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Giurisprudenza
n. 10-2002 - © copyright.

CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V - Sentenza 20 settembre 2002 n. 4970 - Pres. Quaranta, Est. Branca - Festuccia (Avv.ti Carotti e Jaricci) c. Provincia di Rieti (Avv. Stella Richter) - (conferma T.A.R. Lazio, Sez. II, 24 novembre 1995 n. 1804).

1. Pubblico impiego - Procedimento disciplinare - A seguito di sentenza ex art. 444 c.p.p. (c.d. di patteggiamento) - Possibilità di fare riferimento ai fatti emersi ed agli atti acquisiti in sede penale - Sussiste - Fattispecie.

2. Pubblico impiego - Procedimento disciplinare - A seguito di sentenza ex art. 444 c.p.p. (c.d. di patteggiamento) - Valutazione della sentenza - Distinzione tra i profili della affermazione e dell'accertamento della responsabilità.

3. Pubblico impiego - Provvedimento disciplinare - Destituzione dal servizio - Nel caso di condanna in sede penale con il beneficio della sospensione condizionale - Preclusione all'irrogazione della sanzione espulsiva - Non sussiste.

4. Pubblico impiego - Procedimento disciplinare - Contestazione degli addebiti - Indicazione specifica di una delle ipotesi di illecito disciplinare previste dall'art. 84 del d.P.R. n. 3/1957 - Omissione - Nel caso in cui la contestazione stessa rechi comunque un chiaro riferimento ai fatti che saranno valutati in sede disciplinare - Irrilevanza.

1. Anche se l'art. 445 c.p.p. prevede l'inefficacia della sentenza c.d. di patteggiamento nei procedimenti amministrativi,  gli atti del processo penale che si è concluso con il patteggiamento possono essere legittimamente utilizzati in sede di procedimento disciplinare nei confronti di un dipendente pubblico, anche se non può escludersi che l'Amministrazione debba effettuare autonomi accertamenti ai fini della diversa responsabilità disciplinare, atteso che nella sentenza di patteggiamento non si verifica quella completezza nella raccolta degli elementi di prova che è tipica del rito ordinario (nella specie è stata ritenuta legittima, in particolare, l'utilizzazione nell'ambito del procedimento disciplinare di una consulenza tecnica disposta nel processo penale dal P.M., che aveva chiarito i comportamenti degli imputati) (1).

2. Nella sentenza di patteggiamento, ai fini della sua valutazione nell'ambito del procedimento disciplinare nei confronti di dipendenti pubblici, debbono distinguersi i due diversi profili della affermazione di responsabilità, dichiarata nel dispositivo, e dell'accertamento di responsabilità, che deve emergere dalla motivazione; entrambi gli elementi sono essenziali, ma il secondo, in concreto può essere più o meno esaustivo a seconda della maggiore o minore completezza delle indagini svolte dal pubblico ministero (2).

3. L'art. 116 c.p.p., novellato dalla legge n. 19 del 1990, non intende istituire una impossibilità giuridica di adottare la misura sanzionatoria estintiva del rapporto di impiego in caso di sospensione condizionale della pena, limitandosi a prevedere che la condanna sospesa non è di ostacolo all'accesso ai pubblici uffici; resta quindi impregiudicata la valutazione in sede disciplinare del comportamento del dipendente.

4. E' legittima una nota di contestazione degli addebiti nella quale non sia stata indicata espressamente alcuna delle otto ipotesi di comportamento rilevante, menzionate dall'art. 84 del d.P.R. n. 3 del 1957, nel caso in cui la contestazione stessa rechi comunque un chiaro riferimento ai fatti giudicati rilevanti in sede disciplinare ed al tipo di sanzione cui tali fatti avrebbero potuto dar luogo. La mancata pedissequa elencazione delle ipotesi menzionate dall'art. 84, in tale ipotesi, si rivela pertanto del tutto inutile.

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(1) Cfr. Corte costituzionale, sent. 28 maggio 1999 n. 197, in questa Rivista n. 5/1999 e Cons. Stato, Ad. Plen, sent. 25 gennaio 2000 n. 6.

Alla stregua del principio nella specie la Sez. V ha ritenuto priva di fondamento la tesi dell'appellante che negava in linea di principio la legittimità del riferimento agli elementi di prova emersi nel processo penale ai fini dell'accertamento della responsabilità disciplinare.

E' stato osservato in proposito che, se può ammettersi che la rinuncia a provare la propria innocenza nella sede penale non equivale automaticamente alla ammissione di colpevolezza, in quanto il patteggiamento può essere apprezzato come conveniente in base a considerazioni di varia natura, non vi è ragione di attribuire a tale rinuncia un valore vincolante nella sede disciplinare, dove gli elementi su cui si basa l'iniziativa dell'Amministrazione possono essere contestati e contraddetti dagli elementi a discarico che l'incolpato sia in grado di fare valere.

Nella specie, peraltro, non poteva neppure sostenersi che i fatti per i quali si era proceduto in sede disciplinare non fossero stati esaustivamente provati, atteso che il pubblico ministero aveva disposto una consulenza tecnica, che aveva chiarito i comportamenti degli imputati. A tali risultanze si era richiamata la Commissione di disciplina, nell'esercizio di una facoltà ormai pacificamente ammessa dalla giurisprudenza.

(2) Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 1 settembre 2000, n. 4647.

Sul valore delle sentenze di patteggiamento nell'ambito del procedimento disciplinare v. in questa Rivista:

CORTE COSTITUZIONALE - Sentenza 25 luglio 2002 n. 394

TAR LAZIO, SEZ. I BIS - Sentenza 8 aprile 2002 n. 2896

CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. III - Ordinanza 4 giugno 2001 n. 947

CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V - Sentenza 6 giugno 2001 n. 3076

CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V - Sentenza 15 novembre 2001 n. 5832

CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV - Sentenza 16 novembre 2000 n. 6110

TAR LIGURIA-GENOVA, SEZ. I - Sentenza 19 gennaio 2001 n. 48

TAR VENETO, SEZ. I - Ordinanza 24 novembre 1999 n. 1346

T.A.R. PIEMONTE, SEZ. II - Sentenza 4 febbraio 1999, n. 59

GABRIELLA GULI', Destituzione e patteggiamento

 

FATTO

Il sig. Domenico Rinaldi ha proposto appello avverso la sentenza in epigrafe, con la quale è stato respinto, con condanna alle spese, il ricorso da lui presentato avverso il provvedimento di destituzione dall'impiego, adottato nei suoi confronti dall'Amministrazione Provinciale di Rieti.

La doglianza ripropone le censure già dedotte in primo grado che, nella sostanza, fanno leva: a) sulla pretesa violazione degli artt. 444 e 445 c.p.p., assumendosi che l'Amministrazione ha attribuito alla sentenza "patteggiata" una efficacia in sede disciplinare vietata dalla legge; b) sulla violazione dell'art. 116 c.p., come novellato dalla legge 7 febbraio 1990 n. 19, in quanto se la pena è condizionalmente sospesa non sussisterebbero ostacoli legali alla prosecuzione del rapporto di impiego; c) sulla violazione dell'art. 107 del d.P.R. n. 3 del 1957, posto che sarebbe mancata una adeguata contestazione degli addebiti; d) sul difetto di motivazione; e) sulla violazione del principio di proporzionalità, in relazione alla lieve entità dei fatti addebitati.

La Provincia di Rieti si è costituita in giudizio ed ha chiesto il rigetto del gravame.

Alla pubblica udienza dell'11 giugno 2002 la causa veniva trattenuta in decisione.

DIRITTO

Assume rilievo preminente la censura con la quale l'appellante ha denunciato la violazione degli artt. 444 e 445 c.p.p., assumendo che illegittimamente la Commissione di disciplina, e il conseguente provvedimento di destituzione, si sono basati sulla sentenza di applicazione di pena su istanza delle parti, ovvero hanno utilizzato atti e documenti acquisiti nel corso del processo penale.

La censura non può essere condivisa.

Il problema dell'interpretazione dell'art. 445 c.p.c., che afferma l'inefficacia della sentenza c.d. di patteggiamento nei giudizi amministrativi, è stato approfonditamente esaminato dalla giurisprudenza, che nelle sue più autorevoli sedi è pervenuta ad un orientamento dal quale il Collegio non ha motivo di discostarsi.

Sulla scorta della pronuncia 28 maggio 1999 n. 197 della Corte costituzionale, l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (sent. 25 gennaio 2000 n. 6) ha affermato che gli atti del processo penale che si è concluso con il patteggiamento possono essere utilizzati in sede disciplinare, ma non può escludersi che l'Amministrazione debba effettuare autonomi accertamenti ai fini della diversa responsabilità disciplinare, posto che nella sentenza di patteggiamento non si verifichi quella completezza nella raccolta degli elementi di prova che è tipica del rito ordinario.

Nella sentenza di patteggiamento infatti debbono distinguersi i due diversi profili della affermazione di responsabilità, dichiarata nel dispositivo, e dell'accertamento di responsabilità, che deve emergere dalla motivazione. Entrambi gli elementi sono essenziali, ma il secondo, in concreto può essere più o meno esaustivo a seconda della maggiore o minore completezza delle indagini svolte dal pubblico ministero (Cons. St., 1 settembre 2000, n. 4647).

Ne consegue che è priva di fondamento la tesi dell'appellante che nega in linea di principio la legittimità del riferimento agli elementi di prova emersi nel processo penale ai fini dell'accertamento della responsabilità disciplinare.

Sarebbe stato suo onere, invece, sostenere e dimostrare che i fatti emersi nel processo penale non sussistevano o che la rappresentazione degli stessi non corrispondeva alla realtà. Se può ammettersi, infatti, che la rinuncia a provare la propria innocenza nella sede penale non equivale automaticamente alla ammissione di colpevolezza, in quanto il patteggiamento può essere apprezzato come conveniente in base a considerazioni di varia natura, non vi è ragione di attribuire a tale rinuncia un valore vincolante nella sede disciplinare, dove gli elementi su cui si basa l'iniziativa dell'Amministrazione possono essere contestati e contraddetti dagli elementi a discarico che l'incolpato sia in grado di fare valere.

Nella specie, inoltre, non poteva neppure sostenersi che i fatti per i quali si è proceduto in sede disciplinare non fossero stati esaustivamente provati, atteso che il pubblico ministero aveva disposto una consulenza tecnica, che aveva chiarito i comportamenti degli imputati.

A tali risultanze si è richiamata la Commissione di disciplina, nell'esercizio di una facoltà pacificamente ammessa dalla giurisprudenza.

Il motivo di appello basato sulla violazione dell'art. 116 c.p.p., novellato dalla legge n. 19 del 1990, non è fondato.

La norma infatti non intende istituire una impossibilità giuridica di adottare la misura sanzionatoria estintiva del rapporto di impiego in caso di sospensione condizionale della pena, limitandosi a prevedere che la condanna sospesa non è di ostacolo all'accesso ai pubblici uffici. Resta quindi impregiudicata la valutazione in sede disciplinare del comportamento del dipendente.

L'appellante lamenta inoltre che la contestazione degli addebiti non sia stata precisa e puntuale, non essendosi indicato quali delle otto ipotesi di comportamento rilevante, menzionate dall'art. 84 del d.P.R. n. 3 del 1957, gli fosse contestata.

L'appellante tuttavia non nega che la contestazione degli addebiti, con nota 6 settembre 1991, recasse un chiaro riferimento ai fatti giudicati rilevanti in sede disciplinare ed al tipo di sanzione cui tali fatti avrebbero potuto dar luogo. La mancata pedissequa elencazione delle ipotesi menzionate dall'art. 84, nelle specie, si sarebbe rivelata del tutto inutile, salvo chiarire che non ricorreva l'ipotesi dell'insubordinazione o dell'istigazione, cui comunque non si sarebbe potuto alludere sulla base dei fatti contestati.

Ritiene quindi il Collegio che non vi sia stata compressione del diritto di difesa.

Anche la pretesa insufficienza della motivazione del provvedimento non è condivisibile.

Si assume che mancherebbe una precisa qualificazione del fatto, ma la deliberazione della Commissione espone che il comportamento del dipendente è ascrivibile ad ipotesi espressamente menzionate dall'art. 84 del d.P.R. n. 3 del 1957 : comportamento contrario al senso dell'onore ed al senso morale; violazione dei doveri di fedeltà, ed altro.

E' stata anche dedotta una censura di omesso esame del motivo di violazione del principio di proporzionalità. L'appellante sostiene che la sanzione della destituzione risulta eccessiva rispetto a fatti la cui modesta entità poteva desumersi dalla misura della pena inflitta.

A tale riguardo va riaffermato che nell'apprezzamento della gravità dell'infrazione l'Amministrazione gode di un ampia discrezionalità, sindacabile solo per vistose violazioni dei principi della logica e della coerenza.

A tale riguardo va tenuto presente che i fatti addebitati all'appellante sono di natura tale da provocare discredito all'Amministrazione, tenuto anche conto della notorietà e dell'eco avutosi nei mezzi di comunicazione, e pertanto non è ravvisabile il vizio di eccesso di potere adombrato dall'appellante.

In conclusione l'appello va rigettato, ma le spese possono essere compensate.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta, rigetta l'appello in epigrafe;

dispone la compensazione delle spese;

ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'Autorità Amministrativa.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio dell'11 giugno 2002 con l'intervento dei magistrati:

Alfonso Quaranta Presidente

Giuseppe Farina Consigliere

Goffredo Zaccardi Consigliere

Francesco D'Ottavi Consigliere

Marzio Branca Consigliere est.

L'ESTENSORE IL PRESIDENTE

F.to Marzio Branca F.to Alfonso Quaranta

Depositata in segreteria il 20 settembre 2002.

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