda”;
- alla correlata verifica degli eventuali limiti
dell’indirizzo della Corte di Cassazione secondo cui l’inoppugnabilità
dell’atto amministrativo, siccome relativa agli interessi legittimi, non
impedirebbe in nessun caso al giudice ordinario di
disapplicarlo.
Secondo tale approccio interpretativo, l’applicazione
del principio della pregiudizialità processuale conduce alla soluzione, in
rito, dell’inammissibilità della domanda risarcitoria non accompagnata o
preceduta dalla sperimentazione del rimedio impugnatorio entro il
prescritto termine decadenziale di sessanta giorni dalla piena conoscenza
del provvedimento illegittimo foriero dell’effetto lesivo.
3. Va, a
questo punto, osservato che sui termini del dibattito è destinata ad
incidere, a regime, la disciplina dettata dal codice del processo
amministrativo di cui all’allegato 1 al decreto legislativo 2 luglio 2010,
n. 104, entrato in vigore il 16 settembre 2010 (art. 2).
L’art. 30 del
codice ha infatti previsto, ai fini che qui rilevano, che l’azione di
condanna al risarcimento del danno può essere proposta in via autonoma
(comma 1) entro il termine di decadenza di centoventi giorni decorrente
dal giorno in cui il fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del
provvedimento se il danno deriva direttamente da questo (comma 3, primo
periodo).
La norma, da leggere in combinazione con il disposto del
comma 4 dell'art. 7 – il cui inciso finale prevede la possibilità che le
domande risarcitorie aventi ad oggetto il danno da lesione di interessi
legittimi e di altri diritti patrimoniali consequenziali siano introdotte
in via autonoma - sancisce, dunque, l’autonomia, sul versante processuale,
della domanda di risarcimento rispetto al rimedio impugnatorio.
Detta
autonomia è confermata, per un verso, dall’art. 34, comma 2, secondo
periodo, che considera il giudizio risarcitorio quale eccezione al
generale divieto, per il giudice amministrativo, di conoscere della
legittimità di atti che il ricorrente avrebbe dovuto impugnare con
l’azione di annullamento; e, per altro verso, dal comma 3 dello stesso
art. 34, che consente l’accertamento dell’illegittimità a fini meramente
risarcitori allorquando la pronuncia costitutiva di annullamento non
risulti più utile per il ricorrente.
Questo reticolo di norme
consacra, in termini netti, la reciproca autonomia processuale tra i
diversi sistemi di tutela, con l'affrancazione del modello risarcitorio
dalla logica della necessaria "ancillarità" e “sussidiarietà” rispetto al
paradigma caducatorio.
3.1. Il riconoscimento dell’autonomia, in punto
di rito, della tutela risarcitoria si inserisce - in attuazione dei
principi costituzionali e comunitari in materia di pienezza ed effettività
della tutela giurisdizionale richiamati dall’art. 1 del codice oltre che
dei criteri di delega fissati dall’art. 44 della legge 18 giugno 2009, n.
69 - in un ordito normativo che, portando a compimento un lungo e costante
processo evolutivo tracciato dal legislatore e dalla giurisprudenza,
amplia le tecniche di tutela dell’interesse legittimo mediante
l’introduzione del principio della pluralità delle azioni. Si sono,
infatti, aggiunte alla tutela di annullamento la tutela di condanna
(risarcitoria e reintegratoria ex art. 30), la tutela dichiarativa (cfr.
l’azione di nullità del provvedimento amministrativo ex art. 31, comma 4)
e, nel rito in materia di silenzio-inadempimento, l’azione di condanna
pubblicistica (cd. azione di esatto adempimento) all’adozione del
provvedimento, anche previo accertamento, nei casi consentiti, della
fondatezza della pretesa dedotta in giudizio (art. 31, commi da 1 a 3).
Deve, inoltre, rilevarsi che il legislatore, sia pure in maniera non
esplicita, ha ritenuto esperibile, anche in presenza di un provvedimento
espresso di rigetto e sempre che non vi osti la sussistenza di profili di
discrezionalità amministrativa e tecnica, l’azione di condanna volta ad
ottenere l’adozione dell’atto amministrativo richiesto. Ciò è desumibile
dal combinato disposto dell’art. 30, comma 1, che fa riferimento
all’azione di condanna senza una tipizzazione dei relativi contenuti
(sull’atipicità di detta azione si sofferma la relazione governativa di
accompagnamento al codice) e dell’art. 34, comma 1, lett. c), ove si
stabilisce che la sentenza di condanna deve prescrivere l’adozione di
misure idonee a tutelare la situazione soggettiva dedotta in giudizio
(cfr., già con riguardo al quadro normativo anteriore, Cons. Stato, sez.
VI, 15 aprile 2010, n. 2139; 9 febbraio 2009, n. 717).
In definitiva,
il disegno codicistico, in coerenza con il criterio di delega fissato
dall’art. 44, comma 2, lettera b, n. 4, della legge 18 giugno 2009, n. 69,
ha superato la tradizionale limitazione della tutela dell’interesse
legittimo al solo modello impugnatorio, ammettendo l’esperibilità di
azioni tese al conseguimento di pronunce dichiarative, costitutive e di
condanna idonee a soddisfare la pretesa della parte vittoriosa.
Di
qui, la trasformazione del giudizio amministrativo, ove non vi si
frapponga l’ostacolo dato dalla non sostituibilità di attività
discrezionali riservate alla pubblica amministrazione, da giudizio
amministrativo sull’atto, teso a vagliarne la legittimità alla stregua dei
vizi denunciati in sede di ricorso e con salvezza del riesercizio del
potere amministrativo, a giudizio sul rapporto regolato dal medesimo atto,
volto a scrutinare la fondatezza della pretesa sostanziale
azionata.
Alla stregua di tale dilatazione delle tecniche di
protezione, viene confermata e potenziata la dimensione sostanziale dell’
interesse legittimo in una con la centralità che il bene della vita assume
nella struttura di detta situazione soggettiva.
Come osservato dalle
Sezioni Unite nella citata sentenza n. 500/1999, l’interesse legittimo non
rileva come situazione meramente processuale, ossia quale titolo di
legittimazione per la proposizione del ricorso al giudice amministrativo,
né si risolve in un mero interesse alla legittimità dell’azione
amministrativa in sé intesa, ma si rivela posizione schiettamente
sostanziale, correlata, in modo intimo e inscindibile, ad un interesse
materiale del titolare ad un bene della vita, la cui lesione (in termini
di sacrificio o di insoddisfazione a seconda che si tratti di interesse
oppositivo o pretensivo) può concretizzare un pregiudizio.
L'interesse
legittimo va, quindi, inteso come la posizione di vantaggio riservata ad
un soggetto in relazione ad un bene della vita interessato dall’esercizio
del potere pubblicistico, che si compendia nell'attribuzione a tale
soggetto di poteri idonei ad influire sul corretto esercizio del potere,
in modo da rendere possibile la realizzazione o la difesa dell'interesse
al bene.
Anche nei riguardi della situazione di interesse legittimo,
l'interesse effettivo che l'ordinamento intende proteggere è quindi sempre
l'interesse ad un bene della vita che l’ordinamento, sulla base di scelte
costituzionalmente orientate confluite nel disegno codicistico, protegge
con tecniche di tutela e forme di protezione non più limitate alla
demolizione del provvedimento ma miranti, ove possibile, alla
soddisfazione completa della pretesa sostanziale.
In questo quadro
normativo, sensibile all’esigenza di una piena protezione dell’interesse
legittimo come posizione sostanziale correlata ad un bene della vita,
risulta coerente che la domanda risarcitoria, ove si limiti alla richiesta
di ristoro patrimoniale senza mirare alla cancellazione degli effetti
prodotti del provvedimento, sia proponibile in via autonoma rispetto
all’azione impugnatoria e non si atteggi più a semplice corollario di
detto ultimo rimedio secondo una logica gerarchica che il codice del
processo ha con chiarezza superato.
L’autonomia dell’azione si
apprezza, con argomento a contrario, se si rileva che, alla stregua
dell’inciso iniziale del comma 1 dell’art. 30, salvi in casi di
giurisdizione esclusiva del giudizio amministrativo (segnatamente, con
riferimento alle azioni di condanna a tutela di diritti soggettivi) ed i
casi di cui al medesimo articolo (relativi proprio alle domande di
risarcimento del danno ingiusto di cui ai successivi commi 2 e seguenti),
la domanda di condanna può essere proposta solo contestualmente ad altra
azione. Si ricava allora che mentre la domanda tesa ad una pronuncia che
imponga l’adozione del provvedimento satisfattorio, non è ammissibile se
non accompagnata dalla rituale e contestuale proposizione della domanda di
annullamento del provvedimento negativo (o del rimedio avverso il silenzio
ex art. 31), per converso la domanda risarcitoria è proponibile in via
autonoma rispetto al rimedio caducatorio.
3.2. Va, peraltro, osservato
che il codice, pur negando la sussistenza di una pregiudizialità di rito,
ha mostrato di apprezzare, sul versante sostanziale, la rilevanza
eziologica dell’omessa impugnazione come fatto valutabile al fine di
escludere la risarcibilità dei danni che, secondo un giudizio causale di
tipo ipotetico, sarebbero stati presumibilmente evitati in caso di
tempestiva reazione processuale nei confronti del provvedimento
potenzialmente dannoso.
L'art. 30, comma 3, del codice dispone,
infatti, al secondo periodo, stabilisce che, nel determinare il
risarcimento, “il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il
comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento
dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza,
anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela
previsti”.
La disposizione, pur non evocando in modo esplicito il
disposto dell’art. 1227, comma 2, del codice civile, afferma che l'omessa
attivazione degli strumenti di tutela previsti costituisce, nel quadro del
comportamento complessivo delle parti, dato valutabile, alla stregua del
canone di buona fede e del principio di solidarietà, ai fini
dell’esclusione o della mitigazione del danno evitabile con l’ordinaria
diligenza. E tanto in una logica che vede l'omessa impugnazione non più
come preclusione di rito ma come fatto da considerare in sede di merito ai
fini del giudizio sulla sussistenza e consistenza del pregiudizio
risarcibile.
Operando una ricognizione dei principi civilistici in
tema di causalità giuridica e di principio di auto-responsabilità, il
codice del processo amministrativo sancisce la regola secondo cui la
tenuta, da parte del danneggiato, di una condotta, attiva od omissiva,
contraria al principio di buona fede ed al parametro della diligenza, che
consenta la produzione di danni che altrimenti sarebbero stati evitati
secondo il canone della causalità civile imperniato sulla probabilità
relativa (secondo il criterio del “più probabilmente che non” :
Cass., sezioni unite,11 gennaio 1008, n. 577; sez. III, 12 marzo 2010, n.
6045), recide, in tutto o in parte, il nesso casuale che, ai sensi
dell’art. 1223 c.c., deve legare la condotta antigiuridica alle
conseguenze dannose risarcibili. Di qui la rilevanza sostanziale, sul
versante prettamente causale, dell’omessa o tardiva impugnazione come
fatto che preclude la risarcibilità di danni che sarebbero stati
presumibilmente evitati in caso di rituale utilizzazione dello strumento
di tutela specifica predisposto dall’ordinamento a protezione delle
posizioni di interesse legittimo onde evitare la consolidazione di effetti
dannosi.
Va aggiunto che la latitudine del generale riferimento ai
mezzi di tutela e al comportamento complessivo consente di soppesare
l’ipotetica incidenza eziologica non solo della mancata impugnazione del
provvedimento dannoso ma anche dell’omessa attivazione di altri rimedi
potenzialmente idonei ad evitare il danno, quali la via dei ricorsi
amministrativi e l’assunzione di atti di iniziativa finalizzati alla
stimolazione dell’ autotutela amministrativa (cd. invito
all’autotutela).
Va, del pari, apprezzata l’omissione di ogni
altro comportamento esigibile in quanto non eccedente la soglia del
sacrificio significativo sopportabile anche dalla vittima di una condotta
illecita alla stregua del canone di buona fede di cui all’art. 1175 e del
principio di solidarietà di cui all’art. 2 Cost.
La rilevanza
sostanziale delle condotte negligenti, eziologicamente pregnanti, è
confermata anche dall’art. 124 del codice del processo amministrativo e
dell’art. 243 bis del codice dei contratti pubblici di cui al decreto
legislativo 12 aprile 2006, n. 163.
La prima disposizione sancisce, al
comma 2, questa volta recando un riferimento esplicito alla normativa
civilistica, che “la condotta processuale della parte che, senza
giustificato motivo, non ha proposto la domanda di cui al comma 1”
(ossia la domanda di conseguire l’aggiudicazione e il contratto) “o non
si è resa disponibile a subentrare nel contratto è valutata dal Giudice ai
sensi dell’art. 1227 del codice civile”.
Inoltre, l’art. 243 bis
del codice dei contratti pubblici, aggiunto dall’art. 6 del decreto
legislativo 20 marzo 2010, n. 53, come modificato dall’art. 3 dell’
allegato 4 allo stesso decreto legislativo n. 104/2010, nel disciplinare
l’istituto dell’informativa in ordine all’intento di proporre ricorso
giurisdizionale, stabilisce, al comma 5, che l’omissione della
comunicazione di cui al comma 1, finalizzata alla stimolazione
dell’autotutela, costituisce comportamento valutabile ai sensi dell’art.
1227 del codice civile.
Dall’esame coordinato delle richiamate
disposizioni si evince che il legislatore, se da un lato non ha recepito
il modello della pregiudizialità processuale della domanda di annullamento
rispetto a quella risarcitoria, dall’altro ha mostrato di apprezzare la
rilevanza causale dell’omessa impugnazione tempestiva che abbia consentito
la consolidazione dell’atto e dei suoi effetti dannosi.
In tal modo il
codice ha suggellato un punto di equilibrio capace di superare i contrasti
ermeneutici registratisi in subiecta materia tra le due
giurisdizioni e, in parte, anche in seno ad ognuna di esse. Il
legislatore, in definitiva, ha mostrato di non condividere la tesi della
pregiudizialità pura di stampo processuale al pari di quella della totale
autonomia dei due rimedi, approdando ad una soluzione che, non
considerando l’omessa impugnazione quale sbarramento di rito, aprioristico
ed astratto, valuta detta condotta come fatto concreto da apprezzare, nel
quadro del comportamento complessivo delle parti, per escludere il
risarcimento dei danni evitabili per effetto del ricorso per
l’annullamento.
E tanto sulla scorta di una soluzione che conduce al
rigetto, e non alla declaratoria di inammissibilità, della domanda avente
ad oggetto danni che l’impugnazione, se proposta nel termine di decadenza,
avrebbe consentito di scongiurare.
4. L’Adunanza Plenaria,
consapevole dell’inapplicabilità delle norme del codice, entrato in vigore
il 16 settembre 2010, ad una fattispecie ed ad un giudizio risalenti ad
epoca anteriore, reputa, tuttavia, che la disciplina ora analizzata, nella
parte che rileva ai fini della risoluzione della presente controversia,
pervenga ad una soluzione convincente delle divergenze interpretative,
estensibile a situazioni anteriori in quanto ricognitiva di principi
evincibili dal sistema normativo antecedente all’entrata in vigore del
codice.
Reputa, infatti, questo Consiglio che entrambi i principi
affermati dal d.lgs. n. 104 del 2010 – quello dell’assenza di una stretta
pregiudiziale processuale e quello dell’operatività di una connessione
sostanziale di tipo causale tra rimedio impugnatorio e azione risarcitoria
– fossero ricavabili anche dal quadro normativo vigente prima dell’entrata
in vigore del codice.
5. La mancanza di una pregiudizialità di
stretto rito è desumibile dalla ricordata autonomia, sul piano
dell’oggetto e dell’effetto, dell’iniziativa impugnatoria rispetto al
rimedio risarcitorio, tale da escludere che, per definizione e in
astratto, una sentenza che condanni al risarcimento del danno cagionato
dal provvedimento si risolva nella caducazione degli effetti dell’atto e,
quindi, in una non ammissibile elusione del termine decadenziale, con
frustrazione dell’esigenza di certezza dei rapporti giuridici
amministrativi perseguita dalla previsione di detto termine.
Si
consideri poi, a conferma della diversità e della non automatica
sovrapponibilità delle regole di validità del provvedimento rispetto a
quelle di liceità del fatto, che il danno non è di norma cagionato dal
provvedimento in sé inteso ma da un fatto, ossia da un comportamento, in
seno al quale rilevano anche le condotte precedenti e successive all’atto.
In caso di fatto illecito non viene allora in rilievo una mera
illegittimità del provvedimento in sé ma un’illiceità della condotta
complessiva riguardo alla quale assume rilievo centrale il giudizio
sintetico-comparativo di valore sull’ingiustizia del danno nonché la
valutazione della rimproverabilità soggettiva del contegno.
In
definitiva, nell’ambito di un giudizio risarcitorio relativo alla liceità
dell’agere amministrativo, l’omessa impugnazione del provvedimento
non può essere adeguatamente affrontata in termini processuali come
condizione di ammissibilità della domanda per via dell’estensione
analogica di un termine decadenziale previsto per l’impugnazione, termine
per sua natura eccezionale e, quindi, sottoposto al rispetto di un canone
di stretta interpretazione. Di tanto è consapevole lo stesso legislatore
che, proprio nell’assunto della non estensibilità del termine decadenziale
che governa il rimedio impugnatorio ad una domanda che ha un diverso
oggetto e mira a produrre un diverso effetto, ha previsto, per il futuro,
un autonomo termine decadenziale per l’actio damni proposta a
tutela di interessi legittimi, pari a centoventi giorni, a fronte del
temine di prescrizione quinquennale sancito, in via generale, per i fatti
illeciti, dall’art. 2947 c.c.
La mancata operatività di una
pregiudizialità processuale si coniuga con gli arresti della prevalente
giurisprudenza comunitaria che considerano la domanda di annullamento e
quella di risarcimento rimedi autonomi pur se escludono la favorevole
valutazione della domanda risarcitoria quando essa mascheri un’ormai
tardiva azione di annullamento, così come negano la risarcibilità dei
danni che sarebbero stati evitati con la tempestiva impugnazione (Corte
Giust. 28 aprile 1971, in causa C-4/69, Lutticke; Corte Giust. 2
dicembre 1971, in causa C-5/71, Actien-Zuckerfabrik; Corte Giust. 4
ottobre 1979, in cause riunite 241, 242, 245-250/78, DGV-Deutsche
Getreivertretung; Corte Giust. 17 maggio 1990, in causa C-87/89, Sonito; Trib primo grado 8 maggio 2001, in causa T-182/99, Caravelis; vedi anche, con riguardo al problema affine dei rapporti
tra ricorso in carenza e domanda di risarcimento, Corte Giust. 2 luglio
1974, in causa C-153/73, Holtz e Willemsen GmbH c. Consiglio e
Commissione).
La soluzione adottata dal diritto comunitario, come
interpretato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, nel senso
dell’autonomia processuale delle due tecniche di protezione, assume un
rilievo pregnante nel nostro ordinamento alla luce dell’art. 1 del codice
del processo amministrativo che richiama espressamente i principi della
Costituzione e del diritto europeo volti ad assicurare una tutela
giurisdizionale piena ed effettiva.
La soluzione è suffragata anche
dall’evoluzione della legislazione nazionale - registratasi già prima dal
codice del processo amministrativo e da questo armonicamente portata a
compimento - in ordine alle tecniche di tutela dell’interesse legittimo ed
al sistema delle invalidità nel diritto amministrativo.
La tesi della
necessaria subordinazione della tutela risarcitoria alla tutela di
annullamento è, infatti, non in linea con la tendenza legislativa a
superare il modello dell’esclusività della tutela impugnatoria con la
conseguente ammissione di tecniche di tutela dell’interesse legittimo
anche dichiarative (art. 21 septies della legge 7 agosto 1990, n.
241/1990, in materia di azione di nullità) e di condanna (art 2, comma 8,
di tale legge e art. 21 bis della legge 6 dicembre 1971, n. 1034,
in tema di azione nei confronti del silenzio non significativo; art. 7,
comma 3, di tale legge, come mod. dalla legge n. 205 del 2000; art. 21 bis
della legge 1971, n. 1034, introdotto dalla stessa legge n. 205 del 2000,
rispettivamente in materia di tutela risarcitoria in generale e di danno
da ritardo).
Si deve, in particolare, osservare, a conferma del
superamento della centralità della tutela di annullamento ove siano
percorribili altre e più appropriate forme di tutela, che l’art. 21 octies, comma 2, della legge 7 agosto 1990, n. 241, introdotto
dall’art. 14 della legge 11 febbraio 2005, n. 15, ha statuito che il
provvedimento amministrativo non è suscettibile di annullamento ove sia
affetto da vizi procedimentali o formali che non abbiano influito sul
contenuto dispositivo dell’atto finale.
Sullo stesso solco si pone il
citato art. 34, comma 3, del codice del processo amministrativo-
richiamato, nel rito dei contratti pubblici, dall’art. 125, comma 3- , il
quale stabilisce che “quando nel corso del giudizio l’annullamento del
provvedimento non risulti più utile per il ricorrente il giudice accerta
l’illegittimità dell’atto se sussiste l’interesse a fini risarcitori”.
La diposizione consente che un’azione costitutiva di annullamento, non
più supportata dal necessario interesse, sia convertita in un’azione
meramente dichiarativa di accertamento dell’illegittimità, da far valere
in un (anche successivo) giudizio di risarcimento.
Si recepisce, in
sostanza, l’indirizzo ermeneutico, già tracciato da questo Consiglio (sez.
V, 16 giugno 2009, n. 3849), secondo cui, a fronte della domanda di
annullamento inidonea a soddisfare l’interesse in forma specifica (nella
specie veniva in considerazione un provvedimento di espropriazione
relativo ad aree non più restituibili in quanto irreversibilmente
trasformate), la pronuncia - nel caso in parola motivata con riguardo alla regula iuris sottesa agli artt. 2058 e 2933 c.c. - deve limitarsi
ad un accertamento dell'illegittimità, senza esito di annullamento, ai
soli fini della tutela risarcitoria invocabile con riguardo agli eventuali
danni patiti per effetto dell'esecuzione del provvedimento
impugnato.
Va, da ultimo, osservato che l’autonomia del mezzo
impugnatorio quale strumento idoneo a soddisfare in modo adeguato la
pretesa azionata anche in caso di preclusione della tutela di di
annullamento, è stata di recente ribadita dalla Corte Costituzionale con
la sentenza 11 febbraio 2011, n. 49, che ha respinto la questione di
legittimità costituzionale sollevata, rispetto ai parametri di cui agli
art. 2, 24, 103 e 113 della Costituzione, nei confronti dell’art. 2, commi
1, lettera b), e, in parte qua, 2, del decreto-legge 19 agosto
2003, n. 220, convertito dalla legge 17 ottobre 2003, n. 280, nella parte
in cui detta una normativa che riserva al giudice sportivo la cognizione
delle controversie relative alle sanzioni disciplinari non tecniche
inflitte ad atleti, tesserati associazioni e società sportive,
sottraendola al giudice amministrativo, anche là dove esse incidano su
diritti ed interessi legittimi.
Al par. 4.5. della motivazione, la
sentenza della Consulta ha posto a fondamento della statuizione di rigetto
il rilievo che la mancata praticabilità della tutela impugnatoria non
toglie che le situazioni di diritto soggettivo o di interesse legittimo
siano adeguatamente tutelabili innanzi al giudice amministrativo, munito
oltretutto di giurisdizione esclusiva in subiecta materia, mediante
la tutela risarcitoria.
Si supera così l’impostazione tradizionale che
vedeva l’annullamento quale sanzione indefettibile a fronte del riscontro
di un vizio di legittimità, dandosi vita ad un sistema delle tutele
duttile, che consente un accertamento non costitutivo dell’illegittimità,
a fini risarcitori.
In definitiva, l’evoluzione del diritto
amministrativo, già nel sistema normativo anteriore al codice del processo
amministrativo, si è orientata in senso opposto alla praticabilità di una
soluzione rigidamente processuale che imponga la proposizione del ricorso
di annullamento quale condizione per accedere alla tutela risarcitoria
anche quando la sentenza costitutiva non sia, o non sia più, necessaria ed
utile per soddisfare l’interesse sostanziale al bene della vita.
6. La soluzione esposta si pone in linea di continuità con il più
recente orientamento interpretativo di questo Consiglio (sez. VI, 19
giugno 2008, n. 3059; sez. V, 3 febbraio 2009, n. 578; sez. VI, 21 aprile
2009, n. 24363; sez V, 3 novembre 2010, n. 7766), che ha spostato
l’indagine sul rapporto tra azione di danno e domanda di annullamento dal
terreno processuale al piano sostanziale, pervenendo alla condivisibile
conclusione che la mancata promozione della domanda impugnatoria non pone
un problema di ammissibilità dell’actio damni ma è idonea ad
incidere sulla fondatezza della domanda risarcitoria.
L’Adunanza
Plenaria, sviluppando queste coordinate ermeneutiche alla luce dei
principi ricavabili anche dal sopravvenuto codice del processo
amministrativo, reputa che l’analisi dei rapporti sostanziali debba essere
svolto, piuttosto che sul piano dell’ingiustizia del danno valorizzato
dalle pronunce in esame, su quello della causalità.
Detta indagine
consente, in modo più appropriato, di introdurre il necessario
temperamento all’autonomia processuale delle tutele cogliendo la
dipendenza sostanziale, come fatto da apprezzare in concreto, tra rimedio
impugnatorio e azione risarcitoria.
In questo quadro, le esigenze di
preservazione della stabilità dei rapporti pubblicistici e di prevenzione
di comportamenti opportunistici, perseguite dalla giurisprudenza anche di
questa Adunanza Plenaria con l’affermazione del principio della
pregiudizialità ed evidenziate in modo puntuale nell’ordinanza di
rimessione, possono allora essere soddisfatte, in modo più convincente,
con l’applicazione delle norme di cui agli artt. 1223 e seguenti del
codice civile in materia di causalità giuridica.
7. Assume
rilievo, in particolare, il più volte citato disposto dell’art. 1227,
comma 2, del codice civile - norma applicabile anche in materia aquiliana
per effetto del rinvio operato dall’art. 2056 - che, dando seguito ad un
principio già affermato dalla dottrina francese ottocentesca, considera
non risarcibili i danni evitabili con un comportamento diligente del
danneggiato.
L’Adunanza, riprendendo le indicazioni già in precedenza
fornite, reputa che la regola della non risarcibilità dei danni evitabili
con l’impugnazione del provvedimento e con la diligente utilizzazione e
degli altri strumenti di tutela previsti dall’ordinamento, oggi sancita
dall’art. 30, comma 3, del codice del processo amministrativo, sia
ricognitiva di principi già evincibili alla stregua di un’ interpretazione
evolutiva del capoverso dell’articolo 1227 cit.
7.1. Come è noto, le
regole di cui al primo e al secondo comma dell’art. 1227 disciplinano i
due diversi segmenti del nesso causale in materia di illecito civile.
In particolare, il comma 1, in combinato disposto con l'art. 1218
c.c., nell’affrontare il primo stadio della causalità (c.d. causalità
materiale), inerente al rapporto tra condotta illecita (o inadempitiva) e
danno-evento, valorizza il concorso di colpa del danneggiato come fattore
che limita il risarcimento del danno-causato in parte dallo stesso
danneggiato o dalle persone di cui questi risponde.
Il comma 2,
invece, operando sui criteri di determinazione del danno-conseguenza ex
art. 1223 c.c, regola il secondo stadio della causalità (c.d. causalità
giuridica), relativo al nesso tra danno-evento (o evento-inadempimento
contrattuale) alle conseguenze dannose da esso derivanti.
In questo
quadro la norma introduce un giudizio basato sulla cd. causalità
ipotetica, in forza del quale non deve essere risarcito il danno che il
creditore non avrebbe subito se avesse serbato il comportamento
collaborativo cui è tenuto, secondo correttezza. Si vuole, a questa
stregua, circoscrivere il danno derivante dall'inadempimento entro i
limiti che rappresentano una diretta conseguenza dell'altrui colpa.
Sul
piano teleologico, la prescrizione, espressione del più generale principio
di correttezza nei rapporti bilaterali, mira a prevenire comportamenti
opportunistici che intendano trarre occasione di lucro da situazioni che
hanno leso in modo marginale gli interessi dei destinatari tanto da non
averli indotti ad attivarsi in modo adeguato onde prevenire o controllare
l’evolversi degli eventi (cfr., per ulteriori applicazioni del principio
di causalità ipotetica, artt. 1221, comma 1 e 1805, comma 2 c.c., 369 cod
nav.).
L’articolo 1227, capoverso, costituisce allora applicazione del
più generale principio di esclusione della responsabilità ogni volta in
cui si provi, in base ad un giudizio ipotetico più che strettamente
causale, che il danno prodottosi non rappresenta una perdita patrimoniale
per il creditore o per il danneggiato in quanto l’avrebbe egualmente
subita o perché avrebbe potuto evitarla.
La giurisprudenza e la
dottrina hanno nel tempo dilatato, in sede interpretativa, la portata ed i
confini dell’impegno cooperativo gravante sul creditore vittima di un
altrui comportamento illecito.
Risulta così superato il tradizionale
indirizzo restrittivo secondo il quale il canone della «diligenza» di cui
all'art. 1227, comma 2, imporrebbe il mero obbligo (negativo) del
creditore di astenersi da comportamenti volti ad aggravare il danno,
mentre esulerebbe dallo spettro degli sforzi esigibili la tenuta di
condotte di tipo positivo sostanziantisi in un facere. La
giurisprudenza più recente, muovendo dal presupposto che la disposizione
in parola non è formula meramente ricognitiva dei principi che governano
la causalità giuridica consacrati dall’art. 1223 c.c. ma costituisce
autonoma espressione di una regola precettiva che fonda doveri
comportamentali del creditore imperniati sul canone dell’
auto-responsabilità, ha, infatti, adottato un’interpretazione estensiva ed
evolutiva del comma 2 dell'art. 1227, secondo cui il creditore è gravato
non soltanto da un obbligo negativo (astenersi dall'aggravare il danno),
ma anche da un obbligo positivo (tenere quelle condotte, anche positive,
esigibili, utili e possibili, rivolte a evitare o ridurre il danno).
Tale orientamento si fonda su una lettura dell'art. 1227, comma 2,
alla luce delle clausole generali di buona fede e correttezza di cui agli
artt. 1175 e 1375 c.c. e, soprattutto, del principio di solidarietà
sociale sancito dall'art. 2 Cost. Detto approccio ermeneutico è, quindi,
ispirato da una lettura della struttura del rapporto obbligatorio in forza
della quale, anche nella fase patologica dell’inadempimento, il creditore,
ancorché vittima dell’illecito, è tenuto ad una condotta positiva (cd.
controazione) tesa ad evitare o a ridurre il danno.
Un limite
all'obbligazione cooperativa e mitigatrice del creditore e agli sforzi in
capo allo stesso esigibili è, peraltro, rappresentato dalla soglia del
c.d. apprezzabile sacrificio: il danneggiato è tenuto ad agire
diligentemente per evitare l'aggravarsi del danno, ma non fino al punto di
sacrificare i propri rilevanti interessi personali e patrimoniali,
attraverso il compimento di attività complesse, impegnative e rischiose.
L'obbligo di cooperazione gravante sul creditore, espressione del dovere
di correttezza nei rapporti fra gli obbligati, non comprende, pertanto,
l’esplicazione di attività straordinarie o gravose attività, ossia un
"facere" non corrispondente all' id quod plerumque accidit.
(così, da ultimo, Cass.civ., sez. I, 5 maggio 2010, n. 10895).
7.2.
Resta allora da vedere, venendo al tema oggetto del presente giudizio, se
nel novero dei comportamenti esigibili dal destinatario di un
provvedimento lesivo sia sussumibile, ai sensi dell’art. 1227, comma 2,
c.c., anche la formulazione, nel termine di decadenza, della domanda di
annullamento, quante volte l’utilizzazione tempestiva di siffatto rimedio
sarebbe stata idonea, secondo il ricordato paradigma della causalità
ipotetica basata sul giudizio probabilistico, ad evitare, in tutto o in
parte, il pregiudizio.
7.2.1. L’Adunanza non ignora che, secondo
l’orientamento interpretativo tradizionalmente prevalente, il
comportamento operoso richiesto al creditore non comprenderebbe
l'esperimento di un'azione giudiziaria, sia essa di cognizione o
esecutiva, trattandosi di attività per definizione complessa e aleatoria,
come tale non esigibile in quanto esplicativa di una mera facoltà,
dall'esito non certo.
Questo Consiglio reputa tuttavia che tale
indirizzo, laddove fissa, con affermazione perentoria ed astratta, il
principio dell’inesigibilità ex bona fide di condotte processuali,
meriti rivisitazione.
In linea di principio va osservato che il
principio dell’insindacabilità delle scelte giudiziarie, al di là dei
limiti e dei divieti puntualmente stabiliti, è interessato da un graduale
ma chiaro superamento da parte della giurisprudenza più recente della
Corte di Cassazione, propensa a sanzionare le condotte processualmente
scorrette con gli strumenti del divieto dell’abuso del diritto, della
clausola di buona fede e dell’exceptio doli generalis.
Va
ricordata, al riguardo, la sentenza della Cassazione, sezioni unite, 15
novembre 2007, n. 23726 (conf. sez. III 3 maggio 2008, n, 15476; sez. II,
27 maggio 2008, n. 13791), che ha affermato il principio secondo cui il
frazionamento giudiziale (contestuale o sequenziale) di un credito
unitario integra condotta contraria alla regola generale di correttezza e
buona fede, in relazione al dovere inderogabile di solidarietà di cui
all’art. 2 della Costituzione, e si risolve in abuso del processo ostativo
all’esame della domanda.
Tale pronuncia afferma con forza la vigenza,
nel nostro sistema, di un generale divieto di abuso di ogni posizione
soggettiva, che, ai sensi dell’art. 2 Cost. e dell’art. 1175 c.c., permea
le condotte sostanziali al pari dei comportamenti processuali di esercizio
del diritto.
A questa stregua la disarticolazione, da parte del
creditore, dell’unità sostanziale del rapporto (sia pure nella fase
patologica della coazione all’adempimento), oltre a violare il generale
dovere di correttezza e buona fede, in quanto attuata nel processo e
tramite il processo, si risolve anche in abuso dello stesso ed in una
violazione del canone del giusto processo. Viene così in rilievo una
condotta che, pur formalmente conforme al paradigma normativo, disattende
il limite modale che impone al titolare di ogni situazione soggettiva di
non azionarla con strumenti, sostanziali e processuali, che infliggano
all’interlocutore un sacrificio non comparativamente giustificato dal
perseguimento di un lecito e ragionevole interesse (v. sul concetto di
limite modale, con particolare riguardo all’esercizio del diritto di
recesso nei rapporti negoziali, Cass., sez. III, 18 settembre 2009, n,
20106).
Il divieto di abuso del diritto si applica allora anche in
chiave processuale: il creditore deve evitare di esercitare un’azione con
modalità tali da implicare un aggravio della sfera del debitore, sì che il
divieto di abuso del diritto diviene anche divieto di abuso del processo
Si giunge, così, all’elaborazione della figura dell’abuso del processo
quale esercizio improprio, sul piano funzionale e modale, del potere
discrezionale della parte di scegliere le più convenienti strategie di
difesa (conf. Cass., sez. I, 3 maggio 2010, n. 10634, che applica il
principio del divieto di abuso del processo ai fini della liquidazione
delle spese giudiziali; per un ancoraggio dell’abuso del processo, in
correlazione agli artt. 24, 111 e 113 Cost. nonché ai principi del diritto
europeo, si vedano gli articoli 88, 91, 94 e 96 del codice di rito civile
e gli artt. 1, 2 e 26 del codice del processo amministrativo).
Ai fini
che qui interessano, assume particolare rilievo la circostanza,
sottolineata dalle Sezioni Unite, che il divieto di abuso concerne, oltre
che la fase fisiologica del rapporto, anche quella patologica: il
creditore, cioè, deve cooperare col debitore non solo per agevolare
l’adempimento, ma anche per non aggravare la sua posizione una volta che
si è verificata la violazione dell’impegno obbligatorio. E tanto si ricava
proprio dal secondo comma dell’art. 1227 c.c., il quale impone a colui che
abbia subito l’inadempimento (o il fatto illecito) di porre in essere in
base a buona fede anche comportamenti attivi, entro i limiti del
sacrificio non apprezzabile, per evitare l’aggravamento del
danno.
7.2.2. In definitiva, la persuasiva elaborazione pretoria di cui
si è dato conto mette in luce che il divieto di tenere condotte contrarie
a buona fede ha un ancoraggio costituzionale nel dettato dell’art. 2 Cost,
costituisce canone di valutazione anche delle condotte processuali ed
opera anche nella fase patologica del rapporto obbligatorio.
Ora, se
si considera che, alla stregua di questa recente e convincente lettura,
l’obbligo di cooperazione di cui al comma 2 dell’art. 1227 ha fondamento
proprio nel canone di buona fede ex art. 1175 c.c. e, quindi, nel
principio costituzionale di solidarietà, si deve concludere che anche le
scelte processuali di tipo omissivo possono costituire in astratto
comportamenti apprezzabili ai fini della esclusione o della mitigazione
del danno laddove si appuri, alla stregua del giudizio di causalità
ipotetica di cui si è detto, che le condotte attive trascurate non
avrebbero implicato un sacrificio significativo ed avrebbero
verosimilmente inciso, in senso preclusivo o limitativo, sul perimetro del
danno.
Si deve allora preferire al tradizionale indirizzo che esclude,
per definizione, la sincadabilità delle condotte processuali ai sensi del
capoverso dell’art. 1227 c.c., un più duttile criterio interpretativo che,
in coerenza con le clausole generali in materia di correttezza, buona fede
e solidarietà di cui la norma in esame è espressione, consenta la
valutazione della condotta complessiva, anche processuale, del creditore,
con riguardo alle specificità del caso concreto.
7.2.3. Applicando
detto criterio interpretativo, si deve allora ritenere che la mancata
impugnazione di un provvedimento amministrativo possa essere ritenuto un
comportamento contrario a buona fede nell’ipotesi in cui si appuri che una
tempestiva reazione avrebbe evitato o mitigato il danno (in questo senso,
Cons. Stato, sez. VI, 24 settembre 2010, n. 7124; sez. VI, 22 ottobre 2008
, n. 5183; sez. V, 31 dicembre 2007, n. 6908; sez. IV 3 maggio 2005, n.
2136) .
Si deve, infatti, considerare che il ricorso per annullamento
finalizzato a rimuovere la fonte del danno, pur non essendo più l’unica
tutela esperibile, è il mezzo di cui l’ordinamento giuridico processuale
dota i soggetti lesi da un provvedimento illegittimo proprio per evitare
che quest’ultimo produca conseguenze dannose. Ne deriva che l’utilizzo del
rimedio appropriato coniato dal legislatore proprio al fine di raggiungere
gli obiettivi della tutela specifica delle posizioni incise e della
prevenzione del danno possibile, costituisce, in linea di principio,
condotta esigibile alla luce del dovere di solidale cooperazione di cui
alla norma civilistica in esame.
Nella specie assume un ruolo decisivo
la considerazione, di tipo comparativo, che la tecnica di tutela non
praticata, quella di annullamento, se si eccettua il profilo del termine
decadenziale, non implica costi ed impegno superiori a quelli richiesti
per la tecnica di tutela risarcitoria, ed anzi si presenta più semplice e
meno aleatoria nella misura in cui richiede il solo riscontro della
presenza di un vizio di legittimità invalidante senza postulare la
dimostrazione degli altri elementi invece necessari a fini risarcitori,
quali l’elemento soggettivo, il duplice nesso eziologico nonché
l’esistenza e la consistenza del danno risarcibile in base ai parametri di
cui agli artt.1223 e seguenti del codice civile
Si deve allora reputare
che la scelta di non avvalersi della forma di tutela specifica e non
(comparativamente) complessa che, grazie anche alle misure cautelari
previste dall’ordinamento processuale, avrebbe plausibilmente (ossia più
probabilmente che non) evitato, in tutto o in parte il danno, integra
violazione dell’obbligo di cooperazione, che spezza il nesso causale e,
per l’effetto, impedisce il risarcimento del danno evitabile. Detta
omissione, apprezzata congiuntamente alla successiva proposizione di una
domanda tesa al risarcimento di un danno che la tempestiva azione di
annullamento avrebbe scongiurato, rende configurabile un comportamento
complessivo di tipo opportunistico che viola il canone della buona fede e,
quindi, in forza del principio di auto-responsabilità cristallizzato
dall’art. 1227, comma 2, c.c., implica la non risarcibilità del danno
evitabile.
A diversa conclusione si deve invece pervenire laddove la
decisione di non fare leva sullo strumento impugnatorio sia frutto di
un’opzione discrezionale ragionevole e non sindacabile in quanto
l’interesse all’annullamento oggettivamente non esista, sia venuto meno e,
in generale, non sia adeguatamente suscettibile di soddisfazione. Si
consideri, a titolo esemplificativo, l’ipotesi in cui il provvedimento sia
stato immediatamente eseguito producendo una modificazione di fatto
irreversibile; o quella in cui i tempi tecnici del processo non
consentano, ragionevolmente, di praticare, in modo efficiente, il rimedio
della tutela ripristinatoria; o, ancora, le situazioni in cui, per effetto
di specifica previsione di legge (cfr. l’art. 246, comma 4, del codice dei
contratti pubblici, da ultimo confluito nell’art. 125, comma 3, del codice
del processo amministrativo), il mezzo dell’annullamento non possa
soddisfare, in termini reali, l’aspirazione al conseguimento del bene
della vita desiderato. Dette evenienze, ostative al soddisfacimento in
natura della posizione azionata, possono maturare nel corso del giudizio
in guisa da produrre la concentrazione in itinere della domanda sul solo
profilo del risarcimento sulla base della regola giurisprudenziale prima
ricordata, oggi canonizzata dall’art. 34, comma 3, del codice del processo
amministrativo.
La soluzione esposta, che riprende indicazioni già
fornite dalla Corte di Cassazione nelle citate ordinanze delle Sezioni
Unite 13 giugno 2006, nn. 13659 e 13660, si pone in linea con l’indirizzo
sostenuto dalla prevalente giurisprudenza comunitaria che, come in
precedenza sottolineato, pur ammettendo la proponibilità della domanda
risarcitoria in via autonoma rispetto al rimedio impugnatorio, considera
nel merito infondata la pretesa al ristoro dei danni che sarebbero stati
evitati mediante la tempestiva impugnazione dell’atto lesivo.
Si
sancisce in questo modo un coordinamento, non processuale ma sostanziale,
tra il rimedio caducatorio e quello risarcitorio. In questi termini, come
è stato efficacemente notato in dottrina, si può parlare di un coordinamento delle tutele più che di un coordinamento delle
azioni.
7.2.4. Va soggiunto che la mancata proposizione del ricorso
per annullamento va apprezzata nel quadro di una valutazione più ampia -
oggi recepita dagli artt. 30 e 124 del codice del processo amministrativo
oltre che dall’art. 243 bis del codice dei contratti pubblici- del
comportamento complessivo della parte in seno al quale detta omissione
processuale si colloca.
Andrà allora ponderata la concorrente rilevanza
eziologica spiegata dal mancato utilizzo di rimedi e di condotte che, non
implicando rilevanti costi e oneri, sono, a maggior ragione, esigibili,
alla stregua dei canoni ermeneutici sopra esposti, come l’attivazione del
rimedio dei ricorsi amministrativi e la proposizione di tempestive istanze
volte a sollecitare la rimozione o la modificazione in autotutela del
provvedimento illegittimo, in una agli ulteriori comportamenti diligenti
idonei ad incidere in senso favorevole sul rapporto amministrativo oggetto
del provvedimento illegittimo (cfr. art. 243 bis del codice dei contratti
pubblici).
8. Vanno, infine, analizzati i profili processuali e
probatori che connotano l’applicazione al processo amministrativo della regula iuris sottesa all’art. 1227, capoverso, del codice
civile.
Questa Adunanza reputa di non diversi discostare e
dall’orientamento già espresso dal Consiglio (sez. VI, 22 ottobre 2008, n.
5183) in merito alla necessità di adattare l’applicazione della regola
civilistica alle peculiarità del processo amministrativo imperniato sul
metodo acquisitivo che permea l’operatività del principio dispositivo
(cfr. Cons. Stato, sez. IV, 11 febbraio 2011, n. 924; vedi oggi l’art. 63,
comma 2, del codice del processo amministrativo). Si deve poi tenere conto
della specificità del tema probatorio in esame, il quale impinge in buona
misura su quaestiones iuris - quelle relative all’individuazione
degli strumenti giuridici di tutela praticabili, al plausibile esito del
ricorso per annullamento ed agli sbocchi degli ulteriori mezzi di tutela
anche stragiudiziali- che soggiacciono al principio iura novit
curia.
Si deve allora ritenere che, sulla base di principi già
desumibili dal quadro normativo precedente ed oggi recepiti dall’art. 30,
comma 3, del codice del processo amministrativo, il Giudice amministrativo
sia chiamato a valutare, senza necessità di eccezione di parte ed
acquisendo anche d’ufficio gli elementi di prova all’uopo necessari, se il
presumibile esito del ricorso di annullamento e dell’utilizzazione degli
altri strumenti di tutela avrebbe, secondo un giudizio di causalità
ipotetica basato su una logica probabilistica che apprezzi il
comportamento globale del ricorrente, evitando in tutto o in parte il
danno.
Un rilievo significativo è destinato ad assumere l’utilizzo del
mezzo di prova delle presunzioni ex artt. 2727 e seguenti del codice
civile, che consente di valutare se l’apprezzamento dell’illegittimità
dell’atto operato in sede risarcitoria avrebbe portato anche
all’annullamento dello stesso – dato, questo, in linea generale
presumibile, vista l’identità dell’oggetto delle valutazioni - in modo da
impedire, alla luce anche delle misure provvisorie adottabili in corso di
giudizio o ante causam, di mitigare o ridurre il danno.
9.
Si può a questo punto esaminare il caso di specie in forza delle
coordinate fin qui esposte.
L’illegittimità del provvedimento di
sospensione dalle gare per nove mesi risulta acclarata in ragione
dell’assenza di un’adeguata istruttoria e del difetto di una congrua
motivazione in ordine all’effettiva addebitabilità a colpa dell’impresa
appaltatrice dell’incidente che ha indotto l’ENEL Distribuzione s.p.a.
all’adozione dell’atto lesivo.
Deve allora darsi risposta alla duplice
domanda se la condotta dell’impresa abbia integrato violazione del canone
comportamentale cristallizzato dall’art. 1227, comma 2, c.c. (oggi
recepito dall’art. 30, comma 3, del codice del processo amministrativo) ed
abbia spiegato un effetto eziologico nella produzione di un danno
altrimenti evitabile.
Il Consiglio, nel confermare, con le seguenti
integrazioni motivazionali la soluzione adottata dal primo giudice, reputa
che ad entrambi i quesiti vada data risposta positiva.
Quanto al primo
aspetto appare determinante la circostanza che, a fronte di un
provvedimento adottato il 30 settembre 1999, recante la sospensione degli
inviti a gare d’appalto nell’intero ambito territoriale di competenza per
un periodo di nove mesi a far data dal 1° ottobre 1999, l’impresa abbia
reagito con atto di citazione innanzi al Giudice civile solo il 6 maggio
2002, ossia ad oltre due anni e mezzo di distanza, per poi proporre
ricorso innanzi al Tribunale Amministrativo dopo oltre un anno dalla
sentenza n. 6221 del 25 maggio n 2004 con la quale il Tribunale civile di
Napoli aveva dichiarato il difetto di giurisdizione.
La totale inerzia
osservata dall’appellante, nella coltivazione di rimedi giudiziali e di
iniziative stragiudiziali, lungo tutto l’arco temporale nel corso del
quale l’atto ha spiegato il suo effetto inibitorio e per un ulteriore e
assai ampio spatium temporis, integra, alla luce della gravità
degli effetti lesivi denunciati, una chiara violazione degli obblighi
cooperativi che gravano sul creditore danneggiato. Detto aspetto è stato
già apprezzato dalla sentenza appellata e dalla decisione di rimessione
che hanno affermato la sussistenza della giurisdizione amministrativa e
negato la concessione del beneficio dell’errore scusabile alla luce di
consolidati principi giurisprudenziali che avevano affermato la natura
autoritativa del potere esercitato da ENEL e la qualificazione
pubblicistica assunta da detto soggetto in subiecta materia, oltre
che in considerazione del ritardo con il quale l’appellante ha riproposto
la domanda risarcitoria innanzi al giudice amministrativo.
Quanto al
profilo eziologico, l’Adunanza, applicando le regole prima esposte che
presiedono al giudizio di causalità ipotetica in materia risarcitoria,
ritiene di poter concludere che i danni lamentati sarebbero stati in toto
evitati se l’impresa si fosse tempestivamente avvalsa degli strumenti di
tutela predisposti all’uopo dall’ordinamento ed avesse posto in essere le
ulteriori iniziative esigibili ex bona fide. Appare al riguardo
determinante la circostanza che il ricorrente non solo non abbia proposto
il ricorso giurisdizionale amministrativo, così vedendosi preclusa la via
delle misure provvisorie in corso di causa, ma non abbia neanche
sperimentato la via dei ricorsi amministrativi, così come non abbia
compiuto atti volti a stimolare l’autotutela al pari di atti di iniziativa
finalizzati a partecipare alle singole procedure di suo specifico
interesse, con conseguente contestazione dei puntuali provvedimenti di
esclusione.
L’Adunanza reputa che la tempestiva utilizzazione di tali
rimedi avrebbe consentito di ottenere l’ammissione alle singole procedure
e, quindi, di perseguire una tutela specifica dell’interesse leso. Si deve
allora convenire che il comportamento dell’appellante ha assunto un ruolo
eziologico decisivo nella produzione di un pregiudizio che il corretto
utilizzo dei rimedi rammentati, inquadrato nella condotta complessiva
esigibile, avrebbe plausibilmente consentito di evitare, alla luce dei
vizi denunciati, della gravità del pregiudizio lamentato e del tasso di
effettività della tutela che i mezzi non sperimentati avrebbero consentito
di ottenere.
10. Alla stregua delle considerazioni che precedono
l’appello deve essere respinto.
La complessità delle questioni di
diritto affrontate e le oscillazioni interpretative che hanno
caratterizzato la giurisprudenza in materia giustificano, tuttavia,
l’integrale compensazione delle spese del presente grado di
giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
(Adunanza Plenaria)
definitivamente pronunciando sull'appello, come in
epigrafe proposto, lo respinge e, per l'effetto, conferma la sentenza
appellata.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia
eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella
camera di consiglio del giorno 21 febbraio 2011 con l'intervento dei
magistrati:
Pasquale de Lise, Presidente del Consiglio di
Stato
Giancarlo Coraggio, Presidente di Sezione
Gaetano Trotta,
Presidente di Sezione
Pier Giorgio Lignani, Presidente
Stefano
Baccarini, Presidente
Rosanna De Nictolis, Consigliere
Marco Lipari,
Consigliere
Marzio Branca, Consigliere
Francesco Caringella,
Consigliere, Estensore
Maurizio Meschino, Consigliere
Sergio De
Felice, Consigliere
Angelica Dell'Utri, Consigliere
Fulvio Rocco,
Consigliere
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 23/03/2011