LUIGI OLIVERI
Problemi di costituzionalità della riforma degli appalti pubblici
Come sempre, dall'8 novembre 2001, ogni intervento legislativo posto in essere dal Parlamento viene adottato quasi come la legge 3/2001 non fosse mai stata approvata. E, come sempre, occorre, invece, verificare quanto l'intervento legislativo, effettuato in un regime costituzionale nuovo e diverso, sia rispettoso del nuovo assetto della distribuzione della potestà legislativa.
La
questione d'attualità è la riforma degli appalti, strettamente connessa, per
altro, proprio alla risoluzione di una questione di legittimità costituzionale
della legge 443/2001, da cui trae spunto. E' noto che alcune regioni, tra le
quali la Toscana, hanno denunciato l'incostituzionalità della cosiddetta legge
obiettivo, per violazione dell'assetto delle competenze delle regioni. Ed anche
sulla più ampia questione dei lavori pubblici si preannunciano conflitti. Lo ha
confermato, chiaro e tondo, il presidente della Commissione ambiente alla
Camera, Pietro Armani, che in un'intervista rilasciata al quotidiano Italia
Oggi dello scorso 19 luglio ha riconosciuto che "la nuova formulazione
dell'articolo 117 della Costituzione […] non specifica affatto se la materia
dei lavori pubblici, vale a dire la progettazione, la concessione e
l'affidamento al contraente generale degli appalti, spetti esclusivamente allo
Stato o alle regioni", rincarando la dose affermando che "ci saranno
di certo, sul fronte delle infrastrutture numerosi contenziosi tra Stato e
regioni per spartirsi gli appalti".
Il
problema è aggravato dalla constatazione che in prima battuta il conflitto può
circoscriversi tra Stato e regioni, in applicazione dell'articolo 127 della
Costituzione. Ma, successivamente, nella concreta attuazione delle norme è
piuttosto facile prevedere che nell'ambito del contenzioso tra amministrazioni
pubbliche ed imprenditori possano essere sollevate anche in via incidentale una
grande quantità di questioni di legittimità costituzionale, col rischio di un
contenzioso infinito.
Non
a caso, sempre nell'intervista di cui si è fatto cenno, il presidente della
Commissione bilancio alla Camera auspica che "il governo si faccia carico
al più presto di una revisione incisiva del nuovo titolo V della
Costituzione".
Questa,
in effetti, sembra la strada maestra e corretta per apportare quei correttivi
che il Parlamento ritenga necessari alla riforma.
Meno
corretto sembra l'intento di assegnare ad una riforma che c'è ed è vigente un
peso quasi irrilevante.
Meno
efficace, altresì, sembrano tesi, per la verità sempre più minoritarie e
circoscritte, che cercano comunque di attribuire allo Stato una competenza
legislativa erga omnes, disconoscendo
alle regioni una potestà legislativa esclusiva nelle materie non espressamente
indicate nei commi 2 e 3 dell'articolo 117 della Costituzione. Infatti, anche a
ritenere corretta la tesi del rapporto di concorrenza "pura" tra
regioni e Stato e della cedevolezza, nelle materie non contemplate nei commi 2 e
3, delle leggi statali, non si risolve il problema, giacchè le regioni comunque
potrebbero legiferare sulla materia, con l'effetto di abrogare la legge statale
e dare vita ad una situazione di potenziale caos.
Per
altro, molte regioni si stanno attrezzando (era logico che si sarebbe dovuto
aspettare un po' dall'entrata in vigore della riforma della Costituzione: il
problema del conflitto di competenza diverrà dirompente tra qualche mese)
proprio per riformare la propria normativa sugli appalti. La regione Veneto è
ad un passo dall'approvazione della legge, così come la Sicilia, che, comunque,
in questa materia da sempre gode di una potestà normativa esclusiva.
Appare,
allora, opportuno analizzare punto per punto le specifiche materie affrontate
dalla legge 109/1994, sia per verificare quanto lo Stato nel riformarla abbia
rispettato le disposizioni costituzionali, sia per comprendere entro che ambiti,
eventualmente, le regioni possono intervenire con le proprie disposizioni
normative. Si può, tuttavia, sin da subito concludere che la materia degli
appalti apparirà estremamente composita: infatti, certamente esiste uno spazio
normativo non indifferente per le regioni, sicchè gli operatori avranno a che
fare con una normativa composta tra norme statali e regionali, ovviamente
moltiplicare per 20 (anzi per 22, considerando le province autonome).
Il
problema si pone perché, come a tutti è noto, l'articolo 117 della
Costituzione non menziona la materia degli appalti pubblici tra le competenze
della potestà legislativa esclusiva o concorrente dello Stato, sicchè ricade
senz'altro nella potestà legislativa esclusiva delle regioni.
La
prima questione da analizzare, allora, è se realmente i lavori pubblici danno
luogo ad una materia normativa specifica e peculiare.
La
risposta non può che essere positiva. Le disposizioni riguardanti gli appalti
pubblici, ovviamente, raccolgono tante singole norme appartenenti a diverse
discipline, che però sono certamente ridotte ad unità e coordinate nell'ambito
di una materia normativa assolutamente omogenea e "chiusa". Tanto che
è disciplinata da una "legge quadro", il cui articolo 1, comma 1,
espressamente stabilisce che "in
attuazione dell'articolo 97 della Costituzione l'attività amministrativa in
materia di opere e lavori pubblici deve garantirne la qualità e uniformarsi a
criteri di efficienza e di efficacia, secondo procedure improntate a tempestività,
trasparenza e correttezza, nel rispetto del diritto comunitario e della libera
concorrenza tra gli operatori", confermando, dunque, che si tratta di
una vera e propria materia omogenea.
All'apparenza,
dunque, lo Stato rimane del tutto privo della possibilità di legiferare in
materia, sicchè l'intera normazione quadro può sembrare passata alla potestà
normativa regionale.
In
realtà, le cose non stanno così. L'articolo 117 della Costituzione, infatti,
non ha tratteggiato confini precisi tra la potestà legislativa statale e
regionale, con ciò ponendo in essere il maggiore difetto normativo della
riforma costituzionale.
Inoltre,
allo Stato l'articolo 117 ha assegnato la potestà legislativa esclusiva sulle
cosiddette "materie trasversali", che a ben vedere permette al
Parlamento di intervenire almeno pro-quota sulla gran parte delle materie
spettanti alla potestà legislativa delle regioni.
Dando
uno sguardo all'elencazione delle materie appartenenti alla potestà legislativa
esclusiva dello Stato che afferiscono, comunque, per connessione o contiguità a
quella degli appalti, si riscontrano le seguenti:
1)
tutela della concorrenza;
2)
giurisdizione e norme processuali;
3)
ordinamento civile;
4)
ordinamento penale;
5)
previdenza sociale;
6)
tutela dei beni culturali.
Nell'ambito
della potestà legislativa concorrente dello Stato, si rinvengono le seguenti
materie:
1)
sicurezza del lavoro;
2)
disciplina delle professioni.
L'analisi,
allora, della costituzionalità degli interventi normativi dello Stato e delle
regioni deve tenere conto di questo quadro, semplice ed esaustivo solo
all'apparenza, dal momento che, ad esempio, la tutela della concorrenza o la
disciplina dell'ordinamento civile può avere un'estensione più ampia o
maggiormente ridotta, a seconda del criterio interpretativo adottato.
Senza
entrare nel merito del commento delle disposizioni della legge 109/1994, è
possibile provare a tracciare, in base al quadro sopra sintetizzato, un'analisi
della conformità costituzionale degli interventi normativi.
L'articolo
1, che disciplina i princìpi generali, è certamente tra le norme più
problematiche. Non v'è dubbio che lo Stato possa non solo tracciare principi,
ma anche dettare la regola concreta, nell'ambito della tutela della concorrenza,
dell'ordinamento civile e della tutela dei beni culturali, mentre certamente
dovrebbe limitarsi esclusivamente a tracciare i principi proprio per la
sicurezza del lavoro e la disciplina delle professioni, essendo queste materia
di legislazione concorrente.
L'intento
dell'articolo 1, invece, è molto più vasto, essendo il frutto di un regime
costituzionale diverso. Tanto che abbraccia anche il campo delle procedure,
probabilmente quello a maggiore rischio di illegittimità costituzionale.
Superati
senza dubbio dalla legge 3/2001 sembrano i restanti commi dell'articolo, che
tracciano rapporti tra legge statale e regionale non più conformi al nuovo
quadro costituzionale.
Insomma,
l'articolo 1 non appare conforme alla nuova Costituzione, giacchè una legge
quadro valevole su tutta la materia degli appalti non può essere adottata né
dallo Stato, né dalle regioni, in quanto, come detto sopra, entrambi gli enti
hanno potestà normativa, sicchè il "quadro", in realtà, dovrà
trasformarsi in un "mosaico".
Maggiormente
problematico è l'articolo 2, riguardante l'individuazione dell'ambito
soggettivo ed oggettivo di applicazione della legge.
Per
la verità, sull'ambito oggettivo probabilmente non vi sono eccessivi dubbi. La
definizione dell'appalto pubblico potrebbe rientrare anche nella disciplina
dell'ordinamento civile, visto che ha ad oggetto un rapporto di obbligazione tra
amministrazioni pubbliche ed imprenditori. Certo, non si verte nell'ambito del
diritto comune, giacchè il rapporto obbligatorio è trattato nell'ambito del
diritto speciale amministrativo e, tuttavia, il richiamo alla potestà normativa
esclusiva dello Stato in merito all'ordinamento civile appare necessario, per
individuare in modo unitario il concetto di appalto pubblico.
E'
anche vero che tale concetto può essere ricavato dalla disciplina dell'Unione
Europea, vincolante non solo per le leggi dello Stato, ma anche per quelle
regionali, le quali, pertanto, qualora dovessero legiferare in merito all'ambito
oggettivo non potrebbero comunque discostarsi dal contenuto definitorio accolto
dalla legge 109/1994.
Maggiori
problemi insorgono, invece, sul piano soggettivo. Proprio perché, in realtà,
non pare che lo Stato possa più essere titolare esclusivo di una legislazione
quadro sugli appalti, l'applicazione della normativa ai soggetti pubblici e
privati dovrebbe limitarsi alla sola individuazione, dalla parte pubblica, degli
uffici statali e degli enti pubblici nazionali e, dalla parte privata, a quei
soli soggetti per i quali si renda necessaria una definizione mista diritto
pubblico-diritto comune.
Il
problema maggiore è quello del ruolo del concessionario, posto che il rapporto
concessorio è da considerare di diritto pubblico e non privato.
Fermi
restando i principi comunitari, appare possibile che la materia delle
concessioni, compresa anche la definizione dell'ambito di applicazione della
legge, sia da considerare appannaggio delle regioni, quanto meno per i rapporti
concessori delle regioni e degli enti locali, oltre che degli enti strumentali
di questi.
Insomma,
sull'estensione soggettiva dell'ambito di applicazione della legge, sussistono
inevitabilmente forti dubbi di conformità alla Costituzione.
Gravissimi
risultano i problemi posti dall'articolo 3, che disciplina la delegificazione ed
è la fonte legittimante del Dpr 554/1999.
Infatti,
il Governo nazionale può intervenire attraverso i regolamenti soltanto e solo
nelle materie di legislazione esclusiva dello Stato, come prevede il comma 6
dell'articolo 117 della Costituzione.
Apparirebbe,
allora, certamente incostituzionale un nuovo intervento regolamentare dello
Stato, volto a riscrivere il regolamento su tutte le materie elencate
dall'articolo 3, posto che alcune di esse appaiono essere di spettanza
regionale. Tra queste:
la
programmazione, la progettazione, la direzione dei lavori, il collaudo e le
attività di supporto tecnico-amministrativo con le annesse normative tecniche;
le
procedure di affidamento degli appalti e delle concessioni di lavori pubblici,
nonché degli incarichi di progettazione;
le
forme di pubblicità e di conoscibilità degli atti procedimentali, anche
mediante informazione televisiva o trasmissione telematica, nonché alle
procedure di accesso a tali atti;
i
rapporti funzionali tra i soggetti che concorrono alla realizzazione dei lavori
e alle relative competenze.
le
modalità di esercizio della vigilanza di cui all'articolo 4;
le
sanzioni previste a carico del responsabile del procedimento e la ripartizione
dei compiti e delle funzioni dell'ingegnere capo fra il responsabile del
procedimento e il direttore dei lavori;
le
forme di pubblicità dei lavori delle conferenze di servizi di cui all'articolo
7;
i
tempi e le modalità di predisposizione, di inoltro e di aggiornamento dei
programmi di cui all'articolo 14;
le
ulteriori norme tecniche di compilazione dei progetti, gli elementi progettuali
relativi a specifiche categorie di lavori;
le
modalità di espletamento della attività delle commissioni giudicatrici di cui
all'articolo 21;
i
lavori in relazione ai quali il collaudo si effettua sulla base di apposite
certificazioni di qualità dell'opera e dei materiali e le relative modalità di
rilascio; le norme concernenti le modalità del collaudo di cui all'articolo 28
e il termine entro il quale il collaudo stesso deve essere effettuato e gli
ulteriori casi nei quali è obbligatorio effettuare il collaudo in corso
d'opera; le condizioni di incompatibilità dei collaudatori, i criteri di
rotazione negli incarichi, i relativi compensi, i requisiti professionali
secondo le caratteristiche dei lavori;
le
forme di pubblicità di appalti e concessioni ai sensi dell'articolo 29.
La
paventata e naturale riforma anche del Dpr 554/1999 sarebbe certa fonte di
conflittualità tra Stato e regioni, per altro con ottime possibiltà per queste
ultime di vanificare lo sforzo normativo del Governo.
Gli
articoli 4, 5 e 6 disciplinano le modalità di vigilanza sugli appalti, con
riferimento ai compiti dell'authority e del Consiglio superiore dei lavori
pubblici.
Trattandosi
di norme comunque organizzative, che non pare rientrino in nessuna delle materie
assegnate alla competenza statale dall'articolo 117 della Costituzione, sembra
possibile un intervento normativo delle regioni, in grado di modificare
radicalmente l'impianto dei controlli previsto dalla legge 109/1994, così come
fortemente dubbio appare l'intervento normativo e regolamentare del Parlamento e
del Governo in materia.
Insomma,
il permanere del ruolo e delle funzioni dell'authority e del Consiglio sembra
strettamente legato all'inerzia normativa delle regioni.
L'articolo
7 della legge 109/1994 riguarda il responsabile del procedimento ed i sistemi
organizzativi delle amministrazioni appaltanti.
Si
tratta della concreta applicazione alla disciplina dei lavori pubblici dei
principi di cui alla legge 241/1990. Anche in questo ambito si pone il grave
problema della mancata menzione della disciplina dell'attività amministrativa
nell'elencazione delle competenze legislative statali(1).
Si
può, allora, concretamente dubitare che una legge dello Stato possa disporre
direttamente misure organizzative cogenti anche per le regioni. Non solo: anche
per gli enti locali.
Infatti,
la legge statale può intervenire solo in merito all'ordinamento e
all'organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali, a
mente dell'articolo 117, comma 2, lettera g).
Dunque,
l'ordinamento amministrativo degli altri enti non può essere disciplinato dalla
legge dello Stato.
E'
ben vero che una forma organizzativa che presupponga la presenza del
responsabile del procedimento e che si ispiri ai principi di trasparenza e del
giusto procedimento può essere tratta dalla Costituzione ed essere
concretamente attuata dalla legge 241/1990, anche come strumento di definizione
dei livelli essenziali dei diritti civili. Ma tale definizione normativa non
potrebbe che essere descritta da una normativa di principio e non concretamente
attuata, anche per le regioni e gli enti locali, da una norma di diretta
regolamentazione della materia, considerando che:
1)
in tale ambito le regioni dispongono di potestà legislativa esclusiva;
2)
gli enti locali dispongono di potestà regolamentare piena in tema di
organizzazione delle loro funzioni.
Pertanto,
la materia dell'articolo 7, largamente approfondita e trattata anche dal Dpr
554/1999 sembra possa essere trattata in modo così capillare dalla legge dello
Stato solo per le amministrazioni statali. Le regioni, invece, pare possano
legittimamente riscrivere la norma e modificarla. In tal senso è orientato, non
a caso, il disegno di legge di riforma della legislazione degli appalti della
regione Veneto.
Gli
articoli da 8 a 13 della legge 109/1994, riguardano, sinteticamente, la
qualificazione delle imprese, i requisiti per l'ammissione alle gare ed i
presupposti per la partecipazione degli appaltatori agli appalti, riuniti tra
loro.
Tale
disciplina appare fortemente influenzata da un lato dalla tutela della
concorrenza, dal momento che si fissano i criteri generali, valevoli per tutti,
ai fini della stessa possibilità di accedere agli appalti pubblici. Dall'altro
lato, l'ordinamento penale e civile sono alla base della definizione delle
qualità tecniche e morali che le imprese, anche in forma associata, debbono
possedere, mentre la disciplina delle associazioni temporanee e dei consorzi
appare strettamente di diritto civile, anche se la regolamentazione sia di
natura speciale e non ricompresa nel codice civile.
In
sostanza, è da ritenere che in questi ambiti la potestà legislativa dello
Stato sia correttamente esercitata.
Per
converso, appare, invece, non costituzionale ogni normativa regionale tendente a
fissare criteri diversi ed ulteriori per la partecipazione agli appalti, come
hanno fatto, ad esempio, le regioni Friuli e Sardegna, nell'esercizio di una
potestà normativa esclusiva che, però, non può comunque andare contro il
principio di eguaglianza ed imparzialità posto dalla Costituzione, e della
tutela della concorrenza, rinveniente anche dalla normativa comunitaria.
L'articolo
14 riguarda la programmazione delle opere pubbliche. Pare possano estendersi a
questo ambito le considerazioni svolte in merito all'articolo 7. Si tratta,
infatti, di uno strumento organizzativo dell'attività di esecuzione delle opere
pubbliche, certamente indispensabile, molto probabilmente correttamente
impostato e voluto dal legislatore, in omaggio al principio di buon andamento.
Non pare, tuttavia, che la legge dello Stato disponga di una competenza né
esclusiva, né concorrente in merito, sicchè le regioni potrebbero certamente
intervenire.
Lo
stesso vale per gli articoli 16 e 17, riguardanti l'attività di progettazione e
le modalità della stessa.
Si
tratta, infatti, di regole procedurali e tecniche che non pare possano essere
ricondotte a nessuna delle potestà legislative attribuite allo Stato dalla
Costituzione. L'unica parte che può essere con certezza assegnata alla legge
statale è quella della definizione dei compensi, in quanto riconducibile alla
disciplina delle professioni.
Ma
qui, si pone un altro problema. Il nuovo comma 12-bis dell'articolo 17 rinvia ad
un decreto ministeriale la fissazione delle tabelle dei corrispettivi ai
professionisti. Però, la materia della disciplina delle professioni appartiene
alla legislazione concorrente dello Stato, che, dunque, è privo di competenza
regolamentare in materia. Né lo Stato potrebbe direttamente determinare le
tabelle con legge, visto che nell'ambito della legislazione concorrente lo Stato
può solo determinare i principi fondamentali.
Insomma,
è difficile non rintracciare in questo caso una vera e propria incompatibilità
con la Costituzione, a meno di non far rientrare, con una forzatura che
apparirebbe, tuttavia, evidente, la disciplina delle tariffe nell'ambito
dell'ordinamento civile.
L'articolo
18, che tanti problemi pone in merito alla questione della necessità di
considerare, o meno, gli oneri riflessi ricompresi nel fondo incentivante la
progettazione, è norma piuttosto complessa.
Il
suo contenuto, tuttavia, fa propendere per una competenza della legge regionale
e non statale, in quanto:
1)
si tratta di una norma di organizzazione;
2)
è una disposizione di natura anche contrattuale, in un ambito
costituzionale in cui l'ordinamento del rapporto di lavoro alle dipendenze delle
amministrazioni pubbliche, per effetto della già citata lettera g)
dell'articolo 117, non può spettare più esclusivamente allo Stato. Né, in
contrario, pare accoglibile la tesi che per effetto della privatizzazione del
rapporto di pubblico impiego, lo Stato è competente rientrando il tutto nella
materia della disciplina dell'ordinamento civile. Infatti, mentre da un lato non
è vero che vi è stata una piena privatizzazione del rapporto di lavoro
pubblico, per altro verso proprio il permanere di uno "zoccolo duro"
di diritto speciale pubblico, derogatorio rispetto alla disciplina di diritto
comune, rivela chiaramente che v'è uno spazio normativo proprio delle regioni.
L'articolo
19 riguarda le concessioni ed è da guardare in stretta connessione con il
projct financing.
Anche
in questo caso appare difficile considerare legittimo, costituzionalmente, che
sia lo Stato a definire la materia, esercitando la propria potestà legislativa.
Infatti, nell'ambito dell'elencazione dell'articolo 117 non è dato ritrovare
alcun ambito normativo che possa giustificare una potestà né esclusiva, né
concorrente.
La
concessione è istituto di diritto pubblico e non privato. I requisiti dei
concessionari sono definiti dalla legge dello Stato, in relazione agli articoli
da 8 a 13 della legge. Le modalità di selezione e di definizione del rapporto
concessorio non pare appartengano alla potestà normativa statale, se non con
riferimento ai lavori di restauro, sottoponibili alla competenza esclusiva
statale in merito alla tutela dei beni culturali.
Per
converso, alcune disposizioni riguardanti il project financing, in particolare
quelle rivolte agli asseveramenti delle proposte, alle garanzie, alla
costituzione delle società di progetto, possono essere attratti nella
disciplina dell'ordinamento civile. Il mosaico, in questo caso, diviene
estremamente intricato, tale da indurre, probabilmente, a rintracciare la
disciplina "prevalente", che attragga per connessione quella
"subordinata", in modo da ricondurre tutto ad unità. Difficile,
nell'ambito di questo lavoro, propendere per la prevalenza delle norme di
diritto pubblico, rispetto a quelle di diritto privato, che, tuttavia, appaiono
almeno quantitativamente preponderanti.
Le
disposizioni che vanno dall'articolo 20 all'articolo 24, relative alle modalità
di gara, alla licitazione privata ed alla trattativa privata, in quanto non
afferiscano ai lavori di restauro, a loro volta sembra fuoriescano da una
competenza normativa dello Stato. Le regioni se ne sono accorte da tempo, tanto
che anche nell'ambito del precedente sistema costituzionale hanno adottato leggi
ampiamente derogatorie alla disciplina statale, soprattutto in merito alla
trattativa privata, escutibile in ragione del solo criterio economico per
importi ben superiori a quelli (finalmente) fissati al medesimo fine dalla
riforma della legge 109/1994.
Si
tratta di disposizioni per lo più organizzative, in parte, è vero, poste alla
salvaguardia della concorrenza.
Ma,
in questo caso, non è tanto la tutela della concorrenza per il mercato o nel
mercato che viene disciplinata, quanto l'applicazione del principio
dell'evidenza pubblica, tratto dalle previsioni dell'articolo 97 della
Costituzione in merito all'imparzialità ed al buon andamento
dell'amministrazione.
Inoltre,
gran parte della disciplina delle modalità di gara proviene anche dalla
normativa comunitaria, vincolante tanto per lo Stato, quanto per le regioni.
Dunque, non pare di poter ricondurre il complesso normativo delle modalità e
procedure di gara alla potestà legislativa esclusiva dello stato per solo
effetto della sua esclusiva competenza in materia di tutela della concorrenza.
Al
contrario deve concludersi per quanto riguarda le varianti e la disciplina
economica (articoli 25 e 26), in quanto nel secondo caso siamo in piena
regolamentazione – derogatoria – di diritto civile delle reciproche
obbligazioni dell'amministrazione appaltante e dell'appaltatore.
Anche
l'articolo 25 incide direttamente sul diritto privato, in quanto stabilisce in
modo peculiare per gli appalti pubblici la disciplina delle varianti al
contratto.
Per
quanto riguarda la direzione dei lavori (articolo 27), ad esclusione del
riferimento ai beni culturali, vale quanto già detto con riferimento
all'articolo 7, trattandosi di norma di organizzazione delle funzioni.
L'articolo
28, riguardante il collaudo, contiene una disciplina mista tanto di diritto
strettamente privato, visto che il collaudo è elemento essenziale di
regolamentazione del rapporto contrattuale, quanto di diritto pubblico, nella
definizione delle modalità procedurali e della composizione dell'organo
procedente.
In
questo caso, la configurazione più corretta e rispettosa del dettato
costituzionale appare un'attenta normazione-mosaico composta dalla legge statale
e dalle leggi regionali.
La
disciplina della pubblicità, contenuta nell'articolo 29, sta a metà tra la
tutela della concorrenza e l'organizzazione delle funzioni.
A
ben vedere, però, in questo caso la tutela della concorrenza apparirebbe
impropriamente richiamata, giacchè la norma intende favorire la maggiore
conoscibilità possibile delle gare, che è un aspetto marginale della
disciplina della concorrenza, ma fondamentale della procedura amministrativa, ai
sensi dell'articolo 97 della Costituzione. Insomma, la tutela della concorrenza
non pare possa esaurirsi nella pubblicità, che è invece elemento
caratteristico dell'azione amministrativa, anche a mente dell'articolo 1, comma
1, della legge 241/1990.
Per
altro, parte della disciplina in questione è di fonte comunitaria, dunque
vincolante sia per lo Stato che per le regioni, le quali sembra dispongano, in
merito, di potestà legislativa propria.
Non
così per quanto riguarda garanzie ed assicurazioni (articolo 31), materie
proprie della disciplina dell'ordinamento civile.
L'articolo
31, riguardante i piani di sicurezza, certamente ricade nella competenza
legislativa statale riguardante la sicurezza del lavoro, che è, però,
competenza concorrente. Dunque, l'attuale stesura dell'articolo che dettaglia
anche proceduralmente la stesura dei piani e la loro disciplina attuativa, può
essere riscritta dalle leggi regionali, nel rispetto dei principi traibili
dall'articolo 31.
Il
contenzioso (articoli 31-bis e 32) va
considerato correttamente disciplinato dalla legge dello Stato, in quanto
sistema di definizione arbitrale delle controversie e, pertanto, attratto nella
competenza della legge statale in merito alla giurisdizione ed alle norme
processuali.
Non
si discute sulla competenza dello Stato in merito all'articolo 33 (segretezza).
Il
subappalto, per le chiare refluenze nell'ordinamento civile e penale, pare possa
essere legittimamente disciplinato dalla legge dello Stato.
Lo
stesso vale per le fusioni e conferimenti (art. 35) e trasferimento e affitto di
azienda ( art. 36), materie tipiche dell'ordinamento civile.
Per
quanto riguarda la gestione delle casse edili, regolamentata dall'articolo 37,
l'intervento legislativo dello Stato è da ritenere corretto, in relazione alla
competenza esclusiva in materia di previdenza sociale.
Come
si è tentato di verificare, la normativa sugli appalti è estremamente
complessa ed ognuna delle materie sinteticamente qui trattate, merita
approfondimenti ulteriori, che non potranno, comunque, fare a meno di tenere
conto delle pronunce che la Consulta da qui a poco comincerà ad elaborare.
(1)
Si veda in merito, L. Oliveri, Ancora
sulla riforma della legge 241/1990 in rapporto alla legge costituzionale 3/2001,
in www.giustamm.it, n. 3-2002, pag. http://www.giustamm.it/private/articoli/oliveri_rif241-90.htm.
Sulla riforma del Titolo V della Costituzione v. l'apposita pagina nella sezione degli approfondimenti.