TAR LAZIO, SEZ. III – Ordinanza 8 febbraio 2003 n. 803 - Pres. Cossu, Est. Savo Amodio - Associazione fra le Casse di Risparmio Italiane ed altri (Avv.ti Guarino, Gabrielli, Schlesinger e Morbidelli) c. Ministero economia (Avv. Stato Aiello) e con intervento ad adiuvandum Forum permanente terzo settore (Avv. Pettinato)
Credito e risparmio - Fondazioni bancarie - Disciplina prevista dalla legge 28 dicembre 2001 n. 448 e dalla legge 1 agosto 2002 n. 166 - Questione di legittimità costituzionale - Va sollevata.
Vanno sollevate le seguenti questioni di legittimità costituzionale, aventi ad oggetto:
a) l’art. 11, commi 1, primo periodo, 2 e 3 della legge 28 dicembre 2001 n. 448 e l’art. 7 comma 1 lett. aa) punto 2 della legge 1 agosto 2002 n. 166 (che modifica l’art. 37-bis della legge 11 febbraio 1994 n. 109), per contrasto con gli artt. 2, 3, 18, 41, 117 e 118 comma 4 della Costituzione
b) l’art. 11 comma 1, ultimo periodo, della citata legge n. 448 del 2001, per contrasto con gli artt. 70 e 117 della Costituzione;
c) l’art. 11 comma 4 della citata legge n. 448 del 2001, per contrasto con gli artt. 2, 3, 18, 41, 117 e 118 comma 4 della Costituzione;
d) l’art. 11 comma 7 della citata legge n. 448 del 2001, per contrasto con gli artt. 2, 18 e 22 della Costituzione;
e) l’art. 11 comma 4, ultimo periodo, della citata legge n. 448 del 2001, per contrasto con gli artt. 2, 3, 18 e 22 della Costituzione;
f) l’art. 11 comma 10 della citata legge n. 448 del 2001 per contrasto con gli artt. 2, 3, 18 e 41 della Costituzione;
g) l’art. 11 comma 14, ultimo periodo, della citata legge n. 448 del 2001, per contrasto con gli artt. 2, 3, 18, 41, 117 e 118 comma 4 della Costituzione (1).
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(1) Sulla nuova disciplina delle fondazioni bancarie v. in questa Rivista:
Consiglio di Stato -
Parere 1 luglio 2002 n. 1354/2002.MINISTERO DELL'ECONOMIA - DECRETO 2 agosto 2002, n. 217.
A. BARTOLINI, Le fondazioni bancarie e gli interventi nei settori di pubblica utilità.
(omissis)
per l'annullamento
- (con il ricorso introduttivo): del Decreto Ministeriale 2 agosto 2002 n. 217, recante "Regolamento ai sensi dell’art. 11 comma 14 della legge 28 dicembre 2001 n. 448, in materia di disciplina delle fondazioni bancarie" e di ogni altro atto comunque presupposto, connesso e consequenziale;
- (con i motivi aggiunti): della nota prot. n. 14572, inviata il 23 ottobre 2002 dal Ministero dell’Economia e delle Finanze avente ad oggetto "Documento programmatico previsionale";
b) sul ricorso n. 11161 del 2002 Reg. Gen., proposto dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Pisa, in persona del rappresentante legale p.t., rappresentata e difesa dagli avvocati Giovanni Gabrielli, Andrea Guarino, Giuseppe Morbidelli e Piero Schlesinger, con i quali elettivamente domicilia in Roma, Piazza Borghese n. 3;
(omissis)
e per l'annullamento
- (con il ricorso introduttivo): del Decreto Ministeriale 2 agosto 2002 n. 217, recante "Regolamento ai sensi dell’art. 11 comma 14 della legge 28 dicembre 2001 n. 448, in materia di disciplina delle fondazioni bancarie" e di ogni altro atto comunque presupposto, connesso e consequenziale;
- (con i motivi aggiunti): della nota prot. n. 14572, inviata il 23 ottobre 2002 dal Ministero dell’Economia e delle Finanze avente ad oggetto "Documento programmatico previsionale";
c) sul ricorso n. 11690 del 2002 Reg. Gen., proposto dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Volterra, in persona del rappresentante legale p.t., rappresentata e difesa dagli avvocati Giovanni Gabrielli, Andrea Guarino, Giuseppe Morbidelli e Piero Schlesinger, con i quali elettivamente domicilia in Roma, Piazza Borghese n. 3;
(omissis)
e per l'annullamento
del Decreto Ministeriale 2 agosto 2002 n. 217, recante "Regolamento ai sensi dell’art. 11 comma 14 della legge 28 dicembre 2001 n. 448, in materia di disciplina delle fondazioni bancarie" e di ogni altro atto comunque presupposto, connesso e consequenziale;
(omissis)
F A T T O
A) Con i ricorsi n. 11105, 11161 e 11690 del 2002, rispettivamente, l’Associazione fra le Casse di Risparmio Italiane e numerose fondazioni di origine bancaria, la Fondazione Cassa di Risparmio di Pisa e la Fondazione Cassa di Risparmio di Volterra impugnano il Decreto Ministeriale 2 agosto 2002 n. 217, recante il "Regolamento ai sensi dell’art. 11 comma 14 della legge 28 dicembre 2001 n. 448, in materia di disciplina delle fondazioni bancarie", deducendo:
A) INVALIDITA’ DERIVATA DALL’INCOSTITUZIONALITA’ DELLA LEGGE O DA UN’ERRATA INTERPRETAZIONE DELLA LEGGE:
1) Illegittimità totale del D.M. 2 agosto 2002 n. 217 per antinomia e contraddittorietà interna e derivata dall’art. 11 della legge 28 dicembre 2001 n. 448, che avrebbe trasformato le fondazioni bancarie, segnatamente quelle cd. istituzionali, da persone giuridiche di diritto privato in enti pubblici strumentali, prevedendo la presenza, nell’organo di indirizzo, di una maggioranza di componenti "rappresentanti" degli enti di cui all’art. 114 della Costituzione. Prova ne sarebbe la configurazione di "organismi di diritto pubblico", datane dal Consiglio di Stato in sede consultiva.
Per ovviare a tale situazione, le ricorrenti postulano un’interpretazione adeguatrice, "secundum constitutionem", operando la sostituzione, all’interno dell’art. 3 comma 1 del D.M. epigrafato, della parola "secondo" con il termine "se", riattribuendo, in tal modo, allo statuto la funzione sua propria.
Se il Tribunale dovesse invece, ritenere non possibile la prospettata operazione interpretativa, le ricorrenti chiedono che il Tribunale stesso valuti la non manifesta infondatezza delle singole questioni di costituzionalità che vengono successivamente esposte.
2) Illegittimità totale del D.M. n. 217 del 2002 n. 217 per incostituzionalità del citato art. 11 della legge n. 448 del 2001, in quanto, essendosi conclusa la procedura di adeguamento degli statuti alle disposizioni della legge n. 461 del 1998 e del decreto legislativo n. 153 del 1999, le fondazioni bancarie sono diventate persone giuridiche di diritto privato a tutti gli effetti. Pertanto, risulterebbe inammissibile l’ulteriore intervento del Legislatore, che ha comportato profonde modificazioni negli organi, nelle finalità e nella destinazione del patrimonio delle stesse.
Le misure introdotte dall’art. 11 della legge n. 448 del 2001 violerebbero, inoltre, il principio di sussidiarietà sancito dall’art. 118 comma 4 della Costituzione, in quanto ostacolererebbero, anziché agevolare, la libera iniziativa dei privati in settori di pubblica utilità.
3) Illegittimità dell’art. 2 del D.M. n. 217 del 2002 per incostituzionalità dell’art. 11 commi 1, 2 e 3 della legge n. 448 del 2001. La denunciata illegittimità costituzionale riguarderebbe, in primo luogo, l’indebita compressione dell’autonomia dei soggetti in parola, in relazione tanto allo scopo quanto alla destinazione del patrimonio, risultato che sarebbe il frutto della creazione della categoria dei "settori ammessi" e dei "settori rilevanti" e dalla previsione che le fondazioni bancarie possano operare esclusivamente nei primi e, necessariamente, in almeno tre "rilevanti".
Inoltre, l’individuazione dei settori risulterebbe del tutto casuale o, quanto meno, avulsa dalla tradizionale sfera operativa di dette persone giuridiche, alle quali verrebbe così assegnata la cura di interessi (per tutti: prevenzione della criminalità e sicurezza pubblica) da sempre di esclusiva competenza della pubblica Amministrazione. Un’ulteriore prova in tal senso sarebbe il recente allargamento del raggio di azione alla realizzazione di beni pubblici e di pubblica utilità, operata dall’art. 7 della legge 1 agosto 2002 n. 166.
4) Illegittimità dell’art. 3 del D.M. n. 217 del 2002 circa la composizione dell’organo di indirizzo per incostituzionalità dell’art. 11 comma 3 della legge n. 448 del 2001. La censura riprende ed amplia quella già formulata con riguardo all’intero Regolamento e riassunta al punto 1). In particolare, si evidenzia lo stravolgimento dei principi sanciti dalla legge n. 461 del 1998 che, all’art. 2 comma 1 lett. g), ha stabilito che venga "comunque" assicurata nell’organo di indirizzo la rappresentanza del territorio, quest’ultimo inteso in senso spaziale. Per converso, l’art. 11 epigrafato avrebbe illegittimamente contemplato una rappresentanza degli enti territoriali, per giunta di carattere prevalente nelle fondazioni istituzionali.
Analogo discorso andrebbe fatto per il rapporto, considerato inscindibile, fra attività di queste ultime e territorio di riferimento (cfr., in particolare, l’art. 7 comma 1 del decreto legislativo n. 153 del 1999, come integrato dall’art. 11 comma 11 della legge n. 448 del 2001).
5) Illegittimità dell’art. 5 comma 1 del D.M. n. 217 del 2002 circa l’incompatibilità con cariche in banche, assicurazioni e società finanziarie per incostituzionalità dell’art. 11 comma 7 della legge n. 448 del 2001, atteso che le preclusioni introdotte da quest’ultimo non troverebbero un loro logico fondamento; infatti, il regime delle incompatibilità dovrebbe riguardare solo le singole fondazioni e le rispettive banche conferitarie. Il vizio sarebbe vieppiù rilevante in quanto la contestata previsione incide su un diritto fondamentale delle persone.
La norma regolamentare sarebbe illegittima anche ex se, in quanto, senza alcuna copertura legislativa, procederebbe all’individuazione delle società di limitato rilievo economico e patrimoniale.
6) Illegittimità dell’art. 5 comma 2 del D.M. n. 217 del 2002 in tema di incompatibilità per i portatori di interessi riferibili ai destinatari delle fondazioni per incostituzionalità dell’art. 11 comma 4 ultimo periodo della legge n. 448 del 2001, in quanto la formula legislativa – proprio perchè ampia ed indeterminata – precluderebbe irragionevolmente a soggetti, particolarmente titolati e meritevoli, di divenire, soprattutto nelle realtà di non grandi dimensioni, componenti degli organi delle fondazioni bancarie; la materia ben poteva essere regolata applicando la normativa generale in tema di conflitti di interesse.
Ulteriormente illegittima sarebbe la differenziazione del regime dei componenti "rappresentanti" degli enti territoriali.
Infine, il Regolamento sarebbe viziato ex se per avere introdotto delle specificazioni assolutamente prive di ragionevolezza.
7) Illegittimità dell’art. 5 comma 3 del D.M. n. 217 del 2002, che attribuirebbe rango regolamentare agli Atti di indirizzo dell’Autorità di vigilanza e, segnatamente, a quello del 5 agosto 1999, rispetto al quale si propongono i vizi di incostituzionalità dell’art. 10 comma 3 lett. e) del decreto legislativo n. 153 del 1999, già evidenziati nell’ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale n. 1196 del 2002, adottata da questa Sezione.
8) Illegittimità dell’art. 6 del D.M. n. 217 del 2002 in punto di finalità del patrimonio per incostituzionalità dell’art. 11 comma 11 della legge n. 448 del 2001 e per illegittimità propria, non essendo consentito ad una fonte eteronoma di fissare un vincolo di destinazione alle modalità di impiego del patrimonio delle fondazioni.
Il Regolamento aggraverebbe tale vizio nella parte in cui procede alla definizione della destinazione degli impieghi.
9) Illegittimità dell’art. 7 del D.M. n. 217 del 2002 sulle partecipazioni bancarie di controllo per incostituzionalità dell’art. 11 comma 10 della legge n. 448 del 2001, non trovando una base razionale la previsione che le fondazioni non possano avere il controllo azionario su banche diverse dalla conferitaria.
Illegittimo sarebbe altresì il criterio legislativo di individuazione delle forme di controllo: la formula usata – "in qualunque modo e comunque esso sia determinato" – sarebbe quantomeno indeterminata.
Il Regolamento presenterebbe l’autonomo vizio di ipotizzare il controllo anche in assenza di qualsivoglia forma di accordo.
10) Illegittimità dell’art. 8 commi 1 e 2 del D.M. n. 217 per illegittimità costituzionale dell’art. 11 comma 13 della legge n. 448 del 2001, in quanto l’affidamento ad una società di gestione del risparmio della partecipazione di controllo nella società bancaria conferitaria comporterebbe un inammissibile vulnus all’autonomia statutaria e gestionale delle fondazioni bancarie.
Il Regolamento sarebbe viziato ex se laddove individua un termine – marzo 2003 – per la scelta fra la dismissione e il suddetto affidamento, difettando tale previsione di uno specifico fondamento primario.
11) Illegittimità dell’art. 9 del D.M. n. 217 del 2002 per incostituzionalità dell’art. 11 comma 13 della legge n. 448 del 2001, riguardante la previsione della decadenza degli organi e, nelle more della loro ricostituzione, la facoltà di quelli in prorogatio di limitarsi all’ordinaria amministrazione, in patente contrasto con la natura privatistica comunque riconosciuta a detti soggetti. Peraltro, tali disposizioni costituirebbero la diretta conseguenza delle già censurate norme dettate in materia di composizione dell’organo di indirizzo.
B) ILLEGITTIMITA’ PROPRIE DEL D.M. 2 AGOSTO 2002 n. 217:
1) Illegittimità dell’art. 2 comma 2, in quanto l’attribuzione all’Autorità di vigilanza del potere di controllo, sub specie di autorizzazione, sulle delibere di individuazione dei settori rilevanti sarebbe priva di un fondamento normativo primario.
2) Illegittimità dell’art. 2 comma 4, innominato sarebbe anche il potere dell’Autorità di vigilanza di segnalazione dei settori verso i quali orientare la (complessiva) attività delle fondazioni.
3) Illegittimità dell’art. 3 commi 1, 2 e 3, riferita al diverso trattamento dei componenti dell’organo di indirizzo espressi dagli enti territoriali, che non dovrebbero dimostrare il possesso di specifici requisiti soggettivi e sarebbero veri e propri "rappresentanti" dei propri designanti, collocandosi così in posizione ingiustamente differenziata rispetto agli altri membri del medesimo organo collegiale.
4) Illegittimità dell’art. 3 comma 5, non trovando fondamento legislativo il divieto di cooptazione, tanto più che l’art. 11 comma 1 lett. c) della legge n. 448 del 2001 demanda agli statuti l’indicazione delle "modalità di designazione" dei componenti degli organi di governo.
5) Illegittimità dell’art. 3 comma 7, riferito all’esclusione delle "rose" di soggetti designati.
Inoltre, i poteri di controllo sostitutivo e di avocazione, attribuiti all’Autorità di vigilanza, non sarebbero contemplati dalla normativa primaria.
6) Illegittimità dell’art. 5 comma 3, laddove introduce ulteriori cause – innominate – di incompatibilità dei componenti degli organi delle fondazioni bancarie.
7) Illegittimità dell’art. 7 comma 2, in relazione al rinvio, operato agli artt. 22 e 23 del T.U. n. 385 del 1993, per la individuazione delle forme di controllo, già esaustivamente e tassativamente disciplinate dalla legge.
Risulterebbe parimenti illegittimo il potere di accertamento dello status di controllante, conferito alla Banca d’Italia, le cui competenze legislative non investirebbero i soggetti in parola.
8) Illegittimità dell’art. 8 commi 5 e 6, imponendosi alle fondazioni non associative il rispetto dei principi comunitari in materia di appalti pubblici di servizi per l’individuazione della società di gestione del risparmio (s.g.r.), cui affidare la partecipazione di controllo nella società bancaria conferitaria. Tale previsione, oltre a postulare la natura di organismo di diritto pubblico di tali soggetti, determinerebbe un’inammissibile disparità di trattamento rispetto alle fondazioni associative, alle quali sarebbe prescritta la sola osservanza dei principi di pubblicità e di parità concorrenziale. In ogni caso, la presenza nell’organo di indirizzo dei "rappresentanti" degli enti territoriali, oltre che incostituzionale per le ragioni già esposte, sarebbe comunque espressione dell’autonomia statutaria riservata a detti enti.
9) Illegittimità dell’art. 9 comma 6, riguardante l’obbligatoria decadenza degli organi, anche qualora i componenti di questi ultimi riassumessero in sé tutti i requisiti soggettivi richiesti dalla legge.
10) Illegittimità dell’art. 9 comma 8, che attribuirebbe all’attività di ordinaria amministrazione, consentita nelle more della ricostituzione degli organi, una latitudine quantomai incerta, facendo riferimento a progetti approvati "nelle linee fondamentali" ed individuando un limite quantitativo (€ 150.000) per le autorizzazioni preventive assolutamente non previsto dalla normativa primaria.
In tutt’e tre i giudizi è costituito il Ministero dell’Economia e delle Finanze, il quale, nei propri scritti difensivi, controdeduce ai singoli motivi di doglianza.
In relazione ai ricorsi n. 11105 del 2002 (A.C.R.I. ed altri) e n. 11161 del 2002 (Fondazione Cassa di Risparmio di Pisa) sono stati notificati motivi aggiunti, diretti a sindacare la nota ministeriale prot n. 14572 del 23 ottobre 2002, contenente indicazioni ai fini della redazione del documento previsionale relativo all’esercizio 2003.
Su tali motivi – che non implicano l’esame di questioni di costituzionalità - il Collegio decide con separate sentenze.
Nel giudizio intentato con il ricorso n. 11105 del 2002 è presente anche il Forum Permanente del Terzo Settore, proponendo intervento ad adiuvandum e concludendo per l’accoglimento del ricorso.
Le ricorrenti hanno prodotto, a loro volta, memorie conclusionali, nelle quali ribadiscono le tesi esposte nei precedenti scritti.
D I R I T T O
1) In via preliminare, va disposta riunione delle tre impugnative, siccome fra di loro intimamente connesse.
2) Viene all’esame del Tribunale il decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze 2 agosto 2002 n. 217, recante il regolamento previsto dall’art.11 della legge 28 dicembre 2001 n. 448, in materia di disciplina delle fondazioni bancarie.
Avverso tale provvedimento vengono mossi numerosi rilievi, alcuni dei quali investono la legittimità costituzionale della fonte attributiva del potere regolamentare.
Occorre, innanzi tutto, individuare la natura giuridica delle fondazioni bancarie, quale emerge dal diritto positivo oggi vigente e che costituisce la risultante dell’evoluzione normativa, che, nel corso di più di un decennio, ha portato a compimento il processo di separazione delle stesse dalle banche ex pubbliche conferitarie, processo che si inserisce in quello, ancor più radicale, riguardante la privatizzazione dell’intero settore creditizio.
Punto di partenza di tale evoluzione è la legge cd. Amato-Carli 30 luglio 1990 n. 218 ed il conseguente decreto legislativo 20 novembre 1990 n. 356. Quest’ultimo contiene le "disposizioni per la ristrutturazione e per la disciplina del gruppo creditizio" e, in particolare, al Titolo III, reca la disciplina degli "Enti pubblici conferenti", attribuendo ad essi una piena capacità di diritto pubblico e di diritto privato ed assoggettandoli alle disposizioni legislative appositamente varate e a quelle dei loro rispettivi statuti.
La prospettiva muta profondamente con la legge c.d. Ciampi 23 dicembre 1998 n. 461, che conferisce la delega al Governo per il riordino della disciplina civilistica e fiscale di detti enti.
L’art. 2 comma 1 lett. l), in particolare, impone a questi ultimi di adeguare i propri statuti alle disposizioni dell’emanando decreto legislativo, stabilendo, altresì, che "con l’approvazione delle relative modifiche statutarie gli enti diventano persone giuridiche private con piena autonomia statutaria e gestionale".
Risulta così evidente l’opzione legislativa generale dell’affidamento della materia delle fondazioni bancarie al diritto privato, come ha osservato il Consiglio di Stato nel parere, reso sul Regolamento in esame, nell’adunanza dell’1 luglio 2002, che ne ha altresì individuato la ratio: privilegiare l’appartenenza, quanto meno morale, del patrimonio accumulato nel corso di decenni dalle banche pubbliche alla collettività dei depositanti risparmiatori e dei beneficiari del credito.
Assume rilievo peculiare il carattere di pienezza dell’autonomia di detti enti, garantito dal citato art. 2 comma 1 lett. l) e riferito tanto al potere di autodisciplinarsi (autonomia statutaria), quanto a quello di svolgere la propria attività istituzionale (autonomia gestionale). I limiti di tale libertà sono quelli tassativamente imposti dalla legge, in perfetta coerenza con la circostanza che le fondazioni bancarie sono il prodotto di una precisa scelta del Parlamento, chiamato, perciò stesso, a predisporre una serie di regole a salvaguardia del loro patrimonio e del corretto perseguimento dei fini istituzionali. All’uopo, il medesimo art. 2 ha fissato i principi e i criteri direttivi al Legislatore delegato, riguardanti gli scopi, l’organizzazione interna e la forma dei controlli su tali soggetti. Il risultato perseguito è stato di prevedere un regime peculiare, che si discosta da quello dettato dal codice civile, pur non dovendosi sottovalutare che anche quest’ultimo sottopone le "ordinarie" fondazioni ad un’attenta vigilanza, preordinata a garantire il perseguimento dello scopo indicato dal fondatore.
La precedente esposizione consente di chiarire l’esatta portata del carattere di "specialità" dei soggetti in parola, che non riguarda la loro natura, sì da renderli una sorta di tertium genus fra gli enti pubblici e le persone giuridiche private, ma attiene, piuttosto, alla disciplina cui i medesimi sono sottoposti, che, rispetto a quella codicistica, si pone, appunto, in rapporto di species ad genus, con tutte le conseguenze ermeneutiche ed applicative che ne discendono.
Il decreto delegato 17 maggio 1999 n. 153 si pone nella medesima prospettiva, esordendo con una definizione delle fondazioni bancarie in tutto identica a quella della legge di delega.
Analoga conferma viene dall’art. 11 della citata legge n. 448 del 2001, che lascia invariata tale definizione, pur modificando, per il resto, l’impianto legislativo precedente in maniera così penetrante da avvertire la necessità di attribuire all’Autorità di vigilanza il potere regolamentare di coordinamento con le disposizioni contenute nel decreto legislativo n. 153 del 1999.
La prospettiva non cambia neppure con la legge 15 giugno 2002 n. 112, che, convertendo il D.L. 15 aprile 2002 n. 63, aggiunge un ulteriore periodo all’art. 5; può, anzi, fondatamente sostenersi che l’ulteriore intervento normativo non ha alcun effetto novativo della disciplina in vigore; tale conclusione è confermata:
a) dalla lettera dell’art. 5 citato. Esso può essere scomposto in tre parti fondamentali, in ragione degli effetti che è destinato a produrre:
- vi è, anzitutto, una conferma della precedente normativa adottata, espressa dalla proposizione di apertura del periodo aggiunto: "Resta fermo quanto disposto dalla citata legge n. 461 del 1998 e dal medesimo decreto legislativo n. 153 del 1999…";
- segue una precisazione in merito alla natura giuridica dei soggetti in parola, che, per dirla anche qui con il Consiglio di Stato, rende esplicita l’esistenza di un "regime privatistico speciale" che li caratterizza. La formula utilizzata - "in ragione del loro regime giuridico privatistico, speciale rispetto a quelle delle altre fondazioni, in quanto ordinato per legge …" – costituisce, peraltro, la migliore conferma della già evidenziata portata del carattere di specialità impresso dal Legislatore alle fondazioni bancarie.
Tale affermazione non è smentita neppure dalla successiva elencazione, che si limita a richiamare i caratteri salienti della disciplina legislativa precedentemente varata (riguardanti il modus operandi delle fondazioni, l’organizzazione e la gestione del patrimonio, gli obiettivi da perseguire e i criteri applicativi della normativa che riguarda detti soggetti).
- si stabilisce, infine, che "la disposizione di cui al precedente periodo costituisce norma di interpretazione autentica della legge 23 dicembre 1998, n. 461 e del decreto legislativo 17 maggio 1999, n. 153". Basta in proposito osservare che la giurisprudenza, costituzionale (cfr. Corte cost. 23 novembre 1994 n. 397) ed amministrativa (cfr. Cons. Stato, V Sez., 2 luglio 2002 n. 3612), afferma costantemente che la norma legislativa può qualificarsi interpretativa e, quindi, retroattiva e costituzionalmente legittima solo quando si limita a chiarire la portata applicativa di una disposizione precedente, non integra il precetto di quest’ultima e non adotta un’opzione ermeneutica non desumibile dall’ordinaria attività di esegesi della stessa: tale risulta essere la norma in esame;
b) dalla ratio e dall’occasio legis. Emerge dai lavori parlamentari che il periodo aggiunto all’art. 5 del D.L. n. 63 del 2002 (significativamente rubricato: "Adempimenti comunitari iniziali a seguito di condanna per aiuti di Stato") ha la funzione di "esplicitare agli organi della Comunità europea le motivazioni della particolarità del regime fiscale delle fondazioni, precisando che non si tratta di aiuti di Stato" (tanto risulta dalla dichiarazione del relatore dell’emendamento, on. Alfano, resa alle Commissioni parlamentari V e VI riunite).
Lo Stato italiano ha così inteso dare attuazione alla decisione della Commissione CEE dell’11 dicembre 2001, con la quale era stata giudicata incompatibile con la disciplina comunitaria la previsione, di cui alla legge n. 461 del 1998 e al decreto legislativo n. 153 del 1999, di un regime fiscale agevolato per le ristrutturazioni e per le fusioni fra le banche. La soluzione accolta è stata quella di sospendere tale regime, ma, nel contempo, di far salvo quello analogo introdotto per le fondazioni bancarie, in considerazione del fatto che queste ultime non sono destinate a svolgere attività commerciale o di impresa; pertanto, le provvidenze fiscali previste in loro favore non sarebbero suscettibili di produrre effetti perturbativi del mercato.
Solo per mero scrupolo, deve aggiungersi che al quadro normativo, appena delineato, non apporta alcuna variazione sostanziale l’art. 80 comma 20 della legge 28 dicembre 2002 n. 289, che, alla lett. a), disciplina un aspetto peculiare, in punto di incompatibilità degli organi delle fondazioni bancarie, e, alla lett. b), si limita ad una proroga del periodo riservato per l’operazione di dismissione della partecipazione nella Società bancaria conferitaria.
Le conclusioni raggiunte consentono di fare un passo ulteriore e di affermare che, se il paradigma normativo di riferimento è quello evidenziato, il riconoscimento della "piena autonomia statutaria e gestionale" delle fondazioni bancarie assume il valore di un principio guida sia per l’interpretazione che per la valutazione di legittimità, sub specie della compatibilità con esso, delle disposizioni successivamente enunciate dal decreto legislativo n. 153 del 1999, pur dopo le modificazioni introdotte dall’art. 11 della legge n. 448 del 2001.
Più specificamente, l’affermazione della "piena" autonomia statutaria garantisce alle fondazioni il potere di darsi una propria "costituzione", che ne rispecchi i caratteri peculiari: la legge ben può conformare l’esercizio di tale potere, per garantire il perseguimento degli interessi di rilevanza sociale propri delle fondazioni (e non solo di quelle) bancarie, ma non può spingersi a comprimerlo fino ad annullarlo, in toto o per specifici aspetti, tradendo il carattere peculiare che essa stessa ha impresso a tali soggetti.
Analogamente, l’affermazione dell’autonomia gestionale è destinata ad assicurare il libero esplicarsi dell’attività istituzionale dei soggetti in parola, in tutti i suoi momenti tipici e, in primo luogo, nella fase di formazione della loro volontà.
Il problema è, quindi, di misura e si sostanzia nel verificare se sia stato superato il "grado di compressione che è possibile imprimere all’autonomia privata…senza che ciò si traduca in uno stravolgimento della sua stessa nozione e del suo nucleo essenziale, che la Carta Costituzionale ha inteso preservare soprattutto con le modifiche introdotte dagli articoli 117 e 118 Cost.". L’espressione, mutuata dal più volte citato parere del Consiglio di Stato, consente anche di replicare all’obiezione, svolta oralmente dalla difesa di parte resistente, che ha negato la configurazione di un possibile vizio di costituzionalità nella scelta del Legislatore di discostarsi dal modello privatistico della fondazione.
3) Può, a questo punto, passarsi all’esame dei singoli motivi di doglianza, che, come risulta dalla precedente esposizione in fatto, possono essere suddivisi in due tipologie: a) censure che, pur rivolte nei confronti di singole disposizioni regolamentari, non possono essere decise indipendentemente dalla risoluzione delle questioni di costituzionalità delle corrispondenti norme primarie; b) doglianze che hanno ad oggetto esclusivo ed immediato il D. M. 2 agosto 2002 n. 217, nessuna delle quali, però, suscettibile di produrre l’integrale effetto annullatorio dell’atto impugnato: il che renderebbe irrilevante qualsivoglia questione di costituzionalità.
Quest’ultima precisazione consente al Collegio di fissare il proprio ambito decisionale, distinguendo due fasi.
La prima riguarda la prioritaria trattazione delle questioni di costituzionalità sollevate, limitando l’esame delle censure rivolte alle norme regolamentari ai soli casi in cui esso sia necessario per accertare la rilevanza, ai fini decisori, delle questioni stesse.
La seconda, da rinviarsi all’esito dell’esame che andrà ad effettuare la Corte costituzionale, che ha ad oggetto sia le disposizioni attuative strettamente consequenziali all’assetto normativo primario, sia quelle indicate alla precedente lett. b), in considerazione del fatto che, come risulterà evidente dalla successiva trattazione, i dubbi di costituzionalità, insorti nel Collegio, assumono un’importanza preponderante per quantità, ma, soprattutto, per qualità, toccando aspetti di fondo della normativa introdotta nel 2001, sicché appare quantomai opportuno attendere il pronunciamento della Corte costituzionale sulla legittimità dell’assetto normativo primario, per una più compiuta ed esaustiva disamina del complessivo testo regolamentare.
Fatta tale premessa, può passarsi all’esame del primo motivo, con il quale si denuncia l’illegittimità dell’intero D.M. 2 agosto 2002 n. 217, derivante dall’illegittimità costituzionale dell’art. 11 della legge n. 448 del 2001, che avrebbe trasformato le fondazioni bancarie – segnatamente quelle cd. istituzionali - in enti pubblici strumentali, prevedendo la presenza, nell’organo di indirizzo, di una maggioranza di componenti "rappresentanti" degli enti di cui all’art. 114 della Costituzione. Prova della fondatezza di tale prospettazione sarebbe la configurazione di tali soggetti come "organismi di diritto pubblico" affermata dal Consiglio di Stato, che ha conseguentemente riconosciuto la legittimità della sottoposizione degli stessi alle regole dell’evidenza pubblica.
A tal proposito, per superare i possibili dubbi di costituzionalità della legge, le ricorrenti postulano un’interpretazione adeguatrice, "secundum constitutionem", del D.M. epigrafato e, specificamente, dell’art. 3 comma 1, operando la sostituzione della parola "secondo" con il termine "se", riattribuendo così allo statuto la libertà di decidere se ammettere nel proprio organo di indirizzo i rappresentanti degli enti contemplati dall’art. 114 della Costituzione.
In caso contrario, la richiesta è di valutare la non manifesta infondatezza delle singole questioni di costituzionalità che, in via gradata, vengono sollevate.
La soluzione interpretativa suggerita non è condivisibile.
Il testo dell’art. 3 comma 1 del D.M. n. 217 del 2002 costituisce, infatti, la fedele trasposizione dell’art. 11 comma 4 della legge n. 448 del 2001, che contempla la necessaria presenza di "una qualificata e prevalente rappresentanza degli enti, diversi dallo Stato, di cui all’art. 114 della Costituzione". Pertanto, allo statuto non viene lasciato in proposito un autonomo spatium deliberandi, quantomeno nell’an. Di questo l’interprete deve limitarsi a prendere atto, salvo a sollecitare, ricorrendone i presupposti, l’esame di legittimità costituzionale delle disposizioni di legge.
4) Il secondo motivo propone una questione di costituzionalità che investe l’intero art. 11 citato.
Si assume che, essendosi conclusa la procedura di adeguamento degli statuti alle disposizioni della legge n. 461 del 1998 e del decreto legislativo n. 153 del 1999, con la conseguente trasformazione delle fondazioni bancarie in persone giuridiche di diritto privato a tutti gli effetti, risulterebbe inammissibile l’ulteriore intervento del Legislatore, tanto più che esso comporterebbe profonde modificazioni negli organi, nelle finalità e nella destinazione del patrimonio delle stesse.
Le misure introdotte dall’art. 11 della legge n. 448 del 2001 violerebbero, inoltre, il principio di sussidiarietà sancito dall’art. 118 comma 4 della Costituzione, in quanto ostacolerebbero la libera iniziativa dei privati in settori di pubblica utilità.
La questione, pur rilevante, risulta manifestamente infondata alla stregua delle considerazioni precedentemente svolte. Non può tacersi che la stessa genesi e la natura attribuita a detti soggetti sono il risultato di una precisa (e libera) scelta del Legislatore, operata in virtù di un incontestato potere, che si sostanzia nella definizione del quadro normativo di principio, entro il quale le fondazioni stesse sono legittimate ad agire e che assume il più volte ribadito carattere di specialità.
Il Legislatore, oltre a contemplare aspetti che non sono destinati ad essere recepiti nei singoli statuti (si pensi, per tutte, alla parte riguardante i compiti affidati all’Autorità di vigilanza), ben può dettare la disciplina non solo della fase di trasformazione dei soggetti in questione, ma anche quella a regime, che si affianca a quella codicistica, sulla quale è, per giunta, destinata a prevalere, sicché, una volta conclusosi il suindicato processo, rimane integro il potere del Parlamento di modificare la legge in vigore, fatto salvo, ovviamente, il controllo di costituzionalità sul contenuto delle singole disposizioni.
5) Il terzo motivo, pur rivolto avverso l’art. 2 del D.M. n. 217 del 2002, denuncia, in realtà, l’illegittimità costituzionale dell’art. 11 commi 1, 2 e 3 della legge n. 448 del 2001, del quale la norma regolamentare costituisce la fedele applicazione.
L’attenzione si appunta, in particolare, sull’obbligo imposto alle fondazioni di svolgere la loro attività esclusivamente nei "settori ammessi", prescegliendo, nell’ambito di quelli creati dalla legge, un massimo di tre settori che, perciò stesso, diventano "rilevanti". Non risulterebbe risolutore il correttivo – frutto di una sollecitazione in tal senso del Consiglio di Stato – che consente di effettuare la scelta senza tener conto della suddivisione dei settori ammessi nelle quattro categorie generali, operata dal Legislatore del 2001.
Le ricorrenti sostengono che tale previsione normativa comporterebbe l’indebita compressione dell’autonomia statutaria, alla quale sarebbe rimessa, in via esclusiva, la facoltà di individuare il proprio raggio di azione.
Il vizio sarebbe aggravato da un’individuazione dei settori ammessi del tutto casuale o, quanto meno, avulsa dalla realtà storica delle fondazioni, alle quali verrebbe assegnata la cura di interessi (per tutti: prevenzione della criminalità e sicurezza pubblica) da sempre appannaggio esclusivo della pubblica amministrazione. Un’ulteriore prova in tal senso sarebbe il recente ampliamento dell’elenco con il riferimento ai compiti attinenti alla realizzazione di beni pubblici e di pubblica utilità, operato dalla legge 1 agosto 2002 n. 166.
In via preliminare, va affermata la rilevanza della questione di costituzionalità sollevata, atteso che l’art. 2 del Regolamento impugnato riproduce fedelmente il dettato legislativo, e, proprio in ragione di tale identità, non può che subire la sorte della noma legislativa che riproduce.
Nel merito, la prospettazione delle ricorrenti non appare manifestamente infondata.
La contestata disciplina, in estrema sintesi, prevede:
a) l’introduzione di numerosi "settori ammessi", partitamente elencati e suddivisi in quattro categorie (comma 1);
b) la nozione di "settori rilevanti", consistenti in quelli – tra gli ammessi – scelti ogni tre anni dalle singole fondazioni in numero non superiore a tre (comma 2);
c) la destinazione dell’attività di queste ultime esclusivamente nei settori ammessi e, in via prevalente, in quelli rilevanti (comma 3).
Le disposizioni riassunte apportano una profonda modificazione al decreto legislativo n. 153 del 1999: l’art. 2 comma 2, nella versione originaria, riconosceva agli statuti il potere di individuare i settori nei quali indirizzare l’attività delle fondazioni e di stabilire l’entità degli interventi da effettuare in ciascuno di essi; l’unica limitazione riguardava l’obbligo di assicurare la cura di almeno uno dei settori rilevanti, indicati dall’art 2 lett. e) della legge n. 461 del 1998 (ricerca scientifica, istruzione, arte, conservazione e valorizzazione dei beni culturali e ambientali, sanità e assistenza alle categorie sociali deboli). Tale compressione dell’autonomia statutaria – per la sua portata – non determinava lo snaturamento dei soggetti in parola, in quanto era giustificata dall’esigenza di garantire la cura dei (pochi) settori rilevanti individuati, appartenenti, per giunta, alla tradizionale sfera di operatività delle fondazioni bancarie, ponendosi così come una forma di necessario bilanciamento – in funzione della salvaguardia di interessi collettivi – dell’amplissima autonomia attribuita ai soggetti in parola.
Infine, nell’originaria versione del decreto legislativo n. 153 del 1999 non era imposto alcun raccordo con il territorio di riferimento, né, tantomeno, un’interdipendenza dell’attività delle fondazioni bancarie nel loro insieme.
L’assetto dato dall’art. 11, più volte citato, fa sorgere fondati dubbi in merito alla sua compatibilità con l’affermata "piena" autonomia, statutaria e gestionale, in quanto finisce con il comprimere, in maniera eccessiva, i due elementi peculiari di cui essa si connota: lo scopo e l’utilizzo del patrimonio della persona giuridica.
Tali effetti sono indotti:
a) dall’obbligo di operare "esclusivamente" nei settori ammessi, che preclude la possibilità di scelta di ambiti di attività, che, pur se non contemplati nell’elenco di cui all’art. 11 comma 1, si ascrivano comunque in quelli tradizionalmente propri delle fondazioni bancarie o rivestano, comunque, una rilevanza sociale.
Tale conclusione non è inficiata dall’obiezione di parte resistente che l’ampia latitudine dei "settori ammessi" e l’aderenza degli stessi all’attività istituzionale delle fondazioni bancarie non consentirebbero di configurare una rilevante incidenza sull’autonomia di queste ultime.
Deve osservarsi, intanto, che la questione va correttamente impostata in termini di principio e che, pertanto, essa deve riguardare la legittimità, in astratto, delle limitazioni introdotte.
Peraltro, pur volendo seguire il ragionamento dell’Amministrazione, deve comunque rilevarsi che l’elencazione legislativa non copre tutti i possibili settori di attività di detti soggetti: lo dimostrano, da un lato, lo stesso art. 11 comma 1, ultimo periodo, il quale avverte la necessità di attribuire all’Autorità di vigilanza il potere di modificare con regolamento i settori ammessi, in una visione, evidentemente, dinamica dell’attività complessiva da riservare alle fondazioni bancarie; dall’altro, l’ulteriore intervento del Legislatore che, con la legge n. 166 del 2002, ha integrato l’elenco varato solo un anno prima.
La suddetta delimitazione, spinta fino al punto da elidere un autonomo potere di scelta dei soggetti in parola, si giustifica, quindi, solo se la si considera come una manifestazione della volontà di sottoporre questi ultimi, nel loro insieme, ad un penetrante (ed inammissibile) potere di direzione e di indirizzo, che risulterà più evidente con le considerazioni in merito ai commi 2 e 3 dell’art. 11 della legge n. 448 del 2001, che seguono immediatamente;
b) dall’obbligo di scegliere, ogni tre anni, non più di tre settori di attività, che divengono perciò "rilevanti". Tale carattere comporta che le fondazioni operino in essi in via prevalente, assicurando, singolarmente e nel loro insieme, l’equilibrata destinazione delle proprie risorse, dando altresì preferenza ai settori a maggiore rilevanza sociale.
La prima osservazione critica, che ricalca il vizio di legittimità già esposto alla precedente lett. a), consiste nel fatto che le fondazioni bancarie sono tenute ad individuare il o i settori rilevanti nell’ambito di quelli tassativamente "ammessi", sicché, anche a tal proposito, esse sono costrette ad agire nel solco tracciato in via eteronoma, non potendo scegliere liberamente un ulteriore ambito di attività, al quale dare un valore preminente. Altro è, insomma, il poter operare in più settori, purchè lo si faccia anche in uno di quelli indicati dal Legislatore, come era previsto in passato; altro è, invece, l’essere astretti ad operare nell’ambito di settori – non importa se numerosi – imposti dall’esterno.
La seconda riguarda la limitazione numerica imposta, non riscontrandosi alcun interesse collettivo che giustifichi la compressione dei settori rilevanti ad un numero non superiore a tre.
I vizi denunciati acquistano la loro definitiva consistenza alla stregua delle conseguenze che la scelta triennale dei settori comporta: l’insorgenza dell’obbligo di destinare ad essi la maggior parte delle risorse impiegabili e di garantirne l’equilibrata distribuzione, dando altresì preferenza a quelli di maggiore rilevanza sociale.
L’intenzione del Legislatore del 2001, a questo punto, risulta chiara: creare un’interdipendenza fra i soggetti in parola, convogliando e coordinando in una prospettiva unitaria le potenzialità espresse da ciascuno di essi.
Così si spiegano, quindi, tanto la limitazione numerica prevista per la scelta dei settori rilevanti, quanto l’imposizione dell’obbligo – perché tale esso deve configurarsi, a meno di non volere depotenziare la portata di una disposizione di legge – di garantire il raggiungimento del risultato complessivo che l’ordinamento si aspetta da detti soggetti.
Il quadro normativo si chiude con la previsione dell’ultimo comma dell’art. 11 della legge n. 448 del 2001, che è pienamente coerente con il disegno complessivo delineato: l’esposizione, da parte del Ministro dell’economia e delle finanze, nella Relazione previsionale e programmatica, dell’ammontare delle risorse complessivamente attivate nei settori ammessi, ai fini degli stanziamenti nei fondi investimenti di cui all’art. 46 della legge citata.
Prima di trarre le conclusioni in merito al dubbio di legittimità costituzionale dell’assetto appena descritto, può agevolmente affermarsi che la questione sollevata dalle ricorrenti è rilevante per definire il giudizio in corso.
La previsione legislativa, della quale ci si occupa è, infatti, immediatamente precettiva, per quel che riguarda le scelte da effettuare da parte delle fondazioni bancarie (e la nota impugnata con i motivi aggiunti ne costituisce la prova migliore); inoltre, essa costituisce il fondamento del potere di segnalazione dell’Autorità di vigilanza, contemplato dall’art. 2 comma 4 del Regolamento, il cui scopo è di orientare l’azione dei destinatari, atteso che, senza un intervento eteronomo, non risulterebbe possibile quella attività di concertazione che pure l’art. 11 comma 3 espressamente impone.
Non può negarsi, inoltre, conformemente ai principi espressi dalla giurisprudenza amministrativa, anche di questa Sezione (cfr., in tal senso, per tutte, l’ordinanza di rimessione del 10 novembre 1997 n. 2655, che ha portato alla sentenza della Corte Costituzionale 27 novembre 1998 n. 383), che l’interesse primario delle ricorrenti è di sentirsi dichiarare la radicale illegittimità della fonte attributiva del potere – che, nella specie, potrebbe essere non solo di indirizzo, ma anche sanzionatorio –, così da porsi definitivamente al riparo da un possibile riesercizio dello stesso. Militano, in favore di questa tesi, tanto ragioni di giustizia sostanziale, che di economia processuale, tenuto conto, altresì, della delicatezza e della rilevanza degli interessi in gioco, che postulano l’eliminazione di ogni possibile dubbio di costituzionalità della normativa primaria.
Quanto ai profili di non manifesta infondatezza, deve osservarsi che l’art. 11 commi 2 e 3 della legge n. 448 del 2001 ha come risultato di assumere, nell’ambito organizzativo della pubblica amministrazione, persone giuridiche private, pur dotate di piena autonomia statutaria e gestionale. Pertanto, pur non arrivando alla conclusione che queste ultime risultano trasformate in enti pubblici strumentali, l’assetto innanzi esposto – per certi versi simile a quello dei concessionari di servizi pubblici, descritti pure come organi indiretti della P.a. - si pone in insanabile contrasto con la natura privatistica delle stesse, che, se non consente l’eccessiva compressione del potere di scelta dei settori, ancor meno tollera il loro inserimento in un ordinamento sezionale, orientato al perseguimento di un risultato collettivo che travalica l’individualità di ciascuna di esse, incidendo, in tal modo, su una tipica espressione della "piena" autonomia statutaria e gestionale.
Un’ulteriore considerazione si impone con riguardo alla composizione dell’elenco dei "settori ammessi", che, oltre ad essere eccessivamente ampio, contiene ambiti di attività che sono del tutto avulsi dalla tradizione operativa delle fondazioni bancarie.
Se queste ultime fossero completamente libere nella scelta dei settori in cui operare, pur nell’ambito delle materie indicate dalla legge, esse non riceverebbero alcun vulnus, ben potendo orientare la propria attività esclusivamente verso quelle che presentino maggiore affinità con la loro storia.
La prospettiva cambia se si tiene conto del già descritto risultato complessivo preteso dall’art. 11 comma 3, che porta ad ipotizzare inevitabili iniziative dell’Autorità di vigilanza per indirizzare la scelta verso quei settori, dai quali, spontaneamente, i soggetti in parola rifuggirebbero.
La segnalata eterogeneità, in primo luogo, rafforza il convincimento che il Legislatore del 2001 ha inteso attribuire alle fondazioni bancarie una funzione servente dell’organizzazione pubblica; inoltre, l’affidamento, a largo spettro, di ambiti di attività, avulse dalla loro tradizionale sfera operativa, finisce con il minarne l’identità e, quindi, l’autonomia, agendo, in maniera significativa, su uno degli elementi peculiari - lo scopo –, di cui le persone giuridiche di diritto privato, sia pur soggette ad una disciplina speciale, ontologicamente si connotano.
Da quanto esposto deriva l’emergere di un’ulteriore e specifica questione di costituzionalità dell’art. 11 comma 1 primo periodo, nella parte in cui esso prevede settori – segnatamente <<la criminalità e sicurezza pubblica>>, l’<<edilizia popolare locale>> e la <<sicurezza alimentare e agricoltura di qualità>> - che sono del tutto estranei alla tradizionale sfera di attività delle fondazioni bancarie, rientrando nell’ambito dei compiti tipicamente appartenenti ai pubblici poteri. Ai predetti settori va aggiunto (utilizzando il potere, riconosciuto dall’ordinamento al giudice de quo, di sollevare anche d’ufficio questioni di costituzionalità che ritenga rilevanti e non manifestamente infondate) la "realizzazione di lavori pubblici o di pubblica utilità", contemplata dall’art. 7 comma 1 lett. aa) punto 2 della legge 1 agosto 2002 n. 166, che modifica l’art. 37-bis della legge 11 febbraio 1994 n. 109;
c) un ulteriore aspetto problematico presenta il comma 1 dell’art. 11, ma è preferibile posporne la trattazione alle conclusioni in merito all’assetto legislativo descritto alle lettere a) e b).
A tal proposito, il Collegio reputa che non siano manifestamente infondate le seguenti questioni di costituzionalità, riguardanti l’art. 11 commi 1, primo periodo, 2 e 3 della legge n. 448 del 2001 (oltre il citato art. 7, in parte qua, della legge n. 166 del 2002), per possibile contrasto rispetto:
1) all’art. 3 della Costituzione, sub specie dell’irrazionalità legislativa, che rileva: a) come contrasto con il disposto dell’art. 2 comma 1 del decreto legislativo n. 153 del 1999, attribuendo a quest’ultimo il rango, che gli compete, di norma di principio, cui informare tutta la normazione di dettaglio; b) come indebita ed eccessiva compressione dell’autonomia privata, da intendersi, quindi, non come allontanamento, tout court, dal modello codicistico di fondazione, quanto, piuttosto, come "stravolgimento della sua stessa nozione e del suo nucleo essenziale" (per mutuare l’espressione utilizzata in sede consultiva);
2) all’art. 18 e all’art. 2 della Costituzione, che costituisce l’ulteriore sviluppo di quanto detto in chiusura del punto precedente. L’avviso del Collegio è che le modifiche apportate dalla legge n. 448 del 2001 comportano la sostanziale negazione del modello voluto dal Legislatore solo due anni prima e, soprattutto, non espressamente sconfessato, sicché è possibile affermare che il decreto legislativo n. 153 del 1999 configura, tuttora, le fondazioni bancarie come persone giuridiche di diritto privato, delle quali non può, perciò, essere intaccato quello che potrebbe definirsi il "contenuto minimo", frutto della scelta legislativa, innanzi evidenziata, di privilegiare la genesi volontaristica di tali soggetti. Risultano, pertanto, irragionevolmente compressi tanto il diritto di associazione dei cittadini (art. 18 Cost.), quanto i diritti dell’uomo nelle formazioni sociali ammesse dall’ordinamento (art. 2 Cost.) (sul punto, è utile richiamare i principi sanciti dalla Corte costituzionale nelle sentenze 18 luglio 1997 n. 248 e 29 dicembre 1993 n. 500, quest’ultima riferita proprio ai conferimenti degli enti creditizi di cui alla legge 30 luglio 1990 n. 218 ed al decreto delegato 20 novembre 1990 n. 356, con particolare attenzione ai rapporti fra le originarie fondazioni bancarie e la relativa libertà statutaria);
3) all’art. 41 della Costituzione, che tutela l’autonomia privata, sottoponendola a forme di controllo e di coordinamento solo a fini sociali, ma che non ne consente lo "snaturamento", attraverso la sovrapposizione di una volontà eteronoma a quella propria dell’ente;
4) all’art. 117 e all’art. 118 comma 4 della Costituzione, configurabile in relazione all’assunzione dei soggetti in parola nell’ambito della più complessiva organizzazione pubblica, quale si realizza, in particolare, con il comma 3 dell’art. 11 della legge n. 448 del 2001.
Quanto all’art. 118 comma 4 della Costituzione, lo spunto viene fornito dal Consiglio di Stato, che, formulando il prescritto parere sullo schema del Regolamento attualmente in esame, ha evidenziato il mutamento della stessa nozione di autonomia privata, che, alla stregua del principio di sussidiarietà orizzontale, introdotto dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, risulta oramai orientata al perseguimento non solo di bisogni individuali, ma anche di utilità generale, connotando, conseguentemente, un nuovo rapporto fra pubblico e privato.
Più specificamente, il citato parere, riprendendo una sollecitazione proveniente proprio dalla Corte Costituzionale (nella nota decisione 7 aprile 1988 n. 396), ha chiarito che "lo Stato e ogni altra autorità pubblica proteggono e realizzano lo sviluppo della società civile partendo dal basso, dal rispetto e dalla valorizzazione delle energie individuali, dal modo in cui coloro che ne fanno parte liberamente interpretano i bisogni collettivi emergenti dal sociale": ed al Collegio appare particolarmente significativo l’uso, da parte della Corte, dell’avverbio "liberamente". La conclusione rassegnata in quella sede è che, ferma restando la natura privata delle fondazioni bancarie, con le implicazioni in punto di intangibilità dell’autonomia già evidenziata, è consentito al Legislatore introdurre strumenti di vigilanza e di controllo, che costituiscono la connotazione tipica del regime privatistico speciale di tali soggetti.
Dal discorso appena riassunto, sembra doversi concludere che, se vi è spazio per interventi ab externo in sede di controllo, altrettanto non può dirsi per atti di indirizzo e ancor meno per interventi di carattere dirigistico. La ragione è evidente: l’organizzazione pubblica può giovarsi delle attività di iniziativa del privato, che può favorire, predisponendo, se del caso, anche un sistema di vigilanza su di esse; non può, però, sollecitarle, né, tanto meno, sostituire la propria volontà (nel campo dell’organizzazione, dell’individuazione dei fini e della spendita del patrimonio) a quella delle persone giuridiche di diritto privato, che si connotano, appunto, per la loro genesi volontaristica.
Non vi è dubbio, quindi, che le previsioni dei primi tre commi dell’art. 11 comportano una pervasività dei pubblici poteri, del tutto incompatibile con il principio di sussidiarietà nei termini su esposti.
Non appare manifestamente infondato neppure il dubbio della violazione dell’art. 117 della Costituzione, derivante dal fatto che alcuni dei settori indicati dall’art. 11 comma 1 rientrano nell’ambito delle materie che la norma costituzionale assegna alla potestà legislativa concorrente (tra le altre, la protezione civile, la ricerca ed i beni culturali) o, addirittura, a quella esclusiva delle Regioni (quali l’assistenza, l’edilizia locale e l’agricoltura).
E allora, nulla quaestio, se la legge statale si limita a normare il solo <<ordinamento civile>>; se, però, come il Collegio è orientato a ritenere, essa travalica l’ambito del diritto privato, di sua esclusiva spettanza, emergono le possibili implicazioni sulla sfera di attribuzioni delle regioni, in quanto il Legislatore finisce, sostanzialmente, con il disciplinare la singola materia, riservando allo Stato pervasivi poteri (amministrativi) di indirizzo, oltre che di controllo, esercitati dal Ministro dell’economia e delle finanze, in attesa dell’istituzione dell’apposita Autorità di vigilanza;
d) residua un’ultima questione, relativa alla legittimità della previsione dell’art. 11 comma 1 ultimo periodo, che attribuisce all’Autorità di vigilanza il potere di modificare i "settori ammessi" con regolamento da emanare ai sensi dell’art. 17 comma 3 della legge 23 agosto 1988 n. 400.
Due sono i dubbi che tale previsione ingenera nell’interprete.
Il primo, e più radicale, riguarda l’introduzione di una forma di delegificazione ad opera di una fonte secondaria di mera esecuzione, qual’è il regolamento contemplato dall’art. 17 comma 1 citato. Tale risultato non è consentito dall’ordinamento, se non attraverso i regolamenti cd. di delegificazione, espressamente contemplati dal comma 2 del medesimo art. 17, che, oltre a presentare una ben diversa veste formale, presuppongono che le leggi, che li autorizzano ad innovare in deroga al principio di gerarchia delle fonti, indichino le norme generali regolatrici della materia, che, nella specie, è costituita dal raggio di azione riservato alle fondazioni bancarie: di tali norme, nella specie, non vi è traccia, né formalmente, né, tanto meno, sostanzialmente, atteso che non le si può ricavare dall’elencazione dei settori ammessi fatta dall’art. 11 comma 1, in sé non particolarmente significativa, tenuto conto anche della sua disomogeneità. Ne discende che l’Autorità di vigilanza risulta sostanzialmente libera di incidere, ad libitum, sulla fonte primaria, in spregio al principio, sancito dall’art. 70 della Costituzione, che riserva in esclusiva al Parlamento la funzione legislativa.
L’ulteriore dubbio attiene all’attribuzione di un siffatto potere regolamentare all’autorità ministeriale, con le implicazioni, in punto di possibile violazione dell’art. 117 della Costituzione, già evidenziate alla precedente lett. c).
6) Il quarto motivo di doglianza porta all’esame del Tribunale due ulteriori e connessi aspetti della complessa normativa del 2001: la prevista composizione dell’organo di indirizzo delle fondazioni bancarie e l’imposizione a queste ultime dell’obbligo di operare in rapporto prevalente con il territorio.
La questione viene sollevata con riguardo tanto alle fondazioni così dette istituzionali, quanto a quelle associative, pur se le stesse ricorrenti ammettono che il sospetto di costituzionalità assume una portata sicuramente più evidente nel primo caso.
La norma contestata è quella contenuta nell’art. 11 comma 4 della legge n. 448 del 2001, che, sostituendo la lett. c) dell’art. 4 comma 1 del decreto legislativo n. 153 del 1999, prevede, in particolare, la presenza nell’organo di indirizzo di una "prevalente e qualificata rappresentanza degli enti, diversi dallo Stato, di cui all’art. 114 della Costituzione, idonea a rifletterne le competenze nei settori ammessi in base agli artt. 117 e 118 della Costituzione".
La tesi, esposta nelle impugnative, è che una siffatta imposizione finirebbe con il trasformare le fondazioni bancarie in enti strumentali di quelli – territoriali – elencati dal citato art. 114 della Costituzione, in considerazione del fatto che la prevista rappresentanza attiene all’organo nel quale è destinata a formarsi la volontà della persona giuridica. Il carattere di strumentalità verrebbe rafforzato dalla previsione impositiva dell’obbligo di operare in rapporto prevalente con il territorio.
In via preliminare, deve affermarsi la rilevanza della questione, atteso che, per quel che riguarda la prevista composizione dell’organo di indirizzo, la normativa regolamentare costituisce la mera trasposizione di quella primaria, con riguardo tanto alle fondazioni istituzionali quanto a quelle associative, come si preciserà in prosieguo.
Nessun dubbio anche circa la sussistenza della legittimazione attiva: basta, all’uopo, osservare che l’elenco delle ricorrenti si apre con l’A.C.R.I., che è l’ente esponenziale degli interessi dell’intera categoria, che, nella specie, si assumono lesi.
Nel merito, deve osservarsi che l’art. 11 comma 4, più volte citato, riguardante specificamente le fondazioni istituzionali, ha profondamente modificato la disciplina dettata dall’originaria versione dell’art. 4 comma 1 lett. c) del decreto legislativo n. 153 del 1999, che è stato interamente sostituito. Il testo precedente, in particolare, sviluppando i principi dettati dalla legge di delega, stabiliva che gli statuti delle fondazioni bancarie prevedessero, nell’ambito dell’organo di indirizzo, "un’adeguata e qualificata rappresentanza del territorio, con particolare riguardo agli enti locali". I caratteri salienti di tale disciplina erano, quindi, l’attenzione riservata alle istanze del territorio, delle quali gli enti locali venivano considerati i naturali soggetti esponenziali, e la sufficienza di una rappresentanza, sia pur minoritaria, di tali istanze.
L’allontanamento dai principi della legge n. 461 del 1998 non costituisce, di per sé, un vizio dell’art. 11 comma 4 citato, come pure adombrano le ricorrenti, tenendo conto che quest’ultimo è espressione diretta del potere legislativo del Parlamento, sicché non è configurabile nei suoi confronti una violazione dell’art. 76 della Costituzione.
Anche l’individuazione degli enti designanti, effettuata dalla novella del 2001, risulta pienamente compatibile con i principi costituzionali, atteso che la legge sopravvenuta si è limitata a sviluppare l’assetto ordinamentale introdotto dal decreto legislativo n. 153 del 1999 – e non contestato ex adverso -, adeguandolo, nel contempo, alla già ricordata riforma del Capo V della Costituzione, che ha attribuito un ruolo centrale agli enti territoriali intermedi, indicati dall’art. 114 della Costituzione: era, perciò, del tutto naturale che il Legislatore prendesse atto di tale evoluzione e la trasfondesse in una normativa destinata ad assicurare, appunto, la più efficace e completa cura degli interessi del territorio.
Residua l’ulteriore problema, centrale nella prospettazione delle ricorrenti, di stabilire la portata del termine "rappresentanza" ed, in particolare, se esso vada inteso in senso proprio, sicché i componenti dell’organo di indirizzo agirebbero in nome e per conto degli enti designanti.
Numerosi indizi deporrebbero in tal senso:
a) la lettera della legge, atteso che l’ordinamento giuridico, sia pubblicistico che privatistico, attribuisce al termine utilizzato – "rappresentanza" – uno specifico significato tecnico;
b) la ben diversa formula utilizzata per l’individuazione degli altri componenti dell’organo di indirizzo, a proposito dei quali si postula l’<<apporto di personalità…che possano efficacemente contribuire al perseguimento dei fini istituzionali>>, a testimonianza che i soggetti designati sono destinati ad agire in funzione (esclusiva) dell’interesse della fondazione bancaria, di cui sono chiamati a far parte;
c) l’indicazione che solo i componenti dell’organo di indirizzo provenienti dalla società civile e non anche i "rappresentanti" degli enti di cui all’art. 114 della Costituzione posseggano specifici requisiti "di professionalità, competenza ed esperienza nei settori in cui è rivolta l’attività della fondazione";
d) la precisazione che, per converso, i "rappresentanti" "riflettano le competenze nei settori ammessi in base agli articoli 117 e 118 della Costituzione", vale a dire attribuzioni di natura squisitamente pubblicistica e, comunque, avulse dalle finalità delle fondazioni in parola;
e) la possibilità che solo detti "rappresentanti" siano "portatori di interessi riferibili ai destinatari degli interventi delle fondazioni", quale eccezione alla regola, sancita dall’ultimo periodo dell’art. 11 comma 4 citato, preordinata a prevenire possibili conflitti di interesse.
Gli elementi elencati porterebbero a concludere per una netta distinzione di natura delle due componenti in seno all’organo di indirizzo. Le regole ermeneutiche, peraltro, impongono di privilegiare, fin dove è possibile, l’interpretazione delle norme primarie che le renda compatibili con la Costituzione.
Nella specie, a fronte di quanto detto in precedenza, si colloca l’art. 4 comma 2 del decreto legislativo n. 153 del 1999, che, già nella versione originaria, stabiliva che "I componenti dell’organo di indirizzo non rappresentano i soggetti esterni che li hanno nominati né ad essi rispondono". Tale previsione non è stata toccata dalla novella del 2001.
Pertanto, a meno di non volere affermare un difetto di coordinamento a livello legislativo (a favore del quale pure militerebbero le precedenti considerazioni effettuate), deve escludersi la sussistenza di un vincolo di mandato in capo a tutti i componenti dell’organo di indirizzo, a prescindere, dunque, dalla rispettiva provenienza. Il termine "rappresentanza" va, quindi, inteso in senso atecnico, come legame meramente genetico intercorrente fra designante e designato.
Tale conclusione, pur eliminando uno dei profili di incostituzionalità esposti nei ricorsi, lascia comunque aperte due ulteriori questioni.
La prima riguarda il già evidenziato ultimo periodo dell’art. 4 lett. c) del decreto legislativo n. 153 del 1999, nella versione rinnovellata, puntualmente trasfuso nell’art. 5 comma 2 del D. M. n. 217 del 2002.
Il contrasto con la Costituzione è configurabile nella prevista eccezione alla regola in tema di conflitti di interessi, alla quale non sono sottoposti i soggetti, designanti e designati, di cui all’art. 114 della Costituzione: l’espressione legislativa "salvo quanto previsto al periodo precedente…" depone univocamente in tal senso. Tale diversificazione di trattamento, in particolare, non trova fondamento razionale e sembra smentire proprio la conclusione appena raggiunta in merito all’insussistenza del vincolo di mandato, in relazione al comma immediatamente precedente, destinata ad attribuire una medesima posizione di status a tutti i componenti dell’organo di indirizzo.
Il Collegio è, pertanto, portato a dubitare della legittimità costituzionale della norma, così come formulata, potendosi configurare una duplice violazione dell’art. 3 della Costituzione, riguardante tanto l’irrazionalità intrinseca della previsione legislativa, quanto l’assolutamente ingiustificata disparità di trattamento fra posizioni dei destinatari in tutto equivalenti. A tali aspetti, testimoniati dal contrasto tra l’ultimo periodo dell’art. 4 comma 1 lett. c) e il periodo immediatamente precedente ed il comma 2 del medesimo art. 4, vanno aggiunti i vizi derivanti dalla possibile violazione degli artt. 2, 18, 41, 117 e 118 comma 4 della Costituzione, per i quali si fa rinvio alla precedente trattazione, laddove si sono individuati gli incomprimibili limiti che incontra il Legislatore nella disciplina dell’autonomia – statutaria e gestionale – delle fondazioni bancarie.
In punto di rilevanza del profilo in esame, è sufficiente osservare che l’impugnato art. 5 comma 2 del Regolamento mutua fedelmente la formula contenuta nella legge, facendola precedere dalla proposizione: "Salvo gli interventi per la tutela degli interessi del territorio", rendendo così ulteriormente esplicito il regime differenziato della cui legittimità si dubita. Deve aggiungersi che lo stesso Consiglio di Stato, nel proprio parere, non ha potuto che limitarsi a prendere atto di tale diversificazione, osservando che essa costituiva il prodotto di un’inequivocabile (ed intangibile, in sede consultiva) dizione legislativa (il "Salvo quanto previsto dal precedente comma…", appunto).
La precedente esposizione in punto di diritto porta altresì a dubitare della legittimità, per le ragioni già evidenziate, della disciplina riguardante le qualità soggettive richieste ai membri dell’organo di indirizzo. In particolare, l’art. 4 comma 1 lett. c) rinnovellato postula per i soli componenti provenienti dalla società civile la sussistenza dei requisiti "di professionalità, competenza ed esperienza nei settori in cui è rivolta l’attività della fondazione"; per converso, per i soggetti designati dagli enti di cui all’art. 114 della Costituzione, la norma si accontenta di una semplice "qualificazione", che, non essendo minimamente riferita ai fini e alle attività proprie delle fondazioni bancarie, fornisce l’ulteriore dimostrazione dell’eterogenea composizione dell’organo stesso.
Anche in questo caso la norma regolamentare corrispondente riproduce fedelmente la disciplina primaria.
L’ultimo aspetto da trattare (sicuramente non in ordine di importanza) è quello che attiene al riparto proporzionale dei componenti dell’organo di indirizzo, in particolare alla regola che in quest’ultimo sieda una "prevalente" rappresentanza degli enti territoriali. In proposito, è necessario tenere distinti gli effetti che l’art. 11 comma 4, più volte citato, produce sulle fondazioni cd. istituzionali, rispetto a quelli che provoca sulle fondazioni associative.
Con riguardo alle prime, va osservato, in punto di rilevanza, che il Regolamento impugnato riproduce fedelmente la formula legislativa, dopo che il Consiglio di Stato aveva evidenziato il contrasto con la legge del testo normativo sottopostogli, che prevedeva la riserva, in favore dei suddetti rappresentanti, dei due terzi dei posti complessivamente assegnabili.
La conformità della norma secondaria a quella primaria, se mette al riparo la prima da censure di legittimità, lascia in piedi il problema della compatibilità della legge con i principi ad essa sovraordinati: riprendendo quanto detto in precedenza, la questione è se la previsione, eteronoma ed autoritativa, della prevalenza numerica della "rappresentanza" degli enti di cui all’art. 114 della Costituzione (per giunta, con le caratteristiche soggettive innanzi evidenziate) non superi la consentita misura di compressione dell’autonomia, statutaria e gestionale, dei soggetti in parola.
Il Collegio ritiene che a tale quesito non possa darsi, tout court, una risposta negativa.
Intanto, non vi è dubbio che, riguardando l’organo strategico delle fondazioni bancarie, la previsione de qua è suscettibile di influenzarne in maniera decisiva l’operatività.
Ancor di più l’effetto limitante si fa sentire sul potere statutario, che, in questo caso, è ristretto alla distribuzione del potere di designazione tra i soggetti, cui la legge riserva tale compito, in modo da rifletterne il territorio (così si esprime l’art. 3 comma 2 del Regolamento).
Poiché tali designazioni sono vincolanti, il risultato che si ottiene è che i "rappresentanti" degli enti di cui all’art. 114 della Costituzione finiscono con il detenere la maggioranza nell’organo di indirizzo e sono in grado, quindi, di determinarne la linea gestionale.
L’obbligatoria preponderanza della componente pubblicistica presta il fianco a consistenti dubbi di costituzionalità.
In primo luogo, essa contrasta con il carattere di "pienezza" già evidenziato, che, nel suo contenuto necessario, riguarda il potere delle persone giuridiche in questione sia di costituire liberamente il proprio organo di governo, rendendolo adatto al perseguimento dei loro fini istituzionali, sia di determinare la propria linea di azione, riservando alla pubblica amministrazione una funzione di vigilanza, che serva esclusivamente ad assicurare il corretto esercizio dell’autonomia stessa.
Alla legge, conseguentemente e coerentemente con la natura privatistica che essa stessa attribuisce alle fondazioni bancarie, va riconosciuto il potere di dettare le regole che facciano da cornice al libero esplicarsi dell’autonomia delle persone giuridiche in questione, in funzione, appunto, del raggiungimento degli scopi, di rilievo sociale, ad esse attribuiti, regole che, come si è detto, costituiscono l’essenza della loro specialità. Quanto detto porta ad affermare, con specifico riguardo alla scelta dei componenti dell’organo di indirizzo, che l’intento del Legislatore non può che essere quello di garantire che i soggetti designati risultino in possesso dei requisiti di moralità, professionalità ed indipendenza, che assicurino la formazione di un organo in grado di perseguire al meglio le finalità istituzionali proprie (ed esclusive) delle fondazioni bancarie. A tal fine, è sufficiente che la norma primaria detti i principi che, in via astratta e generale, regolino la materia, ai quali i singoli statuti sono tenuti ad uniformarsi: la migliore riprova di quanto testé detto viene dall’originaria formulazione dell’art. 4 comma 1 lett. c) del decreto legislativo n. 153 del 1999, che si fermava, appunto ab externo, ad indicare gli indefettibili requisiti (di rappresentanza e di professionalità) che i componenti dell’organo in questione dovevano necessariamente possedere.
Peraltro, pur volendo far leva sul carattere di specialità innanzi evidenziato, sul quale insiste parte resistente, e volendosi ammettere che il Legislatore affidi la rappresentanza delle istanze del territorio a soggetti direttamente designati dagli enti di cui all’art. 114 della Costituzione, sembra non conforme a Costituzione che il Legislatore stesso possa spingersi fino a determinare la preponderanza numerica di tale componente all’interno dell’organo di indirizzo.
Così facendo, infatti, l’impugnato art. 11 comma 4 pare ignorare che dette istanze non possono essere perseguite tout court, ma devono necessariamente concorrere con le altre finalità istituzionali connaturate ai soggetti in questione, sicché la selezione di quelle che, di volta in volta, vanno privilegiate e la conseguente determinazione delle risorse da impiegare in ciascuna di esse sono oggetto di decisione da parte dell’organo di indirizzo, che, perciò stesso, necessita di una composizione equilibrata, che non tollera la presenza di una maggioranza precostituita, soprattutto considerando che quest’ultima, per come è concepita dal Legislatore del 2001, non risulta funzionale agli interessi delle fondazioni bancarie, ma, piuttosto, a quelli degli enti pubblici designanti o, comunque, delle collettività locali che si riconoscono in questi ultimi.
Un’ulteriore considerazione si impone: sia la composizione che il funzionamento dell’organo di indirizzo risultano depotenziati dall’assetto sancito dall’art. 11 comma 4 citato: in merito al primo aspetto, è agevole osservare che la decretata preponderanza determina il sacrificio della presenza proprio di quelle personalità che, per professionalità, competenza ed esperienza (per usare le espressioni dello stesso art. 11 comma 4), possono meglio contribuire al perseguimento dei fini istituzionali dei soggetti in parola; sul piano più strettamente gestionale, risulta ancora più evidente che una composizione, sbilanciata e predeterminata, dell’organo di indirizzo non giova sicuramente al libero svolgimento della dialettica interna ad esso e, quindi, all’individuazione dei reali interessi propri della persona giuridica, della quale l’organo stesso è chiamato a formare la volontà.
Può, pertanto, pervenirsi alla conclusione che la contestata prevalenza, oltre a porsi in contrasto con la tradizione storica delle fondazioni, da sempre libere di designare autonomamente i propri organi direttivi, non trova una sua ratio giustificativa, se non in quello scopo dirigistico, che si è innanzi evidenziato, che attribuisce a detti soggetti – pur formalmente assegnati al mondo privatistico – la funzione di supportare l’azione della pubblica amministrazione, segnatamente quella degli enti diversi dallo Stato.
Tale risultato ha l’ulteriore effetto di invertire il rapporto sancito dalla recente riforma dell’art. 118 comma 4 della Costituzione in materia di sussidiarietà.
Non convince, per converso, l’osservazione di parte resistente ad avviso della quale alcune fondazioni bancarie già presenterebbero una prevalenza dei rappresentanti degli interessi del territorio: è sufficiente osservare, in proposito, che, ai fini della valutazione di costituzionalità, non assumono alcun rilievo le situazioni di fatto, che, per giunta, costituiscono il frutto della scelta (liberamente) effettuata dalle singole fondazioni, dovendosi ragionare esclusivamente in termini di principio, in relazione, appunto, alla sfera incomprimibile dell’autonomia dei soggetti in parola.
La conclusione che può trarsi è che risulta non manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell’art. 11 comma 4 della legge n. 448 del 2001 (che sostituisce l’art. 4 comma 1 lett. c) del decreto legislativo n. 153 del 1999), per violazione dei principi sanciti dagli artt. 2, 3, 18, 41, 117 e 118 comma 4 della Costituzione.
I principi testé affermati consentono di risolvere agevolmente l’ulteriore questione di costituzionalità, che attiene alla ricaduta che l’art. 11 comma 4 della legge n. 448 del 2001 è suscettibile di produrre sulle fondazioni associative.
In proposito, la norma appena citata fa salva la previsione dell’art. 4 comma 1 lett. d) del decreto legislativo n. 153 del 1999, il quale, nella versione originaria, attribuiva all’assemblea il potere di designare una quota non maggioritaria dei componenti dell’organo di indirizzo, che, sommata ai soggetti nominati per cooptazione, non doveva comunque superare la metà del totale dei componenti dell’organo in questione.
Rispetto a tale testo, l’art. 11 comma 5 della legge n. 448 del 2001 ha proceduto alla soppressione della previsione riguardante il potere di cooptazione, sicché, attualmente, l’assemblea può provvedere a designare fino al 50% dei membri.
L’ulteriore 50% è sottoposto alla ripartizione contemplata dalla precedente lett. c) dell’art. 4 del decreto legislativo n. 153 del 1999, sicché la contestata "prevalenza" risulta essere solo relativa.
La questione di costituzionalità, pur rilevante, in quanto l’art. 3 comma 6 del Regolamento impugnato mutua fedelmente la formula contenuta nella legge, è manifestamente infondata.
Nella specie, infatti, non si riscontra la prevalenza assoluta dei "rappresentanti" degli enti di cui all’art. 114 della Costituzione e, pertanto, non vi è alcuna maggioranza predefinita, suscettibile di alterare l’ordinaria dialettica decisionale dell’organo di indirizzo.
Deve aggiungersi, anzi, che, da un lato, la variegata provenienza dei membri è suscettibile di arricchire tale dialettica, dall’altro, il Legislatore, attribuendo all’assemblea un così pregnante potere di designazione, ha mostrato di tenere adeguatamente conto della tradizione storica del particolare tipo di fondazione.
Da ultimo, le ricorrenti denunciano l’illegittimità costituzionale dell’art. 11 comma 11 della legge n. 448 del 2001, che integra l’art. 7 comma 1 del decreto legislativo n. 153 del 1999, aggiungendovi le parole "assicurando il collegamento funzionale con le loro finalità istituzionali ed in particolare con lo sviluppo del territorio".
Il Legislatore, in tal modo, avrebbe inteso prevedere un nesso inscindibile fra attività delle fondazioni bancarie e territorio di riferimento, limitando così, sotto il profilo spaziale, l’operatività dei soggetti in parola.
Tale risultato si porrebbe in patente contrasto con l’autonomia gestionale, riconosciuta a questi ultimi dal medesimo decreto legislativo n. 153 del 1999.
La questione di costituzionalità risulta manifestamente infondata, in quanto la formula legislativa utilizzata non è suscettibile di comportare gli effetti temuti dalle ricorrenti.
Per convincersene, è sufficiente por mente all’attuazione che del principio normativo primario ha fatto il Regolamento impugnato, raccogliendo il suggerimento proveniente dal Consiglio di Stato: l’art. 2 del D.M. n. 217 del 2002 attribuisce, infatti, alla sede statutaria la scelta di definire lo specifico ambito territoriale di attività delle singole fondazioni bancarie, laddove lo consiglino le caratteristiche peculiari di ciascuna di esse, vale a dire il luogo di insediamento, le tradizioni storiche e le dimensioni.
Da quanto detto, discende l’assenza di qualsivoglia vulnus dell’autonomia dei soggetti in parola ad opera della disciplina di rango primario.
Quanto, poi, alla proposizione "L’attività istituzionale delle fondazioni si svolge in rapporto prevalente con il territorio", contenuta nell’art. 2 del D.M. n. 217 del 2002, il Collegio ritiene di poter decidere pure prescindendo dalla questione di costituzionalità della disposizione primaria di riferimento, sicché, sotto questo aspetto, la questione stessa risulta irrilevante.
7) Il quinto motivo ha ad oggetto l’art. 5 del D. M. n. 217 del 2002 e porta all’esame del Tribunale la questione di legittimità costituzionale dell’art. 11 comma 7 della legge n. 448 del 2001, che, sostituendo l’art. 4 comma 3 del decreto legislativo n. 153 del 1999, impone il divieto ai soggetti, che svolgono funzioni di indirizzo, amministrazione, direzione o controllo presso le fondazioni, di ricoprire funzioni di amministrazione, direzione o controllo presso società operanti nel settore bancario, finanziario o assicurativo, ad eccezione di quelle, non operanti nei confronti del pubblico, di limitato rilievo economico o patrimoniale.
Si denuncia, altresì, l’illegittimità ex se della norma regolamentare, in quanto essa, senza alcuna copertura legislativa, procederebbe all’individuazione delle società di limitato rilievo economico e patrimoniale.
Deve, preliminarmente, osservarsi, in punto di rilevanza della questione di costituzionalità sollevata, che la disposizione legislativa è stata fedelmente trasfusa nel testo regolamentare, tant’è che il Consiglio di Stato ha rilevato l’ultroneità di quest’ultimo (segnatamente dell’art. 5 comma 1), non mancando, altresì, di segnalare l’impossibilità di esaminare i dubbi di costituzionalità, "pur da più parti ipotizzati".
La produzione di effetti già verificatasi – e l’art. 5 del Regolamento impugnato ne è la prova – comporta l’attualità dell’interesse a sindacare la disciplina primaria, che non viene meno per la sopravvenienza di una nuova normativa, la cui efficacia rileva solo de futuro. In altre parole, pur dandosi atto che l’art. 80 comma 20 lett. a) della legge 27 dicembre 2002 n. 289 (legge finanziaria 2003) ha sostituito l’intero art. 4 comma 3 del decreto legislativo n. 153 del 1999, introducendo una disciplina profondamente diversa dalla precedente, risulta comunque indispensabile che la Corte costituzionale si pronunci in merito alla costituzionalità dell’art. 11 comma 7 della legge n. 448 del 2001, qualora il Collegio ritenesse non manifestamente infondata la questione stessa: la valutazione di legittimità del D. M. n. 217 del 2002, oggetto diretto del presente giudizio, deve avvenire, infatti, alla stregua della normativa primaria vigente al momento dell’adozione del Regolamento stesso.
Effettivamente il testo dell’art. 4 comma 3 del decreto legislativo n. 153 del 1999, come sostituito dall’art. 11 comma 7 della legge n. 448 del 2001, presta il fianco a dubbi in merito alla razionalità e alla proporzionalità del divieto imposto rispetto allo scopo perseguito.
Le ricorrenti, giustamente, lasciano fuori dalla loro denuncia l’incompatibilità riguardante la società bancaria conferitaria, atteso che il principio cardine della riforma introdotta dalla legge n. 461 del 1998, è di garantire, appunto, la netta separazione di detta società dalla fondazione bancaria.
Del tutto ingiustificato ed eccessivo risulta, per converso, il regime di incompatibilità assoluta riguardante tutti i soggetti che siano impiegati, in posizioni di vertice, in società bancarie, finanziarie od assicurative; in tal modo, evidentemente, il Legislatore ha inteso introdurre una radicale separazione tra queste ultime e le fondazioni bancarie, ipotizzando possibili interferenze pregiudizievoli, che comporterebbero un legame inscindibile fra i soggetti in parola e gli istituti di credito, diversi dal conferitario, le società finanziarie e quelle assicurative.
Sul punto, si impongono due considerazioni di segno contrario.
La prima attiene allo scopo perseguito dalla riforma Ciampi, già innanzi evidenziato, che è limitato alla sola banca conferitaria.
La seconda è che questa contiguità – in termini generali – sarebbe pur sempre tutta da dimostrare (e in tal senso il trattamento differenziato, riservato alle società di minore rilievo, non è risolutore), in quanto, a mero titolo di esempio, non si comprende come la presenza nell’organo di indirizzo di una fondazione bancaria dell’amministratore di una compagnia di assicurazione (semmai straniera o, comunque, senza particolari rapporti con le attività ed il territorio di riferimento della fondazione stessa) potrebbe essere pregiudizievole per la corretta e neutrale attività gestionale di quest’ ultima.
Da quanto esposto, risulta evidente che lo scopo, che la norma si prefigge, ben potrebbe essere raggiunto applicando le ordinarie regole in materia di conflitto di interessi, operando così non una scelta radicale e aprioristica, ma agendo caso per caso, tanto più che tali regole si affiancano alla rigorosa disciplina in tema di controllo delle società bancarie (diverse dalla conferitaria), dettata dall’art. 6 del decreto legislativo n. 153 del 1999.
Optando per tale soluzione, il Legislatore avrebbe ottenuto il duplice risultato di evitare le suddette interferenze pregiudizievoli, senza, però, precludere, sempre e comunque, a soggetti particolarmente adatti di partecipare alla vita delle fondazioni bancarie, con evidenti vantaggi anche di queste ultime.
In conclusione, pur considerando l’amplissima discrezionalità di cui gode il Legislatore, una preclusione, del tipo di quella contenuta nell’art. 11 comma 7 della legge n. 448 del 2001, comporta l’eccessiva compressione della capacità delle persone, in violazione della specifica previsione costituzionale (artt. 2 e 22) che la tutela, incidendo altresì, specularmente, sull’autonomia delle persone giuridiche, sancita dall’art. 18 della Costituzione, aspetto che, in questa sede, assume un rilievo prevalente, in considerazione del fatto che sono queste ultime ad agire in giudizio.
8) Il sesto motivo è rivolto nei confronti dell’art. 5 comma 2 del D. M. n. 217 del 2002 e porta all’esame del Tribunale la questione di costituzionalità della corrispondente norma primaria - l’art. 11 comma 4 ultima parte della legge n. 448 del 2001 -, in merito alla quale già si è evidenziato un primo dubbio di costituzionalità, in punto di disparità di trattamento.
Il secondo riguarda la regola che tanto gli enti che designano i componenti dell’organo di indirizzo quanto i prescelti non siano portatori di interessi riferibili ai destinatari degli interventi delle fondazioni.
La doglianza è che la formula legislativa – per la sua ampiezza e la sua indeterminatezza – precluderebbe (soprattutto nelle realtà di non grandi dimensioni) a soggetti particolarmente titolati e meritevoli di divenire componenti degli organi in questione. Logica avrebbe voluto che si fosse fatto ricorso alla normativa generale in tema di conflitti di interesse.
Le ricorrenti denunciano altresì un vizio intrinseco del Regolamento, nella parte in cui introduce integrazioni che risulterebbero assolutamente prive di logica.
In punto di rilevanza, deve osservarsi che l’art 5 comma 2 del D. M. n. 217 del 2002 recepisce fedelmente la disposizione primaria, aggiungendovi delle specificazioni che, per il Consiglio di Stato, sono "ispirate da un commendevole effetto di chiarificazione".
L’espressione virgolettata pone in evidenza la genericità della disposizione normativa primaria, che ne costituisce il carattere distintivo e che non pochi dubbi ingenera all’interprete.
Tale genericità, peraltro, non può essere corretta in sede regolamentare, in quanto la disciplina delle incompatibilità è di stretta interpretazione, attinendo la materia alla capacità delle persone: non è un caso che proprio il Consiglio di Stato, tenendo in debita considerazione la circostanza che l’art. 11 comma 14 della legge n. 448 del 2001 attribuisce il potere normativo in funzione della mera "attuazione" delle norme da esso stesso introdotte, anche al fine di coordinarle con quelle preesistenti, abbia raccomandato al Governo di attenersi strettamente al dettato normativo primario, se non addirittura di astenersi da qualsivoglia "chiarificazione" (il termine utilizzato non appare casuale), demandando la materia ad un controllo ex post e caso per caso.
Il vizio evidenziato risulta vieppiù fondato alla stregua della disciplina regolamentare contenuta nel D.M. n. 217 del 2002; pur prescindendo da specifici aspetti di illegittimità delle scelte effettuate in quest’ultimo (il cui esame verrà affrontato dopo la decisione della Corte Costituzionale), non può farsi a meno di rilevarne la genericità, del tutto equivalente a quella della norma primaria: l’art. 5 comma 2 del Regolamento, infatti, configura le incompatibilità in relazione alla circostanza che i soggetti siano destinatari di interessi rilevanti e prolungati nel tempo, ovvero ricoprano un ruolo di particolare evidenza nell’ambito dell’organizzazione destinataria o ne rappresentino gli interessi, formule tutte che hanno la caratteristica comune di non essere esaustive.
Sorge, così, il ragionevole dubbio che, più che di un cattivo uso del potere regolamentare, si tratti, nella specie, dell’impossibilità di dare una maggiore concretezza e precisione alla formula legislativa, che, di per sé, è così onnicomprensiva ed indeterminata da eliminare in radice il problema di eventuali incompatibilità, a scapito, però, della legittima pretesa di soggetti, aventi i requisiti per farlo, di esercitare il diritto di designare o di essere designati come componenti dell’organo di indirizzo, con nocumento per le stesse fondazioni bancarie, che vengono private di apporti di professionalità e competenza, che possono rivelarsi preziosi e, nel contempo, assolutamente insuscettibili di minarne l’indipendenza.
In conclusione, il radicale e generico divieto, introdotto dall’art. 11 comma 4 ultimo periodo, finisce con il porsi in contrasto con i principi costituzionali sanciti dagli artt. 2, 3, 18 e 22 della Carta, che postulano la sussistenza, la ragionevolezza e l’esaustività della fonte primaria che disponga limitazioni della capacità delle persone.
9) La settima censura è rivolta nei confronti dell’art. 5 comma 3 del D.M. n. 217 del 2002, che recita: "Resta fermo il rispetto delle incompatibilità indicate negli Atti di indirizzo dell’Autorità di vigilanza".
Tale previsione risulterebbe illegittima perché attribuisce agli atti di indirizzo e, segnatamente, a quello datato 5 agosto 1999, rango regolamentare, trasformandoli così in provvedimenti autoritativi.
L’Atto di indirizzo esplicitamente indicato – ed oggi il Regolamento che ad esso opera rinvio – risulterebbero illegittimi nella parte in cui stabiliscono che le incompatibilità vanno individuate in modo che siano funzionali allo scopo di assicurare condizioni di indipendenza degli organi e di evitare possibili conflitti di interessi.
Illegittima sarebbe, poi, la previsione del rinvio in bianco a qualsiasi successivo atto di indirizzo.
Si riproporrebbero, in ogni caso, i vizi di incostituzionalità dell’art. 10 comma 3 lett. e) del decreto legislativo n. 153 del 1999, già evidenziati nell’ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale n. 1196 del 2002, adottata da questa Sezione.
Le doglianze mosse direttamente all’art. 5 comma 3 del Regolamento possono essere risolte indipendentemente dalla questione di costituzionalità, che, pertanto, risulta irrilevante.
10) Con l’ottavo motivo si censura la legittimità dell’art. 6 del D.M. n. 217 del 2002, che concerne la destinazione del patrimonio delle fondazioni bancarie, in merito alla quale parte ricorrente afferma l’impossibilità, per una fonte eteronoma, di fissare un vincolo di destinazione alle modalità di impiego di detto patrimonio, deducendo, in via gradata, l’illegittimità costituzionale dell’art. 11 comma 11 della legge n. 448 del 2001, se interpretato nel senso di attribuire un siffatto potere.
In punto di rilevanza della questione, è sufficiente osservare che l’art. 6 del Regolamento ripropone sostanzialmente il testo normativo primario, sicché è a quest’ultimo che occorre porre attenzione.
L’art. 11 comma 11 citato non risulta in contrasto con gli artt. 2, 18 e 41 della Costituzione, atteso che, da un lato, esso garantisce il collegamento – del tutto naturale e neutro - fra il patrimonio e le finalità istituzionali delle fondazioni bancarie e, dall’altro, ne evidenzia lo scopo precipuo nello sviluppo del territorio, senza per questo limitare in modo insostenibile l’autonomia dei soggetti in parola, in considerazione anche del fatto che il già esaminato art. 2 comma 1 del medesimo Regolamento demanda all’autonomia statutaria la scelta di individuare un territorio di riferimento, accentuando, così, gli effetti di localizzazione dell’attività dei soggetti in parola.
11) Con il nono motivo viene portato all’esame del Collegio l’art. 7 del D.M. n. 217 del 2002, il quale stabilisce, al comma 1, che il controllo delle fondazioni sulle società bancarie si configura, nelle forme stabilite dall’art. 6 commi 2 e 3 del decreto legislativo n. 153 n. 1999 o "comunque" sia esso determinato, anche quando faccia capo, direttamente o indirettamente, in qualunque modo, a più fondazioni, anche se queste non siano legate da accordi.
L’illegittimità di tale previsione consisterebbe, in primo luogo, nel ritenere rilevante solo il controllo operato attraverso un rapporto fra fondazioni, mentre, per converso, non assumerebbe alcuna importanza quello discendente dall’accordo tra una fondazione e soggetti diversi da essa; in secondo luogo, nella circostanza che tale controllo prescinderebbe dalla volontà effettiva dei soggetti che lo esercitano, sicché potrebbe discendere da una situazione del tutto casuale.
Inoltre, la disposizione legislativa si porrebbe in contrasto con il principio di ragionevolezza sancito dall’art. 3 della Costituzione, in quanto non troverebbe un logico fondamento il divieto di detenere il controllo azionario su istituti di credito diversi dal conferitario.
Illegittimo risulterebbe altresì il criterio di individuazione delle forme di controllo, atteso che la formula usata – "in qualunque modo e comunque esso sia determinato" – risulterebbe quantomeno indeterminata.
Il Regolamento sarebbe viziato nella parte in cui ne afferma l’esistenza anche in mancanza di qualsivoglia forma di accordo.
Per valutare la rilevanza della questione di costituzionalità sollevata nei confronti dell’art. 6 del decreto legislativo n. 153 del 1999, occorre partire dall’esame dei primi due commi dell’art. 7 del D.M. n. 217 del 2002, osservando subito che la dichiarata intenzione di quest’ultimo è di "assicurare la certezza normativa". Tale precisazione fa intendere che già in sede regolamentare si è posto il problema di tipizzare i casi di controllo delle società bancarie da parte di una fondazione.
L’art 7 citato riproduce, innanzi tutto, la formula dell’art. 6 del decreto legislativo n. 153 del 1999, aggiungendo l’inciso finale "anche se queste non siano legate da accordi".
Il secondo comma è dedicato all’effetto di chiarificazione, operato attraverso il richiamo delle ulteriori ipotesi di controllo indicate dagli artt. 22 e 23 comma 2 del decreto legislativo 1 settembre 1993 n. 385.
La soluzione regolamentare non risulta censurabile, alla stregua di un dettato legislativo che lascia un amplissimo margine di discrezionalità in sede attuativa.
Per convincersene, è sufficiente por mente alla dizione di chiusura del comma 5-bis dell’art. 6 innanzi citato, aggiunto dall’art. 11 comma 10 della legge n. 448 del 2001: la formula utilizzata - "in qualunque modo o comunque sia esso determinato" – consente di configurare il controllo sulle società bancarie anche in presenza di situazioni di mero fatto, che, in sé, potrebbero non essere significative della sussistenza di una posizione di controllo, che è pur sempre indispensabile verificare in concreto.
La conclusione appena raggiunta riceve conferma dall’avviso del Consiglio di Stato che, in sede consultiva, ha ritenuto conforme alla normativa primaria l’inciso "anche se queste non siano legate da accordi".
Viene in evidenza, quindi, l’art. 6 del decreto legislativo n. 153 del 1999, rubricato, appunto, "partecipazioni di controllo", che si apre con l’affermazione del divieto per le fondazioni di detenere partecipazioni in enti o società diverse da quelle svolgenti attività di impresa strumentali rispetto ai fini che le fondazioni stesse sono chiamate istituzionalmente a perseguire.
Poiché l’esercizio della discrezionalità legislativa risulta pienamente legittimo, tenuto conto della natura e delle finalità che l’ordinamento intende assegnare ai soggetti in parola, l’attenzione deve rapidamente sostarsi sulla nozione di controllo fornita dall’art. 6, che, nella versione originaria, vi dedica il secondo ed il terzo comma. Con il primo, si opera un rinvio all’art. 2359 commi 1 e 2 del codice civile; con il secondo, si chiarisce la nozione di influenza dominante contemplando tre ipotesi distinte. E’ interessante notare in proposito che, mentre le prime due fattispecie indicate presuppongono l’esistenza di appositi accordi tra soci, la terza riguarda la semplice sussistenza di "rapporti di carattere finanziario e organizzativo", anche tra soci, che, però, risultino idonei ad attribuire ad una fondazione il potere di nominare la maggioranza degli amministratori o di controllare l’assemblea ordinaria.
Trattasi, comunque, di ipotesi tipizzate, che postulano l’individuazione della sussistenza di accordi o, quanto meno, di "rapporti idonei", tant’è che tale disciplina non è oggetto di contestazione in questa sede.
Viene posta in dubbio, per converso, la legittimità costituzionale dell’art. 11 comma 10 della legge n. 448 del 2001, che aggiunge il comma 5-bis all’art. 6 del decreto legislativo n. 153 del 1999 e che configura una presunzione assoluta di controllo in tutti i casi in cui quest’ultimo sia riconducibile, direttamente o indirettamente, a più fondazioni, in qualunque modo o comunque sia esso determinato.
Le ricorrenti muovono due precise censure, che risultano entrambe non manifestamente infondate.
La prima discende dalla considerazione che il comma 5-bis in questione configura un collegamento fra le fondazioni bancarie e solo fra di esse, come se fossero un settore in sé conchiuso, sicché assumerebbe rilievo anche la semplice circostanza di appartenere ad esso, a prescindere dall’esistenza di accordi o, quanto meno, di rapporti, giuridicamente rilevanti, fra di esse. Hanno facile gioco le ricorrenti ad osservare come nulla vieterebbe che un controllo, parimenti efficace, potrebbe configurarsi, in presenza di una possibile triangolazione con una società operante in un ambito di attività totalmente diverso. L’unica giustificazione plausibile è che anche qui, sia pure per una finalità diversa, si è inteso ipotizzare la già evidenziata settorializzazione delle fondazioni in parola, che comporta un’interdipendenza ed una reciprocità intrinseca, che non solo è tutta da dimostrare, ma, in ogni caso, non è sicuramente di per sé rappresentativa di un possibile controllo, addirittura indiretto, come quello postulato dalla norma.
Volendo sintetizzare quanto appena detto, in base alla norma contestata, è sufficiente la sussistenza di una mera situazione di fatto – intercorrente fra più fondazioni (e solo tra di esse) - per determinare un obbligo di dismissione, che dovrebbe riguardare tutte le fondazioni che sono interessate alla vicenda. Risulta del tutto inaccettabile questo collegamento immediato, che, in primo luogo, come si è detto, prescinde totalmente dalle reali intenzioni dei soggetti coinvolti, e, in secondo luogo, comporta un’indebita compressione della certezza del diritto, in considerazione del fatto che l’intera disciplina della materia avrebbe dovuto essere attribuita in via esclusiva alla fonte primaria, tenendo conto, da un lato, che si andava ad incidere sulla capacità delle persone giuridiche e, dall’altro, che il potere regolamentare era limitato alla mera sfera attuativa.
Le considerazioni appena effettuate valgono anche per il secondo aspetto evidenziato, che assume una connotazione più propriamente oggettiva, riguardando l’atipicità della formula "in qualunque modo o comunque sia esso determinato", che consente di pervenire all’inaccettabile conclusione, già innanzi evidenziata, di potere prescindere dalla verifica sia della sussistenza di accordi (ferma restando, sul punto, la più ampia latitudine dei mezzi di prova) fra i soggetti coinvolti, sia della stessa intrinseca "idoneità" del mezzo utilizzato per il raggiungimento dello scopo che il Legislatore intende scongiurare.
Va, di conseguenza, sollevata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 11 comma 10 della legge n. 448 del 2001 per contrasto con gli artt. 2, 3, 18 e 41 della Costituzione, per irragionevolezza della previsione normativa e per lesione dell’autonomia, statutaria e gestionale, di persone giuridiche di diritto privato.
12) La decima doglianza è rivolta nei confronti dell’art. 8 commi 1 e 2 del D.M. n. 217 del 2002 e dell’art. 11 comma 13 della legge n. 448 del 2001, al quale il primo dà attuazione.
La norma di legge (che inserisce i commi 1-bis e 1-ter nel testo dell’art. 25 del decreto legislativo n. 153 del 1999) stabilisce che la partecipazione di controllo nella società bancaria conferitaria vada affidata ad una società di gestione del risparmio e che, comunque, la dismissione deve avvenire entro quattro anni dall’entrata in vigore del decreto legislativo n. 153 del 1999.
In coerenza, il Regolamento individua la data – 15 giugno 2003 – entro la quale le fondazioni bancarie sono tenute a dismettere la suddetta partecipazione, anche avvalendosi della facoltà di conferirla ad una società di gestione del risparmio.
Le ricorrenti deducono l’illegittimità della previsione legislativa, che violerebbe l’autonomia statutaria e gestionale di soggetti cui la legge stessa attribuisce natura privatistica.
Denunciano, altresì, l’invalidità della normativa regolamentare "per più versi", adducendo, ad esempio, il limite temporale (marzo 2003) entro il quale deve essere esercitata l’opzione per il suddetto affidamento, limite che non troverebbe un addentellato nella legge.
La doglianza rivolta direttamente alla legge primaria è manifestamente infondata.
L’obbligo di dismettere la partecipazione di controllo detenuta nella società bancaria conferitaria, disciplinato dall’art. 25 del decreto legislativo n. 153 del 1999, costituisce, infatti, uno degli obiettivi della cd. riforma Ciampi, al quale viene collegata l’emersione della natura privatistica delle fondazioni bancarie. Le ricorrenti, peraltro, hanno dimostrato di averne piena contezza e di accettare il principio – cfr., in tal senso, quanto in precedenza esposto al n. 7 - , al punto da non addurre, in contrario, alcuna specifica argomentazione; neppure adesso forniscono ragioni che facciano dubitare il Collegio della legittimità costituzionale delle finalità perseguite dalla legge n. 461 del 1998 e dal relativo decreto delegato.
Solo per completezza di trattazione, in quanto la circostanza che si va a riferire non muta le conclusioni raggiunte in merito alla legittimità costituzionale dell’art. 25 del decreto legislativo n. 153 del 1999, deve osservarsi che il suindicato termine quadriennale è stato prorogato per un ulteriore triennio dal già citato art. 80 comma 20 lett. b) della legge 27 dicembre 2002 n. 289, sia pur per le sole fondazioni di minori dimensioni e per quelle operanti in regioni a statuto speciale.
13) L’ultimo motivo riguarda l’art. 9 del D. M. n. 217 del 2002, proponendo, altresì, la questione di costituzionalità della corrispondente disposizione primaria - l’art. 11 comma 14, ultimo periodo, della legge n. 448 del 2001 -, nella parte in cui quest’ultimo reca la disciplina del regime transitorio, cui sono sottoposte le fondazioni bancarie fino alla ricostituzione degli organi di indirizzo e di amministrazione, da effettuarsi a seguito dell’intervenuto adeguamento dei rispettivi statuti.
Le ricorrenti appuntano l’attenzione sull’obbligatoria decadenza degli organi in carica e, nelle more della loro ricostituzione, sulla facoltà di quelli in prorogatio di svolgere esclusivamente l’attività di ordinaria amministrazione.
Ambedue le previsioni si porrebbero in palese contrasto con la natura privatistica comunque riconosciuta alle fondazioni bancarie.
Dalla sia pur sintetica illustrazione risulta evidente che la definizione della questione di costituzionalità è strettamente legata alla soluzione di quelle precedentemente formulate, tant’è che, nei ricorsi, si richiamano a sostegno le argomentazioni già esposte ed, in particolare, quelle riguardanti la composizione dell’organo di indirizzo: senza ripetere cose già dette, è innegabile che le modificazioni introdotte dall’art. 11 commi 1-10 della legge n. 448 del 2001 alterano grandemente la natura giuridica delle fondazioni bancarie, sì da svuotarne dall’interno e in maniera, a giudizio del Collegio, inaccettabile, sia l’autonomia statutaria che quella gestionale, in patente contrasto con il principio sancito dall’art. 2 comma 1 del decreto legislativo n. 153 del 1999.
Va aggiunto, in punto di rilevanza della questione di costituzionalità sollevata, che le contestate previsioni, circa la decadenza degli organi ed il regime transitorio, sono così specifiche e circostanziate da vincolare l’interprete ad una lettura univoca.
Rimane, pertanto, la strada della questione di legittimità costituzionale dell’art. 11 comma 14, ultimo periodo, citato che, per quanto detto in precedenza, si salda con la valutazione in merito alla compatibilità dell’assetto complessivo dei soggetti in parola, fornito dalle restanti disposizioni del medesimo art. 11, con i principi ricavabili dallo stesso decreto legislativo n. 153 del 1999 e, più in generale, dalla Costituzione.
Se detto assetto risultasse legittimo, lo sarebbe anche la specifica disciplina dettata per la fase transitoria, che si porrebbe così in piena coerenza con il mutamento operato sulla natura giuridica delle fondazioni bancarie. In caso contrario, l’incostituzionalità si estenderebbe a quanto stabilito dall’art. 11 comma 14 in esame, quale diretta conseguenza di un’inammissibile trasformazione della natura giuridica dei soggetti in parola.
Alla stregua della precedente trattazione, la Corte costituzionale va investita della questione di legittimità dell’art. 11 comma 14 (in parte qua) più volte citato, in quanto incidente – sia pur temporaneamente – su soggetti che, ottenuta l’approvazione ministeriale del proprio statuto, sono diventati, a tutti gli effetti, persone giuridiche dotate di quella "piena" autonomia statutaria e gestionale", alla quale vanno riconosciuti il significato ed il valore emergenti dagli artt. 2, 3, 18, 41, 117 e 118 comma 4 della Costituzione.
Non deve sottovalutarsi, conseguentemente, neppure il vulnus che deriva ai soggetti attualmente componenti degli organi delle fondazioni, che si vedrebbero sottratto il loro incarico, pur se risultassero in possesso di tutti i requisiti di professionalità, moralità ed indipendenza richiesti per l’espletamento di dette funzioni.
14) Per le considerazioni che precedono, il Tribunale solleva, in quanto rilevanti e non manifestamente infondate, le seguenti questioni di legittimità costituzionale, aventi ad oggetto:
a) l’art. 11, commi 1, primo periodo, 2 e 3 della legge 28 dicembre 2001 n. 448 e l’art. 7 comma 1 lett. aa) punto 2 della legge 1 agosto 2002 n. 166 (che modifica l’art. 37-bis della legge 11 febbraio 1994 n. 109), per contrasto con gli artt. 2, 3, 18, 41, 117 e 118 comma 4 della Costituzione;
b) l’art. 11 comma 1, ultimo periodo, della citata legge n. 448 del 2001, per contrasto con gli artt. 70 e 117 della Costituzione;
c) l’art. 11 comma 4 della citata legge n. 448 del 2001, per contrasto con gli artt. 2, 3, 18, 41, 117 e 118 comma 4 della Costituzione;
d) l’art. 11 comma 7 della citata legge n. 448 del 2001, per contrasto con gli artt. 2, 18 e 22 della Costituzione;
e) l’art. 11 comma 4, ultimo periodo, della citata legge n. 448 del 2001, per contrasto con gli artt. 2, 3, 18 e 22 della Costituzione;
f) l’art. 11 comma 10 della citata legge n. 448 del 2001 per contrasto con gli artt. 2, 3, 18 e 41 della Costituzione;
g) l’art. 11 comma 14, ultimo periodo, della citata legge n. 448 del 2001, per contrasto con gli artt. 2, 3, 18, 41, 117 e 118 comma 4 della Costituzione.
Deve disporsi, pertanto, la trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale, con conseguente sospensione del giudizio ai sensi dell’art. 23 della L. 11 marzo 1953 n. 87, per la pronuncia sulla legittimità costituzionale delle suindicate norme.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio, Sezione III:
1) riunisce i ricorsi n. 11105, 11161 e 11690 del 2002;
2) dichiara rilevanti e non manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale indicate in parte motiva.
Dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale e la sospensione del presente giudizio.
Ordina che, a cura della Segreteria, la presente ordinanza sia notificata alle parti in causa e al Presidente del Consiglio dei Ministri e sia comunicata ai Presidenti delle Camere del Parlamento.
Così deciso in Roma, nelle Camere di Consiglio del 4 dicembre 2002 e del 23 gennaio 2003.
Luigi COSSU Presidente
Antonino SAVO AMODIO Consigliere est.
Depositata in segreteria in data 8 febbraio 2003.