CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV - Sentenza 17 settembre 2002 n. 4665
- Pres. Riccio, Est. Carinci - Ministero di Grazia e Giustizia (Avv. Stato Greco) c. De Vizia (n.c.) - (annulla T.A.R. Toscana, Sez. I, 29 novembre 1992, n. 547).1. Pubblico impiego - Procedimento disciplinare - Termine di 90 giorni per la sua conclusione - Ex art. 9 L. n. 19/1990 - Applicabilità nel caso di irrogazione della sanzione della destituzione - Inapplicabilità nel caso di irrogazione di sanzioni disciplinari diverse.
2. Pubblico impiego - Procedimento disciplinare - Termine di 90 giorni per la sua conclusione - Ex art. 9 L. n. 19/1990 - Nel caso di condanna pronunciata a seguito di processo ordinario - E' perentorio.
3. Pubblico impiego - Procedimento disciplinare - Termine di 90 giorni per la sua conclusione - Ex art. 9 L. n. 19/1990 - Nel caso di condanna pronunciata a seguito di patteggiamento - Non è perentorio - Ragioni.
1. L'art. 9, 2° comma, della legge 7 febbraio 1990, n. 19, il quale prevede un termine di 90 giorni entro il quale deve concludersi il procedimento disciplinare nei confronti dipendente penalmente condannato, è riferito in modo esclusivo all'istituto della destituzione d'ufficio ex art. 85 del T.U. del 1957 e non può ritenersi applicabile al caso in cui destituzione non vi sia stata, poiché è stata applicata, a seguito della sentenza penale, una sanzione disciplinare diversa (nella specie il procedimento disciplinare si era concluso con la sospensione del dipendente dalla qualifica e dallo stipendio per il periodo di due mesi). In quest'ultima ipotesi, il procedimento disciplinare deve seguire, anche per quanto riguarda la sua durata, le regole stabilite dal T.U. 10 gennaio 1957, n. 3 e non quelle più rigorose dettate dall'art. 9, 2° comma, della legge 7 febbraio 1990, n. 19, anche se l'Amministrazione ha tratto motivo per il suo avvio da fatti accertati in sede penale.
2. Il termine di novanta giorni previsto dall'art. 9, 2° comma, della legge 7 febbraio 1990, n. 19, per la conclusione del procedimento disciplinare nei confronti dipendente penalmente condannato, ha carattere perentorio nel caso in cui il procedimento tragga origine da una condanna pronunciata a seguito di processo ordinario (in cui, cioè, si è proceduto sia all'accertamento dei fatti che hanno dato luogo alla sanzione penale, sia alla loro rilevanza) ed il procedimento disciplinare stesso si sia concluso con la destituzione del dipendente.
3. Il termine di novanta giorni previsto dall'art. 9 della legge 7 febbraio 1990, n. 19, per la conclusione del procedimento disciplinare non ha carattere perentorio nel caso di sentenza penale di condanna che consegua ad accordo delle parti (c.d. patteggiamento), non verificandosi in tale ipotesi quella compiutezza nella raccolta degli elementi di prova tipica del rito ordinario, l'Amministrazione viene a trovarsi nella situazione di dover effettuare, nel procedimento disciplinare iniziato, autonomi accertamenti; in tale ipotesi, il termine di 90 giorni di cui sopra non è applicabile, valendo la disciplina generale posta dal T.U. 10 gennaio 1957, n. 3 (1).
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(1) Cfr. Corte Cost., sentenza 28 maggio 1999, n. 197, in questa Rivista Internet, n. 5/1999.
V. sempre in questa Rivista:
CORTE COSTITUZIONALE - Sentenza 25 luglio 2002 n. 394
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V - Sentenza 21 giugno 2002 n. 3395
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III - Parere 8 maggio 2002 n. 847/2002
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV - Sentenza 3 settembre 2001 n. 4631
TAR LAZIO, SEZ. I BIS - Sentenza 8 aprile 2002 n. 2896
TAR CAMPANIA-NAPOLI, SEZ. I - Sentenza 5 marzo 2001 n. 1012
TAR CAMPANIA-NAPOLI, SEZ. I - Sentenza 2 agosto 2000 n. 3102
TRIBUNALE DI SANTA MARIA CAPUA VETERE - Ordinanza 13 luglio 2001 n. 4716
P. VIRGA, La responsabilità disciplinare.
C. DE MARCO, Il potere disciplinare nel pubblico impiego privatizzato.
G. GULI', Destituzione e patteggiamento.
FATTO
De Vizia Addiego, collaboratore di cancelleria presso il Tribunale di Livorno, ha impugnato dinanzi al Tribunale amministrativo regionale della Toscana, il provvedimento con cui il Ministro della Giustizia gli ha inflitto, in data 30 gennaio 1991, la sanzione disciplinare della sospensione dalla qualifica e privazione dello stipendio per due mesi, per averlo ritenuto responsabile, a seguito di condanna penale, di alterazione del bollettario e del registro del servizio proventi dell'Ufficio di Cancelleria.
Parte ricorrente esponeva che il procedimento disciplinare, seppure iniziato entro i prescritti 180 giorni dalla notizia della sentenza penale irrevocabile, era stato concluso oltre il prescritto termine di 90 giorni, con violazione dell'art. 9, comma 2°, della legge 7 febbraio 1990, n. 19.
Il Tribunale amministrativo ha ritenuto fondato il ricorso e lo ha accolto, respingendo le tesi dell'Amministrazione.
Avverso la decisione ha interposto appello il Ministero di Grazia e Giustizia per i seguenti motivi.
E' errata la tesi del giudice di primo grado, secondo cui i termini previsti dall'art. 9 della legge 7 febbraio 1990, n. 19, si applicherebbero anche alle ipotesi in cui il procedimento disciplinare non si sia concluso con la destituzione del dipendente. L'indicata disposizione è stata infatti dettata, secondo la nota sentenza della Corte Costituzionale n. 971 del 1988, con riferimento esclusivo all'istituto della destituzione, e non può ritenersi che attraverso di essa si sia voluto disciplinare ex novo l'intero procedimento disciplinare.
Gli artt. 9 e 10 della legge 7 febbraio 1990, n. 19, pongono, come condizione per la comminatoria della destituzione del dipendente penalmente condannato, l'obbligo del previo procedimento disciplinare, prescrivendo un termine iniziale e uno finale per il suo espletamento. Non avendo la legge dettata alcuna disciplina particolare in proposito, le norme che ne regolano lo svolgimento non possono essere che quelle del T.U. 10 gennaio 1957, n. 3. E' evidente, peraltro, che il termine di 90 giorni, fissato dagli artt. 9 e 10 su citati, non sempre è in grado di garantire il rispetto dei termini parziali fissati per lo svolgimento delle singole fasi endoprocedimentali. Il che sta a dimostrare che al termine di 90 giorni introdotto con la legge n. 19 del 1990 non può riconoscersi natura decadenziale o prescrizionale. Diversamente, verrebbe a stabilirsi un palese contrasto tra tale norma e gli artt. 3 e 97 della Costituzione.
L'appellato non si è costituito in giudizio.
DIRITTO
Come esposto in narrativa, il Ministero di Grazia e Giustizia ha impugnato la decisione con la quale il Tribunale amministrativo della Toscana, in accoglimento del ricorso proposto da De Vizia Addiego - collaboratore di cancelleria presso il Tribunale di Livorno - ha annullato la sanzione della sospensione dalla qualifica e dallo stipendio per due mesi inflitta al dipendente, per non avere l'Amministrazione rispettato il termine di 90 giorni fissato dall'art. 9 della legge 7 febbraio 1990, n. 19, per la conclusione del procedimento disciplinare.
Nel contestare l'impugnata decisione, l'Amministrazione sostiene che il vizio riscontrato dal giudice di primo grado deve ritenersi in realtà inconsistente, poiché la sanzione inflitta al De Vizia non è consistita nella destituzione prevista dagli artt. 9 e 10 della citata legge n. 19 del 1990, ma soltanto nella sospensione dalla qualifica e dallo stipendio per due mesi, e non ricorreva quindi l'obbligo di concludere il procedimento entro il termine di 90 giorni dal suo inizio.
In ogni caso - continua la stessa - tale termine non potrebbe considerarsi di carattere perentorio e il suo superamento non determinerebbe la decadenza del procedimento, anche perché la disposizione non conterrebbe alcuna previsione in tal senso.
Ponendo l'attenzione su tali ultimi rilievi, è utile ricordare che le questioni sollevate hanno già costituito oggetto di esame da parte della giurisprudenza amministrativa. E' noto che le disposizioni contenute negli artt. 9 e 10 della legge n. 19 del 1990 sono state emanate a seguito della pronuncia della Corte Costituzionale che aveva riconosciuto, con sentenza n. 971 del 14 ottobre 1988, l'incostituzionalità dell'art. 85 del T.U. 10.1.1957,n. 3, che disciplinava la destituzione di diritto del dipendente condannato con sentenza penale irrevocabile, per uno dei reati previsti dallo stesso articolo, senza la previsione di procedimento disciplinare. Con le nuove regole è stato stabilito non solo che la destituzione doveva essere preceduta da procedimento disciplinare, ma anche che tale procedimento doveva concludersi nel termine di 90 giorni dal suo inizio.
Anche la nuova disposizione ha dato luogo a problemi di costituzionalità. Nuove questioni, in effetti, sono insorte con riferimento all'individuazione della natura del termine conclusivo fissato per il procedimento disciplinare, che, se considerato perentorio, non avrebbe consentito (come l'Amministrazione sostiene nel presente caso) il rispetto dei termini parziali stabiliti per il regolare svolgimento delle singole fasi del procedimento, secondo le previsioni del T.U. 10 gennaio 1957, n. 3.
Per tale ragione le stesse sono state sottoposte all'attenzione della Corte Costituzionale, la quale si è pronunciata a tal proposito con decisione n. 197 del 28 maggio 1999.
Ricordato, con tale decisione, che l'illegittimità della destituzione automatica dei pubblici dipendenti, in funzione di una condanna penale, trova la sua ragione d'essere nella necessità di ponderare, con le garanzie del contraddittorio, la rilevanza disciplinare di fatti già accertati dal giudice penale, con riferimento anche alla personalità dell'incolpato, del suo rendimento in servizio e di ogni altro aspetto di interesse pubblico evidenziabile nel procedimento, la Suprema Corte ha affermato che il richiamato art. 9, comma 2, della legge n. 19 del 1990 - nella parte in cui prevede che il procedimento disciplinare di destituzione del dipendente a seguito di condanna penale si concluda in novanta giorni - non contrasta con il principio di ragionevolezza, in considerazione dell'esigenza di definire in termini brevi una vicenda che altrimenti pregiudicherebbe, in danno dell'art. 97 della Costituzione, la certezza delle situazioni e la posizione del dipendente. Ciò anche perché l'Amministrazione - continua la stessa - ha a disposizione, prima di avviare il procedimento, altri 180 giorni per decidere sull'attivazione dell'azione disciplinare, e gli altri termini fissati per le fasi del procedimento disciplinare ex T.U. del 1957 ben possono essere congruamente ridotti.
Il Giudice delle leggi ha perciò concluso che il termine di novanta giorni in argomento non contrasta, qualora trattasi di procedimento disciplinare di destituzione a seguito di condanna penale (conseguente a giudizio che abbia accertato i fatti), né con gli artt. 4 e 24 della Costituzione, né con l'art. 97.
Ha però ravvisato che in presenza di sentenza penale di condanna che consegua ad accordo delle parti (c.d. patteggiamento), non verificandosi quella compiutezza nella raccolta degli elementi di prova tipica del rito ordinario, l'Amministrazione viene a trovarsi nella situazione di dover effettuare, nel procedimento disciplinare iniziato, autonomi accertamenti. Ha perciò ammesso - ma solo in tale caso - che il termine di 90 giorni di cui sopra non sia applicabile, valendo la disciplina generale posta dal T.U. 10 gennaio 1957,n. 3.
Sulla base dei richiami e delle osservazioni evidenziate, le censure sollevate dall'Amministrazione nel secondo motivo di appello sono da ritenere infondate. In effetti, la sentenza penale cui il Ministero della Giustizia si è richiamato nel caso del De Vizia, è conseguente a condanna pronunciata a seguito di processo ordinario, in cui si è proceduto sia all'accertamento dei fatti che hanno dato luogo alla sanzione penale, sia alla loro rilevanza. Nel caso in esame, quindi, il termine di novanta giorni in discussione non potrebbe essere considerato che di carattere perentorio.
Ciò precisato, deve passarsi all'esame delle censure sollevate con il primo motivo d'appello, con cui l'Amministrazione sostiene che le disposizioni della legge n. 19 del 1990 sono riferite, in modo esclusivo, all'istituto della destituzione d'ufficio ex art. 85 del T.U. del 1957,e non potrebbero ritenersi applicabili al caso in esame, in cui destituzione non vi è stata, poiché il procedimento disciplinare si è concluso con la sospensione del dipendente dalla qualifica e dallo stipendio per il periodo di due mesi.
Il rilievo è fondato.
Come si rileva dagli atti depositati in giudizio, il Ministero della Giustizia non ha inflitto al De Vizia la sanzione della destituzione, ma, sulla base della proposta avanzata dalla Commissione di disciplina, ha applicato la sanzione prevista e disciplinata dagli artt. 80 e 81 del T.U. 10 gennaio 1957, n. 3, cioè la sospensione dalla qualifica e dallo stipendio per la durata di due mesi, in relazione alle previsioni dell'art. 80, lettera a), e dell'art. 81, lettera b), per la negligenza in servizio riscontrata a carico del dipendente, ritenuta particolarmente grave. Anche nella fase della contestazione degli addebiti l'Amministrazione non ha mai fatto riferimento alle previsioni dell'art. 85 del citato T.U. - cioè alla destituzione di diritto novellata dalla legge 7 febbraio 1990,n. 19 - ma solo alle previsioni dell'art. 84, cioè al caso della destituzione che poteva essere applicata solo dopo espletamento di apposito procedimento disciplinare, come già le stesse disposizioni del T.U. del 1957 prevedevano.
Tutto questo è sufficiente a far comprendere - anche per le considerazioni esposte nell'esame del primo motivo d'appello - che il procedimento disciplinare svolto a carico del De Vizia doveva seguire, anche per quanto riguarda la sua durata, le regole stabilite dal T.U. 10 gennaio 1957, n. 3, e non quelle più rigorose dettate dall'art. 9, secondo comma, della legge 7 febbraio 1990, n. 19. Ciò anche se l'Amministrazione ha tratto motivo per l'avvio del procedimento da fatti accertati in sede penale, tenuto conto che sia le premesse (contestazione degli addebiti ex art. 84) che le conclusioni cui l'Amministrazione è pervenuta (sanzione della sospensione), denotano si sia trattato dell'espletamento di una procedura interamente disciplinata dal T.U. del 1957, le cui norme non pongono l'obbligo della conclusione del procedimento entro 90 giorni dal suo inizio.
Per le considerazioni esposte, l'appello si appalesa fondato in relazione alle censure sollevate nel primo motivo e va quindi accolto.
Le spese di entrambi i gradi del giudizio seguono la regola della soccombenza e si liquidano nel dispositivo.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione quarta, accoglie l'appello specificato in epigrafe e per l'effetto, in riforma dell'impugnata sentenza, respinge il ricorso proposto in primo grado.
Condanna De Vizia Addiego a rimborsare in favore dell'Amministrazione appellante le spese di entrambi i gradi del giudizio, che liquida complessivamente in Euro 4.000 (quattromila/00): 2.000 (duemila/00) per il primo grado e 2.000 (duemila/00) per il secondo grado.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma il 12 marzo 2002, dalla IV Sezione del Consiglio di Stato, riunita in camera di consiglio con l'intervento dei seguenti signori:
Stenio RICCI Presidente
Dedi RULLI Consigliere
Giuseppe CARINCI Consigliere estensore
Carlo SALTELLI Consigliere
Paolo TROIANO Consigliere
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Depositata in segreteria il 17 settembre 2002.