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n. 12-2014 - © copyright |
GUERINO FARES
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La gestione in forma societaria degli
esercizi farmaceutici fra vecchi e nuovi problemi
1. Le principali questioni
interpretative
La sentenza
del T.a.r. Umbria cui sono dedicate le presenti riflessioni si
inserisce in un ambito tematico di enorme rilievo e delicatezza,
concernente le modalità di organizzazione del servizio pubblico
erogato attraverso la rete farmaceutica
territoriale.
L’evoluzione normativa e giurisprudenziale ha,
invero, evidenziato una serie di problematiche che ruotano intorno
alla forma societaria di gestione delle farmacie, sia private che
comunali, e che spaziano dal rapporto fra normativa generale e
disposizioni speciali, alla applicabilità al servizio farmaceutico
della disciplina relativa ai servizi pubblici locali, alla
ammissibilità di ipotesi di scissione fra la titolarità e la
gestione dell’esercizio farmaceutico.
Nel caso deciso dalla
pronuncia in commento, una società impugna l’atto che, a seguito
delle operazioni di gara svolte mediante procedura aperta indetta ai
sensi dell’art. 30 del d. lgs. 12 aprile 2006 n. 163, individua il
concessionario della gestione di una farmacia comunale. Il ricorso
principale viene, tuttavia, dichiarato inammissibile per effetto
dell’accoglimento del ricorso incidentale proposto dal
controinteressato deducendo il difetto di legittimazione della
società ricorrente: quest’ultima, infatti, poiché esercita come
attività prevalente la compravendita e la cessione di beni immobili
propri, nonché il commercio di prodotti alimentari e non alimentari,
non comprende, nell’oggetto sociale, la gestione della farmacia,
risultando perciò priva del requisito indispensabile prescritto
degli artt. 7 e 8 della L. 8 novembre 1991 n. 362.
Le censure
della ricorrente principale avevano ad oggetto: la posizione
giuridica della società risultata aggiudicataria, ritenuta in
conflitto con la disciplina generale in tema di titolarità ed
esercizio-gestione delle farmacie nel nostro ordinamento laddove
prescrive che la direzione della farmacia venga affidata ad uno dei
soci che ne diviene il responsabile (art. 7, comma 3);
l’inosservanza degli obblighi di sottoscrizione della documentazione
allegata all’offerta; l’erronea valutazione dei punteggi relativi ai
servizi offerti; l’eccessiva genericità dei criteri da utilizzare
per l’aggiudicazione dell’appalto; la tardiva predisposizione, dopo
l’apertura delle buste, di sottocriteri nuovi e diversi rispetto a
quelli previsti dal bando; la mancanza di una competenza tecnica
qualificata in capo ai componenti la Commissione e ulteriori
irregolarità negli atti di approvazione dei lavori della Commissione
stessa.
Ma, come già segnalato, il tribunale amministrativo
giudica inammissibile il ricorso principale in quanto intentato da
una società la cui partecipazione alla gara era preclusa dal fatto
che nell’oggetto sociale della stessa non è contemplata la gestione
di una farmacia: di qui, l’incompatibilità con la natura e le
caratteristiche del servizio oggetto di gara, ai sensi della
normativa vigente in materia di disciplina del settore farmaceutico
rappresentata, in particolare, dagli artt. 102 e 372 del r.d. 27
luglio 1934 n. 1265, e dall’art. 7, comma 2, L. n. 362 del 1991,
cit.
Il r.d. n. 1265 del 1934, infatti, sancisce il divieto di
cumulare l’esercizio della farmacia con quello di altre professioni
o arti sanitarie (art. 102) ed estende ai farmacisti addetti alle
farmacie comunali le norme dettate per i sanitari condotti fra cui
spicca l’incompatibilità con la professione di commerciante (artt.
372 e 78).
Altre incompatibilità sono stabilite a carico del
farmacista, il quale non può assumere la direzione di una officina
(art. 144, r.d. n. 1265, cit.), non può esercitare la professione di
propagandista di prodotti medicinali art. 13, L. n. 2 aprile 1968 n.
475) né può svolgere qualsiasi altra attività esplicata nel settore
della produzione, distribuzione, intermediazione e informazione
scientifica del farmaco (art. 8, L. n. 362 del 1992,
cit.).
Proprio quest’ultima preclusione, introdotta in origine
per i soli titolari o soci di farmacie private, è stata al centro di
una nota e rilevante pronuncia della Corte costituzionale, la n. 275
del 24 luglio 2003[1], opportunamente richiamata dal T.a.r. Umbria,
che ha rilevato l’irragionevolezza dell’esenzione per le farmacie
comunali dal medesimo divieto, che peraltro è espresso attraverso
una formulazione che risulta comprensiva e riepilogativa di tutte le
varie ipotesi di incompatibilità ex lege sopra riportate[2]:
secondo la Corte costituzionale, tali incompatibilità, disseminate
in numerose disposizioni di legge e previste per i farmacisti
persone fisiche titolari o gestori di farmacie, sono da considerarsi
ormai compendiate nell’art. 8 in questione, norma che assume il
“valore di un principio generale applicabile a tutti i soggetti che,
in forma singola o associata, siano titolari o gestori di farmacie”
(§ 8 del Considerato in diritto).
Degno di
sottolineatura, nell’economia della sentenza, è il passaggio in cui
si riconosce la possibilità di una scissione tra i due momenti della
titolarità e della partecipazione alla gestione di una farmacia
comunale: in forza di tale scissione è consentito l’affidamento
della gestione della farmacia a terzi, mentre la titolarità rimane
in capo al Comune.
Ciò che non sarebbe derogabile è, invece,
l’esclusività dell’oggetto sociale, il cui fonda mentova rinvenuto
nella finalità di evitare conflitti di interesse che possano
ripercuotersi negativamente sullo svolgimento del servizio
farmaceutico e, conseguentemente, sull’effettività della tutela del
diritto alla salute.
Altra precisazione attiene al riconoscimento
come legittima della scelta di attribuire la direzione della
farmacia comunale ad un soggetto diverso dai soci, contrariamente
all’obbligo operante in tal senso per le farmacie private: rispetto
alle quali una simile prescrizione si connette strettamente al
limite numerico di quattro farmacie, previsto dall’art. 7, comma
4-bis, della citata L. n. 362 del 1991.
Le pagine seguenti
saranno dedicate, pertanto, al’analisi dei due aspetti di maggior
rilievo toccati dalla decisione del T.a.r. Umbria: l’ammissibilità
della scissione tra titolarità e gestione della farmacia, alla luce
dell’evoluzione del nostro ordinamento; la legittimità del ricorso
allo strumento della concessione di servizi per l’affidamento della
gestione, in mancanza di disposizioni specifiche in materia e in
presenza di orientamenti discordanti del giudice
amministrativo.
2. I rapporti tra titolarità e gestione
nell’evoluzione legislativa
Nella sua formulazione
originaria, l’art. 11, l. n. 475 del 1968, cit., imponeva al
titolare della farmacia, pena la decadenza dal titolo, di avere la
gestione diretta e personale dell’esercizio e dei beni patrimoniali
della farmacia; e consentiva, in alcune ipotesi tassativamente
enucleate (motivi di salute, assolvimento di obblighi militari o di
funzioni pubbliche elettive, gravi motivi di famiglia, ferie
annuali) la sostituzione temporanea del titolare con altro
farmacista nella conduzione professionale ed economica della
farmacia.
La inscindibilità, o necessaria coincidenza, della
titolarità della sede farmaceutica con l’effettiva gestione
dell’azienda aveva indotto la Corte di cassazione a dichiarare in
più occasioni la nullità dei contratti di società stipulati dal
titolare con un terzo ed avente ad oggetto la sola conduzione
commerciale dell’azienda (Cass. civ., sez. un., 8 novembre 1983 n.
6587).
Su posizioni analoghe si era attestata la letteratura
giuridica (B.R. Nicoloso), incline ad escludere l’ammissibilità di
concedere in affitto o in usufrutto la gestione della farmacia, in
quanto «nell’un caso come nell’altro il titolare dell’azienda rimane
pur sempre spogliato in favore dell’usufruttuario e dell’affittuario
di ogni potere dispositivo e responsabilità del regolare esercizio e
della gestione dei beni patrimoniali della farmacia, postulato
dall’ordinamento farmaceutico».
Si voleva, con ciò, evitare che
il conferimento della gestione dell’esercizio farmaceutico
attraverso l’utilizzo di strumenti differenti da quelli
espressamente previsti dalla legge finisse per vanificare il potere
dispositivo dell’imprenditore farmacista e i diritti e le facoltà
inerenti al suo status di titolare della farmacia,
traducendosi in un mezzo elusivo del quadro di responsabilità
gravanti ex lege sul titolare stesso.
L’art. 11, comma 1,
l. n. 362 del 1991, cit., innovando la legislazione del 1968,
rimette al titolare della farmacia la responsabilità del regolare
esercizio e della gestione dei beni patrimoniali della farmacia,
ampliando i presupposti della sostituzione temporanea (gravidanza,
parto e allattamento; adozione di minori e affidamento familiare;
assunzione di incarichi sindacali elettivi a livello nazionale) che
rimane l’unico strumento di dissociazione (comunque provvisoria ed
eccezionale) della titolarità dalla gestione.
Dall’obbligo
di gestione diretta e personale si passa, così, alla imputazione
della responsabilità per la gestione: uno schema diverso, che tiene
conto della contemporanea introduzione (ad opera dell’art. 7 della
stessa l. n. 362) di forme di gestione societaria (società di
persone, ossia in nome collettivo o in accomandita semplice, e
società cooperative a responsabilità limitata) che si aggiungono
alla modalità tradizionale di gestione da parte del farmacista
persona fisica e che costituiscono una notevole e significativa
novità per il sistema.
Il predetto art. 7 prevede che la
direzione della farmacia gestita dalla società sia affidata ad uno
dei soci che ne è responsabile (comma 3) e stabilisce delle
limitazioni – di carattere territoriale/provinciale all’ambito
operativo dei soci farmacisti e della società e di carattere
numerico, rappresentati dalla titolarità di una sola sede da parte
della società e alla partecipazione ad una sola società speziale da
parte di ciascun farmacista – successivamente abrogate dall’art. 5,
commi 5 e 6, del d. l. 4 luglio 2006 n. 223, che lascia in vita
l’unico contingente massimo di quattro farmacie esercibili dalla
società (comma 6-ter).
Regola generale è che
il trasferimento della titolarità della farmacia, consentito dalla
legge al titolare o ai suoi eredi (art. 12, l. n. 475/1968, modif.
dall’art. 6, l. 22 dicembre 1984 n. 892 e dall’art. 13, l. n.
362/1991), è valido soltanto se insieme col diritto di esercizio
della farmacia viene trasferita anche l’azienda commerciale che vi è
connessa (comma 11).
La regola pare applicarsi anche in senso
inverso, non potendo la gestione essere dissociata dalla titolarità,
quanto meno nel caso delle farmacie private, in forza di un legame
indissolubile fra le due entità, e nonostante l’evoluzione normativa
e giurisprudenziale consenta ormai il ricorso non solo ad alcune
tipologie societarie, ma perfino alla costituzione di un trust per favorire il passaggio generazionale previsto dalla
legge e salvo sempre il rispetto dell’interesse pubblico alla
corretta gestione della farmacia.
Con una recente sentenza[3], il
giudice amministrativo ha, infatti, avuto modo di chiarire che il trust non comporta, di per sé stesso, una violazione o
elusione del principio in base al quale titolarità e gestione della
sede farmaceutica devono necessariamente coincidere e congiungersi
in capo al medesimo soggetto, atteso che la sua istituzione comporta
un vero e proprio trasferimento di proprietà dell’azienda in favore
del trustee il quale, pertanto, risulta allo stesso tempo
titolare e gestore diretto e personale dell’azienda, sebbene per un
periodo di tempo limitato e con l’obbligo di ritrasferirla agli
eredi nel momento stabilito dall’atto istitutivo.
Il tema dei
rapporti fra titolarità e gestione nelle società miste
pubblico/privato costituite per la gestione di farmacie comunali è
stato affrontato sempre dalla giurisprudenza amministrativa[4],
laddove si è occupata della posizione del socio privato di
minoranza.
In tale occasione il collegio ha fissato i seguenti
punti: a) l’aspetto cruciale sta nella qualificazione del ruolo del
socio privato all’interno della società mista, socio che entra a far
parte della società per un periodo di tempo predeterminato e con il
compito non solo di conferire il capitale per l’istituzione della
farmacia ma anche di fornire le competenze professionali necessarie
alla gestione dell’attività (tanto che proprio alla gestione è
orientata la maggior parte dei parametri di valutazione dell’offerta
tecnica indicati nel bando di gara, e che lo statuto della società
mista attribuisce al medesimo i 2/3 degli utili netti di gestione e
gli riserva la scelta dell’amministratore delegato con poteri di
gestione comprendenti tutte le scelte manageriali e organizzative
necessarie per la realizzazione degli interessi della società; b)
l’importanza del ruolo del socio privato non deve però indurre alla
conclusione che allo stesso sia conferita pro tempore anche
la titolarità della farmacia, che è collegata formalmente al
provvedimento autorizzatorio e sostanzialmente alla quota sociale di
maggioranza riservata espressamente al Comune; c) lungo queste linee
si distinguono tra loro e assumono rilievo autonomo il concetto di
titolarità della farmacia (derivato dall’impostazione statica
tradizionale: v. art. 11 della legge 2 aprile 1968 n. 475) e quello
di gestione dei servizi di farmacia (che a partire dal d.l. 223/2006
riflette invece la nuova visione economica dell’attività). La
società mista è solo un veicolo gestionale: il soggetto che detiene
la maggioranza del capitale è anche titolare della farmacia, il
socio di minoranza è coinvolto solo nella gestione; d) i limiti che
valgono per la titolarità non possono essere estesi alla gestione.
Dunque, facendo ancora riferimento all’art. 7 della legge 362/1991,
il socio di minoranza della società mista partecipa alla gestione ma
non alla titolarità, sicché non subisce il vincolo del numero di
farmacie o quello territoriale della sede legale (entrambi stabiliti
solo per la titolarità), e neppure la riserva della direzione a
favore dei soci. Il comma 2 del predetto art. 7 deve essere inteso
nel senso che l’oggetto esclusivo della società attiene ai servizi
di farmacia, e non a una specifica farmacia. Il comma 3 ha lo scopo
di regolare il potere di direzione (inteso come potere di
indirizzo), che deve essere svolto da uno dei soci (non
necessariamente da quello di maggioranza), mentre la posizione di
direttore operativo, che costituisce uno degli elementi della
gestione in concreto, può essere attribuita anche a un soggetto
privo della qualità di socio. La cancellazione del comma 6 permette
a ciascun farmacista (persona fisica o società) di partecipare a un
numero illimitato di società in qualità di socio non titolare e di
dare anche, qualora vi siano accordi in questo senso, il proprio
contributo nella gestione. La posizione di socio di minoranza può
essere assunta proprio perché il soggetto risulta coinvolto nella
sola gestione aziendale, lasciando impregiudicata la titolarità in
capo al socio di maggioranza che conserva i diritti e gli obblighi
inerenti a tale status.
3. Sulla legittimità del
ricorso alla concessione di servizi per l’affidamento della
gestione
È controverso in giurisprudenza se, tra le
alternative di cui gli enti locali dispongono per organizzare la
gestione delle farmacie comunali, vi sia anche l’affidamento a terzi
tramite gara.
Si ricorda, in proposito, che la concessione di
servizi trova la sua regolamentazione nell’art. 30 del codice dei
contratti pubblici (il citato d. lgs. n. 163 del 2003 e s.m.i.), il
quale prevede che il concessionario – cui spetta il diritto di
gestire funzionalmente e di sfruttare economicamente il servizio –
debba essere scelto nel rispetto dei principi desumibili dal
Trattato UE e dei principi generali relativi ai contratti pubblici
e, segnatamente, dei principi di trasparenza, adeguata pubblicità,
non discriminazione, parità di trattamento, mutuo riconoscimento,
proporzionalità, previa gara informale a cui sono invitati almeno
cinque concorrenti, se sussistono in tale numero soggetti
qualificati in relazione all’oggetto della concessione, e con
predeterminazione dei criteri selettivi (comma 3).
Mentre il
T.a.r. Umbria, nella sentenza qui annotata, in linea con altri
precedenti[5], propende per la utilizzabilità dello strumento
concessorio, di opposto avviso è altro indirizzo del giudice
amministrativo, che fa leva sulla estraneità del modello della
concessione a terzi rispetto alle modalità gestorie delineate
dall’art. 9, comma 1, l. n. 475 del 1968; e avverte come,
diversamente opinando, risulterebbe sostanzialmente vanificata la ratio che governa la disciplina di settore, risalente per
l’appunto al 1968 e mantenuta ferma anche dopo la novella del 2012
(d.l. n. 1, conv. in l. n. 27), da considerarsi “espressione del
principio generale di mantenimento della gestione in capo all’ente
locale titolare della farmacia, con conseguente implicita riconferma
dell’impraticabilità di diversi modelli”[6].
In altre parole, la
concessione non sarebbe riconducibile a nessuna delle forme di
gestione elencate dalla legge del 1968, insuscettibile di essere
interpretata in modo aperto, tanto più dopo che il d.l. n. 1 del
2012 ha previsto che alcune specifiche categorie di farmacie
neo-istituite (presso le stazioni ferroviarie, gli aeroporti civili,
le stazioni marittime, le aree di servizio autostradali e i centri
commerciali) siano offerte in prelazione ai comuni in cui le stesse
hanno sede, i quali non possono cedere la titolarità o la gestione
delle stesse ma soltanto rinunciare tout court all’esercizio
del diritto di prelazione rendendo, di conseguenza, vacante la sede
oggetto della rinuncia (art. 11, comma 10).
Il quesito di fondo
si appunta, dunque, sulla tassatività o meno dello schema introdotto
dalla l. n. 475 e sulla applicabilità o meno al servizio
farmaceutico della normativa generale sui servizi pubblici locali,
tenuto conto, da un lato, del fatto che l’attività di gestione delle
farmacie comunali costituisce esercizio di un servizio pubblico
essenziale in quanto rivolta al soddisfacimento di fini sociali
(art. 112, d. lgs. 18 agosto 2000 n. 267 – T.U. enti locali) e,
dall’altro, che le farmacie comunali formano un’area espressamente
sottratta alla disciplina ordinaria sul conferimento della gestione
dei servizi pubblici locali di rilevanza economica (art.
23-bis, d.l. 25 giugno 2008 n. 112, peraltro abrogato a
seguito di referendum popolare, ma poi parzialmente riproposto
dall’art. 4, d.l. 13 agosto 2001 n. 138, che al comma 34 recava
un’analoga clausola escludente per le farmacie comunali, e in
seguito dichiarato a sua volta illegittimo dalla sentenza 20 luglio
2012 n. 199 della Corte costituzionale).
Le forme gestorie
enucleate dalla l. n. 475 del 1968 (art. 9 e s.m.i.) sono, in
particolare: a) la gestione in economia; b) la gestione a mezzo di
azienda speciale; c) la gestione a mezzo di consorzi tra comuni; d)
la gestione a mezzo di società di capitali costituite tra il comune
e i farmacisti che, al momento della costituzione della società,
prestino servizio presso farmacie di cui il comune stesso abbia la
titolarità.
Con l’ultima opzione si dà vita ad una società a
partecipazione mista pubblico-privata con l’ente locale che esercita
un controllo diretto sul socio operativo privato, il farmacista, il
quale conferisce un prezioso apporto in termini di competenza,
professionalità e rapporto umano con l’utenza nell’ambito dello
svolgimento di un servizio pubblico a tuttora significativa
caratterizzazione sociale.
Tuttavia, l’ordinamento si è evoluto
verso nuove frontiere, travalicanti i confini della l. n. 475
(l’art. 12, comma 1, l. 23 dicembre 1992 n. 498, in seguito abrogato
dal T.U. enti locali, consentiva, ad es., la costituzione di s.p.a.
senza il vincolo della proprietà pubblica maggioritaria); e a tale
evoluzione ha fornito un contributo decisivo la
giurisprudenza.
In materia è intervenuto con rilevanti pronunce
il Consiglio di Stato, rilevando come il T.U. delle leggi
sull’ordinamento degli enti locali, approvato con d.lgs. n. 267 del
2000, cit., abbia disciplinato in toto agli artt. 112 ss. la
materia dei servizi pubblici locali, nel cui ambito ricade il
servizio farmaceutico, prevedendo (art. 113, lett. c) tra le forme
di gestione quella a mezzo società per azioni o a responsabilità
limitata con partecipazione al capitale dell’ente pubblico
locale[7].
Rispetto a tale quadro normativo è stato evidenziato
che “il T.U. 18 agosto 2000 n. 267, ha regolato l’intera materia
delle forme giuridiche di prestazione dei servizi pubblici locali,
determinando l’abrogazione delle leggi interiori che regolavano le
forme di prestazioni di singoli servizi, come appunto l’art. 9,
primo comma, della legge n. 475 del 1968, nel testo stabilito
dall’art. 10 della legge 8 novembre n. 362”[8].
Si è posto, in
particolare, il problema se la normativa vigente osti alla
costituzione di una società a capitale pubblico e privato per la
gestione di una farmacia comunale, quando non è prevista nella
compagine sociale la presenza di farmacisti che, al momento della
costituzione della società, vi prestino servizio.
Il giudice
amministrativo si è espresso per l’ammissibilità della formula
suddetta, tanto più dopo l’abrogazione del succitato art. 23-bis: il
che “ha determinato la reviviscenza del quadro precettivo derivante
dagli artt. 113, 113 bis, 115 e 116 del d.lgs. n. 267 del 2000 e
successive modificazioni ed integrazioni, sulle forme di gestione
dei servizi pubblici locali, che non soffrono preclusioni, né
prevedono un regime di specificità per la gestione in forma
societaria del servizio di vendita di prodotti farmaceutici. Del
resto le disposizioni prima richiamate sono parte di un complesso di
norme attuative di principi dell’Unione europea in materia di
servizi pubblici locali aventi rilevanza economica, con la
conseguenza che una interpretazione "esclusiva" dell’art. 9
della legge n. 475 del 1968 più volte citato dall’effetto abrogativo
– nel senso di riservare la partecipazione alla società di capitali
solo ai farmacisti dipendenti – dovrebbe essere disapplicata per
contrasto con il diritto europeo o in ogni caso sottoposta al
giudizio della Corte di Giustizia”[9].
Una posizione non
dissimile è stata assunta, d’altra parte, dalla Corte dei Conti[10]
che ha ritenuto “non tassativo” l’elenco di cui all’art. 9, l. n.
475 del 1968, dovendo i modelli di gestione ivi previsti trovare
integrazione con i principi comunitari in materia di servizi
pubblici locali, con possibilità, in definitiva, di costituire
società di gestione a capitale totalmente pubblico, totalmente
privato o misto senza vincoli in ordine alle qualità soggettive del
socio privato[11].
Conformemente, la prassi registra ormai
frequenti casi di gestione delle farmacie comunali attraverso
società di capitali unipersonali e con il coinvolgimento di soci
diversi dai farmacisti.
L’estrema variabilità della composizione
societaria, ma anche dello stesso oggetto sociale, consente ai
Comuni di far fronte alle esigenze finanziarie e di cassa, sempre
più impellenti nell’attuale congiuntura politico-economica,
attraverso la riscossione di un adeguato corrispettivo, e al
contempo programmare ed attuare flessibili e proficue strategie di governance e modalità operative che assicurino efficienza,
efficacia ed economicità nella gestione del servizio, e anche i
requisiti di qualità definiti attraverso la stipula di appositi
contratti di servizio.
La ridotta percentuale del numero di
farmacie pubbliche sul nostro territorio nazionale (meno del 10%
rispetto al totale degli esercizi) testimonia una mutata percezione
del ruolo da esse svolto rispetto alle loro origini storiche[12]:
l’obiettivo di assicurare al dispensazione dei farmaci alle fasce
meno abbienti della popolazione è oggi raggiunto dalla
organizzazione capillare della rete delle farmacie, in prevalenza
private ed operanti quali concessionari di pubblico servizio, e
dalla correlata conformazione pubblicistica dello statuto che regola
l’attività di assistenza farmaceutica.
Il ruolo sociale della
farmacia pubblica, raffigurato dalla gestione diretta o dall’azienda
speciale totalmente controllata dal Comune, è oggi messo in
discussione anche dall’impatto della crisi economico-finanziaria,
dagli effetti delle norme sulle privatizzazioni introdotte a partire
dagli anni 90 dello scorso secolo, dai vincoli di spesa discendenti
dai patti di stabilità che precludendo l’assunzione di nuovo
personale rendono assai difficoltosa, se non impossibile, la
gestione in economia del servizio farmaceutico.
Se a questo si
aggiungono le recenti previsioni legislative di divieto introdotte
negli ultimi anni a carico dei Comuni, specialmente di quelli dalle
piccole dimensioni, per quanto attiene alla possibilità di
costituire aziende speciali e società partecipate (cfr. art. 3,
comma 27, l. 24 dicembre 2007 n. 244; art. 14, comma 32, d.l. 31
maggio 2010 n. 78, conv, in l. 30 luglio 2010 n. 122, come
modificato dall’art. 1, comma 550, l. 27 dicembre 2013 n. 147)[13],
ci si rende conto di quanto sia ingiustamente ed ulteriormente
penalizzante per l’ente locale precludergli di avvalersi dello
strumento concessorio, nel pieno rispetto dei principi di
trasparenza e libera competitività sanciti dal TFUE e dalle libertà
che esso accorda agli operatori economici anche rispetto
all’assunzione di compiti di gestione di attività socialmente
caratterizzate.
Del resto, l’opinione contraria, di cui si è dato
sopra conto, sembra riporre un’eccessiva enfasi su elementi
circoscritti e non particolarmente significativi: l’attribuzione
generalizzata del diritto di prelazione ai Comuni disposta una
tantum dalla più recente legislazione in materia di assistenza
farmaceutica (art. 11, comma 10, d.l. n. 1 del 2012) esclude sì –
con riguardo a quella sola fattispecie – la cessione della
titolarità “o” della gestione da parte del Comune prelazionario ma,
utilizzando la disgiuntiva, lascia ad ogni modo intendere che le due
entità possono essere anche assoggettate ad una sorte
distinta.
Tornando al regime ordinario, si pensi al caso del
Comune che intenda – per una delle ragioni sopra esposte –
sostituire la gestione in economia con il diverso modello
dell’affidamento a terzi, trasferendo la disponibilità materiale e
giuridica dei soli beni strumentali all’esercizio dell’impresa, ma
conservando la titolarità del servizio pubblico: una simile
operazione, alla luce delle coordinate di sistema, sembra potersi
ritenere consentita.
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[1] Per un commento alla decisione, L. Geninatti
Satè, Sul conflitto d’interessi nella gestione dei servizi
pubblici, in Foro amm.-C.d.S., 2003, 3263 ss.
[2] Da
segnalare che per il titolare o socio di farmacia l’incompatibilità
è nel frattempo venuta meno rispetto alla sola attività di
distribuzione del farmaco con l’entrata in vigore dell’art. 5, comma
5, d.l. 4 luglio 2006 n. 223, conv. in l. 4 agosto 2006 n. 248,
sicché è oggi possibile richiedere l’autorizzazione allo svolgimento
di questa attività parallela. Inoltre, la lettura coordinata
dell’art. 100, commi 1 e 3, d. lgs. 24 aprile 2006 n. 219, potrebbe
aprire una breccia anche a favore delle aziende di produzione
farmaceutica.
[3] Tar Lombardia – Brescia, sez. II, 30 luglio
2014 n. 890.
[4] Tar Lombardia – Brescia, sez. II, 20 gennaio
2012 n. 84.
[5] T.a.r. Sicilia – Catania, sez. IV, 28 giugno
2011 n. 1598.
[6] T.a.r. Toscana, sez. II, 7 luglio 2011 n.
1165; T.a.r. Piemonte, sez. II, 14 giugno 2013 n. 767, ove si
afferma che “non esiste nessuna norma che preveda espressamente la
possibilità di separare la titolarità della gestione delle farmacie
comunali, risultando unicamente regolato il mantenimento della
gestione in capo all’ente locale (pur nella varietà delle forme e
nei modi indicati dall’art. 9 della legge n. 475 del 1968)”. In
dottrina, considerazioni di carattere generale sul tema sono svolte
da F. Giovagnoli, Titolarità e gestione delle farmacie nella
normativa comunitaria ed italiana, in Rass. Avv. Stato,
2009, fasc. 3, 74 ss.
[7] In tema, B.R. Nicoloso, La gestione
societaria della farmacie comunali nella giurisprudenza dopo il T.U.
n. 267 del 2000, in Ragiusan, 2007, fasc. 283-284, 256
ss.
[8] Cons. St., sez. V, 8 maggio 2007 n. 210; sez. III, 9
luglio 2013 n. 3647.
[9] In questi termini, Cons. St., sez. III,
31 ottobre 2014 n. 5389.
[10] Corte dei Conti, sezione regionale
di controllo per la regione Lombardia, delibera 26 settembre 2011 n.
489.
[11] Il modello di gestione societaria (pubblico/privata)
della farmacia comunale, senza predeterminazione legale dei soci, si
giustifica con l’opportunità di innestare elementi di efficacia e
duttilità tipici di una impostazione imprenditoriale/aziendalistica
che tuttavia si armonizzi con la fondamentale esigenza di assicurare
alla popolazione un rifornimento di medicinali sicuro e di qualità:
possibilità di ampliamento della gamma di servizi offerti,
adeguatezza dello strumento sotto il profilo economico, flessibilità
del modello organizzatorio della società mista, perseguimento di più
elevati livelli di efficienza aziendale, etc.
[12] Nel senso che
«la preoccupazione di riservare all’ente locale la gestione del
servizio farmaceutico in quanto servizio che ha il fine di
assicurare la tutela del fondamentale diritto alla salute, ovvero in
quanto servizio di carattere “sanitario” e conseguentemente non
concorrenziale, sembra non essere fondata», ANAC – Autorità
Nazionale Anticorruzione, deliberazione 23 aprile 2014 n. 15.
[13] Per un’attenta disamina delle ragioni, logiche e normative,
che ostacolano il ricorso alla costituzione da parte dei Comuni di
società partecipate di gestione ed incentivano la liberalizzazione
del servizio pubblico locale mediante l’affidamento a strutture
estranee ai Comuni stessi, B. R. Nicoloso, Da un’apodittica
liberalizzazione ad un’acritica razionalizzazione del sistema
farmacia pianificato sul territorio nelle leggi di stabilità e di
crescita del biennio 2011/2012, in Sanità pubblica, 2012,
fasc. 5, 5 ss. Una sottolineatura del tendenziale disfavore della
recente legislazione nei confronti delle società a partecipazione
pubblica, in un’ottica di promozione degli affidamenti a tutela
della concorrenza, è contenuta in Corte dei Conti, sez. regionale di
controllo per la regione Lombardia, delibera 8 novembre 2011 n. 570.
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(pubblicato il
30.12.2014)
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