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n. 12-2014 - © copyright

 

GUERINO FARES

La gestione in forma societaria degli esercizi farmaceutici fra vecchi e nuovi problemi

 

 


 

 

1. Le principali questioni interpretative
La sentenza del T.a.r. Umbria cui sono dedicate le presenti riflessioni si inserisce in un ambito tematico di enorme rilievo e delicatezza, concernente le modalità di organizzazione del servizio pubblico erogato attraverso la rete farmaceutica territoriale.
L’evoluzione normativa e giurisprudenziale ha, invero, evidenziato una serie di problematiche che ruotano intorno alla forma societaria di gestione delle farmacie, sia private che comunali, e che spaziano dal rapporto fra normativa generale e disposizioni speciali, alla applicabilità al servizio farmaceutico della disciplina relativa ai servizi pubblici locali, alla ammissibilità di ipotesi di scissione fra la titolarità e la gestione dell’esercizio farmaceutico.
Nel caso deciso dalla pronuncia in commento, una società impugna l’atto che, a seguito delle operazioni di gara svolte mediante procedura aperta indetta ai sensi dell’art. 30 del d. lgs. 12 aprile 2006 n. 163, individua il concessionario della gestione di una farmacia comunale. Il ricorso principale viene, tuttavia, dichiarato inammissibile per effetto dell’accoglimento del ricorso incidentale proposto dal controinteressato deducendo il difetto di legittimazione della società ricorrente: quest’ultima, infatti, poiché esercita come attività prevalente la compravendita e la cessione di beni immobili propri, nonché il commercio di prodotti alimentari e non alimentari, non comprende, nell’oggetto sociale, la gestione della farmacia, risultando perciò priva del requisito indispensabile prescritto degli artt. 7 e 8 della L. 8 novembre 1991 n. 362.
Le censure della ricorrente principale avevano ad oggetto: la posizione giuridica della società risultata aggiudicataria, ritenuta in conflitto con la disciplina generale in tema di titolarità ed esercizio-gestione delle farmacie nel nostro ordinamento laddove prescrive che la direzione della farmacia venga affidata ad uno dei soci che ne diviene il responsabile (art. 7, comma 3); l’inosservanza degli obblighi di sottoscrizione della documentazione allegata all’offerta; l’erronea valutazione dei punteggi relativi ai servizi offerti; l’eccessiva genericità dei criteri da utilizzare per l’aggiudicazione dell’appalto; la tardiva predisposizione, dopo l’apertura delle buste, di sottocriteri nuovi e diversi rispetto a quelli previsti dal bando; la mancanza di una competenza tecnica qualificata in capo ai componenti la Commissione e ulteriori irregolarità negli atti di approvazione dei lavori della Commissione stessa.
Ma, come già segnalato, il tribunale amministrativo giudica inammissibile il ricorso principale in quanto intentato da una società la cui partecipazione alla gara era preclusa dal fatto che nell’oggetto sociale della stessa non è contemplata la gestione di una farmacia: di qui, l’incompatibilità con la natura e le caratteristiche del servizio oggetto di gara, ai sensi della normativa vigente in materia di disciplina del settore farmaceutico rappresentata, in particolare, dagli artt. 102 e 372 del r.d. 27 luglio 1934 n. 1265, e dall’art. 7, comma 2, L. n. 362 del 1991, cit.
Il r.d. n. 1265 del 1934, infatti, sancisce il divieto di cumulare l’esercizio della farmacia con quello di altre professioni o arti sanitarie (art. 102) ed estende ai farmacisti addetti alle farmacie comunali le norme dettate per i sanitari condotti fra cui spicca l’incompatibilità con la professione di commerciante (artt. 372 e 78).
Altre incompatibilità sono stabilite a carico del farmacista, il quale non può assumere la direzione di una officina (art. 144, r.d. n. 1265, cit.), non può esercitare la professione di propagandista di prodotti medicinali art. 13, L. n. 2 aprile 1968 n. 475) né può svolgere qualsiasi altra attività esplicata nel settore della produzione, distribuzione, intermediazione e informazione scientifica del farmaco (art. 8, L. n. 362 del 1992, cit.).
Proprio quest’ultima preclusione, introdotta in origine per i soli titolari o soci di farmacie private, è stata al centro di una nota e rilevante pronuncia della Corte costituzionale, la n. 275 del 24 luglio 2003[1], opportunamente richiamata dal T.a.r. Umbria, che ha rilevato l’irragionevolezza dell’esenzione per le farmacie comunali dal medesimo divieto, che peraltro è espresso attraverso una formulazione che risulta comprensiva e riepilogativa di tutte le varie ipotesi di incompatibilità ex lege sopra riportate[2]: secondo la Corte costituzionale, tali incompatibilità, disseminate in numerose disposizioni di legge e previste per i farmacisti persone fisiche titolari o gestori di farmacie, sono da considerarsi ormai compendiate nell’art. 8 in questione, norma che assume il “valore di un principio generale applicabile a tutti i soggetti che, in forma singola o associata, siano titolari o gestori di farmacie” (§ 8 del Considerato in diritto).
Degno di sottolineatura, nell’economia della sentenza, è il passaggio in cui si riconosce la possibilità di una scissione tra i due momenti della titolarità e della partecipazione alla gestione di una farmacia comunale: in forza di tale scissione è consentito l’affidamento della gestione della farmacia a terzi, mentre la titolarità rimane in capo al Comune.
Ciò che non sarebbe derogabile è, invece, l’esclusività dell’oggetto sociale, il cui fonda mentova rinvenuto nella finalità di evitare conflitti di interesse che possano ripercuotersi negativamente sullo svolgimento del servizio farmaceutico e, conseguentemente, sull’effettività della tutela del diritto alla salute.
Altra precisazione attiene al riconoscimento come legittima della scelta di attribuire la direzione della farmacia comunale ad un soggetto diverso dai soci, contrariamente all’obbligo operante in tal senso per le farmacie private: rispetto alle quali una simile prescrizione si connette strettamente al limite numerico di quattro farmacie, previsto dall’art. 7, comma 4-bis, della citata L. n. 362 del 1991.
Le pagine seguenti saranno dedicate, pertanto, al’analisi dei due aspetti di maggior rilievo toccati dalla decisione del T.a.r. Umbria: l’ammissibilità della scissione tra titolarità e gestione della farmacia, alla luce dell’evoluzione del nostro ordinamento; la legittimità del ricorso allo strumento della concessione di servizi per l’affidamento della gestione, in mancanza di disposizioni specifiche in materia e in presenza di orientamenti discordanti del giudice amministrativo.

2. I rapporti tra titolarità e gestione nell’evoluzione legislativa
Nella sua formulazione originaria, l’art. 11, l. n. 475 del 1968, cit., imponeva al titolare della farmacia, pena la decadenza dal titolo, di avere la gestione diretta e personale dell’esercizio e dei beni patrimoniali della farmacia; e consentiva, in alcune ipotesi tassativamente enucleate (motivi di salute, assolvimento di obblighi militari o di funzioni pubbliche elettive, gravi motivi di famiglia, ferie annuali) la sostituzione temporanea del titolare con altro farmacista nella conduzione professionale ed economica della farmacia.
La inscindibilità, o necessaria coincidenza, della titolarità della sede farmaceutica con l’effettiva gestione dell’azienda aveva indotto la Corte di cassazione a dichiarare in più occasioni la nullità dei contratti di società stipulati dal titolare con un terzo ed avente ad oggetto la sola conduzione commerciale dell’azienda (Cass. civ., sez. un., 8 novembre 1983 n. 6587).
Su posizioni analoghe si era attestata la letteratura giuridica (B.R. Nicoloso), incline ad escludere l’ammissibilità di concedere in affitto o in usufrutto la gestione della farmacia, in quanto «nell’un caso come nell’altro il titolare dell’azienda rimane pur sempre spogliato in favore dell’usufruttuario e dell’affittuario di ogni potere dispositivo e responsabilità del regolare esercizio e della gestione dei beni patrimoniali della farmacia, postulato dall’ordinamento farmaceutico».
Si voleva, con ciò, evitare che il conferimento della gestione dell’esercizio farmaceutico attraverso l’utilizzo di strumenti differenti da quelli espressamente previsti dalla legge finisse per vanificare il potere dispositivo dell’imprenditore farmacista e i diritti e le facoltà inerenti al suo status di titolare della farmacia, traducendosi in un mezzo elusivo del quadro di responsabilità gravanti ex lege sul titolare stesso.
L’art. 11, comma 1, l. n. 362 del 1991, cit., innovando la legislazione del 1968, rimette al titolare della farmacia la responsabilità del regolare esercizio e della gestione dei beni patrimoniali della farmacia, ampliando i presupposti della sostituzione temporanea (gravidanza, parto e allattamento; adozione di minori e affidamento familiare; assunzione di incarichi sindacali elettivi a livello nazionale) che rimane l’unico strumento di dissociazione (comunque provvisoria ed eccezionale) della titolarità dalla gestione.
Dall’obbligo di gestione diretta e personale si passa, così, alla imputazione della responsabilità per la gestione: uno schema diverso, che tiene conto della contemporanea introduzione (ad opera dell’art. 7 della stessa l. n. 362) di forme di gestione societaria (società di persone, ossia in nome collettivo o in accomandita semplice, e società cooperative a responsabilità limitata) che si aggiungono alla modalità tradizionale di gestione da parte del farmacista persona fisica e che costituiscono una notevole e significativa novità per il sistema.
Il predetto art. 7 prevede che la direzione della farmacia gestita dalla società sia affidata ad uno dei soci che ne è responsabile (comma 3) e stabilisce delle limitazioni – di carattere territoriale/provinciale all’ambito operativo dei soci farmacisti e della società e di carattere numerico, rappresentati dalla titolarità di una sola sede da parte della società e alla partecipazione ad una sola società speziale da parte di ciascun farmacista – successivamente abrogate dall’art. 5, commi 5 e 6, del d. l. 4 luglio 2006 n. 223, che lascia in vita l’unico contingente massimo di quattro farmacie esercibili dalla società (comma 6-ter).
Regola generale è che il trasferimento della titolarità della farmacia, consentito dalla legge al titolare o ai suoi eredi (art. 12, l. n. 475/1968, modif. dall’art. 6, l. 22 dicembre 1984 n. 892 e dall’art. 13, l. n. 362/1991), è valido soltanto se insieme col diritto di esercizio della farmacia viene trasferita anche l’azienda commerciale che vi è connessa (comma 11).
La regola pare applicarsi anche in senso inverso, non potendo la gestione essere dissociata dalla titolarità, quanto meno nel caso delle farmacie private, in forza di un legame indissolubile fra le due entità, e nonostante l’evoluzione normativa e giurisprudenziale consenta ormai il ricorso non solo ad alcune tipologie societarie, ma perfino alla costituzione di un trust per favorire il passaggio generazionale previsto dalla legge e salvo sempre il rispetto dell’interesse pubblico alla corretta gestione della farmacia.
Con una recente sentenza[3], il giudice amministrativo ha, infatti, avuto modo di chiarire che il trust non comporta, di per sé stesso, una violazione o elusione del principio in base al quale titolarità e gestione della sede farmaceutica devono necessariamente coincidere e congiungersi in capo al medesimo soggetto, atteso che la sua istituzione comporta un vero e proprio trasferimento di proprietà dell’azienda in favore del trustee il quale, pertanto, risulta allo stesso tempo titolare e gestore diretto e personale dell’azienda, sebbene per un periodo di tempo limitato e con l’obbligo di ritrasferirla agli eredi nel momento stabilito dall’atto istitutivo.
Il tema dei rapporti fra titolarità e gestione nelle società miste pubblico/privato costituite per la gestione di farmacie comunali è stato affrontato sempre dalla giurisprudenza amministrativa[4], laddove si è occupata della posizione del socio privato di minoranza.
In tale occasione il collegio ha fissato i seguenti punti: a) l’aspetto cruciale sta nella qualificazione del ruolo del socio privato all’interno della società mista, socio che entra a far parte della società per un periodo di tempo predeterminato e con il compito non solo di conferire il capitale per l’istituzione della farmacia ma anche di fornire le competenze professionali necessarie alla gestione dell’attività (tanto che proprio alla gestione è orientata la maggior parte dei parametri di valutazione dell’offerta tecnica indicati nel bando di gara, e che lo statuto della società mista attribuisce al medesimo i 2/3 degli utili netti di gestione e gli riserva la scelta dell’amministratore delegato con poteri di gestione comprendenti tutte le scelte manageriali e organizzative necessarie per la realizzazione degli interessi della società; b) l’importanza del ruolo del socio privato non deve però indurre alla conclusione che allo stesso sia conferita pro tempore anche la titolarità della farmacia, che è collegata formalmente al provvedimento autorizzatorio e sostanzialmente alla quota sociale di maggioranza riservata espressamente al Comune; c) lungo queste linee si distinguono tra loro e assumono rilievo autonomo il concetto di titolarità della farmacia (derivato dall’impostazione statica tradizionale: v. art. 11 della legge 2 aprile 1968 n. 475) e quello di gestione dei servizi di farmacia (che a partire dal d.l. 223/2006 riflette invece la nuova visione economica dell’attività). La società mista è solo un veicolo gestionale: il soggetto che detiene la maggioranza del capitale è anche titolare della farmacia, il socio di minoranza è coinvolto solo nella gestione; d) i limiti che valgono per la titolarità non possono essere estesi alla gestione. Dunque, facendo ancora riferimento all’art. 7 della legge 362/1991, il socio di minoranza della società mista partecipa alla gestione ma non alla titolarità, sicché non subisce il vincolo del numero di farmacie o quello territoriale della sede legale (entrambi stabiliti solo per la titolarità), e neppure la riserva della direzione a favore dei soci. Il comma 2 del predetto art. 7 deve essere inteso nel senso che l’oggetto esclusivo della società attiene ai servizi di farmacia, e non a una specifica farmacia. Il comma 3 ha lo scopo di regolare il potere di direzione (inteso come potere di indirizzo), che deve essere svolto da uno dei soci (non necessariamente da quello di maggioranza), mentre la posizione di direttore operativo, che costituisce uno degli elementi della gestione in concreto, può essere attribuita anche a un soggetto privo della qualità di socio. La cancellazione del comma 6 permette a ciascun farmacista (persona fisica o società) di partecipare a un numero illimitato di società in qualità di socio non titolare e di dare anche, qualora vi siano accordi in questo senso, il proprio contributo nella gestione. La posizione di socio di minoranza può essere assunta proprio perché il soggetto risulta coinvolto nella sola gestione aziendale, lasciando impregiudicata la titolarità in capo al socio di maggioranza che conserva i diritti e gli obblighi inerenti a tale status.

3. Sulla legittimità del ricorso alla concessione di servizi per l’affidamento della gestione
È controverso in giurisprudenza se, tra le alternative di cui gli enti locali dispongono per organizzare la gestione delle farmacie comunali, vi sia anche l’affidamento a terzi tramite gara.
Si ricorda, in proposito, che la concessione di servizi trova la sua regolamentazione nell’art. 30 del codice dei contratti pubblici (il citato d. lgs. n. 163 del 2003 e s.m.i.), il quale prevede che il concessionario – cui spetta il diritto di gestire funzionalmente e di sfruttare economicamente il servizio – debba essere scelto nel rispetto dei principi desumibili dal Trattato UE e dei principi generali relativi ai contratti pubblici e, segnatamente, dei principi di trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento, mutuo riconoscimento, proporzionalità, previa gara informale a cui sono invitati almeno cinque concorrenti, se sussistono in tale numero soggetti qualificati in relazione all’oggetto della concessione, e con predeterminazione dei criteri selettivi (comma 3).
Mentre il T.a.r. Umbria, nella sentenza qui annotata, in linea con altri precedenti[5], propende per la utilizzabilità dello strumento concessorio, di opposto avviso è altro indirizzo del giudice amministrativo, che fa leva sulla estraneità del modello della concessione a terzi rispetto alle modalità gestorie delineate dall’art. 9, comma 1, l. n. 475 del 1968; e avverte come, diversamente opinando, risulterebbe sostanzialmente vanificata la ratio che governa la disciplina di settore, risalente per l’appunto al 1968 e mantenuta ferma anche dopo la novella del 2012 (d.l. n. 1, conv. in l. n. 27), da considerarsi “espressione del principio generale di mantenimento della gestione in capo all’ente locale titolare della farmacia, con conseguente implicita riconferma dell’impraticabilità di diversi modelli”[6].
In altre parole, la concessione non sarebbe riconducibile a nessuna delle forme di gestione elencate dalla legge del 1968, insuscettibile di essere interpretata in modo aperto, tanto più dopo che il d.l. n. 1 del 2012 ha previsto che alcune specifiche categorie di farmacie neo-istituite (presso le stazioni ferroviarie, gli aeroporti civili, le stazioni marittime, le aree di servizio autostradali e i centri commerciali) siano offerte in prelazione ai comuni in cui le stesse hanno sede, i quali non possono cedere la titolarità o la gestione delle stesse ma soltanto rinunciare tout court all’esercizio del diritto di prelazione rendendo, di conseguenza, vacante la sede oggetto della rinuncia (art. 11, comma 10).
Il quesito di fondo si appunta, dunque, sulla tassatività o meno dello schema introdotto dalla l. n. 475 e sulla applicabilità o meno al servizio farmaceutico della normativa generale sui servizi pubblici locali, tenuto conto, da un lato, del fatto che l’attività di gestione delle farmacie comunali costituisce esercizio di un servizio pubblico essenziale in quanto rivolta al soddisfacimento di fini sociali (art. 112, d. lgs. 18 agosto 2000 n. 267 – T.U. enti locali) e, dall’altro, che le farmacie comunali formano un’area espressamente sottratta alla disciplina ordinaria sul conferimento della gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica (art. 23-bis, d.l. 25 giugno 2008 n. 112, peraltro abrogato a seguito di referendum popolare, ma poi parzialmente riproposto dall’art. 4, d.l. 13 agosto 2001 n. 138, che al comma 34 recava un’analoga clausola escludente per le farmacie comunali, e in seguito dichiarato a sua volta illegittimo dalla sentenza 20 luglio 2012 n. 199 della Corte costituzionale).
Le forme gestorie enucleate dalla l. n. 475 del 1968 (art. 9 e s.m.i.) sono, in particolare: a) la gestione in economia; b) la gestione a mezzo di azienda speciale; c) la gestione a mezzo di consorzi tra comuni; d) la gestione a mezzo di società di capitali costituite tra il comune e i farmacisti che, al momento della costituzione della società, prestino servizio presso farmacie di cui il comune stesso abbia la titolarità.
Con l’ultima opzione si dà vita ad una società a partecipazione mista pubblico-privata con l’ente locale che esercita un controllo diretto sul socio operativo privato, il farmacista, il quale conferisce un prezioso apporto in termini di competenza, professionalità e rapporto umano con l’utenza nell’ambito dello svolgimento di un servizio pubblico a tuttora significativa caratterizzazione sociale.
Tuttavia, l’ordinamento si è evoluto verso nuove frontiere, travalicanti i confini della l. n. 475 (l’art. 12, comma 1, l. 23 dicembre 1992 n. 498, in seguito abrogato dal T.U. enti locali, consentiva, ad es., la costituzione di s.p.a. senza il vincolo della proprietà pubblica maggioritaria); e a tale evoluzione ha fornito un contributo decisivo la giurisprudenza.
In materia è intervenuto con rilevanti pronunce il Consiglio di Stato, rilevando come il T.U. delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, approvato con d.lgs. n. 267 del 2000, cit., abbia disciplinato in toto agli artt. 112 ss. la materia dei servizi pubblici locali, nel cui ambito ricade il servizio farmaceutico, prevedendo (art. 113, lett. c) tra le forme di gestione quella a mezzo società per azioni o a responsabilità limitata con partecipazione al capitale dell’ente pubblico locale[7].
Rispetto a tale quadro normativo è stato evidenziato che “il T.U. 18 agosto 2000 n. 267, ha regolato l’intera materia delle forme giuridiche di prestazione dei servizi pubblici locali, determinando l’abrogazione delle leggi interiori che regolavano le forme di prestazioni di singoli servizi, come appunto l’art. 9, primo comma, della legge n. 475 del 1968, nel testo stabilito dall’art. 10 della legge 8 novembre n. 362”[8].
Si è posto, in particolare, il problema se la normativa vigente osti alla costituzione di una società a capitale pubblico e privato per la gestione di una farmacia comunale, quando non è prevista nella compagine sociale la presenza di farmacisti che, al momento della costituzione della società, vi prestino servizio.
Il giudice amministrativo si è espresso per l’ammissibilità della formula suddetta, tanto più dopo l’abrogazione del succitato art. 23-bis: il che “ha determinato la reviviscenza del quadro precettivo derivante dagli artt. 113, 113 bis, 115 e 116 del d.lgs. n. 267 del 2000 e successive modificazioni ed integrazioni, sulle forme di gestione dei servizi pubblici locali, che non soffrono preclusioni, né prevedono un regime di specificità per la gestione in forma societaria del servizio di vendita di prodotti farmaceutici. Del resto le disposizioni prima richiamate sono parte di un complesso di norme attuative di principi dell’Unione europea in materia di servizi pubblici locali aventi rilevanza economica, con la conseguenza che una interpretazione "esclusiva" dell’art. 9 della legge n. 475 del 1968 più volte citato dall’effetto abrogativo – nel senso di riservare la partecipazione alla società di capitali solo ai farmacisti dipendenti – dovrebbe essere disapplicata per contrasto con il diritto europeo o in ogni caso sottoposta al giudizio della Corte di Giustizia”[9].
Una posizione non dissimile è stata assunta, d’altra parte, dalla Corte dei Conti[10] che ha ritenuto “non tassativo” l’elenco di cui all’art. 9, l. n. 475 del 1968, dovendo i modelli di gestione ivi previsti trovare integrazione con i principi comunitari in materia di servizi pubblici locali, con possibilità, in definitiva, di costituire società di gestione a capitale totalmente pubblico, totalmente privato o misto senza vincoli in ordine alle qualità soggettive del socio privato[11].
Conformemente, la prassi registra ormai frequenti casi di gestione delle farmacie comunali attraverso società di capitali unipersonali e con il coinvolgimento di soci diversi dai farmacisti.
L’estrema variabilità della composizione societaria, ma anche dello stesso oggetto sociale, consente ai Comuni di far fronte alle esigenze finanziarie e di cassa, sempre più impellenti nell’attuale congiuntura politico-economica, attraverso la riscossione di un adeguato corrispettivo, e al contempo programmare ed attuare flessibili e proficue strategie di governance e modalità operative che assicurino efficienza, efficacia ed economicità nella gestione del servizio, e anche i requisiti di qualità definiti attraverso la stipula di appositi contratti di servizio.
La ridotta percentuale del numero di farmacie pubbliche sul nostro territorio nazionale (meno del 10% rispetto al totale degli esercizi) testimonia una mutata percezione del ruolo da esse svolto rispetto alle loro origini storiche[12]: l’obiettivo di assicurare al dispensazione dei farmaci alle fasce meno abbienti della popolazione è oggi raggiunto dalla organizzazione capillare della rete delle farmacie, in prevalenza private ed operanti quali concessionari di pubblico servizio, e dalla correlata conformazione pubblicistica dello statuto che regola l’attività di assistenza farmaceutica.
Il ruolo sociale della farmacia pubblica, raffigurato dalla gestione diretta o dall’azienda speciale totalmente controllata dal Comune, è oggi messo in discussione anche dall’impatto della crisi economico-finanziaria, dagli effetti delle norme sulle privatizzazioni introdotte a partire dagli anni 90 dello scorso secolo, dai vincoli di spesa discendenti dai patti di stabilità che precludendo l’assunzione di nuovo personale rendono assai difficoltosa, se non impossibile, la gestione in economia del servizio farmaceutico.
Se a questo si aggiungono le recenti previsioni legislative di divieto introdotte negli ultimi anni a carico dei Comuni, specialmente di quelli dalle piccole dimensioni, per quanto attiene alla possibilità di costituire aziende speciali e società partecipate (cfr. art. 3, comma 27, l. 24 dicembre 2007 n. 244; art. 14, comma 32, d.l. 31 maggio 2010 n. 78, conv, in l. 30 luglio 2010 n. 122, come modificato dall’art. 1, comma 550, l. 27 dicembre 2013 n. 147)[13], ci si rende conto di quanto sia ingiustamente ed ulteriormente penalizzante per l’ente locale precludergli di avvalersi dello strumento concessorio, nel pieno rispetto dei principi di trasparenza e libera competitività sanciti dal TFUE e dalle libertà che esso accorda agli operatori economici anche rispetto all’assunzione di compiti di gestione di attività socialmente caratterizzate.
Del resto, l’opinione contraria, di cui si è dato sopra conto, sembra riporre un’eccessiva enfasi su elementi circoscritti e non particolarmente significativi: l’attribuzione generalizzata del diritto di prelazione ai Comuni disposta una tantum dalla più recente legislazione in materia di assistenza farmaceutica (art. 11, comma 10, d.l. n. 1 del 2012) esclude sì – con riguardo a quella sola fattispecie – la cessione della titolarità “o” della gestione da parte del Comune prelazionario ma, utilizzando la disgiuntiva, lascia ad ogni modo intendere che le due entità possono essere anche assoggettate ad una sorte distinta.
Tornando al regime ordinario, si pensi al caso del Comune che intenda – per una delle ragioni sopra esposte – sostituire la gestione in economia con il diverso modello dell’affidamento a terzi, trasferendo la disponibilità materiale e giuridica dei soli beni strumentali all’esercizio dell’impresa, ma conservando la titolarità del servizio pubblico: una simile operazione, alla luce delle coordinate di sistema, sembra potersi ritenere consentita.

 

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[1] Per un commento alla decisione, L. Geninatti Satè, Sul conflitto d’interessi nella gestione dei servizi pubblici, in Foro amm.-C.d.S., 2003, 3263 ss.
[2] Da segnalare che per il titolare o socio di farmacia l’incompatibilità è nel frattempo venuta meno rispetto alla sola attività di distribuzione del farmaco con l’entrata in vigore dell’art. 5, comma 5, d.l. 4 luglio 2006 n. 223, conv. in l. 4 agosto 2006 n. 248, sicché è oggi possibile richiedere l’autorizzazione allo svolgimento di questa attività parallela. Inoltre, la lettura coordinata dell’art. 100, commi 1 e 3, d. lgs. 24 aprile 2006 n. 219, potrebbe aprire una breccia anche a favore delle aziende di produzione farmaceutica.
[3] Tar Lombardia – Brescia, sez. II, 30 luglio 2014 n. 890.
[4] Tar Lombardia – Brescia, sez. II, 20 gennaio 2012 n. 84.
[5] T.a.r. Sicilia – Catania, sez. IV, 28 giugno 2011 n. 1598.
[6] T.a.r. Toscana, sez. II, 7 luglio 2011 n. 1165; T.a.r. Piemonte, sez. II, 14 giugno 2013 n. 767, ove si afferma che “non esiste nessuna norma che preveda espressamente la possibilità di separare la titolarità della gestione delle farmacie comunali, risultando unicamente regolato il mantenimento della gestione in capo all’ente locale (pur nella varietà delle forme e nei modi indicati dall’art. 9 della legge n. 475 del 1968)”. In dottrina, considerazioni di carattere generale sul tema sono svolte da F. Giovagnoli, Titolarità e gestione delle farmacie nella normativa comunitaria ed italiana, in Rass. Avv. Stato, 2009, fasc. 3, 74 ss.
[7] In tema, B.R. Nicoloso, La gestione societaria della farmacie comunali nella giurisprudenza dopo il T.U. n. 267 del 2000, in Ragiusan, 2007, fasc. 283-284, 256 ss.
[8] Cons. St., sez. V, 8 maggio 2007 n. 210; sez. III, 9 luglio 2013 n. 3647.
[9] In questi termini, Cons. St., sez. III, 31 ottobre 2014 n. 5389.
[10] Corte dei Conti, sezione regionale di controllo per la regione Lombardia, delibera 26 settembre 2011 n. 489.
[11] Il modello di gestione societaria (pubblico/privata) della farmacia comunale, senza predeterminazione legale dei soci, si giustifica con l’opportunità di innestare elementi di efficacia e duttilità tipici di una impostazione imprenditoriale/aziendalistica che tuttavia si armonizzi con la fondamentale esigenza di assicurare alla popolazione un rifornimento di medicinali sicuro e di qualità: possibilità di ampliamento della gamma di servizi offerti, adeguatezza dello strumento sotto il profilo economico, flessibilità del modello organizzatorio della società mista, perseguimento di più elevati livelli di efficienza aziendale, etc.
[12] Nel senso che «la preoccupazione di riservare all’ente locale la gestione del servizio farmaceutico in quanto servizio che ha il fine di assicurare la tutela del fondamentale diritto alla salute, ovvero in quanto servizio di carattere “sanitario” e conseguentemente non concorrenziale, sembra non essere fondata», ANAC – Autorità Nazionale Anticorruzione, deliberazione 23 aprile 2014 n. 15.
[13] Per un’attenta disamina delle ragioni, logiche e normative, che ostacolano il ricorso alla costituzione da parte dei Comuni di società partecipate di gestione ed incentivano la liberalizzazione del servizio pubblico locale mediante l’affidamento a strutture estranee ai Comuni stessi, B. R. Nicoloso, Da un’apodittica liberalizzazione ad un’acritica razionalizzazione del sistema farmacia pianificato sul territorio nelle leggi di stabilità e di crescita del biennio 2011/2012, in Sanità pubblica, 2012, fasc. 5, 5 ss. Una sottolineatura del tendenziale disfavore della recente legislazione nei confronti delle società a partecipazione pubblica, in un’ottica di promozione degli affidamenti a tutela della concorrenza, è contenuta in Corte dei Conti, sez. regionale di controllo per la regione Lombardia, delibera 8 novembre 2011 n. 570.

 

(pubblicato il 30.12.2014)

 

 

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