CORTE COSTITUZIONALE – Sentenza 3 luglio 2002 n. 306 – Pres. RUPERTO, Red. MEZZANOTTE – (giudizio promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, notificato il 2 novembre 2001, depositato in cancelleria il 12 successivo ed iscritto al n. 37 del registro conflitti 2001).
Regioni - Autonomia regionale - Potere di denominare i Consigli regionali con la dizione "Parlamento" - Non sussiste - Delibera adottata dal Consiglio regionale della Regione Marche il 25 settembre 2001 recante "Consiglio regionale - Parlamento delle Marche"- Illegittimità
.E’ costituzionalmente illegittima la deliberazione legislativa statutaria del Consiglio regionale della Regione Marche adottata, in seconda votazione, il 25 settembre 2001 e recante "Consiglio regionale - Parlamento delle Marche", con la quale si dispone che in tutti gli atti ufficiali della Regione alla dizione "Consiglio regionale" venga affiancata quella di "Parlamento delle Marche" ed alla dizione "Consigliere regionale" quella di "Deputato delle Marche".
Così come in precedenza affermato (v. Corte Cost, sentenza 12 aprile 2002 n. 106), infatti, la Costituzione fa divieto ai Consigli regionali, di fregiarsi del nome Parlamento e la peculiare forza connotativa della parola impedisce ogni sua declinazione intesa a circoscrivere in ambiti territorialmente più ristretti quella funzione di rappresentanza nazionale che solo il Parlamento può esprimere e che è ineluttabilmente evocata dall’impiego del relativo nomen.
Non vale a superare la cogenza di tale divieto, desumibile dagli articoli 55 e 121 della Costituzione, la constatazione che la delibera del Consiglio regionale della Regione Marche, a differenza di quella che costituì oggetto di scrutinio nella menzionata sentenza n. 106 del 2002, presenti la forma della legge statutaria. Anche gli statuti regionali, infatti, ai sensi dell’articolo 123, primo comma, della Costituzione, sono astretti dal limite della armonia con la Costituzione, che, come c'è stato chiarito (v. Corte Cost., sentenza 3 luglio 2002 n. 304), lungi dal consentire deroghe alla lettera delle singole prescrizioni costituzionali, vincola le Regioni a rispettarne anche lo spirito.
SENTENZA N.306
ANNO 2002
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Cesare RUPERTO Presidente
- Riccardo CHIEPPA Giudice
- Gustavo ZAGREBELSKY "
- Valerio ONIDA "
- Carlo MEZZANOTTE "
- Fernanda CONTRI "
- Guido NEPPI MODONA "
- Piero Alberto CAPOTOSTI "
- Annibale MARINI "
- Giovanni Maria FLICK "
- Francesco AMIRANTE "
- Ugo DE SIERVO "
- Romano VACCARELLA "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio per conflitto di attribuzione sorto a seguito della deliberazione legislativa statutaria del Consiglio regionale della Regione Marche adottata, in seconda votazione, il 25 settembre 2001 e recante "Consiglio regionale - Parlamento delle Marche", promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, notificato il 2 novembre 2001, depositato in cancelleria il 12 successivo ed iscritto al n. 37 del registro conflitti 2001.
Visto l’atto di costituzione della Regione Marche;
udito nell’udienza pubblica del 7 maggio 2002 il Giudice relatore Carlo Mezzanotte;
uditi l’avvocato dello Stato Ignazio F. Caramazza per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Stefano Grassi per la Regione Marche.
Ritenuto in fatto
1. — Il Presidente del Consiglio dei ministri ha proposto ricorso, denominato conflitto di attribuzione, in riferimento agli articoli 1, 5, 55, 114, 115 (articolo abrogato dall’art. 9, comma 2, della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), 121 e 123 della Costituzione, avverso la deliberazione legislativa statutaria del Consiglio regionale della Regione Marche adottata, in seconda votazione, il 25 settembre 2001 e recante "Consiglio regionale - Parlamento delle Marche", nella quale si dispone che in tutti gli atti ufficiali della Regione alla dizione "Consiglio regionale" venga affiancata quella di "Parlamento delle Marche" e alla dizione "Consigliere regionale" quella di "Deputato delle Marche".
L’Avvocatura dello Stato contesta in primo luogo la possibilità di impiegare il procedimento previsto dall’art. 123 della Costituzione per apportare modifiche parziali allo statuto regionale approvato con legge statale. L’art. 123 della Costituzione, si argomenta, attribuisce al legislatore regionale la potestà di approvare e modificare lo statuto, e da ciò dovrebbe desumersi che sia bensì consentito approvare un nuovo statuto organico, salva successiva sua modifica, ma non emendare lo statuto vigente e dare vita, con ciò, ad un testo statutario "misto".
Nel merito, il ricorrente lamenta che il cambiamento di denominazione dell’organo rappresentativo regionale, sia pure solo in via aggiuntiva, lederebbe attribuzioni statali costituzionalmente garantite. La denominazione "Parlamento", secondo l’Avvocatura, assumerebbe particolare pregnanza nell’ordinamento costituzionale italiano, nel quale la posizione eminente dell’organo rappresentativo del popolo rifletterebbe la sovranità popolare che esso rappresenta ed esprime. La locuzione "Consiglio regionale", con la quale la Costituzione designa l’organo rappresentativo della Regione e che è stata di recente ribadita dalla legge costituzionale 22 novembre 1999, n. 1 (Disposizioni concernenti l’elezione diretta del Presidente della Giunta regionale e l’autonomia statutaria delle Regioni), individuerebbe, al contrario, la titolarità di poteri di autonomia, che, per quanto si vogliano dilatare, non possono mai assurgere alle dimensioni della sovranità. Secondo la difesa del Presidente del Consiglio dei ministri la delibera impugnata, intitolando l’organo rappresentativo regionale con lo stesso appellativo spettante alle Camere ed attribuendo ai suoi membri la qualifica di "deputato", si arrogherebbe, in definitiva, la titolarità di un potere sovrano che spetta soltanto alla Repubblica, una e indivisibile.
2. — Si è costituito, per la Regione Marche, il Presidente della Giunta regionale e ha chiesto che il ricorso statale venga rigettato.
In via preliminare la difesa della Regione nega che l’art. 123 ammetta solo la approvazione di un testo statutario organico, sul rilievo che ciò significherebbe svalutare l’autonomia statutaria regionale, la quale, così come potrebbe essere esplicata in pieno con l’approvazione di uno statuto interamente nuovo, allo stesso modo potrebbe essere esercitata anche per approvare norme che lo emendino solo parzialmente.
Nel merito della censura principale, la Regione Marche osserva come le addizioni lessicali introdotte dalla deliberazione statutaria oggetto di conflitto intendano esprimere con immediatezza il rapporto che intercorre tra le assemblee elettive regionali ed il corpo elettorale. Le Regioni, infatti, sarebbero espressione di comunità intermedie nelle quali si sviluppa la personalità dell’uomo e concorrerebbero alla crescita del pluralismo sociale, nella cornice di una Repubblica che è una e indivisibile, «ma che è tale in quanto risultato, e non mero presupposto, del pluralismo istituzionale e delle istanze di autonomia che ne caratterizzano il tessuto democratico». L’intuizione dei Costituenti, secondo la quale la democraticità del sistema dipenderebbe dalla capacità di promuovere e sviluppare forti autonomie locali, avrebbe trovato una attuazione coerente nelle recenti riforme costituzionali improntate ad un potenziamento delle autonomie regionali. In particolare, per effetto delle leggi costituzionali n. 1 del 1999 e n. 3 del 2001, il ruolo del Consiglio regionale sarebbe stato fortemente accresciuto, così da giustificare la innovazione statutaria che intende designarlo con il nomen di Parlamento.
Del resto, continua la Regione, l’addizione lessicale di cui è questione è stata introdotta con una deliberazione legislativa statutaria che trova fondamento nell’art. 123, primo comma, della Costituzione, là dove si conferisce alla Regione la potestà di determinare, "in armonia con la Costituzione", la propria forma di governo ed i principî fondamentali di organizzazione e funzionamento. E poiché l’armonia con gli statuti dovrebbe sussistere rispetto ai principî costituzionali, così da lasciare spazio ad un’autonoma capacità di interpretazione degli stessi da parte della Regione, la scelta di affiancare il termine Parlamento a quello di Consiglio regionale sarebbe perfettamente legittima, perché essa non metterebbe in discussione il sistema organizzativo definito dalla Costituzione, ma semmai ne svilupperebbe i principî ispiratori. Verrebbe in rilievo, segnatamente, il principio di unità, il quale, secondo la difesa regionale, non dovrebbe essere inteso in senso statalistico come «esigenza di necessaria coerenza dell’ordinamento giuridico o come individuazione di un’unica sede in cui fissare la volontà generale, rispetto alla quale gli altri organi pubblici abbiano un mero compito di specificazione». Al contrario l’unità e indivisibilità della Repubblica non imporrebbero l’uniformità, ma sarebbero dirette a limitare le degenerazioni del pluralismo e ad evitare che esso trasmodi in separatismo e secessionismo. L’unità andrebbe infatti ricomposta intorno agli obiettivi posti dagli articoli 2 e 3 della Costituzione: garantire la dignità e il pieno sviluppo della persona umana e realizzare il principio di eguaglianza sostanziale, rimuovendo gli ostacoli che a tale sviluppo si oppongono. Le denominazioni di Parlamento delle Marche e Deputato delle Marche sarebbero, insomma, pienamente legittime, in quanto designerebbero, nel pluralismo delle articolazioni democratiche dell’ordinamento, un soggetto in grado di perseguire i fini unitari e di solidarietà additati dalla Costituzione e rappresenterebbero al contempo l’espressione di un concetto di autonomia più moderno, che non si risolve in un insieme di relazioni funzionali ed organiche, ma che esprime, in positivo, il modo di organizzarsi sul territorio della comunità che è rappresentata dal Consiglio regionale. Nel quadro così delineato, il Consiglio regionale rappresenterebbe il momento di autodeterminazione della collettività nell’esercizio dei poteri pubblici e dunque potrebbe legittimamente fregiarsi dell’appellativo di Parlamento.
3. — In prossimità dell’udienza la Regione Marche ha depositato una memoria illustrativa nella quale, preso atto della sentenza di questa Corte n. 106 del 2002, con cui è stato vietato al Consiglio regionale della Regione Liguria l’uso della denominazione "Parlamento", espone alcune eccezioni di inammissibilità del ricorso statale. Si osserva al riguardo che il Governo ha proposto ricorso in sede di conflitto di attribuzione, mentre l’art. 123 della Costituzione prevede quale forma di controllo dello statuto il promovimento di una questione di legittimità costituzionale. Inoltre, secondo la difesa della Regione Marche, l’art. 123, terzo comma, Cost. prevederebbe che il controllo di costituzionalità sulla legge statutaria avrebbe carattere successivo, in perfetta coerenza e simmetria con quanto dispone l’art. 127 Cost., con riguardo alle leggi regionali. Da ciò discenderebbe una ulteriore ragione di inammissibilità del ricorso governativo, poiché la legge oggetto del giudizio non è stata ancora promulgata e dunque l’iter formativo non si è ancora perfezionato.
Ad avviso della Regione Marche non sarebbe decisivo il rilievo che ad un intervento della Corte successivo al pronunciamento popolare si opporrebbero gravi ragioni di opportunità. Dovrebbe infatti considerarsi, da un lato, che il referendum è solo eventuale e che si sono già date ipotesi di giudizi della Corte su norme che avevano costituito oggetto di consultazione popolare referendaria; dall’altro, e soprattutto, che, in un sistema di giustizia costituzionale nel quale la Corte interviene post eventum, la collocazione infraprocedimentale del controllo, specie dopo l’abolizione del controllo preventivo sulle leggi regionali, rappresenta una deroga, che dovrebbe essere esplicitamente prevista e non dedotta dalla collocazione topografica delle disposizioni costituzionali.
Con riferimento al secondo motivo di ricorso, con il quale la difesa erariale assume che l’attribuzione al Consiglio regionale del nomen Parlamento integri una lesione del principio di sovranità popolare, la Regione riporta alcuni passi della sentenza n. 106 del 2002 dai quali risulterebbe inequivocabilmente come la sovranità nazionale non abbia la propria sede esclusiva nel Parlamento nazionale. La difesa della Regione soggiunge che l’art. 123 Cost. attribuisce alla potestà statutaria regionale la competenza a disciplinare la forma di governo e ritiene che in tale competenza dovrebbe considerarsi incluso il momento della individuazione e definizione degli organi regionali, ciò che implicherebbe la possibilità di attribuire a quelli previsti dalla Costituzione dizioni lessicali integrative rispetto agli attuali nomina iuris.
In quanto adottata nell’esercizio della potestà di determinazione della propria forma di governo, la deliberazione impugnata, argomenta ulteriormente la Regione, dovrebbe essere scrutinata in relazione al limite della armonia con la Costituzione e tale limite dovrebbe essere riferito alle scelte di fondo che ispirano la Carta, non anche all’osservanza puramente formale delle singole disposizioni costituzionali o alla mera corrispondenza terminologica tra testo costituzionale e statuto. In questa prospettiva, la delibera oggetto di conflitto, che adeguerebbe il nomen iuris dell’organo al suo ruolo istituzionale, non sarebbe orientata contro la Costituzione e quindi risulterebbe in armonia con essa.
L’atto oggetto del conflitto non sarebbe neppure lesivo del principio di rappresentanza politica posto dall’art. 67 della Costituzione, poiché valorizzerebbe la funzione di rappresentanza propria del Consiglio e dunque legittimamente impieghe-rebbe il termine Parlamento, per la parte in cui esso si riferisce alla sede esclusiva della rappresentanza politica, non solo nazionale, ma anche territoriale. L’art. 11 della legge costituzionale n. 3 del 2001 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), il quale stabilisce che «sino alla revisione delle norme del titolo I della parte seconda della Costituzione, i regolamenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica possono prevedere la partecipazione di rappresentanti delle Regioni, delle Province autonome e degli enti locali alla Commissione parlamentare per le questioni regionali», secondo la Regione, dovrebbe rendere chiaro che nella nozione "vivente" di Parlamento, quale risultante dalla rilettura del principio della rappresentanza politica alla luce della riforma del Titolo V della Parte II , l’istanza di rappresentanza nazionale convive con quella della rappresentanza territoriale. La deliberazione impugnata sarebbe perciò perfettamente legittima, in quanto affiderebbe proprio al profilo autonomistico della rappresentanza politica che è insito nella nozione di Parlamento il compito di colmare il divario tra il nomen dell’organo rappresentativo regionale e la sua funzione politico-istituzionale.
Considerato in diritto
1. ¾ Il Presidente del Consiglio dei ministri ha proposto ricorso, denominato conflitto di attribuzione, in riferimento agli articoli 1, 5, 55, 114, 115 (articolo abrogato dall’art. 9, comma 2, della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), 121 e 123 della Costituzione, avverso la deliberazione legislativa statutaria del Consiglio regionale della Regione Marche adottata, in seconda votazione, il 25 settembre 2001 e recante "Consiglio regionale - Parlamento delle Marche", nella quale si dispone che, in tutti gli atti ufficiali della Regione alla dizione "Consiglio regionale" venga affiancata quella di "Parlamento delle Marche" e alla dizione "Consigliere regionale" quella di "Deputato delle Marche".
2. ¾ La Regione ha eccepito preliminarmente la inammissibilità della impugnazione statale, per essere questa formulata in termini di "ricorso per conflitto di attribuzione", laddove l’art. 123, secondo comma, della Costituzione prevederebbe, quale mezzo di impugnazione degli statuti regionali, il promovimento di una questione di legittimità costituzionale.
L’eccezione non può essere accolta.
Giova premettere che questa Corte, nell’esercizio della facoltà che le compete di interpretare la natura degli atti introduttivi del giudizio, si è sempre attenuta a criteri contenutistici, che sono prevalsi, nella sua giurisprudenza, sull’analisi puramente esteriore; criteri che le hanno consentito di prescindere dalla autoqualificazione dell’atto e l’hanno spinta a verificare se esso presenti i requisiti necessari per un valido atto introduttivo, con riguardo sia alla individuazione dell’oggetto, sia alla attitudine a garantire il pieno svolgimento del diritto di difesa delle parti (sentenze n. 15 del 2002; n. 363 e n. 137 del 2001; n. 420, n. 321, n. 320, n. 82, n. 58, n. 56, n. 11 e n. 10 del 2000; ordinanze n. 264, n. 150 e n. 61 del 2000). Ebbene, l’intitolazione dell’atto introduttivo del presente giudizio come ricorso per conflitto di attribuzione non osta ad uno scrutinio di merito sulla legittimità costituzionale della deliberazione statutaria adottata dalla Regione Marche, giacché il ricorso, nonostante evidenti imprecisioni nominalistiche, deve essere interpretato come diretto a sollevare questione di legittimità costituzionale di una deliberazione statutaria introdotta nelle forme del giudizio in via di azione. Quale sia la funzione e la natura del ricorso risulta in maniera inequivoca dalle stesse premesse dell’atto in questione, là dove l’Avvocatura dello Stato sottolinea che quello presentato è "uno dei primi ricorsi proposti ai sensi dell’art. 123, comma secondo, periodo terzo, Cost., come sostituito dalla legge costituzionale 22 novembre 1999, n. 1" e sente l’esigenza di avvertire che in questa nuova "tipologia di controversie" deve trovare applicazione "salvo il diverso termine a ricorrere, l’art. 31, comma secondo, della legge 11 marzo 1953, n. 87", e cioè proprio la disposizione che regola l’impugnazione statale di leggi regionali.
Indicazioni diverse non si traggono dalla deliberazione del Consiglio dei ministri che ha autorizzato la proposizione del ricorso, la quale contiene la "determinazione di impugnare dinanzi alla Corte costituzionale la legge della Regione Marche recante Consiglio regionale-Parlamento delle Marche". Non se ne può certo desumere che il Governo intendesse autorizzare la proposizione di un conflitto di attribuzione anziché di un giudizio in via principale su legge. Ancor più eloquente, se possibile, è la relazione del dipartimento affari regionali allegata al verbale della riunione del Consiglio dei ministri ed espressamente da questo richiamata. In essa, in più punti, si identifica quale oggetto della sollecitata impugnazione governativa la legge statutaria e così si conclude: "nei confronti della legge in esame, pertanto, ai sensi dell’art. 123 della Costituzione, così come modificato dalla novella costituzionale n. 1 del 1999, viene promossa dal Governo la questione di legittimità costituzionale entro trenta giorni dalla sua pubblicazione".
Così chiarito che l’atto introduttivo va inteso come una impugnazione di legge statutaria ai sensi dell’art. 123, secondo comma, Cost., non può indurre in equivoco l’erronea autoqualificazione dell’atto, che non vale certo a trasformarlo in ciò che esso oggettivamente non è. Non resta allora che verificare, ai fini della ammissibilità del ricorso, se questo presenti i requisiti di legge per la proposizione delle questioni di legittimità costituzionale in via diretta.
La domanda formulata a questa Corte di dichiarare la lesività della deliberazione impugnata per violazione delle norme costituzionali indicate e la non spettanza al Consiglio regionale del potere di adottarla, con conseguente annullamento degli atti, al di là della formulazione del petitum, si risolve oggettivamente nella proposizione di una questione di legittimità costituzionale sulla deliberazione statutaria, della quale ha tutti i requisiti di forma e di sostanza.
Ai sensi dell’art. 34 della legge 11 marzo 1953, n. 87, i ricorsi che promuovono le questioni di legittimità costituzionale in via di azione (artt. 31, 32 e 33) devono contenere le stesse indicazioni prescritte dall’art. 23 della medesima legge per le ordinanze di rimessione, ovvero: le disposizioni della legge o dell’atto avente forza di legge dello Stato o di una Regione, viziate da illegittimità costituzionale, e le disposizioni della Costituzione o delle leggi costituzionali che si assumono violate. Nessuno di tali requisiti difetta nel ricorso oggi all’esame della Corte. È innanzitutto chiara la identificazione dell’atto che si assume viziato da illegittimità costituzionale, atto del quale espressamente si chiede, come generalmente accade in un ricorso in via di azione, l’annullamento. Sono inoltre precisati i parametri costituzionali che si assumono lesi. Si è pertanto in presenza di un ricorso governativo contro una legge statutaria.
Va soggiunto che il ricorso è stato proposto e depositato presso la cancelleria della Corte non nei più ampi termini previsti dagli artt. 39 e 41 della legge n. 87 per i conflitti di attribuzione fra Stato e Regioni, ma in quelli stabiliti dall’art. 123, secondo comma, della Costituzione per il promovimento della questione di legittimità costituzionale sullo statuto regionale (30 giorni dalla pubblicazione) e dall’art. 33, ultimo comma, della legge n. 87 del 1953 per il deposito del ricorso nel giudizio di legittimità costituzionale in via diretta (10 giorni dall’ultima notificazione).
3. ¾ Pure da respingere è la seconda eccezione di inammissibilità sollevata dalla Regione e fondata sull’argomento che, ai sensi dell’art. 123, secondo comma, della Costituzione, l’impugnazione governativa della legge statutaria non possa essere proposta prima che questa sia stata promulgata e pubblicata. Questa Corte ha avuto modo di chiarire che il termine per promuovere il controllo di legittimità costituzionale sugli statuti regionali "decorre dalla pubblicazione notiziale della delibera statutaria e non da quella, successiva alla promulgazione, che è condizione per l’entrata in vigore" (sentenza n. 304 del 2002). Anche sotto questo profilo il ricorso governativo deve essere pertanto ritenuto ammissibile.
4. ¾ Nel merito, la questione è fondata.
Nella sentenza n. 106 del 2002 questa Corte ha già affermato il divieto, imposto dalla Costituzione ai Consigli regionali, di fregiarsi del nome Parlamento, ponendo in risalto come la peculiare forza connotativa della parola impedisca «ogni sua declinazione intesa a circoscrivere in ambiti territorialmente più ristretti quella funzione di rappresentanza nazionale che solo il Parlamento può esprimere e che è ineluttabilmente evocata dall’impiego del relativo nomen». Non varrebbe a superare la cogenza di tale divieto, desumibile dagli articoli 55 e 121 della Costituzione, la constatazione che la delibera oggi in esame, a differenza di quella che costituì oggetto di scrutinio nella menzionata sentenza n. 106 del 2002, presenti la forma della legge statutaria. Anche gli statuti regionali, infatti, ai sensi dell’articolo 123, primo comma, della Costituzione, sono astretti dal limite della armonia con la Costituzione, che, come questa Corte ha già chiarito (sentenza n. 304 del 2002), lungi dal consentire deroghe alla lettera delle singole prescrizioni costituzionali, vincola le Regioni a rispettarne anche lo spirito.
5. ¾ Ugualmente fondata è la questione che ha ad oggetto la parte della delibera impugnata diretta ad affiancare alla dizione di consigliere regionale quella di "Deputato delle Marche". In quest’ambito non vi è vuoto di denominazioni costituzionali, sicché possa liberamente procedersi ad applicazioni analogiche. Con riferimento alle Regioni, solo i membri dell’Assemblea siciliana sono identificati con il nome di "deputati", ma ciò in forza della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 2, che ha convertito in legge costituzionale le corrispondenti disposizioni dello statuto approvato con regio decreto legislativo 15 maggio 1946, n. 455 (3, 5, 6, 7, 8-bis, 9, 11, 12 e 42). Si tratta, all’evidenza, di disciplina del tutto eccezionale che si spiega per ragioni storiche anche a causa dell’anteriorità dello statuto rispetto alla Costituzione repubblicana e che non può essere invocata per ricavarne la facoltà di utilizzare il nome deputato in sede regionale. Per tutte le Regioni, infatti, il nomen consigliere, imposto dalla Costituzione (artt. 122, primo e quarto comma) e dalle corrispondenti norme degli statuti speciali (fra gli altri, artt. 24, 25, 28 e 43 della legge cost. n. 5 del 1948 - statuto speciale per il Trentino-Alto Adige; artt. 24 e 25 legge cost. n. 4 del 1948 - statuto speciale per la Valle d’Aosta; artt. 24 e 25 legge cost. n. 3 del 1948 - statuto speciale per la Sardegna; artt. 13, 14, 15, 16 e 17 legge cost. n. 1 del 1963 - statuto speciale per la Regione Friuli-Venezia Giulia) non è modificabile né integrabile con quello di deputato, al quale diverse disposizioni della Costituzione (artt. 55, 56, 60, 65, 75, terzo comma, 85, secondo comma, 86, secondo comma, 96 e 126) annettono carattere connotativo, al punto da identificare per suo tramite una delle due Camere di cui il Parlamento si compone. Da ciò il duplice divieto, per i Consigli regionali, di attribuire a sé il nome di Parlamento e di identificare i propri membri con quello, che possiede non minore forza evocativa, di "deputato".
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale della deliberazione legislativa statutaria del Consiglio regionale della Regione Marche adottata, in seconda votazione, il 25 settembre 2001 e recante "Consiglio regionale - Parlamento delle Marche".
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 giugno 2002.
F.to:
Cesare RUPERTO, Presidente
Carlo MEZZANOTTE, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 3 luglio 2002.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: DI PAOLA