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n. 10-2002 - © copyright.

TAR VENETO, SEZ. I – Ordinanza 3 ottobre 2002 n. 5946 – Pres. ff. De Zotti, Est. Gabbricci - Amato (Avv. F. M. Curato) c. Amministrazione della Corte dei conti (Avv. Stato Brunetti).

Pubblico impiego – Mansioni e funzioni – Mansioni superiori svolte – Prima dell’entrata in vigore dell’art. 15 del d.lgs. 29 ottobre 1998, n. 387 – Disciplina che, secondo la corrente interpretazione, non consentirebbe il riconoscimento sotto il profilo economico delle mansioni superiori – Questione di legittimità costituzionale – Va sollevata.

In relazione all’art. 36 Cost., va sollevata questione di costituzionalità: a) dell’art. 33 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3; b) dell’art. unico del d.lgs. 19 luglio 1993, n. 247, nella parte in cui fa decorrere l’efficacia dell’art. 57, 2° comma, del d.lgs. 29/93 dal 1° ottobre 1993; c) dell’art. 25 del d.lgs. 23 dicembre 1993, n. 546, nella parte in cui, novellando l’art. 57 del ripetuto d. lgs. 29/93, ne prevede, al 6° comma di questo, la decorrenza, anche quanto al 2° comma, «dalla data di emanazione, in ciascuna amministrazione, dei provvedimenti di ridefinizione degli uffici e delle piante organiche di cui agli articoli 30 e 31 e, comunque, a decorrere dal 30 giugno 1994»; d) dell’art. 1, comma 5, del decreto-legge 28 agosto 1995, n. 361, convertito, con modificazioni, dalla legge 27 ottobre 1995, n. 437, dell’art. 12, 3° comma del d.l. 10 maggio 1996, n. 254, conv. in l. 11 luglio 1996, n. 365, dell’art. 12, 3° comma, del d.l. 31 dicembre 1996, n. 669, convertito in legge, con modificazioni, dalla L. 28 febbraio 1997, n. 30, nonché dell’art. 39, comma 17°, della l. 27 dicembre 1997, n. 449, nella parte in cui tali disposizioni hanno successivamente prorogato l’entrata in vigore del ripetuto art. 57, 2° comma; e) dell’art. 56 del d.lgs. 29/93, nel testo introdotto dall’art. 25, del d.lgs. 80/98, nella parte in cui, al 6° comma, dispone che, sino all’attuazione della nuova disciplina degli ordinamenti professionali prevista dai contratti collettivi e con la decorrenza da questi stabilita, in nessun caso lo svolgimento di mansioni superiori rispetto alla qualifica di appartenenza può comportare il diritto a differenze retributive del lavoratore (1).

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(1) Come risulta dalla motivazione dell’ordinanza in rassegna, la controversia da cui prende le mosse l’ordinanza stessa riguarda la pretesa di un dipendente della Corte dei conti di avere corrisposte le differenze retributive nel periodo (nella specie ricompreso tra il 1° settembre 1985 ed il 24 luglio 1998) in cui aveva svolto mansioni superiori.

Secondo l’orientamento del Consiglio di Stato, tuttavia, in mancanza di apposita disciplina, non sarebbe possibile in via generale riconoscere sotto il profilo economico le mansioni superiori svolte prima dell’entrata in vigore del d.lgs. 29 ottobre 1998, n. 387, il cui art. 15 ha modificato l’art. 56 del d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29 (v. in tal senso in questa Rivista da ult. Cons. Stato, sez. VI – sentenza 5 settembre 2002, n. 4490, con ampia nota di richiami; su tale sentenza v. il commento di G. VIRGA, La retribuibilità delle mansioni superiori svolte dai pubblici dipendenti ante D.L.vo n. 387/98).

V. anche in argomento da ult. L. OLIVERI, Sostituzione, delega e mansioni superiori (nota a TAR Puglia-Bari, Sez. II, n. 2377/2002).

 

 

A) per l’annullamento della determinazione 10 giugno 1999, n. 585/208, del dirigente del segretariato generale della Corte dei conti, con cui viene rigettata l’istanza di riconoscimento economico delle mansioni superiori svolte dal ricorrente;

B) per l’accertamento del diritto del ricorrente alla corresponsione delle maggiori somme per le mansioni superiori connesse alla VI qualifica funzionale, svolte a partire dal 1985, con gli accessori di legge.

(omissis)

FATTO

Francesco Amato, dipendente della Corte dei conti, inquadrato nella V qualifica funzionale, profilo professionale di operatore amministrativo, nel dicembre 1998, si rivolse al segretariato generale della Corte dei conti, per ottenere le differenze retributive per le mansioni superiori assertivamente espletate a partire dal 1 settembre 1985 e sino al 24 luglio 1998.

Il Segretariato generale della Corte dei conti respinse la richiesta con atto 10 giugno 1999, n. 585/208: in particolare, alla considerazione dell’istante che, con la modificazione dell’ art. 56 del d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, recata dall’ art. 15 del d.lgs. 29 ottobre 1998, n. 387, sarebbe stato rimosso il divieto di retribuzione per le mansioni superiori comunque svolte, l’Amministrazione replicava che, alla stregua della stessa disposizione, «la regolamentazione della materia riguardante le mansioni superiori viene rimandata alla fase di attuazione della nuova disciplina degli ordinamenti professionali prevista dai contratti collettivi e con la decorrenza da questi stabilita»; e, con il contratto di categoria, sottoscritto il 16 febbraio 1999, «l’ordinamento professionale risulta modificato e la disciplina di cui trattasi è subordinata, stante l’ art. 24 del contratto stesso, alla successiva individuazione, in sede di contrattazione integrativa, di condizioni e criteri per il riconoscimento delle mansioni superiori».

L’Amato ha allora proposto il ricorso in esame, avverso tale determinazione e per l’accertamento del diritto alla corresponsione del trattamento retributivo differenziale, relativo al periodo suddetto, con gli accessori di legge, e per la conseguente condanna dell’Amministrazione: nel giudizio si è costituita la Corte dei conti, concludendo per la reiezione.

DIRITTO

1. Va preliminarmente appurato se il ricorrente Amato, inquadrato nella V qualifica, abbia effettivamente esercitato mansioni superiori, per quale periodo, ed a quale posizione esse possano eventualmente corrispondere: in concreto se alla VI, come l’Amministrazione sembra aver ammesso, ovvero alla VII come, in qualche punto, il dipendente sostiene.

Dalla documentazione in atti, risulta:

a) la dichiarazione 10 ottobre 1989 del referendario direttore della delegazione regionale della Corte dei conti per il Veneto, presso la quale l’Amato prestava servizio, in cui si attesta che il dipendente, dal primo settembre 1985, e sino alla data della stessa dichiarazione, aveva svolto "attività di revisione dei provvedimenti relativi al settore Ministero pubblica istruzione-Università";

b) la nota 22 aprile 1996 del magistrato direttore della delegazione, relativa alle situazioni di "scostamento" (e, cioè, di svolgimento da parte di singoli dipendenti, di mansioni superiori a quelle della qualifica): da questa emerge che, in base agli ordini di servizio ed ai provvedimenti formali emessi negli anni precedenti, il dipendente Amato era stato applicato nel ruolo di collaboratore, VII qualifica funzionale, sebbene nella stessa nota si soggiunga che l’attività da questo concretamente svolta, pur se di revisione, sarebbe stata da ricondurre al profilo di assistente amministrativo, VI qualifica funzionale ex d.P.R. 1219/84;

c) l’atto di contrattazione decentrata 30 luglio 1998, in cui la parte pubblica e due organizzazioni sindacali concordano sullo "scostamento" dell’Amato dalla V alla VI qualifica.

Tali elementi, nel loro complesso, permettono di affermare che l’Amministrazione di appartenenza ha più volte riconosciuto d’aver volontariamente assegnato il dipendente Amato a svolgere le mansioni proprie della VI qualifica funzionale a partire dal 1985 e fino al 24 luglio 1998.

2.1.1. In tali limiti – sia pure meno ampi rispetto al petitum del ricorrente - la domanda dell’ Amato potrebbe dunque trovare accoglimento, sulla base dei principi interpretativi stabiliti in materia dalla Corte costituzionale.

A partire dalla fine degli anni ottanta del secolo trascorso, infatti, la Corte si è spesso pronunciata su punto, inizialmente con riferimento all’art. 29 del d.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761, sullo stato giuridico del personale delle unità sanitarie locali, il cui II comma era solitamente inteso dal giudice amministrativo come preclusivo del diritto del lavoratore al compenso differenziale per le mansioni superiori di fatto svolte; il Giudice delle leggi, con decisioni interpretative di rigetto (ordinanze 26 luglio 1988, n. 908; 31 luglio 1990, n. 408; 26 marzo 1991, n. 130; sentenze 23 febbraio 1989, n. 57, e 19 giugno 1990, n. 296), dichiarò a più riprese infondata la questione di legittimità costituzionale prospettata, affermando che la disposizione, essendo norma eccezionale, va interpretata rigorosamente, nel senso che l’adibizione temporanea a mansioni superiori, per esigenze di servizio, non dà diritto a variazioni del trattamento economico solo entro il limite temporale massimo ivi indicato, superato il quale spetta al prestatore di lavoro il trattamento economico corrispondente alla qualità del lavoro effettivamente prestato, in via di applicazione diretta dell’art. 36, I comma, Cost., sulla base dell’art. 2126, I comma, c.c. .

La Corte ritornò poi sul tema in termini più generali, seppure ancora in occasione dello scrutinio di legittimità costituzionale del ripetuto art. 29, II comma, con l’ordinanza 23 luglio 1993, n. 337, in cui stabilì che:

a) nell’ambito normativo dell’art. 36 Cost. sono compresi anche i rapporti di pubblico impiego;

b) l’art. 97 Cost. non é incompatibile con il riconoscimento all’impiegato, trasferito temporaneamente a mansioni superiori, del diritto al trattamento economico corrispondente, per il periodo di assegnazione alle medesime, ma giustifica, unitamente all’art. 98, I comma, Cost., talune limitazioni di questo diritto;

c) l’art. 98 Cost. é incompatibile soltanto con l’integrazione nella disciplina del pubblico impiego della regola privatistica (art. 2103 cod. civ.) di automatica acquisizione della qualifica superiore quando l’assegnazione si prolunghi oltre un certo periodo di tempo;

d) l’accertamento della capacità professionale mediante procedure concorsuali o altri modi formali previsti dalla legge é un presupposto costitutivo dell’inquadramento del dipendente nella corrispondente qualifica funzionale, non un indice della qualità del lavoro prestato necessario per l’applicabilità dell’art. 36 Cost., né é indispensabile a tal fine un provvedimento formale di conferimento dell’incarico: in virtù dell’art. 2126 cod. civ., applicabile anche ai prestatori di lavoro dipendenti da enti pubblici (art. 2129 cod. civ.), per far valere il diritto al trattamento differenziale é sufficiente che il dipendente abbia svolto di fatto mansioni superiori alla qualifica in conformità di una direttiva impartitagli, anche informalmente, dal dirigente preposto all’unità organizzativa nella quale il dipendente presta servizio.

Nella successiva sentenza 31 marzo 1995, n. 101, poi, fu anzitutto confermato che il potere, attribuito al dirigente preposto all’organizzazione del lavoro, di trasferire temporaneamente un dipendente a mansioni superiori, per esigenze straordinarie di servizio, è un mezzo indispensabile per assicurare il buon andamento dell’Amministrazione.

Inoltre, la Corte rimarcò come la spettanza al lavoratore del trattamento retributivo corrispondente alle funzioni di fatto espletate è un precetto dell’art. 36 Cost., la cui applicabilità all’impiego pubblico non può essere messa in discussione: l’astratta possibilità di abuso di tale potere e delle sue conseguenze economiche, nella forma di protrazioni illegittime dell’assegnazione a funzioni superiori, non basta a limitare l’applicazione del principio costituzionale di equivalenza tra la retribuzione ed il lavoro effettivamente prestato.

2.1.2. In seguito, la questione fu riproposta alla Corte, ma con riferimento all’art. 33, I comma, del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, laddove questo prescrive che «l’impiegato ha diritto allo stipendio ed agli assegni per carichi di famiglia, nella misura stabilita dalla legge, in relazione alla quantità e qualità delle prestazioni rese»: i giudici remittenti avevano infatti individuato in tale disposizione – almeno per i pubblici dipendenti non inclusi nel Servizio sanitario nazionale – un ulteriore ostacolo alla retribuzione delle mansioni superiori svolte.

Peraltro, anche in questo caso, la questione fu dichiarata più volte infondata, sul rilievo che la disciplina dell’art. 33 del d.P.R. 3/1957 si riferisce "alla situazione fisiologica degli uffici", cioè alla situazione normale nella quale le mansioni svolte dall’impiegato coincidono con la sua qualifica funzionale, sicché lo stesso art. 33 non pregiudica il trattamento economico del dipendente nei casi eccezionali di adibizione a mansioni superiori (ordinanza 22 luglio 1996, n. 289), e non costituisce argomento a contrario circa una preclusione all’adeguamento del trattamento economico secondo i princìpi ripetutamente enunciati dalla stessa Corte in conformità degli artt. 36 Cost. e 2126 cod. civ. (cfr. ordinanze 18 ottobre 1996, n. 347, 6 novembre 2001, n. 349, e, da ultimo, 10 aprile 2002, n. 100).

2.2. La pur autorevole interpretazione proposta dalla Corte costituzionale non può, peraltro, essere seguita da questo Collegio, una volta stabilito – come si vedrà di seguito - come di tutt’altro contenuto sia il diritto vivente che disciplina la materia, e che, pertanto, necessariamente prevale sulle pronunce interpretative di rigetto della Corte, per tali prive di efficacia vincolante erga omnes.

Invero, la giurisprudenza amministrativa, che, prima delle sentenze della Corte costituzionale, aveva quasi sempre respinto (così, ancora, C.d.S., a.p., 5 luglio 1989, n. 10) le domande per il riconoscimento dei compensi differenziali, sembrò adeguarsi all’interpretazione di quella, sia pure quasi esclusivamente con riferimento al citato art. 29 e, dunque, per i dipendenti del Servizio sanitario nazionale.

L’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con la sentenza 16 maggio 1991, n. 2, stabilì, infatti, che, qualora la sostituzione «avvenga per un posto vacante e disponibile, senza che l’Amministrazione abbia provveduto a coprirlo, l’applicazione dell’art. 29, comma 2, d.P.R. 20 dicembre 1979 n. 761, in relazione all’art. 36 Cost. ed all’art. 2126 comma 1 c.c., comporta che il diritto alla variazione del trattamento economico è escluso per legge, solo se lo svolgimento delle mansioni superiori sia contenuto entro il periodo massimo di 60 giorni nell’anno solare».

Peraltro, lo stesso giudice amministrativo, segnatamente quello d’appello, ha continuato ad affermare che il trattamento economico dei dipendenti pubblici è solo quello spettante in relazione alla qualifica formalmente rivestita e le funzioni, o le mansioni, di livello superiore, rispetto a quelle dovute dal dipendente in ragione di tale qualifica, sono del tutto irrilevanti anche ai soli fini economici, a meno che non esista una norma espressa che consenta sia l’assegnazione delle mansioni superiori, sia la correlata maggiorazione retributiva (tra le molte, C.d.S., V, 22 novembre 2001, n. 5924; V, 2 luglio 2001, n. 3571; IV, 9 novembre 2000 n. 5982; IV, 20 ottobre 2000, n. 5611; C.d.S., VI, 28 agosto 2000 n. 4553; V, 1 marzo 2000, n. 1079; IV, 24 febbraio 2000, n. 972; V, 20 febbraio 2000 n. 926; V, 7 febbraio 2000 n. 668; V, 17 gennaio 2000, n. 286, IV, 19 febbraio 1999, n. 175; VI, 26 gennaio 1999, n. 52): "norma espressa" che, di fatto, è stata individuata quasi esclusivamente nel ripetuto art. 29: si è sostenuto di adeguarsi, in tal modo, all’interpretazione della Corte, pur precisando che «i principi espressi dalla Corte costituzionale in materia di spettanza delle differenze retributive per mansioni di fatto svolte dai dipendenti delle USL non possono essere estesi ad altri rapporti di pubblico impiego» (C.d.S., V, 12 ottobre 1999, n. 1447; id. 5 novembre 1999, n. 1833).

2.3. Tale orientamento trova sintesi e definitivo consolidamento in tre successive decisioni dell’ Adunanza plenaria, le sentenze 18 novembre 1999, n. 22, 28 gennaio 2000, n. 10, e 23 febbraio 2000, n. 11.

Nella motivazione della prima decisione, in particolare, si afferma anzitutto che «il principio della irrilevanza giuridica ed economica dello svolgimento, in tutte le sue forme, di mansioni superiori nell’ambito del pubblico impiego - salvo che tali effetti derivino da un’espressa previsione normativa - è un dato acquisito alla giurisprudenza di questo Consiglio».

Né, rileva la sentenza, l’art. 36 Cost. può trovare incondizionata applicazione nel rapporto di pubblico impiego, concorrendo in detto ambito altri principi di pari rilevanza costituzionale: la sua operatività in tale contesto, infatti, «trova un limite invalicabile nell’art. 97 della Carta fondamentale», in quanto l’esercizio di mansioni superiori rispetto alla qualifica rivestita, «contrasta con il buon andamento e l’imparzialità dell’Amministrazione nonché con la rigida determinazione delle sfere di competenza, attribuzioni e responsabilità proprie dei funzionari».

Per quanto poi concerne la disciplina positiva di grado primario, l’Adunanza plenaria constata anzitutto che il principio di non retribuibilità da essa affermato «per i dipendenti dello Stato (…) è stato accolto dall’art. 33 del D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, laddove afferma che l’impiegato ha diritto allo stipendio ed agli assegni per carichi di famiglia "nella misura stabilita dalla legge"».

Inoltre, prosegue la decisione, se l’art. 57 del D.L.vo 3 febbraio 1993, n. 29, aveva introdotto una nuova, completa disciplina dell’attribuzione temporanea di mansioni superiori, «riconoscendo entro certi limiti rilevanza economica a detta attribuzione, con disposizioni peraltro innovative del pregresso sistema nel quadro di "privatizzazione" del pubblico impiego», esso è stato abrogato dall’art. 43 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, senza avere avuto mai applicazione, giacché la sua operatività è stata a più riprese differita senza soluzione di continuità.

La materia è ora disciplinata, continua la sentenza, dall’art. 56 del D.L.vo n. 29 del 1993, nel testo dapprima sostituito con l’art. 25 del D.L.vo n. 80 del 1998, e successivamente modificato dall’art. 15 del D.L.vo 29 ottobre 1998 n. 387.

Con la novellazione operata dal d.lgs. 80/98, l’ art. 56, invero, ha previsto espressamente la retribuibilità dello svolgimento delle mansioni superiori, ma (VI comma) rinviandone l’applicazione in sede di attuazione della nuova disciplina degli ordinamenti professionali, prevista dai contratti collettivi e con la decorrenza da questi stabilita, per cui, fino a tale data, «in nessun caso lo svolgimento di mansioni superiori rispetto alla qualifica di appartenenza può comportare il diritto a differenze retributive o ad avanzamenti automatici nell’inquadramento professionale del lavoratore».

La modificazione introdotta dal ripetuto art. 15 d.lgs. 387/98 (pubblicato sulla G.U. 7 novembre 1998 n. 261), ha poi soppresso le parole «a differenze retributive o»; ma tale modifica può avere effetto soltanto dalla sua entrata in vigore, «con la conseguente inapplicabilità alle situazioni pregresse» (così anche a.p., n. 11/00, cit.; conf. a.p. 10/00, e, da ultimo, C.d.S. 5 settembre 2002, n. 4490 e C.d.S., V, 5924/01, cit.).

3.1. In sintesi, dunque, per quanto di rilievo nella presente controversia, i dipendenti dell’ Amministrazioni pubbliche, diverse dal Servizio sanitario nazionale, non hanno alcun diritto a percepire il trattamento economico corrispondente alle mansioni superiori svolte, almeno per il periodo compreso dal 1 settembre 1985 sino alla data del 24 luglio 1998, indicata dal ricorrente Amato nella sua domanda.

Tale conclusione, invero, si fonda su di un indirizzo giurisprudenziale stabilizzato, soprattutto dopo le tre pronunce dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato (la cui concreta funzione nomofilattica non v’è certo bisogno di sottolineare) cui si vanno ormai uniformando anche i giudici di primo grado (cfr., tra le ultime, TAR Campania, V, 4 luglio 2002, n. 3929; TAR Lazio, I-bis, 25 maggio 2002, n. 4634 e 13 maggio 2002, n. 4166).

Si può dunque affermare che il diritto vivente in subiecta materia è quello espresso nelle decisioni dell’adunanza plenaria: l’ art. 36 non è direttamente applicabile ai dipendenti pubblici e non basta quindi a legittimare la retribuzione delle mansioni superiori svolte, mentre le norme di grado legislativo, come l’ art. 33 del d.P.R. 3/57, escludono tale diritto, o, se lo riconoscono, non sono operative (come, appunto, gli artt. 56 e 57 del d. lgs. 29/93).

Appare a questo punto netto ed evidente il contrasto con la posizione assunta dalla Corte costituzionale, per cui, proprio applicando direttamente lo stesso art. 36 Cost., la retribuzione delle mansioni superiori svolte nel pubblico impiego costituisce una regola generale, con limitate eccezioni, connesse all’organizzazione degli uffici, al solo fine di evitare abusi: interpretazione recentemente confermata (ord. 10 aprile 2002, n. 100, che nuovamente dichiara manifestamente infondata la questione di costituzionalità riferita all’ art. 33 cit.), ma ormai generalmente disattesa dai giudici di merito, i quali come detto, applicano una regola affatto opposta, ormai a tal punto consolidata che deviarne può soltanto condurre ad un gravame, il cui esito appare scontato.

3.2. Peraltro non pare che la Corte possa trascurare un siffatto contrasto, atteso il rilievo che, nello scrutinio di legittimità costituzionale, essa ha sempre attribuito al diritto vivente, impegnandosi ad assumerlo quale norma-base del proprio sindacato.

Così, già nella sentenza 24/78 si afferma come "l’interpretazione data alla norma denunziata dall’ordinanza di rimessione riflette l’orientamento ormai pacifico degli organi giurisdizionali istituzionalmente chiamati ad applicarla", per cui "questa Corte non può non prenderne atto ed esaminare, muovendo da tale presupposto, il dubbio di legittimità costituzionale sollevato"; ma assai numerose sono le affermazioni, altrettanto eloquenti, contenute in decisioni dove si parla testualmente di diritto vivente "che vincola la Corte" (sentenza n. 86 del 1982), "che questa Corte non può sindacare" (sentenza n. 189 del 1988) che il giudice costituzionale "deve valutare" al fine di verificarne la legittimità (sentenza n. 333 del 1988); ovvero, in altri termini, è quella vivente "l’interpretazione che va data all’impugnata norma" (sentenza 178 del 1984), perché è "secondo le indicazioni del diritto vivente" che la questione va risolta (sentenza 279 del 1988): e "la questione di costituzionalità sollevata in relazione alla consolidata interpretazione che di una norma abbia dato la Corte di cassazione, mentre è inammissibile se surrettiziamente volta ad ottenere dalla Corte costituzionale (…) una revisione di quella interpretazione, è viceversa ammissibile nel caso in cui, assunta l'interpretazione medesima in termini di «diritto vivente», se ne chieda la verifica di compatibilità con dati parametri costituzionali" ( sentenza n. 188 del 1995).

Peraltro, il richiamo al diritto vivente come determinante nella valutazione della legittimità della norma è presente anche nelle più recenti decisioni della Corte; e così nell’ordinanza 117/2000 (ove, in contrasto con la tesi sostenuta dal giudice remittente, si afferma costituire "diritto vivente il principio secondo cui l’autografia della sottoscrizione è elemento essenziale dell’atto amministrativo nei soli casi in cui sia espressamente prevista dalla legge"), ovvero nella decisione C. cost. 17 maggio 2001, n. 136, par. 7.3., in cui si sottolinea che "la dichiarazione di illegittimità della norma non incide, naturalmente, sulla determinazione del dies a quo della decorrenza degli accessori, individuato dal diritto vivente nell’8 novembre 1988": e vale sottolineare che qui la Corte si riferisce all’interpretazione fissata dal giudice amministrativo (e segnatamente del Consiglio di Stato) riconoscendo alle pronunce del Consiglio di Stato, quale magistratura di vertice, una funzione nomofilattica corrispondente a quella della Corte di cassazione (cfr., per un altro caso, la sentenza n. 52 del 1986).

Da ultimo, per le analogie con la fattispecie in esame, giova ricordare la sentenza 21 luglio 2000, n. 319, nella cui motivazione, la Corte rammenta, anzitutto, come, in una precedente decisione interpretativa di rigetto (sentenza 66 del 1999), essa avesse respinto un’altra questione di costituzionalità proposta, per molti versi connessa, e riferita a previsioni della legge fallimentare.

Tuttavia, prosegue la Corte «la giurisprudenza dei giudici ordinari, successiva alla citata sentenza di questa Corte, ha mostrato un'evidente contrarietà ad abbandonare l'interpretazione restrittiva da lungo tempo consolidata in sede di legittimità», e da qui «l'opportunità - onde evitare il perpetuarsi di una grave incertezza interpretativa - che l'esame delle sollevate questioni di legittimità costituzionale (…) venga questa volta condotto sulla base della diversa interpretazione della denunciata normativa, consolidatasi nella giurisprudenza di legittimità ed assunta dai rimettenti quale diritto vivente»: e, muovendo da tale presupposto, la questione di legittimità costituzionale prospettata è stata ritenuta fondata.

4.1. Anche tenuto conto di quest’ultimo precedente, il Collegio, dubitando della costituzionalità della disciplina applicabile alla fattispecie, quale definita secondo il diritto vivente, in materia di retribuzione per le mansioni superiori svolte dai pubblici dipendenti, ritiene di riproporre la questione di costituzionalità al Giudice delle leggi, con riguardo alle disposizioni, rilevanti nella fattispecie in esame, che precludono appunto di attribuire al ricorrente il trattamento differenziale richiesto.

Per individuare correttamente tali disposizioni, appare necessario distinguere due periodi, quello cioè precedente all’entrata in vigore del d. lgs. 29/93, e quello successivo: entrambi rilevanti, giacché la richiesta del ricorrente si colloca, come visto, in un intervallo compreso tra il 1985 ed il 1998.

4.2.1. Per il primo periodo va sospettata d’incostituzionalità l’ art. 33 del d.P.R. 3/57, che, secondo il diritto vivente, ha costituito la norma positiva che ha precluso la retribuzione delle mansioni superiori sino all’entrata in vigore del d.lgs. 29/93: la disposizione appare confliggere con l’ art. 36 Cost., nell’interpretazione seguita dalla Corte costituzionale nelle decisioni di cui si è dato conto.

E’ sufficiente rilevare che la spettanza al lavoratore del trattamento retributivo, corrispondente alle funzioni di fatto espletate, è un precetto dell’art. 36 Cost., la cui applicabilità anche all’impiego pubblico non può essere messa in discussione.

L’astratta possibilità di abuso di tale potere e delle sue conseguenze economiche, nella forma di protrazioni illegittime dell’assegnazione a funzioni superiori, non giustifica la disapplicazione del principio costituzionale di equivalenza tra la retribuzione ed il lavoro effettivamente prestato: sicchè lo stesso art. 33 d.P.R. 3/57, in quanto ostacola l’applicazione di tale principio, appare costituzionalmente illegittimo.

4.2.2. Più complessa è invece la questione con riferimento al secondo periodo, successivo all’entrata in vigore dell’ art. 57 d. lgs. 29/93: e, a tal fine, appare necessario riconsiderare le disposizioni rilevanti succedutesi, e vigenti nel periodo in cui il ricorrente avrebbe svolto le mansioni superiori rispetto a quelle proprie della qualifica d’appartenenza.

Invero, il ripetuto art. 57, intitolato all’attribuzione temporanea di mansioni superiori, nella sua originaria formulazione stabiliva al I comma che «l’utilizzazione del dipendente in mansioni superiori può essere disposta esclusivamente per un periodo non eccedente i tre mesi, nel caso di vacanze di posti di organico, ovvero per sostituire altro dipendente durante il periodo di assenza con diritto alla conservazione del posto, escluso il periodo del congedo ordinario, sempre che ricorrano esigenze di servizio»; al II comma, parte prima, si aggiungeva che «nel caso di assegnazione a mansioni superiori, il dipendente ha diritto al trattamento economico corrispondente all’attività svolta per il periodo di espletamento delle medesime».

La disposizione fu poco dopo modificata dall’ articolo unico del d. lgs. 19 luglio 1993, n. 247, il quale introdusse svariate limitazioni all’applicazione del ripetuto art. 57, disponendo, tra l’altro, che «la decorrenza iniziale del termine di tre mesi di cui all’art. 57, comma 1, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, è fissata al 1° ottobre 1993, limitatamente ai casi in cui l’affidamento di mansioni superiori sia indispensabile per assicurare la complessiva funzionalità di servizi pubblici».

Il d. lgs. 247/93 fu tuttavia abrogato per effetto dell’art. 25 del d. lgs. 23 dicembre 1993, n. 546, il quale sostituì parzialmente il ripetuto art. 57, conservando tuttativa immutato il II comma; il VI comma, in particolare, stabilì che le disposizioni contenute nello stesso articolo «si applicano a decorrere dalla data di emanazione, in ciascuna amministrazione, dei provvedimenti di ridefinizione degli uffici e delle piante organiche di cui agli articoli 30 e 31 e, comunque, a decorrere dal 30 giugno 1994».

4.2.3. Il termine del 30 giugno 1994 fu dapprima sostituito con quello del 30 ottobre 1995 (art. 1, comma 5, del decreto-legge 28 agosto 1995, n. 361, convertito dalla l. 27 ottobre 1995, n. 437), e ancora prorogato al 31 dicembre 1996 (art. 1 d.l. 10 maggio 1996, n. 254, nel testo risultante dalla conversione della l. 11 luglio 1996, n. 365); fu quindi posposto al 31 dicembre 1997 (art. 12, III comma, del d.l. 31 dicembre 1996, n. 669, convertito in l. 28 febbraio 1997, n. 30) mentre un ulteriore differimento fu stabilito dall’art. 39, comma XVII, della l. 27 dicembre 1997, n. 449, sino «alla data di entrata in vigore dei provvedimenti di revisione degli ordinamenti professionali e, comunque, non oltre il 31 dicembre 1998».

4.2.4. Come già si è detto, l’ art. 57 fu poi abrogato dall’ art. 43 del d. lgs. 80/98, e la materia fu da quel momento regolata dall’ art. 56 del d. lgs. 29/93, nel testo introdotto dall’art. 25, del ripetuto d. lgs. 80/98.

La nuova disposizione, oltre a definire nuovamente i casi in cui, per obiettive esigenze di servizio, il prestatore di lavoro poteva essere adibito a mansioni proprie della qualifica immediatamente superiore (non più di sei mesi, prorogabili fino a dodici, nel caso di vacanza di posto in organico ovvero per sostituzione di altro dipendente assente) soggiungeva come, al di fuori di tali ipotesi, l’assegnazione del lavoratore a mansioni proprie di una qualifica superiore era nulla "ma al lavoratore è corrisposta la differenza di trattamento economico con la qualifica superiore".

Il seguente VI comma, peraltro, rinviava ancora una volta l’applicazione delle prescrizioni alla sede di attuazione della nuova disciplina degli ordinamenti professionali prevista dai contratti collettivi e con la decorrenza da questi stabilita, e proseguiva stabilendo come «fino a tale data, in nessun caso lo svolgimento di mansioni superiori rispetto alla qualifica di appartenenza può comportare il diritto a differenze retributive o ad avanzamenti automatici nell’inquadramento professionale del lavoratore».

Le parole «a differenze retributive o», sono state poi soppresse – come si è visto - dall’ art. 13 del d. lgs. 29 ottobre 1998, n. 387, si da rendere possibile, per il periodo successivo, la retribuzione delle mansioni di fatto svolte, almeno sino all’entrata in vigore dell’ art. 52 del d. lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (cfr. supra sub 2.3.): ma la circostanza è qui irrilevante, poiché la domanda qui proposta si riferisce ad un periodo concluso sin dal luglio 1998.

4.3. Orbene, ritiene il Collegio che l’ art. 57, II comma, del d. lgs. 29/93, nello stabilire il diritto del dipendente al trattamento economico, corrispondente all’attività svolta per il periodo di espletamento delle mansioni superiori, non si riferisca soltanto alle fattispecie regolate dal precedente I comma, ma, in generale, ad ogni situazione in cui queste siano state comunque prestate in conformità di una direttiva impartita, anche informalmente, dal dirigente preposto all’unità organizzativa nella quale il dipendente presta servizio.

Appare infatti più aderente al dettato dell’ art. 36 Cost., quale stabilito dalla Corte costituzionale, ritenere che, con il ripetuto art. 57, II comma, il legislatore abbia inteso introdurre nell’ordinamento positivo il principio generale della retribuzione per le mansioni superiori svolte dai lavoratori alle dipendenze delle pubbliche Amministrazioni, anche fuori dei casi espressamente previsti dalla legge: né tale interpretazione appare incompatibile con il diritto vivente formatosi in materia.

Ne segue, pertanto, che devono ritenersi incostituzionali tutte quelle disposizioni, succedutesi nel tempo e sopra ricordate, le quali hanno dilazionato l’entrata in vigore della ripetuta previsione, la quale avrebbe imposto all’Amministrazione di appartenenza, e consentito comunque al giudice, il riconoscimento del trattamento retributivo differenziale; disposizioni di proroga che hanno mantenuto in vigore l’ art. 33 del d.P.R. 3/57, e, con esso, il conseguente divieto di retribuzione, palesemente incostituzionale, secondo quanto sin qui rilevato.

Eguali considerazioni valgono, evidentemente, per l’ art. 56, VI comma, dello stesso d. lgs. 29/93, nel testo introdotto dall’art. 25, del ripetuto d. lgs. 80/98, nella parte in cui esclude che il lavoratore abbia titolo all’ attribuzione del trattamento differenziale sino all’introduzione di norme contrattuali attuative, la cui mancanza non può certo pregiudicare la diretta applicazione della norma costituzionale.

4.4. In conclusione, non appare manifestamente infondata e va sollevata questione d’illegittimità costituzionale, per contrasto con l’ art. 36 Cost.:

a) dell’ art. 33 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3;

b) dell’ art. unico del d. lgs. 19 luglio 1993, n. 247, nella parte in cui fa decorrere l’efficacia dell’ art. 57, II comma, del d. lgs. 29/93 dal 1 ottobre 1993;

c) dell’art. 25 del d. lgs. 23 dicembre 1993, n. 546, nella parte in cui, novellando l’ art. 57 del ripetuto d. lgs. 29/93, ne prevede, al VI comma di questo, la decorrenza, anche quanto al II comma, « dalla data di emanazione, in ciascuna amministrazione, dei provvedimenti di ridefinizione degli uffici e delle piante organiche di cui agli articoli 30 e 31 e, comunque, a decorrere dal 30 giugno 1994»;

d) dell’art. 1, comma 5, del decreto-legge 28 agosto 1995, n. 361, convertito, con modificazioni, dalla legge 27 ottobre 1995, n. 437, dell’art. 12, III comma del d.l. 10 maggio 1996, n. 254, conv. in l. 11 luglio 1996, n. 365, dell’art. 12, III comma, del d.l. 31 dicembre 1996, n. 669, convertito in legge, con modificazioni, dalla L. 28 febbraio 1997, n. 30, nonché dell’art. 39, comma XVII, della l. 27 dicembre 1997, n. 449, nella parte in cui tali disposizioni hanno successivamente prorogato l’entrata in vigore del ripetuto art. 57, II comma;

e) dell’ art. 56 del d. lgs. 29/93, nel testo introdotto dall’art. 25, del d. lgs. 80/98, nella parte in cui, al VI comma, dispone che, sino all’attuazione della nuova disciplina degli ordinamenti professionali prevista dai contratti collettivi e con la decorrenza da questi stabilita, in nessun caso lo svolgimento di mansioni superiori rispetto alla qualifica di appartenenza può comportare il diritto a differenze retributive del lavoratore.

Deve, pertanto, disporsi la sospensione del presente giudizio e la remissione della questione all’esame della Corte costituzionale, giusta art. 23, l. 11 marzo 1953, n. 87.

P.Q.M.

Il Tribunale amministrativo regionale per il Veneto, I Sezione, solleva questione di legittimità costituzionale, per contrasto con l’ art. 36 Cost., nei limiti specificati in motivazione:

a) dell’ art. 33 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3;

b) dell’ art. unico del d. lgs. 19 luglio 1993, n. 247;

c) dell’art. 25 del d. lgs. 23 dicembre 1993, n. 546;

d) dell’art. 1, comma 5, del decreto-legge 28 agosto 1995, n. 361, convertito, con modificazioni, dalla legge 27 ottobre 1995, n. 437;

e) dell’art. 1 del d.l. 10 maggio 1996, n. 254, conv. in l. 11 luglio 1996, n. 365;

f) dell’art. 12, III comma, del d.l. 31 dicembre 1996, n. 669, convertito in legge, con modificazioni, dalla L. 28 febbraio 1997, n. 30;

g) dell’art. 39, comma XVII, della l. 27 dicembre 1997, n. 449;

h) art. 56 del d. lgs. 29/93, nel testo introdotto dall’art. 25, del d. lgs. 80/98;

Sospende il giudizio in corso e dispone, a cura della segreteria della Sezione, che gli atti dello stesso siano trasmessi alla Corte costituzionale per la risoluzione della prospettata questione, e che la presente ordinanza sia notificata alle parti ed al Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento della Repubblica.

Così deciso in Venezia, nella Camera di consiglio addì 28 marzo e 3 ottobre 2002.

Il Presidente L’estensore

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