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CORTE DEI CONTI, SEZ. II GIURISDIZIONALE CENTRALE D’APPELLO - Sentenza 5 dicembre 2002 n. 358 - Pres. De Pascalis, Est. Pisana - P. M. Tranchino c/ A. A., E. F. D., A. E., B. M. E. (Avv.ti O. Cifalitti e F. Sorrentino) - (conferma sezione Lazio del 23.2.1998, n. 22/R).

1. Giudizio di responsabilità amministrativa – Amministratori enti locali - Opposizione a decreto ingiuntivo  - Proposta in assenza di ragionevoli dubbi sull’esistenza del diritto – Colpa grave – Sussiste – Iniziativa giudiziaria – Discrezionalità – Non sussiste a fronte di debito certo nell’an e nel quantum.

2. Giudizio di responsabilità amministrativa – Amministratori enti locali – Debiti contratti dall’ente locale – Pagamento interessi passivi – Danno erariale – Sussiste – Somme non pagate ai creditori – Produttive di interessi per l’amministrazione – Irrilevanza.

1. Costituisce un comportamento gravemente colposo per gli amministratori di un ente locale opporsi a un decreto ingiuntivo ottenuto da una ditta che aveva effettuato lavori per lo stesso ente in assenza di ragionevoli dubbi sull'esistenza e/o la consistenza di un diritto od obbligo che il comune aveva invece il dovere di soddisfare, tenuto conto, altresì, che ogni eventuale dubbio non era stato nemmeno fugato con un semplicissimo riscontro contabile.

Non sussiste alcuna invasione, da parte del giudice, della sfera di discrezionalità degli amministratori, quando si contesta a costoro un’iniziativa giudiziaria diretta a contrastare il diritto di un creditore dell’amministrazione certo nell'an e nel quantum, perché in tal caso il pagamento del debito, da parte dell’amministrazione, è assolutamente un atto dovuto che non lascia margini di apprezzamento discrezionale.

2. Il pagamento di interessi passivi su debiti contratti dall’ente locale costituisce danno erariale, in quanto l’ente locale provvede al soddisfacimento dei bisogni attingendo a un complesso di risorse sempre rinnovantisi, e queste risorse costituiscono normalmente un coacervo indifferenziato, col quale si provvede alla spesa secondo le indicazioni e le priorità di bilancio (principio della unità o unitarietà del bilancio), sicché non è concettualmente possibile seguire le sorti della entità di denaro non pagata per uno scopo, e mettere a comparazione il beneficio eventualmente con essa perseguito e il danno derivante dal successivo pagamento di interessi ed oneri aggiuntivi.

Commento di

MASSIMO PERIN

Ancora sulla discrezionalità degli amministratori degli enti locali
ad avviare iniziative giudiziarie per contrastare le giuste pretese creditorie.

La sentenza in rassegna, con una breve ed efficace motivazione, indica agli amministratori quale sia la corretta via per avviare un’iniziativa giudiziaria a tutela degli interessi dell’ente locale, senza incorrere in una gestione irragionevole e foriera di danni per le finanze dell’amministrazione, quali sono i costi per gli interessi e le spese legali sostenuti per un contenzioso.

Nel caso specifico, gli amministratori di un comune, a fronte di un decreto ingiuntivo, richiesto da un creditore dell’ente, decidevano di opporvisi, senza avere prima valutato con attenzione la consistenza o meno di ogni ragionevole dubbio sull’esistenza del diritto azionato dal creditore.

Poiché il comune aveva il dovere di soddisfare il credito in parola, essendo relativo a lavori effettuati per l’amministrazione, la Sezione Lazio prima e la Sezione centrale d’appello dopo, hanno affermato la responsabilità, per colpa grave, del danno prodotto dagli amministratori che, opponendosi al decreto ingiuntivo, hanno esposto l’ente pubblico ai costi per gli interessi passivi sul credito insoddisfatto e per le spese processuali.

Gli amministratori, convenuti nel giudizio di responsabilità amministrativa, avevano eccepito al P.M. procedente la discrezionalità della scelta dell’iniziativa giudiziaria, con la conseguenza che essa non poteva essere valutata dal giudice, perché attività libera e riservata, da considerare immune da ogni possibile invasione da parte del giudice medesimo.

Inoltre, era stata eccepita anche l’assenza di danno, perché le somme non versate al creditore dell’amministrazione, una volta rimaste in bilancio, sarebbero state produttive di interessi.

Ambedue l’eccezioni sono state respinte e, nell’occasione, la Sezione d’appello ha indicato, con motivazione convincente, quale è il confine della scelta discrezionale, rientrante nel cd. merito amministrativo, che non può essere superato dalla valutazione del giudice senza incorrere nella violazione della regola dell’insindacabilità di cui all’art. 1 della legge n. 20 del 1994, come modificata dalla legge n. 639 del 1996.

In merito alla regola dell’insindacabilità delle scelte discrezionali degli amministratori e/o dipendenti pubblici la Suprema Corte [1] ha avuto modo di affermare che «il discrimine tra sindacabilità ed insindacabilità delle opzioni possibili nell’ambito dell’attività amministrativa è assai sottile» e, inoltre, è necessario «contemperare due esigenze, ambedue meritevoli di tutela ma talora divergenti, come l’esigenza di impedire e/o sanzionare la dissipazione del pubblico danaro e la necessità di non ingessare l’iniziativa dei pubblici amministratori in confini così angusti da paralizzare o, quanto meno, gravemente condizionarne l’attività». Da ciò discende che deve essere riconosciuto in capo al giudice contabile il potere di verificare in astratto la compatibilità delle scelte dell’amministrazione con le finalità pubbliche dell’ente, ma «una volta accertata tale compatibilità, l’articolazione concreta e minuta dell’iniziativa intrapresa dall’amministratore rientra nell’ambito di quelle scelte discrezionali per le quali il legislatore ha stabilito l’insindacabilità…».

Orbene, come ricordato dalla sentenza che si commenta, il ricorso alla tutela giudiziaria da parte dell’amministrazione, per il collegio giudicante, non potrebbe mai costituire un comportamento colpevole, in quanto qui iure suo utitur non facit iniuriam; di conseguenza non può esservi alcun dubbio sulla legittimità del ricorso alla tutela giudiziaria, in presenza di ragionevoli dubbi sull'esistenza e/o la consistenza di un diritto od obbligo; quest’ultimo aspetto rimane, poi, indipendente dall’esito del giudizio azionato, sul quale incidono, com’è noto, altri fattori come la capacità dell’avvocato e l’interpretazione che viene data al fatto dal giudice.

Solo che la ragionevolezza di un’iniziativa giudiziaria viene meno, come nel caso in questione, perché sono presenti evidenti indizi di dissipazione del pubblico denaro, in quando non sussiste alcun dubbio sulla fondatezza della pretesa creditoria della ditta che aveva effettuato una prestazione contrattuale per conto dell’ente pubblico. La fondatezza del credito vantato poteva essere, altresì, fugata con un semplicissimo riscontro contabile (ad esempio la verifica della presentazione della fattura, la valutazione della regolarità della prestazione effettuata da parte dell’ufficio competente, la regolare ordinazione dei lavori etc…), ma anche tale prudente attività, indispensabile prima di avviare una qualsiasi azione giudiziaria nei confronti del creditore, era stata omessa.

Da ciò emerge un palese scostamento dal perseguimento dell’interesse pubblico, perché se da un lato è consentito, anzi in molti casi è doveroso, all’amministrazione intraprendere iniziative giudiziarie, dall’altro deve essere sanzionata, con l’addebito della responsabilità amministrativa, quell’azione giudiziaria infondata e che non sia sorretta da un’adeguata valutazione della posizione dell’ente pubblico in ordine al contenzioso cui si vuol dare corso [2].

Sul punto la giurisprudenza [3] contabile aveva già avuto modo di affermare che la decisione «degli amministratori o dei dirigenti degli enti locali di opporsi o non opporsi ad un decreto ingiuntivo, o di impugnare o non impugnare una sentenza, deve ritenersi una scelta discrezionale, e – come tale – non sindacabile, nel merito, da parte del giudice contabile se non nelle ipotesi di manifesta irragionevolezza, ovvero nelle ipotesi di manifesta infondatezza o pretestuosità, atteso che non esiste una regola fissa in ordine al comportamento che gli amministratori devono assumere nei confronti degli atti ingiuntivi di pagamento, dovendosi valutare di volta in volta l’opportunità e la ragionevolezza della opposizione, o della acquiescenza, al provvedimento ingiuntivo in relazione alla fondatezza della pretesa creditoria posta a base dello stesso».

La stessa dottrina [4], poi, ha messo in evidenza che una delle innovazioni più significative introdotte dalla legge n. 639 del 1996 è l’insindacabilità, da parte del giudice contabile, delle scelte discrezionali degli amministratori e dei dirigenti delle amministrazioni pubbliche.

Questa innovazione, secondo la predetta impostazione, ristabilirebbe le giuste regole per assicurare «la certezza delle funzioni dell’esercizio amministrativo», impedendo al giudice di sostituirsi all’amministrazione nel riconsiderare le scelte amministrative legittimamente fatte [5].

Questo orientamento, condivisibile nelle sue linee guida e di principio, deve essere, però, precisato e riportato all’interno di quella che deve essere la corretta definizione di discrezionalità amministrativa, la quale non può essere superata da qualunque giudice, fatte salve le ipotesi di eccesso di potere e di violazione dei limiti posti dal perseguimento dell’interesse pubblico, al fine di evitare lo sconfinamento del potere giudiziario nell’area riservata al potere amministrativo.

L’espressione discrezionalità, com’è noto, rinvia a un’attività soggettiva di ponderazione di interessi diretta al miglior perseguimento degli obiettivi e degli scopi pubblici assegnati all’amministrazione [6].

Nella ponderazione degli interessi vi è un’attività di scelta, in assenza della quale esisterebbe solo attività vincolata [7], dove la scelta è finalizzata al soddisfacimento dell’interesse pubblico stabilito dal legislatore [8].

Questo comporta che l’agire amministrativo non può mai essere del tutto libero, dal momento che si pone come attività necessariamente funzionale, finalizzata, quindi, alla cura di interessi pubblici previamente determinati dal legislatore.

L’attività discrezionale si distingue poi dal libero agire politico, il quale è svincolato da parametri di riferimento che non siano quelli del rispetto dei vincoli costituzionali [9], tenuto conto che nell’attività politica viene in rilievo il momento della predisposizione delle regole (nel rispetto della Costituzione) che poi guideranno in concreto l’azione della pubblica amministrazione.

Ciò premesso e tenuto conto che il dovere primario di ogni pubblico amministratore è quello di perseguire il solo interesse pubblico nel rispetto delle regole poste dal buon andamento della p.a. (art. 97 Cost.), anche le eventuali scelte, in materia di contenzioso giudiziario, possono essere valutate dal giudice contabile per verificare se le stesse abbiamo quel minimo di ragionevolezza e opportunità per la coltivazione dell’interesse pubblico.

Infatti, sul punto si deve ricordare la posizione assunta dalla giurisprudenza amministrativa [10], la quale sostiene che la regola del buon andamento comporta anche il corretto uso delle risorse finanziarie dell’ente pubblico (alimentate dai flussi tributari), nonché la legge n. 241 del 1990 che impone il rispetto dei criteri di economicità e di efficacia (art. 1).

Né, d’altra parte, l’intangibilità della sfera discrezionale può essere intesa fino al punto di consentire agli amministratori di dissipare i soldi dei cittadini in iniziative giudiziarie estemporanee e poco meditate, perché i costi di queste finiscono solo per essere sopportati dai contribuenti, dal momento che, come detto dal Consiglio di Stato [11] non esiste un soggetto terzo, rispetto alla comunità dei cittadini – contribuenti, al quale l’amministrazione potrebbe far gravare le spese pubbliche.

La dottrina più attenta [12] ha messo in evidenza che, in tema di scelte discrezionali, il giudice deve limitarsi a una valutazione di razionalità e congruità dei comportamenti, dove la valutazione deve essere effettuata (ex ante e non ex post) in relazione al momento in cui gli amministratori hanno operato e tenuto conto delle esigenza che, in concreto, si ponevano. Resta fermo, ma anche ovvio, che la responsabilità conseguente al sindacato sulle scelte discrezionali deve essere vincolata alla presenza di un comportamento caratterizzato da colpa grave [13].

Un’attenta giurisprudenza [14] ha richiamato, in materia di insindacabilità delle scelte discrezionali, l’assunto che, per quanto ampia possa essere la discrezionalità amministrativa, essa incontra pur sempre tre limiti fondamentali insuperabili «costituiti rispettivamente dall’interesse pubblico, dalla causa del potere e dai comuni precetti di logica e imparzialità».

Conseguentemente, il principio dell’insindacabilità delle scelte discrezionali non potrà mai essere inteso come la possibilità di travalicare i predetti limiti che, ovviamente, segnano il necessario confine tra la più ampia discrezionalità e l’arbitrio [15], dal quale ci si deve difendere (per mantenere lo Stato di diritto) attraverso un adeguato trattamento sanzionatorio – rappresentato dal sistema della responsabilità amministrativa - dei comportamenti scorretti degli amministratori e/o agenti pubblici se si vogliono evitare i danni prodotti da fenomeni di sopruso amministrativo, i quali oltre a produrre danni finanziari, allontanano i cittadini dalle istituzioni [16].

Vi è da dire che la giurisprudenza [17] ha messo in evidenza che, in determinate situazioni, considerate comunque eccessive, può non essere ravvisata la colpa grave degli amministratori nella produzione delle spese per l’assistenza giudiziaria sostenute dall’ente pubblico in un contenzioso sorto con il privato a causa di una condotta eccessiva, ma non del tutto irrazionale, tenuta dall’amministrazione stessa.

Occorre dire che il confine tra misura eccessiva e atteggiamento irrazionale non è di facile individuazione, dal momento che, generalmente, le spese erogate per interessi, rivalutazione monetaria e rifusione dei costi legali non sono di alcuna utilità per l’amministrazione [18] e per le comunità amministrate.

Sul punto la giurisprudenza [19] ha ritenuto caratterizzato da colpa grave l’atteggiamento dilatorio tenuto da un sindaco e da un assessore nel disporre il pagamento dovuto a un professionista che aveva reso una prestazione a favore dell’ente locale. Quest’ultimo è poi rimasto soccombente nell’azione civile proposta dal creditore insoddisfatto, con la conseguenza che delle maggiori spese erogate, a causa dell’esito del giudizio (rifusione degli interessi, spese legali etc…), dall’amministrazione se ne dovevano far carico i predetti amministratori.

Certamente oggi è basilare da parte delle amministrazioni che, necessariamente, dovranno essere molto più attente sul fronte delle spese (tenuto conto dei vincoli di bilancio divenuti sempre più stringenti in ragione degli obblighi comunitari assunti dal paese) esaminare con molta attenzione la questione amministrativa a rischio di contenzioso, potendosi anche ipotizzare una sorta di dovere di conoscere la giurisprudenza [20], al fine di evitare di imbarcarsi in iniziative giudiziarie di sicura soccombenza, cosa che avviene, di regola, quando i creditori dell’ente pubblico che abbiano reso una regolare prestazione restino insoddisfatti, dal momento che le spese conseguenti ad esborsi aggiuntivi sono prive di una qualche utilità sia per l’ente locale e sia per la comunità amministrata [21].

Infine, per quanto attiene la seconda parte della massima, la sezione giudicante ha messo in evidenza che non è possibile ipotizzare una specie di compensazione tra gli interessi passivi pagati a seguito della condanna e gli (improbabili) interessi attivi conseguiti con il mantenimento delle somme in bilancio.

In realtà, una tale ipotesi è assai improbabile, in considerazione del fatto che gli enti locali, come quasi tutti gli enti pubblici, sono vincolati a tenere le proprie disponibilità in conti correnti infruttiferi ovvero in conti che fruttano interessi a un tasso indicato dal Ministero del tesoro (oggi dell’economia delle finanze) in misura minore di quello di mercato [22].

A questo si deve aggiungere che una tale ipotesi contrasterebbe con le buone regole di gestione di un bilancio pubblico, perchè così si avrebbe un'esposizione a fatti che rimangono, comunque, incerti, quali sono le eventuali richieste di risarcimento per interessi e spese che, però, si potrebbero compensare, secondo quanto eccepito dai responsabili del danno, con la maggiore disponibilità di denaro da parte dell'ente locale [23].

Giustamente la sezione giudicante ha affermato che l’ente locale provvede al soddisfacimento dei bisogni attingendo a un complesso di risorse sempre rinnovantisi, e queste risorse costituiscono normalmente un coacervo indifferenziato, col quale si provvede alla spesa secondo le indicazioni e le priorità di bilancio (principio della unità o unitarietà del bilancio), con la conseguenza che non è concettualmente possibile seguire le sorti della entità di denaro non pagata per uno scopo, e mettere a comparazione il beneficio eventualmente con essa perseguito e il danno derivante dal successivo pagamento di interessi ed oneri aggiuntivi.

Opinare diversamente vuol dire anche discostarsi dai principi che sorreggono l’ordinamento finanziario e contabile degli enti locali, con particolare riferimento agli artt. 151 e 162 del T.U. n. 267 del 2000, dove viene imposto, per gli enti locali, il rispetto dei principi di unità, annualità, universalità ed integrità, veridicità, pareggio finanziario e pubblicità del bilancio.

Del tutto improprio era, infatti, il richiamo alla cd. «compensatio lucro cum damno» da un lato perchè l’inutilità della spesa (quale è quella per interessi e costi legali) esclude in radice che possa essere valutato il vantaggio conseguito dall’amministrazione in relazione al comportamento di un pubblico amministratore [24] e, dall’altro, perchè colui che eccepisce la compensatioI deve fornire di questa prova adeguata e convincente [25], dimostrando che il danneggiato e, dunque, la p.a. abbia lucrato come conseguenza immediata e diretta dall’illecito subito e con attinenza al bene o all’interesse leso [26].

Infatti, sul punto la giurisprudenza [27] ha avuto modo di affermare che i vantaggi fruiti dalla collettività amministrata, di cui va tenuto conto, ai sensi dell’art. 1 bis della legge n. 20 del 1994 (come modificata dalla legge n. 639/1996), devono essere una conseguenza immediata e diretta dello stesso fatto generatore dell’addebito contestato e devono tradursi in concreti ed accertabili benefici economici per l’amministrazione o per la collettività.

 

 

[1] Cassazione, Sezioni unite civili, sent. 19 ottobre 2000-29 gennaio 2001, n. 33.

[2] Da segnalare che la dottrina civilistica, a proposito della lite temeraria, sanzionata dall’art. 96 del c.p.c., parla di un abuso del diritto, che si caratterizza come un uso eccessivo dello stesso, specialmente quando il diritto viene usato per arrecare danno a terzi, cfr. G. Alpa, Istituzioni di diritto privato, Torino, 1994, pag. 190.

[4] T. Miele, G. Viciconte, Le responsabilità degli amministratori e dei dipendenti degli enti locali, ed. Il Sole 24 Ore, 2001, pag. 193 e segg.

[5] Analogo discorso può essere fatto sia nei confronti del giudice penale e sia nei confronti del giudice amministrativo (n.d.r.).

[6] La discrezionalità è vista dalla dottrina come la scelta effettuata dall’amministrazione per la ponderazione comparativa di più interessi secondari in ordine a un interesse primario (quello assegnato all’amministrazione procedente), dove quest’ultimo è sempre un interesse pubblico. La discrezionalità è, altresì, l’agire libero della funzione e, dunque, perseguimento di interessi pubblici nell’ambito di una potestà, da intendere come posizione soggettiva fondamentale dell’ente pubblico caratterizzata dall’autorità necessaria per limitare le libertà dei singoli in ragione del perseguimento del bene comune (cfr. M.S. Giannini, Diritto amministrativo, vol. II, pagg. 51 e segg.). Occorre dire che le posizioni più avanzate della dottrina ritengono che la cd. discrezionalità pura, che «si compendia nella comparazione tra il pubblico interesse e gli interessi secondari è ormai alquanto rara…», così come è difficile, oggi, riconoscere ancora all’amministrazione il titolo originario di «professionista della cura di un pubblico interesse», cfr. F. Cintioli, Consulenza tecnica d’ufficio e sindacato giurisdizionale della discrezionalità tecnica, pag. web http://www.giurisprudenza.it/dottrina/documenti/doc10/Cap%201.htm. Sulle differenze tra sindacato sulla discrezionalità tecnica e sulla discrezionalità amministrativa cfr. C. Videtta, Discrezionalità tecnica: problemi vecchi e nuovi dopo la legge 21.7.2000, n. 205, in Foro amm. TAR, n. 6/2002, pag. 2251 e segg. , per la giurisprudenza cfr. Tar Lazio, II sez. n. 7258 del 19.8.2002, in Giustizia amm.va n. 4/2002, pag. 910 e pag. web www.giustamm.it/private/tar/tarlazio2_2002-08-19-1.htm e ancora Cons. Stato, sez. VI, n. 4094 del 6.8.2002 alla pag. web www.giustamm.it/private/cds/cds6_2002-08-06-2.htm dove si afferma che la discrezionalità tecnica della p.a. non è altro che un momento dell’esercizio del potere discrezionale amministrativo e il giudice amministrativo si può spingere fino a controllare l’attendibilità delle valutazioni tecniche, ma non a sostituirsi all’apprezzamento operato dall’amministrazione.

[7] F. Caringella, Corso di diritto amministrativo, 1993, tomo II, pag. 1087.

[8] F. Caringella, op. cit.

[9] F. Caringella, op. cit., pag. 1088.

[10] Cons. Stato, VI sez., 18.6.2002, n. 3325, Rassegna Cons. Stato, n. 5/6 del 2002, pag. 1309-1311.

[11] cfr. Cons. Stato n. 938 del 22.2.2001, in Foro amm., vol. 2/3 del 2001, pag. 309 e segg.

[12] cfr. F. Garri, I giudizi innanzi alla Corte dei Conti, Milano, 2000, pag. 141.

[13] Per la nozione di colpa grave si rinvia alla sentenza n. 340 del 24.10.2001 della Corte Costituzionale, in Giustizia amm.va, n. 11 del 2001, pag. 1223.

[14] Corte dei Conti, sez. Lazio, n. 3 dell’8.1.2002, in Riv. Corte dei Conti n. 1/2002, pag. 227. La Sezione d’appello Regione Sicilia, ha messo in evidenza che le scelte dell’amministrazione, nell’esercizio del suo potere discrezionale, possono essere sindacate solo quando siano violati i limiti dell’interesse pubblico, della causa del potere esercitato e del rispetto dei principi di logica e imparzialità.

[15] Sez. Lazio cit. , n. 3 dell’8.1.2002.

[16] A questo proposito giova rammentare che lo stesso Presidente del Consiglio, nel discorso reso a Palazzo Spada il 27 settembre 2001, in occasione dell’insediamento del Presidente del Consiglio di Stato, ha affermato che «l’amministrazione deve capire cosa deve fare per comportarsi correttamente. Questo compito spetta al magistrato» (vedi Cons. Stato n. 9/2001, pag. 1642, parte II), con la conseguenza che, quando la giurisprudenza (amministrativa e contabile) esercita il proprio sindacato sulla discrezionalità (annullando i provvedimenti illegittimi o sanzionando le condotte dannose degli agenti pubblici), indica all’amministrazione, almeno per il futuro, la giusta strada da percorrere per evitare un’azione amministrativa distante dalla legalità e foriera di sprechi e perdite economiche per i pubblici bilanci.

[17] Corte dei Conti, sez. II giur. d’appello, sent. del 14 settembre 2001,  in Giustizia amm.va, n. 12/2001, pag. 1358; nel caso di specie, l’ente locale aveva dato corso a un contenzioso giudiziario con i conduttori di immobili comunali, disdettando tout court il contratto di fornitura del gas metano con la società erogatrice del servizio. I conduttori dell’immobile avevano ottenuto, in sede cautelare, il ripristino del servizio e, nonostante, la misura della disdetta dell’utenza sia stata considerata eccessiva dal giudice, non rivestiva il carattere dell’irrazionalità, in virtù del fatto che nei rapporti di locazione, in genere, i contratti di utenza sono a carico dei conduttori e non dei proprietari dell’immobile.

[18] Cfr. Corte dei Conti, II sez. d’appello, n. 85/A del 18.3.2002, in Riv. Corte dei Conti, n. 2/2002, pag. 142 e n. 87/A del 18.3.2002 alla pag. 145 dello stesso fascicolo, dove il ritardo nel predisporre i mandati di pagamento e i relativi atti contabili costituisce una violazione di elementari doveri di servizio che cagionano l’ingiusto danno derivante dalla corresponsione da parte della p.a. degli oneri accessori dei crediti e della rifusione delle spese legali in favore dei creditori tardivamente soddisfatti.

[19] Corte dei Conti, II sez. d’appello, n. 238/A del 4.7.2001, in Riv. Corte dei Conti, n. 4/2001, pag. 91.

[20] Questo dovere inizia a diventare pregnante per l’amministrazione, dal momento che, la giurisprudenza amministrativa, esclude, ai fini della risarcibilità della lesione dell’interesse legittimo, la colpa grave quando non possano essere mosse censure sul piano della diligenza e della perizia, come nell’ipotesi in cui l’amministrazione non poteva contare su alcun riferimento giurisprudenziale, cfr. Cons. Stato, sez. VI, n. 4007 del 19.7.2002, in questa Rivista n. 7/8-2002.

[21] Corte dei Conti, II sez. d’appello, n. 114/A del 5.4.2002, in Riv. Corte dei Conti, n. 6/2002, pag. 160.

[22] Corte dei Conti, II sez. d’appello, n. 161/A del 7.5.2001.

[23] Diversa è l’ipotesi di alcune pronunce (Sez. Veneto n. 519 dell’11.10.1999, in Riv. Corte dei Conti n. 1/2000) dove si ammette la compensazione tra gli interessi attivi sulle giacenze di cassa e la detrazione dal danno per interessi passivi, quando la fattispecie di responsabilità nasce a seguito della ritardata restituzione, all’avente diritto, degli oneri di urbanizzazione in seguito alla mancata realizzazione dell’opera autorizzata. Infatti nel caso specifico si trattava di una ben determinata somma versata all’amministrazione che, una volta venuta meno la causa (realizzazione dell’opera), doveva essere restituita al versante.

[24] Così Sezione d’appello regione Sicilia, n. 110/A dell’8.6.2001, in Riv. Corte dei Conti n. 3/2001, pag. 150. La II Sezione centrale ha escluso, con la sent. n. 21/A del 12.1.2001, che possano essere ipotizzati vantaggi per l’amministrazione con il danno prodotto dalle retribuzioni versate al cd. funzionario putativo che abbia conseguito l’impiego pubblico con falsi titoli di studio, Riv. Corte dei Conti n. 1/2001, pag. 122.

[25] In questo senso si pongono la III sez. centrale, n. 311 del 10.11.2000, le SS,RR. n. 5 del 24.1.1997 e la Sez. Sicilia n. 77 dell’1.2.1999, dove l’onere di fornire la prova dell’utilità o del vantaggio offerti in compensazione del danno cagionato incombe al convenuto che tali fatti invochi. Invece si discosta da questo orientamento la sez. Campania con la sent. n. 129 dell’11.12.2001, dove si sostiene che la novella legislativa sui vantaggi conseguiti dall’amministrazione obbliga il giudice contabile a compiere la valutazione comparativa non incombendo alla parte convenuta o al P.M. alcun onere probatorio. Quest’ultima impostazione non convince, specialmente dopo la novella costituzionale dell’art. 111 che impone al giudice di rimanere terzo rispetto al contraddittorio tra le parti (n.d.r.).

[26] Cfr. F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 2000, pag. 630.

[27] Corte dei Conti sez. Emilia Romagna, n. 874 del 19.3.2002, in Riv. Corte dei Conti n. 2/2002, pag. 209.

 

 

SENTENZA

sull'appello presentato da A. D., E. F. D., A. E. e B. M. E., rappresentati dagli avv.ti Oreste Cifalitti e Federico Sorrentino, presso il quale sono domiciliati in Roma al n. 30 del Lungotevere delle Navi, avverso la sentenza della Sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la regione Lazio n. 22-R, emessa il 12 gennaio e depositata il 23 febbraio 1998.

Visti gli atti contenuti nel fascicolo di causa;

Uditi, alla pubblica udienza del 7 novembre 2002, il relatore cons. Sergio Maria Pisana, l'avv. Federico Sorrentino e il Vice Procuratore generale Alfonso Tranchino;

FATTO

Con l'impugnata sentenza gli appellanti, unitamente ad A. M., sono stati condannati a pagare in favore del Comune di Pignataro Interamna la somma di lire 851.154 ciascuno, oltre a interessi legali e spese di giudizio, per il danno arrecato al detto Comune con il comportamento tenuto, nella qualità di Sindaco e componenti della Giunta municipale, in relazione al debito nei confronti della ditta SCA.MO.TER. di Aquino, esecutrice di lavori di realizzazione della rete idrica comunale: comportamento culminato nell'opposizione al decreto ingiuntivo ottenuto dalla medesima ditta, peraltro reso provvisoriamente esecutivo dal Giudice istruttore di Cassino e seguito dal pagamento da parte del Comune della complessiva somma di lire 20.723.160.

Nell'udienza del 27 aprile 1999 questa Sezione, considerato che il giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo era ancora pendente, ha sospeso il processo, in attesa di conoscere l'esito del giudizio medesimo, che, se favorevole al Comune, avrebbe eliso il danno verificatosi a causa della provvisoria esecutorietà del decreto ingiuntivo, e conseguentemente avrebbe fatto venir meno il presupposto della responsabilità amministrativa. Avendo ricevuto dalla Cancelleria del Tribunale di Cassino la comunicazione che il fascicolo processuale relativo al cennato giudizio d'opposizione al decreto ingiuntivo è stato cancellato dai registri della stessa Cancelleria il 2 marzo 2001, il Procuratore generale ha riassunto il processo e ha chiesto la fissazione di nuova udienza per la sua prosecuzione.

DIRITTO

Il giudice di primo grado ha ritenuto gravemente colposa la condotta degli appellanti per avere essi omesso di pagare quanto dovuto alla ditta SCA.MO.TER., che aveva sollecitato il pagamento con nota del 29 settembre 1993, e per avere poi fatto opposizione al decreto ingiuntivo ottenuto dalla stessa ditta, e li ha ritenuti responsabili del danno pari alle ulteriori spese processuali e agli interessi maturati fra il momento in cui ricevettero il cennato sollecito e la data dell'effettivo pagamento. La sola giustificazione addotta al riguardo dagli appellanti è la loro pretesa ignoranza del debito del Comune verso la ditta, ma è motivazione del tutto pretestuosa, posto che il mancato pagamento del detto compenso, pur deliberato con atto giuntale del 7 luglio 1984, sarebbe risultato agevolmente da una semplice compulsazione degli atti contabili del Comune.

Non ha pregio poi la deduzione degli appellanti che il ricorso alla tutela giudiziaria non potrebbe mai costituire comportamento colpevole, in quanto qui iure suo utitur non facit iniuriam. Non si discute, infatti, la legittimità del ricorso alla tutela giudiziaria quando ci siano ragionevoli dubbi sull'esistenza e/o la consistenza di un diritto od obbligo, ma la sua ragionevolezza, appunto, nel caso in questione, nel quale non c'era alcun dubbio sulla fondatezza della pretesa creditoria della ditta che aveva effettuato lavori per conto del Comune ed era rimasta insoddisfatta per una durata quasi decennale: o, almeno, ogni eventuale dubbio avrebbe potuto essere fugato con un semplicissimo riscontro contabile.

Infondata, del pari, è la lagnanza degli appellanti per la pretesa invasione, da parte del giudice, della sfera di discrezionalità degli amministratori, proprio perché il pagamento di un debito assolutamente certo nell'an e nel quantum è atto dovuto, dal quale esula qualunque profilo di discrezionalità. Altrettanto infondata la deduzione della mancanza del danno costituito dagli interessi passivi, in quanto le somme non pagate sarebbero state a lor volta produttive d'interessi attivi: deduzione ripetutamente rigettata dalla giurisprudenza anche di questa Sezione (fra le altre sentenze, vedansi 3 febbraio 1999, n. 13, e 7 maggio 2001, n. 161) con varie considerazioni, tra cui essenzialmente quella secondo cui l'ente locale provvede al soddisfacimento dei bisogni attingendo a un complesso di risorse sempre rinnovantisi, e queste risorse costituiscono normalmente un coacervo indifferenziato, col quale si provvede alla spesa secondo le indicazioni e le priorità di bilancio (principio della unità o unitarietà del bilancio), sicché non è concettualmente possibile seguire le sorti della entità di denaro non pagata per uno scopo, e mettere a comparazione il beneficio eventualmente con essa perseguito e il danno derivante dal successivo pagamento di interessi ed oneri aggiuntivi.

L'appello va dunque respinto, e gli appellanti condannati al pagamento anche delle spese del presente grado di giudizio.

P.Q.M.

la Corte dei conti seconda Sezione giurisdizionale centrale

visto il d.l. 15 novembre 1993, n. 453, convertito con modificazioni con la legge 14 gennaio 1994, n. 19;

vista la legge 14 gennaio 1994, n. 20;

visto il d.l. 23 ottobre 1996, n. 543, convertito con modificazioni con la legge 20 dicembre 1996, n. 639

disattesa ogni altra domanda, deduzione od eccezione;

definitivamente pronunciando, in conformità delle conclusioni del Procuratore generale;

RESPINGE

l'appello proposto da A. D., E. F. D., A. E. e B. M. E. avverso la sentenza della Sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la regione Lazio n. 22-R, emessa il 12 gennaio e depositata il 23 febbraio 1998;

CONDANNA

 gli appellanti al pagamento delle spese anche del presente grado di giudizio, che vengono liquidate, sino all'originale della presente sentenza, in € 448,15 (quattrocentoquarantotto/15).

Omissis

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