TAR LIGURIA, SEZ. I - Sentenza 22 gennaio 2003 n. 113
- Pres.ff. Petruzzelli, Est. Bianchi - Alloisio ed altri (Avv.ti Rossi e Sandra) c. Comune di Genova (Avv. De Nitto) e l’Istituto David Chiossone (Avv. Gamalero) - (respinge).1. Edilizia ed urbanistica - Denuncia di inizio di attività (D.I.A.) - Natura giuridica - Costituisce un atto soggettivamente ed oggettivamente privato - Impugnativa di essa in s.g. - Impossibilità.
2. Edilizia ed urbanistica - Denuncia di inizio di attività (D.I.A.) - Silenzio serbato dalla P.A. sulla D.I.A. - Costituisce un mero comportamento avente natura non provvedimentale.
3. Edilizia ed urbanistica - Denuncia di inizio di attività (D.I.A.) - Silenzio serbato dalla P.A. sulla D.I.A. - Non è impugnabile mediante lo speciale rito di cui all’art. 21 bis della L. n. 1034 del 1971.
4. Edilizia ed urbanistica - Denuncia di inizio di attività (D.I.A.) - Tutela del terzo leso - Attuazione - Azione di cognizione tendente alla dichiarazione della illegittimità del silenzio serbato dalla P.A. ed al risarcimento del danno cagionato dall’inerzia della P.A. - Esperibilità - Azione cautelare per assicurare interinalmente gli effetti della decisione sul ricorso - Ammissibilità.
5. Edilizia ed urbanistica - Denuncia di inizio di attività (D.I.A.) - Tutela del terzo leso - Attuazione - Azione di cognizione tendente alla dichiarazione della illegittimità del silenzio serbato dalla P.A. - Termine di decadenza - Decorrenza - Dalla conoscenza della illegittimità del comportamento silente tenuto dall’amministrazione.
6. Edilizia ed urbanistica - Denuncia di inizio di attività (D.I.A.) - In zona soggetta a tutela - Presentazione del prescritto nulla osta assieme alla denuncia di inizio di attività - Sufficienza.
7. Edilizia ed urbanistica - Denuncia di inizio di attività (D.I.A.) - Interventi necessari per eliminare le preesistenti barriere architettoniche - Costituiscono volumi tecnici - Fattispecie.
1. La denuncia di inizio di attività si sostanzia in un atto soggettivamente ed oggettivamente privato, che non legittima, di per sè, l’intrapresa delle preannunciate attività, nè sostituisce giuridicamente alcun titolo edilizio, non potendo quindi costituire oggetto di specifica e diretta impugnativa in sede giurisdizionale amministrativa.
2. Al silenzio tenuto dall’amministrazione in relazione ad una denuncia di inizio di attività non può essere attribuito il valore né di un tacito atto di assenso all’esercizio delle attività denunciate dal privato, né di un implicito provvedimento positivo di controllo a rilevanza esterna, ma piuttosto di un mero comportamento rapportabile, sul piano degli effetti legali tipici, ad un’attività di verifica conclusasi positivamente senza intervenire sul processo di produzione della posizione soggettiva del denunciante, e quindi inidonea di per sè a sostanziare un’autonoma determinazione di natura provvedimentale direttamente impugnabile in sede giurisdizionale con un’azione di annullamento.
3. Il comportamento silente della P.A. in relazione ad una denuncia di inizio di attività non è giuridicamente qualificabile come "inadempimento" e, come tale, non è impugnabile da parte di un terzo secondo il rito speciale di cui all’art. 21 bis della L. n. 1034 del 1971 (1).
4. Il terzo che ritenga di essere leso da una denuncia di inizio di attività è legittimato ad agire avverso il silenzio tenuto dall’amministrazione, sulla scorta di un giudizio di cognizione tendente all’accertamento della insussistenza dei requisiti e dei presupposti fissati dalla legge per la libera intrapresa della attività edilizia, e quindi della illegittimità del silenzio medesimo. A tal fine, nei confronti dell’amministrazione che abbia omesso di esercitare il suo potere inibitorio entro il termine decadenziale fissato dalla legge, il terzo può esercitare un’azione di accertamento circa la legittimità di tale comportamento (con ogni conseguenza sulle opere già eseguite, in caso di accoglimento del ricorso), a cui è intimamente connessa un’azione risarcitoria, ove ne ricorrano i presupposti, ed è strumentalmente collegata un’ulteriore azione cautelare per assicurare interinalmente, in presenza di un pregiudizio grave ed irreparabile, gli effetti della decisione sul ricorso (2).
5. Il termine entro cui il terzo che assuma di essere stato leso da una denuncia di inizio di attività deve proporre il giudizio di accertamento va individuato in quello decadenziale di sessanta giorni dalla conoscenza della illegittimità del comportamento silente tenuto dall’amministrazione; conoscenza questa che verosimilmente interverrà, salvo prova contraria, con l’intrapresa dei lavori.
6. Dall’art. 2, comma 60, punto 8 e punto 15 della L. 662/96, emerge che, nell’ipotesi di immobili vincolati, al fine di soddisfare la condizione richiesta per procedere a denuncia di inizio attività, è sufficiente (e necessario) che l’interessato presenti, unitamente alla denuncia, il dovuto nulla osta della competente autorità.
7. L’incremento volumetrico destinato esclusivamente ad ospitare un impianto (nella specie: ascensore, con annessi macchinari) volto ad eliminare le preesistenti barriere architettoniche, che è impossibile sistemare all’interno dell’edificio, va qualificato giuridicamente come un volume tecnico, necessario per realizzare le finalità (peraltro di particolare rilievo sociale) perseguite con la legge n. 13/89; tale volume tecnico non contrasta con una disciplina urbanistica che fa divieto di eseguire interventi "a livello urbanistico", consistenti nella "edificazione di nuovi fabbricati nell’ampliamento o la modificazione volumetrica, nella demolizione integrale o di parti consistenti di fabbricati...", con esclusione quindi dei semplici interventi di adeguamento degli edifici preesistenti.
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(1) V. tuttavia in senso opposto T.A.R. Lombardia-Brescia, 1° giugno 2001, n. 397, in questa Rivista n. 6-2001; v. anche T.A.R. Campania-Napoli, Sez. I, 6 dicembre 2001 n. 5272, ivi n. 12-2001.
Il T.A.R. Liguria ha ritenuto di non condividere questo primo orientamento (espressamente richiamato nella sentenza in rassegna), rilevando che il silenzio-inadempimento si sostanzia in un’inerzia non legalmente qualificata dell’amministrazione, successiva alla scadenza di un termine entro la quale essa deve attivarsi a fronte della richiesta di emanazione di un provvedimento. In altri termini, il rito speciale di cui all’art. 21 bis della L. n. 1034 del 1971 è preordinato ad imporre all’Amministrazione che rimanga inerte l’esercizio della potestà amministrativa di cui è titolare, e non a soddisfare in via diretta la pretesa sostanziale del ricorrente.
Ne consegue che detto rito non può utilmente essere attivato nei confronti del silenzio eventualmente tenuto dall’amministrazione nei venti giorni successivi alla presentazione di una denuncia di inizio attività in materia edilizia. Nel caso di accoglimento del ricorso, infatti, il giudice adito non potrebbe far altro che ordinare all’amministrazione di esercitare i poteri che viceversa non ha esercitato.
Sennonchè, secondo il parametro legale, i soli poteri di cui l’amministrazione è titolare, nel termine considerato, sono quelli inibitori, che si estinguono allo scadere del termine stesso. Non è pertanto giuridicamente ipotizzabile una pronuncia che imponga all’amministrazione l’esercizio di una specifica potestà di cui non è più titolare.
Ne consegue, secondo il T.A.R. Liguria, l’inapplicabilità alla fattispecie del rito speciale di cui all’art. 21 bis, con conseguente inammissibilità di un ricorso eventualmente proposto in tal senso dal terzo a tutela degli interessi che assuma lesi da un intervento edilizio intrapreso a seguito di una denuncia di inizio attività.
(2) Ha osservato in proposito il T.A.R. Liguria che l’art. 34 del decreto legislativo 31 marzo 1998 n. 80, devolve espressamente alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo "le controversie aventi per oggetto gli atti, i provvedimenti e i comportamenti delle amministrazioni pubbliche e dei soggetti alle stesse equiparati in materia urbanistica ed edilizia".
Così è da ritenere che, nella materia edilizia, tutti i comportamenti lesivi di un interesse siano giustiziabili davanti al giudice amministrativo, e non solo quelli che vengano ad incidere posizioni di diritto soggettivo.
Sembra, quindi, del tutto congruente con le finalità di piena ed effettiva tutela delle posizioni soggettive di fronte all’azione dei pubblici poteri, che l’ordinamento deve garantire tramite gli istituti di giustizia amministrativa, interpretare la disposizione in esame nel senso della ammissibilità in materia urbanistica ed edilizia, di azioni dichiarative o di accertamento nei confronti di comportamenti della P.A. che non si risolvono in un silenzio significativo o inadempiente e che siano lesivi di interessi legittimi.
Pertanto, ove detto contenuto consista nell’accertamento dell’illegittimità del comportamento dell’amministrazione che non ha inibito l’avvio delle opere oggetto di denuncia, pur nell’assenza dei requisiti e dei presupposti fissati dalla legge per la loro libera intrapresa, questa dovrà senz’altro attivarsi con i poteri cautelari e sanzionatori di cui è titolare ai sensi della L. 47/85 (ed in virtù altresì dell’espresso richiamo contenuto nell’art. 21 della L. 241/90), per recuperare alla legalità la propria azione.
Ed ove questo non avvenga, il terzo ben potrà adire nuovamente il giudice amministrativo con lo specifico giudizio di ottemperanza, in oggi esperibile anche per ottenere l’esecuzione delle sentenze di primo grado, ove non sospese dal Consiglio di Stato, ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 33 della L. 1034/1971, così per come aggiunto dall’art. 10 della L. 205 del 21 luglio 2000.
Va da sè, poi, che in via accessoria il terzo potrà altresì chiedere giudizialmente il risarcimento dei danni eventualmente subiti dall’illegittimo comportamento tenuto dall’amministrazione, ove ne ricorrano i presupposti.
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S. SCARLATELLI,
Autorizzazione edilizia e denuncia di inizio attività in una prospettiva evolutiva.N. LAIS,
Il permesso di costruire e la denuncia di inizio attività nel nuovo testo unico dell’edilizia (D.P.R. 6 giugno 2001, 380)V. anche:
T.U. edilizia coordinato con le modifiche introdotte dal D.L.vo n. 301/02
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA GENERALE - Parere 29 marzo 2001 n. 3/2001
(omissis)
per l’annullamento
dell’atto di consenso implicito all'esecuzione di lavori di risanamento conservativo all’interno dell’Istituto D. Chiossone, a seguito di denuncia inizio attività, ai sensi della L. 662/1996, in data 04.08.1997.
(omissis)
FATTO
I ricorrenti sono proprietari di unità immobiliari di cui ai civici 10, 12, 12° e 12c di v.co Barnabiti, a Genova, prospicienti l’edificio oggetto degli interventi edilizi di cui al presente ricorso.
Tale intervento, qualificato dal progettista come "interventi modificativi di adeguamento agli standards strutturali per residenze protette per anziani, alle norme sulla prevenzione degli incendi, ed alla normativa sulle barriere architettoniche", consiste nella realizzazione di un volume esterno sito nella parte a nord dell’edificio, all’interno del quale sarebbe ubicato un vano ascensore ed una scala di emergenza anti incendio.
Allertati dalla posa dei ponteggi, alcuni degli odierni esponenti, per il tramite dell’avv. Dario Rossi, notificavano, in data 27/10/1997, al Comune di Genova, una diffida tesa ad ordinare l’interruzione delle opere in corso, pregiudizievoli degli interessi degli esponenti medesimi, richiedendo inoltre chiarimenti circa i lavori da eseguire e gli atti autorizzatori sottesi agli stessi.
In difetto di riscontro gli istanti, ritenuta l’illegittimità del provvedimento di silenzio-assenso assunto dall’Amministrazione comunale sulla denuncia di inizio attività presentata dall’Istituto David Chiossone in data 4.08.1997, hanno adito questo TAR con il ricorso in epigrafe, chiedendone l’annullamento per i seguenti motivi:
Motivo I. Illegittimità per violazione dell’art. 2, co. n. 7 della L. 662/1996 e 11 L. 1089/1939. Illegittimità per eccesso di potere sotto il profilo della carenza di istruttoria.
L’art. 2 co. 60 della legge finanziaria per l’esercizio 1997, modificativo della L. 493/1993, ha sottoposto a dichiarazioni di inizio lavori gli interventi edilizi consistenti, tra gli altri, in opere di manutenzione straordinaria, restauro e risanamento conservativo, nonchè le opere volte all’eliminazione delle barriere architettoniche in edifici esistenti consistenti in rampe ed ascensori esterni, ovvero in manufatti che alterino la sagoma dell’edificio.
Senonchè, il successivo n. 8, specifica che la facoltà di cui al comma che precede è data qualora non sussistano le condizioni di seguito indicate tra cui (sub a) l’assoggettamento dell’immobile di cui agli interventi edilizi alle disposizioni di cui alle leggi 1089/1939 e 1497/1939.
Il caso di specie rientra in tale categoria. Infatti l’Istituto Davide Chiossone, essendo stato realizzato in epoca remota e comunque destinato da oltre cinquant’anni ad uso pubblico, rientra a pieno titolo nelle categorie di cui alla legge 1089.
Tale circostanza avrebbe potuto essere facilmente verificata dall’amministrazione competente, trattandosi di una nota disposizione normativa inserita per di più nelle norme tecniche d’attuazione al piano regolatore del Comune di Genova.
Motivo II: Illegittimità per violazione dell’art. 5 L. 9/1/1989 n. 13 della L.R. 15/1989:
Del pari, l’illegittimità deriva dalla mancanza di necessaria previa autorizzazione da parte della Sovrintendenza ai beni ambientali e culturali, così come previsto dalla legge 13/89 (sostanzialmente integralmente recepita dalla L.R. 15/1989), disciplinante, appunto, la normativa sull’abbattimento delle barriere architettoniche. Tale legge, all’art. 5, impone, infatti, l’ottenimento dell’autorizzazione che, nella fattispecie de qua, non risulta rilasciato.
Motivo III: Illegittimità per violazione del D.M. 1444 del 2/4/1968 e dell’art. 17 L. 765/1967. Illegittimità per eccesso di potere sotto il profilo dell’illogicità manifesta.
Il risanamento conservativo, come specificato in premesse, comporta la realizzazione di una considerevole volumetria, la quale, ancorchè realizzata al fine di destinarla a impianti tecnici, è in evidente contrasto con la normativa prevista per la zona urbanistica di cui trattasi.
Infatti, la zona che ci occupa è la zona A per la quale non sono ammesse nuove edificazioni che comportino un aumento delle altezze superiori agli edifici limitrofi preesistenti.
Concludono gli istanti chiedendo l’annullamento del provvedimento impugnato, con vittoria di spese.
Si è costituito in giudizio il Comune di Genova intimato, il quale, con memoria del 15 giugno 2001, ha contestato la fondatezza del ricorso chiedendone il rigetto.
Si è altresì costituito in giudizio l’Istituto David Chiossone il quale, con memoria conclusiva del 25 gennaio 2002, ha preliminarmente eccepito l’inammissibilità del gravame, e ne ha quindi parimenti contestato la fondatezza nel merito, chiedendone il rigetto.
Con ordinanza n. 1152/2001, questo T.A.R. ha disposto incombenti istruttori puntualmente eseguiti dall’amministrazione onerata.
Alla pubblica udienza del 7 febbraio 2002, il ricorso è stato posto in decisione.
DIRITTO
1. Come risulta dall’atto introduttivo del giudizio, i ricorrenti hanno impugnato, chiedendone l’annullamento, il provvedimento di consenso implicito all'esecuzione di lavori di risanamento conservativo all’interno dell’Istituto D. Chiossone che, a loro dire, si sarebbe formato sulla denuncia di inizio attività presentata in data 4.8.1997 ai sensi della L. 662/1996, a seguito del silenzio tenuto sulla stessa da parte dell’amministrazione comunale nei successivi venti giorni.
Tale impugnativa, peraltro, viene ritenuta inammissibile da parte dell’Istituto controinteressato in quanto, a suo dire, nel caso di specie il silenzio tenuto dall’amministrazione comunale, non assumerebbe alcuna valenza provvedimentale direttamente ed autonomamente impugnabile con una specifica azione di annullamento.
2. Tanto premesso, la questione sottoposta in via pregiudiziale all’esame del Collegio, si sostanzia nello stabilire quale sia l’esatta natura giuridica del silenzio eventualmente mantenuto dall’amministrazione nei venti giorni successivi alla presentazione di una denuncia di inizio attività, nello specifico modulo delineato in materia edilizia dalla L. 662/1996.
A tal fine occorre tratteggiare, pur se in modo succinto, le caratteristiche salienti del nuovo istituto, perchè solo a seguito di una ricostruzione sistematica dello stesso, è possibile giungere alla corretta soluzione della problematica evidenziata.
3. Come è noto, la denuncia di inizio attività, sostitutiva dell’atto di consenso della pubblica amministrazione, ha fatto la sua comparsa nell’ordinamento con la legge n. 241 del 1990.
Nell’ambito della semplificazione dell’attività amministrativa, infatti, l’art. 19 dispone, nella sua attuale formulazione, che in tutti i casi in cui l’esercizio di un’attività privata sia subordinato ad un atto di consenso comunque denominato il cui rilascio dipenda esclusivamente dall’accertamento dei presupposti e dei requisiti di legge, questo "si intende sostituito" da una denuncia di inizio di attività da parte dell’interessato.
Il medesimo articolo aggiunge poi che, in tali casi, spetta all’amministrazione competente entro e non oltre sessanta giorni dalla denuncia, verificare d’ufficio la sussistenza dei presupposti e dei requisiti di legge richiesti e disporre, se del caso, con provvedimento motivato il divieto di prosecuzione dell’attività e la rimozione dei suoi effetti.
La finalità perseguita dalla norma, come precisato dall’Adunanza Generale del Consiglio di Stato in sede di parere reso sul disegno di legge, è stata quella di "liberalizzare" certe attività private la cui esplicazione risultava condizionata al previo conseguimento del titolo abilitativo (cfr. parere del 19 febbraio 1987 n. 7).
In talune ipotesi, infatti, le abilitazioni richieste dalla normativa vigente erano chiamate solo a verificare –senza spazi di discrezionalità o con discrezionalità di tasso ridottissimo – la conformità dell’attività che il privato si proponeva di svolgere, alle prescrizioni della sovraordinata normativa.
Con la conseguenza della convertibilità, senza seri pregiudizi per l’interesse pubblico, della disciplina previgente in un assetto alternativo nel quale l’ordinamento rinuncia ai previ controlli delle amministrazioni, sostituendo ad essi solo interventi amministrativi rivolti a riscontrare (senza margini di discrezionalità) se l’attività svolta dal privato sia conforme alla normativa sovraordinata e se chi la ha realizzata sia in possesso dei requisiti prescritti.
Al riguardo, peraltro, occorre subito precisare che la "liberalizzazione" disposta dall’art. 19 in esame non va affatto intesa quale scomparsa di ogni previsione normativa concernente quelle date attività.
Il fenomeno liberalizzante, infatti, si sostanzia nell’affermazione di una libertà di svolgimento e non in un processo di sottrazione dell’attività privata dal regime amministrativo.
Le attività considerate dall’art. 19, pertanto, rimangono sottoposte alla disciplina generale dettata dalle norme che identificano i requisiti ed i presupposti che devono ricorrere per il loro lecito esercizio.
La disposta liberalizzazione, invero, segna il venir meno solo di alcune condizioni di ordine amministrativo: quelle inerenti alla sussistenza di un titolo provvedimentale di legittimazione, con la conseguenza che lo svolgimento dell’attività da parte del privato non è mediata da titoli ulteriori rispetto alla legge.
In altri termini, la liberalizzazione designa la libertà di accesso ad un'attività senza l’intermediazione di uno specifico provvedimento amministrativo quale titolo di legittimazione, ferma restando la permanenza della disciplina amministrativa di quella attività così per come fissata a livello normativo.
4. Tanto premesso, al fine di una corretta ricostruzione della fattispecie occorre evidenziare al suo interno, e mantenere distinta, la "dimensione strutturale" concernente il contenuto dei rispettivi poteri (pubblico-privato), dalla "dimensione funzionale" attinente alla dinamica propria della relazione che si instaura tra questi.
Così, sotto il primo profilo, va registrata l’assenza di un potere dell’amministrazione di identificare il regime puntuale e concreto della posizione soggettiva del privato, in quanto questa è interamente definita dalla legge.
Il fondamento giuridico dell’attività privata, infatti, si radica direttamente nella sfera normativa e non nell’intervento dell’amministrazione.
In altri termini, diversamente dal modello autorizzatorio, nell’art. 19 in esame il precetto legislativo produce effetti direttamente sul piano della qualificazione delle posizioni soggettive, attribuendo al privato una posizione caratterizzata da originarietà (proprio in quanto essa trova la propria fonte direttamente nella legge), a fronte della quale difetta un potere amministrativo in grado di incidere in senso costitutivo-accrescitivo.
Ed è proprio in ragione dei caratteri di originarietà ed autonomia della posizione soggettiva del privato, e dell’assenza di qualsivoglia potere autorizzatorio, che alla stessa deve essere riconosciuta natura e consistenza di diritto soggettivo.
Nel modello dell’art. 19, pertanto, la legge da una parte conferisce al privato la titolarità di un diritto soggettivo che lo legittima ad intraprendere autonomamente l’attività senza l’intermediazione di titoli ulteriori, mentre dall’altra attribuisce all’amministrazione un potere di verifica circa la sussistenza dei prescritti requisiti e presupposti normativi (da esercitare a seguito della presentazione della denuncia), che la legittima ad intervenire, eventualmente, in chiave repressiva o secondo i casi inibitoria.
Così il diritto del privato non si risolve unicamente in facoltà attive, ma viene viceversa conformato dalla legge in modo "relazionale", nel senso che il suo esercizio è subordinato ad un "contatto necessario" con la pubblica amministrazione, da attivare attraverso la presentazione della denuncia di inizio attività.
Conclusivamente, è da ritenere che l’art. 19 abbia prodotto un effetto "liberalizzante" nel senso di consentire l’intrapresa dell’attività senza l’intermediazione di qualsivoglia potere di tipo autorizzatorio-costitutivo, senza con ciò sottrarre l’attività stessa dal regime amministrativo, e dal conseguente necessario contatto con la P.A. cui compete un potere di verifica circa la sussistenza dei requisiti e dei presupposti normativi, ed eventualmente sanzionatorio o secondo i casi inibitorio.
5. Le considerazioni sopra svolte, peraltro, ben possono essere riferite al modello di denuncia in materia edilizia così per come disciplinato dalla L. 662 del 1996, oggetto dell’odierno gravame.
Anche in questo caso, infatti, la norma da un lato attribuisce al proprietario un diritto soggettivo che lo abilita ad intraprendere liberamente talune attività edilizie considerate "minori" per il loro modesto impatto territoriale, senza l’intermediazione di titoli ulteriori, mentre dall’altro lato attribuisce all’amministrazione un potere di verifica circa la sussistenza dei prescritti requisiti e presupposti normativi, che la legittima ad intervenire, eventualmente, inibendo l’intrapresa delle attività medesime.
Così, con l’estensione del nuovo istituto alla materia edilizia, viene ad essere eliminato per tali attività il potere autorizzatorio-costitutivo dell’amministrazione sullo "ius aedificandi", con conseguente ampliamento del contenuto del diritto di proprietà, che viene ad arricchirsi della facoltà di attuare le attività medesime senza alcun condizionamento amministrativo.
Facoltà peraltro, giova evidenziarlo, il cui esercizio non si attua unicamente entro la sfera soggettiva del proprietario, essendo viceversa subordinato ad un contatto necessario con la pubblica amministrazione.
Anche l’attività edilizia, infatti, non è sottratta dal regime amministrativo (atteso il suo evidente rilievo ordinamentale), e come tale rimane sottoposta alla disciplina generale dettata dalle norme che fissano i requisiti ed i presupposti che devono ricorrere per il suo lecito esercizio, e conseguentemente al potere di verifica della pubblica amministrazione, che nella specifica materia è attuato in via preventiva, ed a fini esclusivamente inibitori.
Ed è quest’ultima circostanza, peraltro, che caratterizza la denuncia di inizio attività in materia edilizia, rispetto al generale modello di cui all’art. 19 della L. 241 del 1990.
L’art. 4 della L. 493/1993, così come sostituito dall’art. 2 della L. 662/96, dispone infatti al comma undicesimo che l’interessato deve presentare la denuncia di inizio dell’attività "venti giorni prima dell’effettivo inizio dei lavori", precisando al comma quindicesimo che il sindaco "ove entro il termine indicato....sia riscontrata l’assenza di una o più delle condizioni stabilite, notifica agli interessati l’ordine motivato di non effettuare le previste trasformazioni...".
In materia edilizia, pertanto, l’attività può essere intrapresa da parte dell’interessato solo dopo il trascorso di venti giorni dalla data di presentazione della relativa denuncia, ed il potere di verifica assegnato alla pubblica amministrazione deve da questa essere esercitato entro tale termine, al solo fine di inibire l’effettuazione delle previste trasformazioni.
Così, la fattispecie prefigurata dalla L. 662/96 viene a discostarsi dal modello generale sia sotto il profilo strutturale che sotto il profilo funzionale.
Strutturale, in quanto il diritto del denunciante è differito nella sua concreta attuazione di venti giorni rispetto alla data di presentazione della denuncia, ed il corrispondente potere di controllo della P.A. è esercitato a fini esclusivamente inibitori, esulando da questo qualsivoglia potestà repressiva o sanzionatoria avente ad oggetto l’attività edificatoria come tale.
Funzionale, in quanto nella dinamica relazionale che si instaura tra la posizione soggettiva del privato ed il potere della P.A., quest’ultimo interviene in via preventiva, e quindi non su un’attività edilizia già in essere, ma su un progetto di attività da porre in essere.
E ciò, del resto, è agevolmente comprensibile ove si consideri che l’attività edificatoria produce effetti tendenzialmente permanenti e difficilmente reversibili, di guisa che il controllo successivo alla intrapresa della attività secondo il generale modello dell’art. 19 della L: 241/90, si appalesa inidoneo a garantire nella specifica materia una adeguata protezione dei pubblici interessi che possano eventualmente essere incisi dalla libera estrinsecazione del diritto soggettivo del denunciante.
6. Precisato quanto sopra, occorre delineare nello specifico il contenuto del potere di controllo che la legge 662/96 assegna alla pubblica amministrazione a fronte della presentazione di una denuncia di inizio attività in materia edilizia, atteso che in questo si sostanzia la problematica giuridica sottoposta all’esame del Collegio con l’odierna controversia.
Quel che va subito ribadito, è che l’attività di controllo che l’amministrazione è chiamata a svolgere ha caratteri strutturali radicalmente diversi rispetto a quelli propri dell’attività autorizzatoria-costitutiva che connota i provvedimenti di assenso in materia edilizia.
Alla stregua del generale modello introdotto dall’art. 19 della L. 241/90, infatti, è la legge che conferisce al privato la titolarità del diritto che lo legittima ad intraprendere autonomamente l’attività edilizia, senza l’intermediazione di titoli ulteriori.
La funzione di controllo in parola, pertanto, non interviene nel processo di produzione della posizione soggettiva, la quale trova la propria fonte direttamente nella legge ed a fronte della quale difetta un potere amministrativo di natura costitutiva-accrescitiva.
In altri termini, ed in parole più semplici, ricevuta la denuncia l’amministrazione non deve assentire alcunchè, ma deve solo verificare la sussistenza dei prescritti requisiti e presupposti normativi affinchè l’interessato possa autonomamente intraprendere la preannunciata attività, quale diretta espressione del suo diritto così come legislativamente prefigurato.
In questo senso, la funzione di controllo viene pertanto prefigurata dalla norma in due fasi nettamente distinte, ancorchè tra loro finalisticamente connesse.
Una prima fase, relativa all’accertamento della sussistenza di tutte le condizioni soggettive ed oggettive normativamente prefissate per il libero svolgimento, da parte del denunciante, della preannunciata attività edilizia.
Una seconda fase, relativa alla adozione delle prescritte misure inibitorie nell’ipotesi in cui l’esperito accertamento abbia dato esito negativo.
Sul piano strutturale, occorre poi rilevare (essendo determinante ai fini che qui interessano) che la prima fase si realizza in un controllo-riscontro che si caratterizza per essere:
Non costitutivo, in quanto come sin qui chiarito non interviene nel processo di produzione della posizione soggettiva, la quale trova la propria fonte direttamente nella legge, e quindi non è preordinato a sfociare in alcun atto di assenso esplicito od implicito, ma a fungere semmai, in caso di accertamento negativo, da presupposto giuridico per l’adozione della prescritta misura inibitoria.
Non condizionante, in quanto non subordina l’intrapresa della denunciata attività al suo effettivo esercizio. Decorsi venti giorni dalla presentazione della denuncia l’interessato può infatti, nell’assenza di una specifica misura inibitoria, dare inizio ai lavori indipendentemente dalla circostanza che l’amministrazione abbia o meno effettuato il prescritto riscontro preventivo.
Doveroso, in quanto espressione di una specifica funzione volta ad assicurare le necessaria presenza dell’amministrazione in veste di "garante esterno della legalità", a fronte di determinate attività il cui libero esercizio riveste un carattere di non indifferenza rispetto alla sfera dei pubblici interessi.
Puntuale, in quanto ogni denuncia deve essere assoggettata a specifica verifica, restando escluso in base ai principi ordinamentali che una funzione doverosa possa essere esercitata a tratti, secondo parametri discrezionali scelti dall’amministrazione che ne è titolare.
Estinguibile, in quanto sottoposto nel suo esercizio al termine perentorio di venti giorni dalla presentazione della denuncia. Conseguentemente, spirato detto termine, si esaurisce il potere di riscontro a fini inibitori, e l’attività edificatoria può liberamente essere intrapresa dall’interessato, residuando in testa all’amministrazione i diversi poteri di vigilanza e sanzionatori di cui alla L. 47/85.
Ad effetto provvedimentale solo eventuale, in quanto unicamente nell’ipotesi di riscontro negativo il relativo atto assumerà valore provvedimentale esterno, venendo a costituire l’antecedente giuridico necessario per l’adozione della prescritta misura inibitoria.
Come precisato infatti dall’Adunanza Generale del Consiglio di Stato, "la fase dell’accertamento dei requisiti non deve necessariamente essere formalizzata in un atto amministrativo esplicito che ne attesti il compimento e l’esito positivo. Siffatta formalizzazione avverrà, invece, nell’ipotesi di adozione dei provvedimenti repressivi: è chiaro, infatti, che provvedimenti del genere suppongono un accertamento negativo circa la sussistenza dei requisiti che deve, nel medesimo provvedimento, trovare formale espressione" (cfr. il già citato parere 6 febbraio 1992 n. 27).
Ne consegue che quand’anche la P.A. formalizzi l’esito positivo del controllo (come peraltro il Collegio, in diverso avviso dal parere testè espresso, ritiene debba comunque avvenire in ossequio al generale obbligo di conclusione del procedimento in forma espressa sancito dall’art. 2 della L. 241/90), il relativo atto non avrà un contenuto provvedimentale preordinato a riverberare i propri effetti all’esterno "autorizzando" l’intrapresa della preannunciata attività, ma si sostanzierà in un mero "referto" degli esiti dell’intervenuta verifica, destinato a rilevare ai fini interni e come indicatore del comportamento nella specie tenuto dall’amministrazione.
La seconda fase, sempre sul piano strutturale, si sostanzia invece in un controllo-misura che si caratterizza per essere:
Eventuale in quanto, come già precisato, solo nell’ipotesi di accertamento negativo circa la sussistenza dei prescritti requisiti e presupposti legali, il controllo-riscontro si evolverà nella adozione della conseguente misura inibitoria. Va da sé, poi, che in tale ipotesi l’inibitoria rivesta carattere di doverosità costituendo momento coessenziale di un’unica funzione preordinata ad evitare che vengano intraprese attività edilizie illecite, e quindi potenzialmente lesive degli interessi e dei diritti dei consociati.
Costitutivo, in quanto viene ad incidere negativamente in modo unilaterale ed autoritativo la posizione soggettiva del denunciante, inibendo l’intrapresa della preannunciata attività edilizia. In altri termini, mentre il controllo-riscontro si sostanzia in una attività di verifica condotta "ab externo" e quindi inidonea di per sé a condizionare sia il sorgere che l’esercizio del diritto del denunciante, la misura inibitoria interviene direttamente in modo negativo su tale diritto inibendone la concreta attuazione. Ed è per queste ragioni, è appena il caso di rilevarlo, che la stessa assumerà sempre forma e sostanza provvedimentale.
Di natura esclusivamente inibitoria, in quanto per espressa previsione normativa preordinato solo ad "ordinare la non effettuazione delle previste trasformazioni", senza alcuna possibilità giuridica quindi di intervenire su attività edilizie già intraprese, a fronte delle quali, come già precisato, l’amministrazione dispone dei diversi poteri di vigilanza e sanzionatori ai sensi della L. 47/85.
Estinguibile, in quanto sottoposto nel suo esercizio al termine perentorio di venti giorni dalla presentazione della denuncia, al pari dell’attività di verifica a cui è funzionalmente collegato. Spirato detto termine, pertanto, l’attività edilizia potrà liberamente essere intrapresa non potendo l’amministrazione intervenire sulla stessa tramite l’esercizio di un potere inibitorio ormai esauritosi.
Conclusivamente, a seguito della presentazione di una denuncia di inizio attività l’amministrazione dovrà in via ordinaria ed entro venti giorni aprire un procedimento di controllo-riscontro circa la sussistenza dei prescritti requisiti e presupposti legali, il quale solamente in caso di accertamento negativo si evolverà nell’ordine motivato di non effettuare le previste trasformazioni, da adottare e notificare sempre nell’anzidetto termine.
7. Definita come sopra la funzione di controllo di cui la P.A. è titolare, occorre ora delineare le specifiche forme di tutela delle posizioni soggettive a fronte dell’esercizio di tale funzione.
A tal fine, va in primo luogo esaminata la posizione del denunciante.
Avuto riguardo alla natura vincolata del potere esercitato, e quindi all’assenza di qualsivoglia margine di discrezionalità in capo all’amministrazione, autorevole dottrina ritiene che quest’ultimo sia sempre portatore di un diritto soggettivo.
Da qui la conclusione che il privato denunciante possa senz’altro adire direttamente l’autorità giudiziaria ordinaria, esercitando in tale sede tutta la gamma delle azioni ammesse, sia di natura cautelare che possessoria, ovvero di accertamento o di condanna.
Sennonchè il rilievo della vincolatezza del potere esercitato, non è di per sè sufficiente a suffragare l’assunto testè riportato.
Come più sopra precisato, infatti, a seguito del riscontro negativo circa la sussistenza dei prescritti requisiti e presupposti legali, l’amministrazione è titolare di un potere inibitorio che viene esercitato mediante l’adozione di uno specifico provvedimento unilaterale ed autoritativo che assume, al di là della vincolatezza, carattere costitutivo.
Se è vero quindi che il potere in questione è vincolato, è altrettanto vero però che lo stesso è in grado di incidere negativamente ed in modo unilaterale il diritto del denunciante, inibendone la concreta attuazione.
E’ pertanto da ritenere che nella fattispecie in esame coesistano un diritto soggettivo del privato all’intrapresa dell’attività edilizia, ed un potere amministrativo di controllo di natura vincolata ma nondimeno riservato ed autoritativo, di fronte al cui esercizio il primo si atteggia ad interesse legittimo.
Ne consegue che la posizione soggettiva del denunciante troverà la sua naturale tutela di fronte al giudice amministrativo, chiamato a scrutinare il legittimo esercizio del potere esercitato dall’amministrazione.
E tale tutela, è opportuno rilevarlo, si appalesa pienamente satisfattiva per l’interesse che si assuma leso.
Nel modello di denuncia in materia edilizia, infatti, l’unica possibilità che ha l’amministrazione di incidere la posizione giuridica del denunciante, consiste nell’adozione di un formale provvedimento inibitorio dell’inizio della preannunciata attività.
A fronte di uno specifico provvedimento inibitorio, quindi, il privato denunciante si avvarrà di un’ordinaria azione di annullamento, in grado di assicurargli un’adeguata tutela cautelare, costitutiva e risarcitoria.
7. Molto più complessa e delicata è, invece, la posizione del terzo.
L’esame dei rimedi giurisdizionali di cui quest’ultimo dispone per opporsi all’esecuzione dei lavori intrapresi in base alla semplice denuncia del loro inizio da parte dell’interessato, infatti, fa risaltare la "singolarità" del nuovo istituto che mal si colloca all’interno del generale sistema di giustizia amministrativa, siccome essenzialmente incentrato sul giudizio impugnatorio, tanto da porre serie questioni legate alla costituzionalità dello stesso.
La titolarità, pur indubbia, di un interesse legittimo del terzo rispetto all’esito del controllo presenta, invero, tutti i limiti legati sia all’assenza di uno specifico provvedimento da impugnare in quanto lesivo di detto interesse, sia alla estinzione del potere inibitorio dell’amministrazione decorso il termine perentorio di venti giorni dalla presentazione della denuncia.
Ed è per questa ragione, che parte della dottrina ritiene che la tutela di tale soggetto debba svolgersi unicamente come tutela del suo diritto, nella logica delle ordinarie vertenze fra privati.
In altri termini, nell’assenza di un provvedimento e con la consumazione del potere, verrebbe meno anche la possibilità di adire il giudice amministrativo, stante la sostanziale inutilità di una pronuncia che obblighi eventualmente l’amministrazione a riesercitare una funzione che non le appartiene più in quanto ormai esaurita.
Anzi, nella considerazione che la funzione non può più essere esercitata si dovrebbe addirittura ritenere che il terzo non sia neppure titolare di un interesse legittimo, atteso che quest’ultimo esprime necessariamente una relazione col potere dell’amministrazione.
In materia edilizia, pertanto, il terzo potrebbe trovare una effettiva possibilità di tutela solo se titolare di un diritto soggettivo antagonista, nell’ambito dell’art. 872 del codice civile .
Le tesi esposte, non possono essere condivise.
Per un verso, infatti, pur ritenendo che nella fattispecie manchi uno specifico provvedimento da impugnare, ciò non di meno è sempre presente un "comportamento" dell’amministrazione che, se lesivo dell’interesse legittimo del terzo, può da quest’ultimo essere sottoposto al vaglio del giudice amministrativo con i mezzi di tutela che l’ordinamento offre a tal fine, e che saranno di seguito analizzati.
Per altro verso, poi, se è vero che alla scadenza del termine legalmente prefissato il potere si estingue, è altrettanto vero che il suo esercizio (o non esercizio) entro detto termine può ledere l’interesse legittimo del terzo, il quale non viene certo contemporaneamente ad estinguersi, ben potendo al contrario essere attivato indipendentemente dalla sorte del potere medesimo.
In altri termini, l’interesse legittimo non è subordinato ad una contemporaneità col potere cui è relazionato, e pertanto una volta che ne sia leso, mantiene ferma la sua rilevanza qualunque sia la sorte di quest’ultimo, non foss’altro ai meri fini risarcitori.
Il problema quindi, e questo è l’oggetto dell’odierna controversia, non sta nell’impossibilità di prefigurare un interesse legittimo in testa al terzo, ma nella individuazione degli specifici mezzi di cui quest’ultimo dispone a tutela di detto interesse quando ne sia titolare, e nella verifica della adeguatezza degli stessi in relazione ai principi costituzionali vigenti in materia.
8.1. Tanto premesso, l’esame dei rimedi giurisdizionali di cui dispone il terzo per opporsi all’esecuzione dei lavori intrapresi in base alla semplice denuncia del loro inizio da parte dell’interessato, va effettuato in modo distinto, in relazione alla natura dell’interesse che si assuma leso.
Se questo, infatti, si sostanzia in un diritto soggettivo, il terzo potrà senz’altro adire l’autorità giudiziaria competente, esercitando in tale sede tutta la gamma delle azioni ammesse, sia di natura cautelare che di accertamento e di condanna, indipendentemente dalla presenza o meno di uno specifico provvedimento dell’amministrazione.
Ed in questo caso non si porranno problemi diversi, in ordine alla effettività della tutela riservata a quest’ultimo, da quelli propri di tali tipi di giudizio.
L’unico problema semmai che può porsi, è quello relativo alla individuazione del giudice competente a conoscere delle pretese dedotte in causa.
Ove infatti si dovesse ritenere che la controversia si esaurisca nell’ambito privatistico, tra soggetti titolari di diritti tra loro antagonisti, non v’è dubbio che la competenza a giudicare debba essere riconosciuta al giudice ordinario.
Pur rientrando infatti l’edilizia nell’ambito delle materie di competenza esclusiva del giudice amministrativo, è pacifico che questa presupponga per il suo esercizio la necessaria "presenza" della pubblica amministrazione, non potendo di certo essere estesa fino a ricomprendere anche le controversie tra soggetti privati.
Sennonchè dal modello della denuncia vigente in materia edilizia, emerge inequivocabilmente che i possibili conflitti intersoggettivi tra denunciante e terzi nascono necessariamente con l’intermediazione dei poteri della pubblica amministrazione, sia che essa li eserciti sia che ometta di esercitarli.
Come sin qui precisato, infatti, a fronte di una denuncia di inizio di attività l’amministrazione è titolare di una specifica funzione di controllo espressamente volta ad inibire la realizzazione di opere edilizie che, in quanto non conformi alla normativa di settore, possano incidere i diritti e gli interessi dei consociati.
Ne consegue che anche nell’ipotesi in cui l’interesse che il terzo assuma leso dall’attività intrapresa si sostanzi in un diritto soggettivo, la relativa controversia rientrerà nell’ambito della competenza esclusiva del giudice amministrativo ai sensi dell’art. 34 del d.lgs. n. 80/98, in quanto la dedotta lesione si sarà prodotta in ogni caso con la necessaria presenza ed intermediazione del potere amministrativo.
Ove, infatti, venga ordinato a quest’ultimo di non effettuare le previste trasformazioni , la posizione del terzo antagonista verrà ad essere salvaguardata in via indiretta dal relativo provvedimento, e potrà successivamente essere tutelata in sede giurisdizionale amministrativa, con i normali mezzi forniti dall’ordinamento, nella ipotesi in cui il provvedimento stesso venga impugnato.
Ove invece l’amministrazione, nel termine prescritto, non adotti alcuna determinazione provvedimentale espressa, si pone il problema di chiarire quali siano i mezzi di tutela giurisdizionale di cui il terzo dispone per opporsi all’attività posta in essere dal denunciante, in quanto ritenuta lesiva di un suo legittimo interesse.
In tale ipotesi infatti, come precisato, il modulo legislativo non configura il formarsi di uno specifico provvedimento dell’amministrazione che assenta formalmente l’esecuzione dei lavori oggetto della denuncia, e pertanto il terzo viene privato del suo principale tipico mezzo di tutela, l’impugnazione, appunto, di tale atto dinanzi al giudice amministrativo.
Nè in proposito può ritenersi che il silenzio tenuto dall’amministrazione nel periodo di tempo assegnatole per controllare la validità della denuncia presentata dall’interessato, acquisti un suo specifico valore provvedimentale, concretandosi in un implicito atto di assenso, a fronte del quale siano esperibili gli ordinari rimedi giurisdizionali.
In primo luogo, infatti, è appena il caso di rilevare che per poter attribuire al silenzio tenuto dall’amministrazione un significato provvedimentale implicito, è necessaria una espressa previsione normativa in tal senso, restando escluso che le ipotesi di silenzio significativo siano configurabili o estendibili a piacere (cfr. per tutte la sentenza della Corte Costituzionale n. 393 del 1992).
E la normativa in questione non contiene minimamente tale previsione, limitandosi a disporre che ove nel termine prescritto sia riscontrata l’assenza di una o più delle condizioni stabilite, l’amministrazione ordini di non effettuare le previste trasformazioni.
In secondo luogo, v’è poi da dire che sul piano sistematico la formazione di un atto di assenso, pur se implicito, sulla denuncia presentata dal privato, si pone in netto contrasto con la natura e le finalità stesse del nuovo istituto.
Come più volte precisato, infatti, alla stregua del generale modello introdotto dall’art. 19 della L. 241/90 anche l’attività edilizia ritenuta minore è stata "liberalizzata", ed è quindi la legge che conferisce direttamente al privato la titolarità del diritto che lo legittima ad intraprendere autonomamente tale attività, senza l’intermediazione di titoli ulteriori.
L’Amministrazione, pertanto, non è chiamata in alcun modo ad intervenire (nè quindi può intervenire) sul processo di produzione della posizione soggettiva del denunciante (la quale giova ripeterlo trova la propria fonte unicamente nella legge), ma è tenuta ad esercitare una mera funzione di controllo, al fine di inibire l’intrapresa di attività edilizie che, in quanto non conformi al parametro normativo, risultino illecite e quindi lesive degli interessi pubblici di settore.
Ipotizzare pertanto la formazione di un atto di assenso implicito sulla denuncia presentata dall’interessato, allo scadere del termine assegnato all’amministrazione per controllare la stessa, è non solo in palese contrasto con la lettera della norma, ma anche con la natura e le finalità del nuovo istituto.
Così, al silenzio tenuto dall’amministrazione nei venti giorni successivi alla presentazione di una denuncia, non può che essere riconosciuto il valore giuridico suo proprio, e cioè di un mero comportamento.
Comportamento che potrà sostanziarsi in un duplice modo.
O in una attività di verifica circa la sussistenza dei prescritti requisiti e presupposti legali conclusasi positivamente, e quindi senza alcuna evoluzione nella successiva fase provvedimentale a contenuto inibitorio come prescritto dalla norma.
Oppure, e il che è lo stesso per i fini qui considerati (ma non per diversi fini collegati ad eventuali responsabilità penali, civili ed amministrative) assumendo rilievo sempre e solo un comportamento, nell’assenza di qualsivoglia attività di controllo.
Per le ragioni esposte, va del pari escluso che allo scadere del termine prescritto, il silenzio in ipotesi tenuto dall’amministrazione equivalga ad un implicito atto di controllo positivo direttamente impugnabile in sede giurisdizionale da parte di chi vi abbia interesse.
Come già precisato, infatti, la fase del controllo-riscontro non ha carattere costitutivo, in quanto non interviene nel processo di produzione della posizione soggettiva del denunciante, e quindi non è preordinata a sfociare in alcun provvedimento di controllo esplicito od implicito, ma a fungere se mai, in caso di accertamento negativo, da presupposto giuridico per l’adozione della prescritta misura inibitoria.
Il silenzio serbato dall’amministrazione, pertanto, non può oggettivamente assumere il valore di un implicito provvedimento di controllo positivo, sottintendendo una mera attività di verifica effettuata "ab externo", assolutamente priva di qualsivoglia effetto provvedimentale di tipo costitutivo.
Conclusivamente, al silenzio tenuto dall’amministrazione non può essere attribuito il valore nè di un tacito atto di assenso all’esercizio delle attività denunciate dal privato, nè di un implicito provvedimento positivo di controllo a rilevanza esterna, ma piuttosto di un mero comportamento rapportabile, sul piano degli effetti legali tipici, ad un’attività di verifica conclusasi positivamente senza intervenire sul processo di produzione della posizione soggettiva del denunciante, e quindi inidonea di per sè a sostanziare un’autonoma determinazione di natura provvedimentale direttamente impugnabile in sede giurisdizionale con un’azione di annullamento.
La norma, cioè, prefigurerebbe una fattispecie a formazione progressiva dove, in presenza di tutti gli elementi costitutivi, verrebbe a formarsi un titolo edilizio che non proviene dall’amministrazione, ma trae origine direttamente dalla legge.
E tali elementi sarebbero la denuncia presentata dal privato, accompagnata dalla prescritta relazione asseverata, il decorso di venti giorni dalla presentazione della stessa, ed il silenzio mantenuto dall’amministrazione in tale periodo di tempo.
Nella concomitanza di questi tre elementi, sarebbe dunque la legge stessa a conferire alla denuncia del privato la natura di "titolo" abilitante all’intrapresa delle attività in essa contemplate, senza bisogno di ulteriori intermediazioni provvedimentali, esplicite od implicite, dell’amministrazione.
Ritiene il Collegio che la tesi prospettata, ancorchè circostanziata, non sia compatibile con il modulo legislativo.
Ed in effetti, come più volte precisato, nel modello della denuncia il fondamento giuridico dell’attività privata è rinvenibile direttamente nella legge, e non nell’intervento dell’amministrazione nè, tantomeno, nella denuncia stessa.
E’ la legge che attribuisce al privato, nella sussistenza dei prescritti requisiti e presupposti, il diritto soggettivo che lo abilita ad intraprendere talune attività edilizie ritenute "minori", per il loro impatto modesto sul territorio.
E quindi, è solo nella legge che può rinvenirsi il "titolo" per la legittima intrapresa di dette attività.
Nell’ambito di detto modello, pertanto, altra è la natura giuridica e la funzione della denuncia presentata dal privato alla pubblica amministrazione.
Sotto un primo profilo, infatti, si è già avuto modo di precisare che tale atto costituisce, all’interno della fattispecie, il momento necessario di contatto tra il diritto soggettivo del proprietario e l’amministrazione, al fine di consentire a quest’ultima di attivare la doverosa e puntuale attività di controllo prevista dalla norma.
Dal punto di vista funzionale, pertanto, la denuncia si sostanzia in un mero atto di comunicazione, per rendere edotta l’amministrazione dell’attività edilizia che sarà intrapresa, e per attualizzare quindi il dovere di quest’ultima di procedere alla puntuale verifica dell’attività stessa.
Sotto altro profilo, poi, la denuncia a ben guardare si sostanzia in un "onere" per il privato, che grava sul lato passivo del suo diritto, in quanto non libero in assoluto, ma necessariamente "relazionato" al potere amministrativo.
In altri termini, ove il proprietario voglia esercitare il proprio diritto, ha l’onere di presentare la relativa denuncia all’amministrazione, pena l’applicazione delle sanzioni espressamente previste dalla norma per tale omissione.
Riguardata sotto il profilo strutturale, quindi, la denuncia costituisce un elemento che caratterizza sul lato passivo il diritto del proprietario, al fine di consentire all’amministrazione la puntuale verifica "ab externo", della sussistenza dei prescritti requisiti e presupposti legali per il legittimo esercizio del diritto stesso.
Conclusivamente, la denuncia si sostanzia in un atto soggettivamente ed oggettivamente privato, che non legittima di per sè l’intrapresa delle preannunciate attività, nè sostituisce giuridicamente alcun titolo edilizio, non potendo quindi costituire oggetto di specifica impugnativa in sede giurisdizionale amministrativa.
Una diversa conclusione, del resto, oltre a risultare incompatibile con il modulo legislativo come sopra evidenziato, porrebbe altresì una serie di problemi teorici ed operativi difficilmente superabili.
Ove si ritenesse invero che nel silenzio dell’amministrazione, allo scadere del termine prescritto, la denuncia si trasformi da atto privato in titolo edilizio idoneo a legittimare di per sè l’esecuzione dei relativi lavori, ne conseguirebbe l’impossibilità (almeno sul piano amministrativo) di poter sanzionare direttamente i lavori stessi, ove difformi dalla normativa di settore.
L’amministrazione, infatti, si troverebbe davanti uno specifico titolo che, ancorchè illegittimo, ha formalmente assentito l’intrapresa dei lavori, e pertanto dovrebbe preventivamente rimuovere lo stesso per poter utilmente applicare le sanzioni previste dalla legge per le opere eseguite in difformità dalla vigente normativa urbanistico-edilizia.
Sennonchè, non è giuridicamente ipotizzabile che questa possa caducare con un proprio provvedimento un siffatto tipo di titolo edilizio, non sussistendo a livello ordinamentale uno specifico potere in tal senso.
Nè è ipotizzabile, nella specie, l’esercizio della autotutela amministrativa, mancando in radice un provvedimento proveniente dalla stessa Amministrazione su cui intervenire.
Come più volte precisato, infatti, nel caso di silenzio l’attività amministrativa all’interno della fattispecie si sostanzia solo e soltanto in un comportamento, o al più, ed il che sul piano degli effetti giuridici è lo stesso, in un mero referto della verifica effettuata, privo di qualsivoglia natura provvedimentale.
Ammettere quindi l’esercizio dell’autotutela, significherebbe in realtà riconoscere la possibilità per l’Amministrazione di annullare una dichiarazione resa da un privato cittadino, indipendentemente dal valore giuridico che la stessa possa assumere.
E tale conclusione, è il caso di ribadirlo, non trova riscontro nè nella fattispecie legale, nè nei principi propri dell’Istituto.
Conseguentemente, si dovrebbe giungere alla dir poco fantasiosa conclusione per cui l’amministrazione possa (e quindi debba) disapplicare il titolo edilizio che ha formalmente assentito l’attività edilizia, ai fini di poter sanzionare la stessa siccome non conforme alla normativa di settore.
A meno che non si voglia ipotizzare, in modo ancor più fantasioso, che l’amministrazione sia addirittura tenuta ad impugnare preventivamente detto titolo dinanzi al giudice amministrativo, in quanto impeditivo dell’esercizio delle funzioni di vigilanza e sanzionatorie di cui è titolare in materia urbanistico-edilizia.
La tesi in questione, pertanto, ancorchè idonea a fornire una piena ed effettiva tutela della posizione soggettiva del terzo assicurando la legittimità costituzionale dell’istituto, non risulta compatibile, a giudizio del Collegio, con il modulo legislativo così per come positivamente conformato.
A tal fine, va in primo luogo verificato se il comportamento silente in questione sia giuridicamente qualificabile come "inadempimento", e come tale sia quindi giustiziabile secondo il rito speciale di cui all’art. 21 bis della L. n. 1034 del 1971.
E’ noto, infatti, come detto rito sia dalla norma espressamente preordinato a sindacare l’inerzia della pubblica amministrazione, esulando dal suo ambito applicativo i casi di silenzio significativo, ossia quelli in cui la legge attribuisce al comportamento silente protratto per un certo termine il valore tipico di assenso o di rigetto.
Al riguardo, peraltro, non può non rilevarsi come l’unico precedente giurisprudenziale in materia, si sia espresso per l’applicabilità del richiamato art. 21 bis della L. 1034/1971 (cfr. T.A.R. Lombardia, Brescia, 1° giugno 2001, n. 397).
Nell’ambito, infatti, di un ricorso proposto da un terzo nei confronti del silenzio tenuto dall’amministrazione su una denuncia di inizio attività in materia edilizia, l’adito tribunale ha ritenuto:
Conseguentemente, dopo aver rilevato che il manufatto oggetto della D.I.A. era in contrasto con le previsioni dello strumento urbanistico, il medesimo tribunale ha concluso:
" che il ricorso va, quindi, accolto con contestuale accertamento dell’obbligo del Comune, scaturente dal suesteso accertamento in merito, di ordinare il ripristino dello stato dei luoghi sia con riferimento alla rimozione del manufatto sia al ripristino dell’area agricola nella situazione quo ante".
Ritiene il Collegio che la tesi prospettata, ancorchè in grado di fornire una adeguata risposta ordinamentale alle esigenze di tutela della posizione soggettiva del terzo, non sia compatibile con il modello della denuncia.
In primo luogo, infatti, il silenzio-inadempimento si sostanzia in un’inerzia non legalmente qualificata dell’amministrazione, successiva alla scadenza di un termine entro la quale essa deve attivarsi a fronte della richiesta di emanazione di un provvedimento.
Pertanto, perchè possa verificarsi tale circostanza, occorre che il soggetto interessato presenti specifica istanza all’amministrazione per ottenere un determinato provvedimento a lui favorevole, e che quest’ultima nel termine prescritto, pur avendo il dovere di esprimersi, non adotti al riguardo alcuna determinazione, nè ponga in essere qualsivoglia attività.
E ciò, per quanto sin qui evidenziato, non ricorre nel caso di silenzio serbato su una denuncia di inizio di attività.
Per un verso infatti, alla stregua del modello legale, non sussiste una richiesta del terzo all’amministrazione per ottenere l’emanazione di un provvedimento inibitorio della preannunciata attività edilizia.
Per altro verso, poi, l’eventuale silenzio serbato dall’amministrazione non si sostanzia, sempre alla stregua del modello legale, in un’inerzia in senso proprio, ma sottende viceversa una attività di controllo conclusasi positivamente, pur senza l’adozione di uno specifico provvedimento.
Ne consegue che la mancata adozione del provvedimento inibitorio (e quindi il silenzio), assume rilievo rispetto all’interesse del terzo non come inadempimento in senso tecnico, ma eventualmente come comportamento illegittimo dell’amministrazione, in quanto espressivo di un’attività di controllo conclusasi positivamente, pur in carenza dei requisiti e dei presupposti fissati dalla legge per la libera intrapresa dell’attività edilizia da parte del denunciante.
In secondo luogo, anche a voler qualificare come inadempimento il silenzio tenuto dall’amministrazione, allo stesso non sarebbero comunque applicabili le disposizioni di cui all’art. 21 bis della L. 1034 del 1971.
Come è noto, infatti, il giudizio di inadempimento è diretto esclusivamente ad accertare se il silenzio serbato dalla pubblica amministrazione sull’istanza del privato violi l’obbligo di adottare il provvedimento esplicito richiesto con l’istanza stessa, senza estendersi all’esame della fondatezza della pretesa sostanziale (cfr. da ultimo e per tutte Ad. Plen. 9.1.2002 n. 1).
Pertanto il giudice adito, pur se il provvedimento de quo abbia natura vincolata, non può sostituirsi all’Amministrazione in alcuna fase del giudizio, ma deve unicamente accertare se il silenzio sia legittimo o meno, imponendo a quest’ultima, in caso di accoglimento del ricorso, di provvedere sull’istanza entro il termine assegnato (cfr. Ad. Plen, citata).
In altri termini, il rito speciale di cui all’art. 21 bis in questione è preordinato ad imporre all’Amministrazione che rimanga inerte l’esercizio della potestà amministrativa di cui è titolare, e non a soddisfare in via diretta la pretesa sostanziale del ricorrente.
Ne consegue che detto rito non può utilmente essere attivato nei confronti del silenzio eventualmente tenuto dall’amministrazione nei venti giorni successivi alla presentazione di una denuncia di inizio attività in materia edilizia.
Nel caso di accoglimento del ricorso, infatti, il giudice adito non potrebbe far altro che ordinare all’amministrazione di esercitare i poteri che viceversa non ha esercitato.
Sennonchè, secondo il parametro legale, i soli poteri di cui l’amministrazione è titolare, nel termine considerato, sono quelli inibitori , che si estinguono allo scadere del termine stesso.
Non è pertanto giuridicamente ipotizzabile una pronuncia che imponga all’amministrazione l’esercizio di una specifica potestà di cui non è più titolare.
Ne consegue, come già rilevato, l’inapplicabilità alla fattispecie del rito speciale di cui all’art. 21 bis, con conseguente inammissibilità di un ricorso eventualmente proposto in tal senso dal terzo a tutela degli interessi che assuma lesi da un intervento edilizio intrapreso a seguito di una denuncia di inizio attività.
Nè può pervenirsi ad una diversa conclusione, anche a voler ritenere (in diverso avviso da quanto precisato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato) che il giudizio di inadempimento possa estendersi all’esame della fondatezza della pretesa sostanziale, con conseguente possibilità per il giudice adito, in caso di accoglimento del ricorso, non solo di dichiarare l’obbligo dell’amministrazione di provvedere, ma di precisare anche come e quando tale obbligo debba essere adempiuto (come sostenuto da un certo filone giurisprudenziale, evidentemente condiviso dal T.A.R. Brescia con la pronuncia più sopra richiamata).
Nel caso della denuncia, infatti, il potere di cui si contesta il mancato esercizio nel termine legalmente prefissato, è quello (e solo quello) inibitorio che si consuma, come più volte precisato, allo scadere del termine stesso.
Non è pertanto giuridicamente possibile che il giudice adito una volta accertato il mancato esercizio di detto potere, ordini poi all’amministrazione di attivarsi con i diversi poteri sanzionatori di cui è titolare ai sensi della L. 47/85 ordinando, in ipotesi, la sospensione ovvero la demolizione delle opere edilizie già realizzate.
Detto ordine infatti si sostanzierebbe, a giudizio del Collegio, in un’indebita interferenza nei confronti di potestà pubbliche di altra natura, che l’ordinamento affida in via esclusiva all’amministrazione, e nei cui riguardi il terzo non si è neppure formalmente attivato in sede giurisdizionale, chiedendone l’esercizio.
L’assunto, invero, è suffragato da pregnanti considerazioni di ordine sia generale che particolare.
In via generale, infatti, in ragione della particolare struttura del modello della denuncia, così per come sia qui delineato, risulta evidente che l’unica azione ammissibile a tutela dei legittimi interessi del terzo sia quella di accertamento, non potendo trovare applicazione nè quella di inadempimento (mancando l’inerzia in senso tecnico dell’amministrazione), nè tanto meno quella di annullamento (mancando un provvedimento da annullare).
Conseguentemente ove si dovesse escludere in radice anche l’esperibilità di tale azione, gli interessi legittimi del terzo resterebbero privi di tutela giurisdizionale, con ogni effetto in ordine alla compatibilità costituzionale del nuovo istituto.
Nello specifico, poi, va rilevato che l’art. 34 del decreto legislativo 31 marzo 1998 n. 80, devolve espressamente alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo "le controversie aventi per oggetto gli atti, i provvedimenti e i comportamenti delle amministrazioni pubbliche e dei soggetti alle stesse equiparati in materia urbanistica ed edilizia".
La circostanza, quindi, che il legislatore abbia devoluto le controversie in materia urbanistica ed edilizia alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, precisando per la prima volta che anche i comportamenti tenuti dalle amministrazioni pubbliche possono costituire oggetto di tali controversie, non può non indurre ad una interpretazione "evolutiva" del disposto normativo, in linea con le profonde innovazioni intervenute in materia di giustizia amministrativa, nell’ambito del generale processo di riforma della P.A. da tempo in atto.
Così è da ritenere che nella materia edilizia, che qui interessa, tutti i comportamenti lesivi di un interesse siano giustiziabili davanti al giudice amministrativo, e non solo quelli che vengano ad incidere posizioni di diritto soggettivo.
Del resto, la dottrina da lungo tempo ha posto in rilievo come il principio di legalità, che ha presieduto alla istituzione della giurisdizione da impugnazione, verrebbe in parte vanificato, ove non trovassero tutela i casi in cui la lesione dell’interesse legittimo è consumata non dall’emissione di un provvedimento nell’esercizio di un potere discrezionale, ma dalla omissione di un atto dovuto o comunque da un comportamento.
Sembra, pertanto, del tutto congruente con le finalità di piena ed effettiva tutela delle posizioni soggettive di fronte all’azione dei pubblici poteri, che l’ordinamento deve garantire tramite gli istituti di giustizia amministrativa, interpretare la disposizione in esame nel senso della ammissibilità in materia urbanistica ed edilizia, di azioni dichiarative o di accertamento nei confronti di comportamenti della P.A. che non si risolvono in un silenzio significativo o inadempiente e che siano lesivi di interessi legittimi.
Del resto, è opportuno rilevarlo, nella materia in questione la lesione degli interessi legittimi del cittadino è determinata in misura notevole e crescente da meri comportamenti dell’amministrazione, non aggredibili con l’ordinario giudizio di annullamento.
Basti pensare, infatti, allo stesso istituto della denuncia di inizio attività, ormai applicabile a pressochè tutti gli interventi edilizi e non solo a quelli minori, oppure alla mancata conclusione di accordi o alla mancata stipula di convenzioni accessive a piani attuativi, ai ritardi o alla occupazione appropriativa e simili.
Deve ragionevolmente ritenersi, pertanto, che a fronte del silenzio tenuto dall’amministrazione nei venti giorni successivi alla presentazione della denuncia, il terzo che si ritenga leso in un suo interesse legittimo possa attivare un giudizio di cognizione, tendente all’accertamento della insussistenza dei requisiti e dei presupposti fissati dalla legge per la libera intrapresa dell’attività edilizia, e quindi della illegittimità del silenzio medesimo, con ogni conseguenza giuridica per ciò che riguarda le opere già compiute.
In caso di accoglimento del ricorso, infatti, queste ultime risulteranno a tutti gli effetti abusive, in quanto realizzate nell’assenza dei prescritti requisiti e presupposti legali, e come tali non potranno non essere sanzionate dall’amministrazione nell’esercizio dei poteri di cui è titolare ai sensi della L. 47 del 1985.
Non v’è dubbio, infatti, che l’ordine di esecuzione della sentenza che verrà impartito all’amministrazione, si risolva nell’obbligo di puntuale e specifica conformazione al contenuto sostanziale della sentenza stessa.
Pertanto, ove detto contenuto consista nell’accertamento dell’illegittimità del comportamento dell’amministrazione che non ha inibito l’avvio delle opere oggetto di denuncia, pur nell’assenza dei requisiti e dei presupposti fissati dalla legge per la loro libera intrapresa, questa dovrà senz’altro attivarsi con i poteri cautelari e sanzionatori di cui è titolare ai sensi della L. 47/85 (ed in virtù altresì dell’espresso richiamo contenuto nell’art. 21 della L. 241/90), per recuperare alla legalità la propria azione.
Ed ove questo non avvenga, il terzo ben potrà adire nuovamente il giudice amministrativo con lo specifico giudizio di ottemperanza, in oggi esperibile anche per ottenere l’esecuzione delle sentenze di primo grado, ove non sospese dal Consiglio di Stato, ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 33 della L. 1034/1971, così per come aggiunto dall’art. 10 della L. 205 del 21 luglio 2000.
Va da sè, poi, che in via accessoria il terzo potrà altresì chiedere giudizialmente il risarcimento dei danni eventualmente subiti dall’illegittimo comportamento tenuto dall’amministrazione, ove ne ricorrano i presupposti.
E tale possibilità, a ben vedere, presuppone proprio un preventivo giudizio di accertamento, la cui ammissibilità risulta quindi anche per questa via ulteriormente comprovata.
Per ciò che riguarda, poi, il termine entro cui deve essere proposto il giudizio di accertamento, ritiene il Collegio che lo stesso vada individuato in quello decadenziale di sessanta giorni dalla conoscenza della illegittimità del comportamento silente tenuto dall’amministrazione. Conoscenza che verosimilmente interverrà, salvo prova contraria, con l’intrapresa dei lavori.
Per un verso, infatti, non è giuridicamente ipotizzabile un diverso termine di natura prescrizionale, in quanto l’azione, ancorchè di accertamento, non è volta alla tutela di un diritto soggettivo ma di un interesse legittimo.
Per altro verso, poi, risulterebbe del tutto irragionevole ed in definitiva elusivo di una effettiva tutela, far decorrere il termine decadenziale dalla formazione del comportamento silente, e quindi automaticamente dallo spirare del ventesimo giorno successivo alla presentazione della denuncia.
Il terzo, infatti, non è parte necessaria della fattispecie, e pertanto ben potrebbe accadere che venga a conoscenza del silenzio serbato dall’amministrazione tardivamente rispetto ad un termine così prefigurato, con conseguente impossibilità di tutelare i propri interessi.
Del resto, a livello sistematico, non può non rilevarsi come costituisca ormai "ius receptum", il principio per cui il termine decadenziale per l’impugnativa di un formale titolo edilizio non decorra dalla sua formazione nè dalla sua pubblicazione, ma dalla piena conoscenza dello stesso e dei vizi che lo inficiano.
Sarebbe pertanto del tutto incongruente con tale assetto, introdurre nella stessa materia e per la stessa pretesa sostanziale, un diverso termine in grado di dilatare a dismisura la possibilità del terzo di sindacare la legittimità di una attività edilizia eventualmente lesiva di un suo legittimo interesse, ovvero di comprimere detta possibilità fino al punto di renderla evanescente.
Pur in presenza di un giudizio di accertamento sul comportamento silente tenuto dall’amministrazione, ritiene infine il Collegio che il terzo possa invocare altresì la tutela cautelare del suo legittimo interesse, ove ne ricorrano i presupposti.
La recente riforma intervenuta in materia di giustizia amministrativa con la legge n. 205 del 21.7.2000, ed in particolare l’integrale riscrittura del settimo comma dell’art. 21 della legge 1034/1971, non possono infatti non indurre ad una interpretazione sistematica in senso evolutivo del processo cautelare, in grado di assicurare tale forma di tutela in via generale, indipendentemente dall’oggetto dell’impugnativa e dalla natura della posizione giuridica che si assuma lesa.
Basti a questo fine rilevare, che il richiamato settimo comma dell’art. 21 della L. 1034/1971, espressamente dispone che il pregiudizio allegato dal ricorrente può derivare sia dall’esecuzione dell’atto impugnato che "dal comportamento inerte dell’amministrazione", e che conseguentemente possono essere richieste le misure cautelari "che appaiono secondo le circostanze, più idonee ad assicurare interinalmente gli effetti della decisione sul ricorso".
Per questa via, quindi, la norma ha superato definitivamente la pregressa configurazione della misura cautelare, introducendo a regime la possibilità di adottare i provvedimenti (non tipizzati) ritenuti più idonei a perseguire lo scopo di assicurare interinalmente gli effetti della decisione sul ricorso.
Deve così ritenersi, in linea di principio, che al giudice amministrativo non possa più essere negata la possibilità di tutelare appieno, anche nella fase cautelare, tutti gli interessi protetti dall’ordinamento per i quali il legislatore ha attribuito agli organi di giustizia il potere di sindacare l’esistenza di un esercizio legittimo della funzione amministrativa.
Alla stregua del nuovo disposto normativo e del principio ad esso sotteso, pertanto, deve ragionevolmente ritenersi che l’interesse legittimo del terzo possa altresì essere tutelato in via cautelare, nell’ambito del delineato giudizio di accertamento, mediante l’adozione delle misure "che appaiono, secondo le circostanze, più idonee ad assicurare interinalmente gli effetti della decisione sul ricorso".
E così, essendo nel caso di specie la decisione conclusiva volta ad accertare l’illegittimità del comportamento silente tenuto dall’amministrazione, con ogni conseguenza in ordine all’attivazione da parte dell’amministrazione dei poteri di cui alla L. 47/85, il giudice della cautela, in caso di accoglimento dell’istanza, adotterà le misure ritenute più idonee per assicurare in via interinale gli effetti sostanziali di tale decisione.
Conclusivamente, la tutela dell’interesse legittimo del terzo nei confronti dell’amministrazione che abbia omesso di esercitare il suo potere inibitorio entro il termine decadenziale fissato dalla legge, si risolve in un’azione di accertamento circa la legittimità di tale comportamento (con ogni conseguenza sulle opere già eseguite, in caso di accoglimento del ricorso), a cui è intimamente connessa un’azione risarcitoria, ove ne ricorrano i presupposti, ed è strumentalmente collegata un’ulteriore azione cautelare per assicurare interinalmente, in presenza di un pregiudizio grave ed irreparabile, gli effetti della decisione sul ricorso.
Al riguardo, infatti, non può non darsi conto di un filone dottrinario che individua (ed esaurisce) la tutela in questione in una azione di inadempimento, esperibile nei confronti del silenzio serbato dall’amministrazione a seguito di specifica e formale diffida ad esercitare i poteri di cui è titolare ai sensi della L. 47/85, per sanzionare gli interventi edilizi realizzati in base ad una denuncia inidonea a legittimarne l’intrapresa.
L’assunto, peraltro, è rinvenibile in una recente pronuncia del T.A.R. Campania, ove viene correttamente affermato che esauritisi i poteri inibitori, rimane comunque "integro per la P.A. un più generale potere di intervento successivo", che l’art. 21 della L. 241/90 espressamente prevede raccordando la procedura della denuncia a tutto il sistema sanzionatorio già operante (cfr. T.A.R. Campania – Napoli, 6 dicembre 2001, n. 5272).
Da tale presupposto giuridico, l’anzidetto tribunale ha quindi preliminarmente ritenuto che "l’accoglimento della domanda di accertamento dell’obbligo di provvedere deve incontestabilmente essere filtrata da una verifica in questa sede della conformità a legge della dichiarazione del privato e solo se tale verifica si conclude con la negazione della conformità si potrà affermare la illegittimità del silenzio della P.A.", in quanto la tutela del terzo "non può mirare indiscriminatamente alla emanazione di un provvedimento qualsivoglia, anche eventualmente negativo, sia perchè ciò significherebbe reintrodurre la necessità di un atto amministrativo la cui negazione è il fine essenziale della norma, sia perchè si ricadrebbe in una ipotesi normale di intervento sanzionatorio nei confronti della quale sembra preferibile negare un obbligo di provvedere sanzionabile in sede giudiziaria".
Accertata poi l’insussistenza delle "condizioni che legittimano l’intrapresa di una attività libera sulla base della D.I.A.", il medesimo tribunale ha precisato "che l’amministrazione ha l’obbligo di rispondere sulla istanza del...in ordine alla mancata attivazione dei suoi poteri repressivi ex art. 21, 2° c., L. 241/90 anche con specifico riferimento a quelli propri della legislazione edilizia; resta dunque intatta la possibilità di accertare, su domanda del terzo (....), ed a tutela della sua posizione di interesse legittimo, perchè l’amministrazione non abbia sanzionato ex art. 21 summenzionato tale attività e, soprattutto, se e come intende recuperare alla legittimità l’intervento, tenendo adeguatamente conto anche dei possibili profili dell’affidamento ingeneratosi nell’interessato anche in relazione al tempo trascorso", ed ha quindi concluso affermando "l’obbligo dell’amministrazione di rispondere come da motivazione, sulla istanza del...circa il mancato esercizio dei suoi poteri repressivi in ordine alle denunce di inizio di attività, presentate dalle resistenti".
Ritiene il Collegio che pur nella permanenza in testa alla P.A. del generale potere sanzionatorio di cui alla L. 47/85, la tesi esposta non sia compatibile con i principi di diritto più sopra esposti in merito alla applicabilità dello speciale rito di cui all’art. 21 bis della L. 1034/1971.
In primo luogo, infatti, il silenzio eventualmente mantenuto dall’amministrazione sulla diffida del terzo, non è neppure qualificabile come inadempimento in senso tecnico.
Quest’ultimo, infatti, non chiede l’emissione di uno specifico provvedimento attraverso cui, per espressa previsione normativa, può unicamente e direttamente essere soddisfatta la sua pretesa ad un bene della vita di cui assuma la giuridica spettanza, ma pretende piuttosto, a ben vedere, l’esercizio in via generale di una funzione amministrativa da cui può eventualmente ed in via indiretta essere soddisfatto anche un suo interesse.
E rispetto a siffatta pretesa, non sembra configurabile uno specifico obbligo giuridico dell’amministrazione di provvedere nel termine a tal fine assegnato, pena il formarsi di un silenzio-inadempimento impugnabile in sede giurisdizionale amministrativa.
In secondo luogo, il comportamento silente tenuto dall’Amministrazione nei venti giorni successivi alla presentazione della denuncia, come già rilevato, assume la valenza sul piano degli effetti legali tipici, di un’attività di verifica circa la sussistenza delle condizioni che legittimano l’intrapresa dell’attività, conclusasi positivamente.
Ed a fronte di tale circostanza, è da escludere che il terzo possa esperire un’azione di inadempimento nei confronti dell’Amministrazione che non si attivi con una nuova verifica, piuttosto che impugnare direttamente l’originario comportamento tenuto da quest’ultima, con un’azione di accertamento.
Per tale via, infatti, verrebbe elusa la fondamentale regola della necessaria impugnazione dell’atto (in questo caso del comportamento) amministrativo nei prescritti termini decadenziali, e, quel che è più irragionevole, si consentirebbe al terzo di poter sindacare in qualsiasi momento, e quindi anche a notevole distanza di tempo, l’attività edilizia posta in essere dal denunciante, con ogni conseguenza sul piano della certezza dei rapporti giuridici.
In terzo luogo, anche a voler qualificare come inadempimento il silenzio nella specie tenuto dall’amministrazione, a questo non sarebbe comunque applicabile il rito di cui all’art. 21 bis.
Ed invero, come espressamente riconosciuto dallo stesso T.A.R. Campania nella sentenza sopra richiamata, l’accoglimento della domanda di accertamento dell’obbligo di provvedere presuppone necessariamente l’esame della bontà della pretesa sostanziale dedotta in giudizio, e quindi questa deve "incontestabilmente essere filtrata da una verifica...della conformità a legge della dichiarazione del privato e solo se tale verifica si conclude con la negazione della conformità si potrà affermare la illegittimità del silenzio della P.A.".
E questo, è opportuno rilevarlo, proprio perchè il privato pretende l’esercizio in generale di una funzione amministrativa, a cui non è ricollegabile in via diretta la soddisfazione di un interesse giuridicamente protetto.
Sennonchè, come già precisato, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha da ultimo chiarito che il giudizio di inadempimento non può estendersi all’esame della fondatezza della pretesa sostanziale, essendo diretto esclusivamente ad accertare se il silenzio serbato dalla pubblica amministrazione sull’istanza del privato violi l’obbligo di adottare il provvedimento esplicito richiesto con l’istanza stessa.
Ne consegue che decorso il termine di venti giorni dalla presentazione della denuncia, l’amministrazione ben potrà (o meglio dovrà) esercitare i poteri di cui è titolare ai sensi della L. 47/85 per sanzionare le opere edilizie che siano state realizzate nell’assenza dei requisiti e dei presupposti fissati dalla legge, senza però che al riguardo il terzo possa intervenire con uno specifico giudizio di inadempimento ai sensi del citato art. 21 bis, in caso che la relativa funzione non venga attivata nel termine a tal fine assegnato con specifica e formale diffida.
11.1.Col primo mezzo di censura i ricorrenti contestano l’applicabilità al caso di specie dei disposti di cui all’art. 2, comma 60, punto n. 7 della L. 662/96, a ciò ostandovi il vincolo ex lege n. 1089/39 gravante sull’immobile oggetto d’intervento.
La doglianza non può essere condivisa.
Ed invero, la controversia questione circa l’applicabilità del nuovo istituto della denuncia di inizio attività in materia edilizia anche agli immobili sottoposti a tutela storico-artistica o paesaggistica-ambientale, non può ad oggi che essere risolta positivamente.
Al riguardo, infatti, va rilevato che il punto 15 della citata norma contempla la possibilità che l’interessato inoltri una nuova denuncia, ove nella prima difettino le "stabilite condizioni", mediante modificazioni o integrazioni dei progetti, "ovvero mediante acquisizioni di autorizzazioni, nulla osta, pareri, assensi comunque denominati...".
Ed è evidente che, in quest’ultima ipotesi, la norma faccia riferimento agli assensi delle amministrazioni, diverse da quella comunale, proposte alla tutela dei vincoli espressamente indicati al precedente punto otto.
Infatti lo stesso punto 15 presuppone che nella denuncia presentata manchino le "stabilite condizioni", ovvero che gli immobili risultino interessati dai vincoli di cui al precedente punto 8 lett. a).
In definitiva, dal combinato disposto di cui al punto 8 ed al punto 15 del citato art. 2, comma 60, della L. 662/96, emerge che al fine di soddisfare la condizione richiesta per procedere a denuncia di inizio attività nell’ipotesi di immobili vincolati, è sufficiente (e necessario) che l’interessato presenti, unitamente alla denuncia, il dovuto nulla osta della competente autorità.
Infatti, non avrebbe alcun senso logico, prima che giuridico, ipotizzare che l’acquisizione del prescritto nulla osta sia consentita solo con una seconda denuncia, dopo che la prima sia stata controllata negativamente per effetto automatico della sussistenza di un vincolo sull’immobile oggetto d’intervento.
Del resto, la "ratio" della norma è quella di non assoggettare in via immediata al regime della denuncia gli interventi da realizzare su immobili vincolati, allo scopo di evitare che possa essere pretermessa ogni valutazione da parte del soggetto proposto alla tutela del relativo vincolo.
Ne consegue che non possono ragionevolmente ritenersi esclusi da detto regime quegli interventi che, oggettivamente riconducibili alle fattispecie sostanziali individuate dalla norma, abbiano preventivamente riportato il prescritto nulla osta da parte della amministrazione competente alla tutela del relativo vincolo.
Al riguardo, peraltro, non può non rilevarsi come tutta la normativa sopravvenuta a disciplinare la materia dia espressa conferma di quanto sopra precisato.
In primo luogo, infatti, il D. Lgs. 29 ottobre 1999 n. 490, nello stabilire la nuova disciplina in materia di beni culturali ed ambientali, ammette espressamente all’art. 36 l’applicabilità della D.I.A. in relazione a lavori di restauro su immobili vincolati, nel caso di preventivo rilascio della relativa autorizzazione da parte della Soprintendenza.
In secondo luogo il nuovo testo unico in materia edilizia, ancorchè differito nella sua entrata in vigore, nel "coordinare" i punti 8 e 15 dell’art. 2, comma 60, della L. 662/96 sopra richiamati, espressamente consente l’applicabilità della D.I.A. anche su immobili vincolati, disponendo all’art. 22, comma 3, che in tale ipotesi la realizzazione degli interventi "é subordinata al preventivo rilascio del parere o dell’autorizzazione richiesti dalle relative previsioni normative".
In terzo luogo, la legge 21 dicembre 2001, n. 443, per un verso abroga il più volte citato punto 8 dell’art. 2, comma 60, della L. 662/96, e per altro verso espressamente conferma l’applicabilità della D.I.A. anche agli immobili vincolati, previa acquisizione del prescritto atto di assenso da parte della competente autorità.
Per quanto sopra esposto, la censura dedotta si appalesa infondata, avendo i ricorrenti ottenuto per i lavori oggetto della contestata denuncia di inizio attività, la preventiva autorizzazione della competente Sovrintendenza, una prima volta in data 2 aprile 1977, ed una seconda volta in data 21 agosto 1997.
11.2.Il secondo motivo è parimenti privo di fondamento, considerato che per un verso il contestato intervento rientra pienamente nell’ambito di applicazione oggettiva della D.I.A., ai sensi del punto 7 lett. b) dell’art. 2, comma 60, della L. 662/96, e che per altro verso lo stesso è stato preventivamente autorizzato dalla competente Sovrintendenza, con gli atti sopra richiamati.
11.3.Con il terzo mezzo di censura, i ricorrenti deducono che gli interventi oggetto della contestata D.I.A. non sarebbero conformi alla vigente normativa urbanistica ed edilizia, in quanto realizzati in contrasto con il divieto di sopraelevazione disposto per le zone "A" dal P.R.G. del Comune di Genova, nonchè in contrasto con l’art. 8 del D.M. n. 1444/1968, secondo cui all’interno di dette zone "A" per le operazioni di risanamento conservativo non possono essere superate le altezze degli edifici preesistenti.
La doglianza non ha pregio.
Ed invero, è incontroverso in causa che l’incremento volumetrico in questione è destinato esclusivamente ad ospitare un impianto (ascensore con annessi macchinari) avente un rapporto di stretta e necessaria strumentalità con l’utilizzazione dell’immobile, in quanto volto ad eliminare le preesistenti barriere architettoniche, ed impossibilitato ad essere sistemato all’interno dell’edificio.
Non v’è dubbio, pertanto, che detto incremento sia qualificabile giuridicamente come "volume tecnico" , necessario per realizzare le finalità (peraltro di particolare rilievo sociale) perseguite sia a livello statale che regionale rispettivamente con le leggi n. 13/89 e 15/89.
Ne consegue l’inapplicabilità dell’invocata normativa, siccome espressamente riferita dalle norme di attuazione del P.R.G. per le zone "A" in questione agli interventi "a livello urbanistico", consistenti nella "edificazione di nuovi fabbricati..nell’ampliamento o la modificazione volumetrica, nella demolizione integrale o di parti consistenti di fabbricati...", con esclusione quindi dei semplici interventi di adeguamento degli edifici preesistenti.
A ciò aggiungasi, che l’asserito e paraltro indimostrato contrasto con la richiamata normativa non può in ogni caso assumere determinante rilievo, atteso che le richiamate leggi in materia di abbattimento delle barriere architettoniche ammettono gli interventi a ciò necessari, anche in "contrasto con le prescrizioni degli strumenti urbanistici" (art. 16 L.R. n. 15/89) ed "in deroga alle norme sulle distanze previste dai regolamenti edilizi..." (art. 3 L. n. 13/89).
Sussistono tuttavia giusti motivi per disporre l’integrale compensazione tra le parti delle spese di giudizio, attesa l’assoluta novità e particolarità della questione oggetto di controversia.
P.Q.M.
il Tribunale Amministrativo Regionale della Liguria sez. Prima, respinge il ricorso in epigrafe, siccome infondato.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dalla autorità amministrativa.
Così deciso in Genova, nella Camera di Consiglio del 07/02/2002 con l’intervento dei Signori Magistrati:
Giuseppe Petruzzelli Presidente f.f.
Roberto Pupilella Consigliere
Antonio Bianchi Consigliere, estensore
Depositata in Segreteria il 22 gennaio 2003.